Forse perché l’arte rende tutto troppo struggente, troppo straziante, troppo entusiasmante, e non è la tua vita. Innamorarsi perdutamente di un libro, di un’opera, di una canzone fino ad esserne ossessionati è anche un modo di vivere fino in fondo la vita degli altri, ma non è detto che aiuti a vivere fino in fondo la propria. Ti fornisce l’alibi per essere incontentabile, e finisci per scappare.
“Sembra quasi che se metti la musica (e i libri, probabilmente, e i film, e il teatro, e qualsiasi cosa che procuri emozioni) al primo posto, non riuscirai mai a chiarire la tua vita amorosa, e non arriverai mai a considerarla come un prodotto finito. Ci troverai sempre qualcosa da ridire, starai sempre in subbuglio, e continuerai a criticare e a cercare di dipanare la matassa finché non va tutto a rotoli e devi ricominciare daccapo. Forse noi viviamo troppo protesi verso un apice, dico noi che assorbiamo emozioni da mattina a sera, e di conseguenza non riusciamo mai a sentirci semplicemente contenti: noi dobbiamo essere o disperati, o al settimo cielo, e questi sono stati d’animo difficili da raggiungere in una relazione stabile e solida.”
Nick Hornby
Una pillola di saggezza o una perla di ironia per iniziare bene la settimana…
Ricordo bene l’estate dell’Ottanta. La vespa comprata da poco, nel mangiacassette la musica dei Dire Straits, alla radio i Pretenders e nella testa una voglia matta di divertirmi. Ma soprattutto ricordo le lunghe vacanze tra luglio e agosto con mio cugino Gianfranco che finalmente avrebbe condiviso con me noia, divertimento e la costante ricerca d’avventura tra le spiagge di Cattolica e Gabicce. Poi ricordo un’altra cosa…
Agosto è appena iniziato. Sono circa le dieci e un quarto del mattino e alla stazione centrale di Bologna non è successo ancora niente. Niente a parte un mondo di gente che si sposta, parte e ritorna, chiacchiera e aspetta in silenzio.
Mio padre è sceso dall’espresso per Roma e aspetta quello per il mare. È contento, ha anticipato la partenza di un giorno per farci una sorpresa. Il tempo di bere un caffè, comprare le sigarette e il Carlino, e l’altoparlante annuncia l’arrivo sul binario otto dell’espresso per Bari. Ferma a Rimini e Cattolica, è il suo treno. Mio padre s’incammina a passo veloce al binario indicato, sale sulla terza carrozza, entra in uno scomparto di prima classe e s’accomoda vicino al finestrino. È una bella giornata di sole.
Io, mia madre e mio cugino siamo all’Hotel San Marco di Gabicce Mare ormai da una settimana, ignari di tutto.
Circa due ore dopo, di ritorno dalla spiaggia, vedo mio padre nella hall dell’albergo. È tutto sorridente, mi viene incontro col suo immancabile borsello a tracolla e una sigaretta accesa tra le dita. “Ciao Carlo, sono appena arrivato, dov’è la mamma?”
“Ciao papà, la mamma sta tornando dalla spiaggia… Ma non dovevi venire domani?”
“Ho finito le consegne in anticipo, così ho deciso di partire stamattina e farvi una sorpresa!”
“Vieni papà, andiamo incontro alla mamma. Voglio guardare la sua faccia quando ci vede!”
Sono le dodici e tre quarti di venerdì primo agosto. Di lì a poco, io, mio cugino, mio padre e mia madre ci saremmo riuniti a tavola sotto la veranda dell’hotel, per consumare l’ultimo pranzo spensierato di quell’estate.
Stazione di Bologna, sabato due agosto, ore dieci e venticinque del mattino…
Centotrentacinque chilometri. La mattina successiva non ricordo affatto cosa facemmo di preciso. Probabilmente ce ne stavamo tutti in spiaggia a prendere il sole e a divertirci, almeno fino a quando non sentimmo qualcuno che diceva che alla stazione di Bologna c’era stata un’esplosione. “Pare sia scoppiata una caldaia e che sia morta della gente” disse mentre ascoltava il notiziario da una radiolina sotto l’ombrellone a fianco.
Sessantacinque metri. Agostino, quarantaquattro anni, stava facendo manovra col suo taxi nella piazzola della stazione. Sentì un colpo tremendo e la macchina che sbalzò di mezzo metro in avanti. Parabrezza e lunotto posteriore andarono in frantumi e diversi frammenti gli si piantarono tra la guancia e la nuca. Agostino andò a sbattere la faccia contro il volante e si ruppe il naso. Non perse i sensi e barcollò fuori dal veicolo, si sentiva stordito, gli fischiavano le orecchie e gocciolava sangue dal mento. Si guardò attorno ma fumo e polvere coprivano tutto e gli bruciavano gli occhi. Tossiva e sputava sangue, poi riconobbe un collega che giaceva a terra davanti a lui e gli prestò soccorso.
Cinquantotto metri. Manfredo, ventun anni, stava camminando sulla banchina del primo binario con uno zaino caricato sulla schiena e un altro agganciato sul petto. Lo spostamento d’aria lo buttò a terra violentemente procurandogli un forte trauma cranico. Si svegliò al pronto soccorso del Rizzoli con un polso fratturato, una spalla lussata e un fortissimo mal di testa. Un infermiere gli disse che lo zaino gli aveva fatto da scudo impedendo che una grossa scheggia di vetro gli si conficcasse nel petto.
Quarantuno metri. Lorenzo, ventisei anni, doveva partire per Livorno dove si sarebbe imbarcato per la Sardegna. Stava in piedi sotto la pensilina della sala d’aspetto a ripassarsi gli orari d’attracco dei traghetti. Ad Alghero abitava la sua ragazza che aveva incontrato all’università. Era pensieroso, i genitori di lei l’avrebbero conosciuto soltanto al suo arrivo e si chiedeva come l’avrebbero accolto. La forza dell’esplosione lo investì solo in parte perché il muro portante dell’edificio centrale resse facendogli da scudo. Il braccio sinistro gli venne strappato da un pezzo di telaio della porta d’ingresso distrutta e volata via. Il ritorno d’aria lo risucchiò all’interno della sala già crollata seppellendolo sotto decine di chili di calcinacci e pezzi di corpi. Dopo quaranta minuti fu estratto dalle macerie ancora vivo perché il calore delle lamiere roventi gli aveva cauterizzato il moncone fermando l’emorragia. Si svegliò all’ospedale e solo allora venne a sapere d’aver perso il braccio.
Trentadue metri. Giuliana, ventitré anni, stava entrando nella cabina telefonica addossata alla parete esterna della sala d’aspetto. Voleva chiamare il suo ragazzo che l’aspettava nella casa presa in affitto a Riccione. L’avrebbe raggiunto nel primo pomeriggio e insieme avrebbero continuato la vacanza fino a ferragosto. L’esplosione proiettò la parete contro il treno in sosta sul primo binario, portando con sé la cabina e Giuliana. I frammenti della cabina attraversarono come proiettili il suo corpo asportandole parte del viso e crivellandole il torace, mentre la pedana d’acciaio alla base della cabina le amputò di netto entrambe le gambe. Quello che restava del suo cadavere fu ritrovato tra le rotaie sotto il treno investito dalle macerie.
Ventiquattro metri. Antonia, trentotto anni, era appena entrata nella sala d’aspetto e stava controllando quanti spicci aveva nella borsetta, voleva comprarsi qualcosa da leggere per il viaggio. Contò tre monete da cento lire e quattro da cinquanta, ce n’era abbastanza anche per fare colazione. Un cappuccino, due paste e un settimanale di moda. La deflagrazione provocò una fiammata che l’investì in pieno bruciandole in una frazione di secondo i capelli e i vestiti, l’onda d’urto scaraventò il suo corpo rovente contro la parete opposta frantumandole bacino, costole, cranio e spappolandole fegato e polmoni. La sua vita era cessata ancor prima di toccare terra.
Dodici metri. Giovanni, diciotto anni, era fresco di patente. Aveva appena saputo che suo padre gli aveva comprato la macchina dei suoi sogni. Era un Dyane usato color kaki, il suo regalo per il diploma. Stava tornando dalla vacanza appena trascorsa a Senigallia coi suoi amici e non vedeva l’ora d’arrivare a casa e guidare la sua prima macchina. Una lastra di vetro gli squarciò il ventre mentre alcune lattine di bibite lanciate a velocità supersonica gli sfondarono torace e cranio. Nello stesso istante la gamba destra gli venne amputata dal coperchio d’alluminio di un cestino dei rifiuti. Era ancora vivo quando cadde a terra dopo un volo di dieci metri. Giovanni giaceva immobile con gli occhi fissi al cielo, fumo e polvere gli impedivano di vedere ma forse il suo cervello era già spento. Respirò per altri otto minuti prima di morire per collasso cardiaco dovuto a dissanguamento.
Un metro e mezzo. Angela, tre anni, s’era appena chinata a guardare un insetto che giaceva morto sul pavimento in marmo della sala d’aspetto. Era la prima volta che vedeva un animale così strano e non resistette alla tentazione di prenderlo e farlo vedere alla mamma. Mentre allungò la manina per raccoglierlo, venne decapitata da un pezzo di lamiera del tavolino portabagagli che stava dietro sua madre. Una piccola parte del suo corpicino fu risparmiata dalla disintegrazione perché si trovava più in basso rispetto alla traiettoria delle schegge. Intanto pezzi di ferro, vetro, plastica, carne e ossa provenienti da tavolini, panche, bagagli e persone volavano dappertutto uccidendo altre persone e distruggendo ciò che stava intorno in un effetto domino che durò appena qualche decimo di secondo.
Mezzo metro. Maria, ventiquattro anni, s’era appena alzata dalla panca attaccata al tavolino portabagagli sul quale aveva notato una grossa valigia di stoffa. Non capiva chi l’avesse lasciata lì. Poi tutta l’attenzione si spostò sulla sua bambina che s’era chinata a raccogliere qualche schifezza dal pavimento. In un millesimo di secondo, lo spostamento d’aria produsse sul suo corpo una pressione di trenta chili per centimetro quadrato e un calore di duemila gradi, sufficienti a disintegrarla completamente. Il corpo di Maria scomparve in un attimo e risultò essere l’unico, tra i resti delle ottantacinque vittime, di cui non venne mai ritrovato nemmeno un frammento.
Ci misero una manciata di ore per capire che non era stata una caldaia difettosa a scoppiare.
Alcuni testimoni parlarono di una valigia abbandonata su un tavolino della sala d’aspetto distrutta. Altri dissero d’aver visto dei giovani lasciare la valigia e allontanarsi circa mezzora prima dell’esplosione.
Così accadde che dei ragazzi appena ventenni si sostituirono a Dio e rubarono il destino di ottantacinque persone. Ottantacinque universi di pensieri, emozioni, desideri, speranze e sentimenti distrutti. Ci vollero venticinque chili di tritolo e in una frazione di secondo quelle ottantacinque vite vennero cancellate e altre centinaia vennero stravolte per sempre.
E anche noi cambiammo. Io, mio padre, mia madre e mio cugino, protetti e timorosi nel nostro albergo di Gabicce, ringraziavamo la sorte. Lo facevamo di notte, in silenzio, fissando il buio, per tutte le notti che restarono di quella vacanza. Certo, sotto il sole i nostri umori erano altri, distratti com’erano dalla tenace spensieratezza della vita che nonostante tutto ammantava le nostre giornate. Tuttavia ci sentivamo anche noi, in qualche modo intimamente, dei superstiti, dei miracolati, degli scampati all’attentato.
Ripenso spesso a mio padre nei giorni che seguirono. Alla sua faccia quando apprese che, nell’attimo in cui la bomba scoppiò, lui avrebbe potuto trovarsi in quella sala d’aspetto, a due passi da Maria e la sua bimba di tre anni.
Sono convinto che fu il suo amore per noi a salvarlo, a fargli decidere di partire un giorno prima per la voglia di passare più tempo con la sua famiglia.
E forse fu proprio quel giorno in più a consentirgli di trascorrere con noi i restanti quindici anni della sua vita.
Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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DILEGUARSI
i pomeriggi ospedalieri erano – a volte –
Liberi dalle attese
E guardavo la luce schiantarsi
Sui vetri dei palazzi
Il mare dei colli ariosi
Dalla loro piccola sommità
Mi dileguavo anch’io
Nel loro grembo
LA SIMONA QUANDO VENIVANO
la Simona quando venivano
Portavano le robe di sempre
Da ospedale…
Ciccioli secchi crescenza e vino
Mentre io andavo a flebo
Era il loro modo
Di reagire al male
VINC E LA WILMA
Vinc e la Wilma
Venivano tutti i giorni
Sono stati assidui e cari
Quasi fuori tempo
Un cofanetto
Di Sperlari
IL VECCHIO LUGUS
il vecchio Lugus
In mezzo agli altri
E tace
Lui lo so
Non si dava pace
L’equipaggiamento della foemina et homo laidensi non può prescindere da una serie di accessori che ne fanno l’esatto ritratto del personaggio alla moda: dai tre ai novantacinque anni. Il nucleo del vestimento è dato da una serie di sacche e sacchetti che racchiudono tutto ciò che occorre alla specie marina. Ovviamente accompagnati da pantofole infradito, da berretto portato con la visiera dietro, da cui spuntano, in chi li possiede, una selvaggia massa di capelli (per lui) e da guizzanti e serpentine chiome rinserrate in fasce e calotte (per lei); da crani lucidi per sudore di chi ne è sprovvisto.
Ma torniamo al contenitore. Nella mia infanzia che si perde nella notte dei tempi si usava la borsa da mare, immensa, che conteneva di tutto: dagli asciugamani alla carta igienica, dai costumi di ricambio, alla merenda se non al pranzo, dalle pantofole da bagno alle cuffie e ai giornali e libri per i più colti. Un peso enorme trascinato faticosamente dal ragazzotto, nelle famiglie era il pezzo forte, in spiaggia inseguito dalle urla materne che ne reclamavano il possesso, pieno di ormoni e che si supponeva fosse il più forte. Una rappresentazione efficace sta in Casotto il film del 1977 di Sergio Citti, l’allievo di Pasolini, abbastanza attendibile seppure velato dalla nostalgia tipica dell’ultima stagione neorealistica.
Ma la borsa! La borsa era per le jeunes filles en fleur della mia giovinezza l’apice della maturità raggiunta. Leggere Bonjour tristesse della Sagan e portare con naturalezza la piccola trousse di Hermès o di Chanel, o partecipare ai moti studenteschi con i capelli avvolti in un foulard francese e sbattere la borsa preziosa contro gli scudi della polizia, qualificava le ragazze: intelligenti, belle – quasi sempre – semmai per le irrimediabili definite interessanti dai loro compagni capelluti, con il foulard alla Battisti al collo e i pantaloni a zampa d’elefante. Che tempi! Ricordo ancora, non potendo sfoggiare neppure un minimo scialo di capelli, i foulard che m’adornavano il collo un po’ gallinaceo, mentre davo il braccio alla mia dea, Elsa Morante, passeggiando a Roma per il Corso. Negli ambienti raffinatissimi fiorentini, dove tutto doveva apparire comodo, usato e mai nuovo le borse venivano comprate in piccoli negozi di via della Vigna nuova o in via Tornabuoni, tra Old England e Ferragamo. Mai esibite; semmai lasciate a maturare dalla stagione precedente. Nelle estati versiliesi le ragazze sfoggiavano piccole sacche di pezza da usare con moto rotatorio, quando si sorbiva il gelato da Fappani o più tardi al Lido di Camaiore ai Sorci verdi. Quando osai per la prima volta presentarmi a Bellosguardo dalla mia vice mamma con un borselletto comprato a prezzo carissimo venni accolto con strida e furore. Mi venne imposto immediatamente di lasciarlo a casa (era una prima del Maggio Musicale dove dirigeva l’amico Riccardo Muti) e di non permettermi mai più simili follie.
Ora dal mio osservatorio laidesco osservo l’assembramento delle sacche. Sull’esile spalla delle donne si contano: borsa normale, e una specie di sacca che contiene oggetti fondamentali per la vita di spiaggia o di discoteca; sull’altra alcune specie di tubi il cui contenuto non riesco a indovinare. I loro compagni maschi aggiungono al tutto uno zaino enorme rigorosamente infilato su una sola spalla e protetto, ovviamente davanti, dal racchettone. Più imbarazzante la mise dei diversamente giovani a cominciare dai quaranta/cinquantenni che si coprono le pudenda con un borsello esattamente posto sull’organo riproduttore. Naturalmente indossano slip anni Ottanta con cui passeggiano anche per viale Carducci. I loro bellissimi cani, indifferenti alle mode, piscicchiano stancamente dopo l’annusata di rito.
Sembra quasi che il fascino delle boutiques dei falsi sia fuorigioco. Provviste di borse, vestiti, orologi, scarpe accuratamente distanziate sulla battigia non attirano più le masse frementi del falso lusso. Ora vanno molto i negozi cinesi provvisti di tutto: dal cocomero al costume da bagno e naturalmente da batterie complete di borse, borsoni, borselli e zaini.
Nello studio, dove mantengo parte dei libri fiorentini, mi diverto la domenica a raccoglierne una decina e portarli alle signore, che hanno il loro banchetto fuori dalla chiesa e che li vendono per beneficenza. Ma anche qui le risposte sono diverse. Da alcune vengo ‘regalato’ di santino e rosario da altre – una in particolare – che mi caccia ululando “corona virus!”. E in questa strana estate anche i libri portano maleficio. All’edicola, dopo aver comprato l’ennesimo Camilleri o Carofiglio, penso con tenerezza ad un me ragazzetto, che sul viale a Viareggio davanti alla libreria accanto al caffè Margherita si scioglieva di commozione a leggere i titoli dei libri che avrebbe voluto leggere e che non poteva permettersi.
Arrivò poi la stagione fiorentina quando in via Tornabuoni la libreria ti permetteva di leggerli, di riportarli o di tenerli e di pagarli a rate. Che scorpacciate! Allora sì che i borsoni erano necessari!
Questa estate mi manca la Spagna: Madrid con i suoi splendidi musei, le biblioteche, i teatri, Barcellona con gli edifici liberty di Gaudí, Toledo con i quadri di El Greco, Alicante con l’esplanada costeggiata di palme e la prigione dove, appena trentenne, morì il poeta Miguel Hernández, Córdova con la sorprendente mezquita e le austere muraglie evocate dal poeta barocco Luis de Góngora (“¡Oh excelso muro, oh torres coronadas / […]”), le cuevas di Granada con i gitani cantati da García Lorca, il lento scorrere del Guadalquivir in una Siviglia piena di giardini e di patios fioriti dove la maestosità dell’Alcázar e l’intimità di bianchi e stretti vicoli fecero da sfondo alle avventure di Don Giovanni; o ancora le spiagge rosseggianti dell’arida e subtropicale isola di Fuerteventura (nelle Canarie) dove il poeta Miguel de Unamuno fu esiliato e che da tempo desidero visitare.
Ma parlando di Spagna, a questi ed altri luoghi con la loro storia e memoria, sarebbe inevitabile aggiungere un dopocena in un tablao flamenco e una domenica pomeriggio alla plaza de toros. Per molti anni, ed in certo modo ancor oggi, infatti flamenco e corrida sono stati automaticamente identificati con l’immagine di questo paese, fin quasi a divenirne in certo senso sinonimi. Eppure, per un non andaluso, o più in generale per un non spagnolo, non è facile comprenderne il significato. Ridotto spesso il primo a un rumoroso e ritmato battere di tacchi e allo svolazzare di scialli e di colorati abiti a coda e il secondo (talvolta riportato alla ribalta dei giornali dalle proteste degli animalisti) a una mera espressione folklorica fissata su manifesti che, sotto l’immagine di un matador nell’atto di uccidere il toro, annunziano i nomi dei tre ‘valorosi’ che si esibiranno nell’arena. Il fatto che si tratti di manifestazioni che perdurano li rende però meritevoli di attenzione, nonostante la loro sempre più forte degenerazione turistica.
Tra l’altro del flamenco e dell’allontanamento dalla sua primitiva genuinità si preoccuparono già un secolo fa Federico García Lorca e Manuel de Falla quando nel 1922 organizzarono a Granada il Concurso del cante jondo che vide cantaores più e meno noti riunirsi a dare testimonianza del loro canto: fu un’occasione storica della quale rimane solo qualche sparsa registrazione.
Della finalità di quella gara possiamo renderci conto ricollegandola a un significativo episodio che García Lorca racconta in una famosa conferenza. In una delle tante taverne della città di Cadice, siamo quindi in Andalusia, una nota cantaora – La Niña de los Peines – esibiva la propria bravura giocando con la sua voce: cantava con una voce “d’ombra”, una voce “di stagno fuso”, una voce “coperta di musco”, l'”arrotolava nei capelli”, la “inzuppava” nella liquorosa manzanilla, la faceva perdere in gineprai bui e lontanissimi. Ma per quanto si sforzasse, gli spettatori rimanevano indifferenti. Così, nel silenzio, aveva finito di cantare. Fu soltanto allora che un omino esile, quasi sbucato dal nulla, a bassa voce e con sarcasmo, esclamò: “Viva Parigi!” Con questo voleva dire – spiega Lorca – “Qui non ci interessano la capacità, la tecnica, l’abilità. Ci interessa ben altro”. E la cantaora capì. Si alzò di scatto, come impazzita, troncata come una prefica medievale, ingoiò tutto d’un sorso un grosso bicchiere di grappa ardente come il fuoco e si sedette a cantare. Ora, non aveva più voce, non c’erano più sfumature, era senza fiato, la sua gola era bruciata,…
“Ma come cantò!”, conclude García Lorca. La sua voce ormai non giocava, era un fiotto di sangue degno del suo dolore e della sua sincerità. Aveva insomma distrutto tutta la sovrastruttura del canto per lasciare emergere una forza furiosa e cocente che riusciva a coinvolgere chi l’ascoltava, fin quasi a spingerlo a stracciarsi le vesti. Aveva lacerato la propria voce perché si era resa conto di trovarsi di fronte a un pubblico non banale, che non voleva la “forma”, ma il “midollo della forma”. Aveva capito che doveva liberarsi delle proprie capacità e delle proprie sicurezze, che doveva spogliarsi di tutto per lasciare spazio a qualcosa di diverso, di più vero e di più personale.
È duende, una parola praticamente intraducibile (che letteralmente significa “spiritello”, ma che indica la genuinità, l’originalità, una forza misteriosa) quella con cui Lorca sintetizza il significato di quest’episodio: infine la cantaora aveva cantato con duende. E se in questo caso il diretto rimando è al canto flamenco (o meglio alla sua espressione più genuina e ‘spoglia’ di accompagnamento strumentale, che è il cante jondo) è evidente – Lorca lo precisa sempre in questa conferenza, intitolata appunto Juego y teoría del duende – che tutte le arti possono esserne oggetto. Ma – la puntualizzazione è importante – ne sono maggiormente coinvolte quelle che presuppongono la presenza di un interprete: la danza, il teatro, la musica, il canto, ecc. sí che l’interprete dovrà sempre cercare di allontanare da sé ogni elemento esterno (la seduzione della musa, cioè delle competenze acquisite, e l’angelo, cioè la tentazione dell”ispirazione), per andare oltre e cercare di coinvolgersi in quella lotta.
In questa conferenza, però, García Lorca introduceva anche un accenno alla corrida offrendone un’importante chiave di lettura. Ancor più che nel caso del flamenco infatti della corrida è complesso, non solo seguire le fasi, ma soprattutto intendere le motivazioni. Eppure le corride continuano da secoli a riempire le arene, senza parlare del non ridotto indotto che le accompagna: dai settimanali o dagli inserti dei quotidinani dedicati esclusivamente alle cronache taurine agli allevamenti che si dedicano a perpetuare la specifica razza del toro bravo (‘feroce’), per citare solo due esempi. Chi, non esperto, si rechi all’arena una domenica pomeriggio alle 7 (questa infatti l’ora ormai convenzionalmente fissata per l’inizio, e non più le 5 come all’epoca di Federico García Lorca e dell’amico torero Ignacio Sánchez Mejías) ne percepisce inevitabilmente solo gli aspetti più superficiali e l’atmosfera festosa: i colori vivaci dei costumi e l’allegro ritmo del paso doble che accompagna la sfilata dei protagonisti, quasi ossimoro dello spargimento di sangue e della morte che inevitabilmente seguirà poco dopo: sicura infatti l’uccisione del toro, sempre possibile quella del torero (non indifferente infatti il numero dei toreri feriti annunziato ogni domenica dalle cronache giornalistiche e televisive).
Lo svolgimento delle diverse fasi della corrida è noto e facile da riassumere giacché tutto si svolge seguendo un preciso rituale: il presidente, con fazzoletti colorati, impartisce gli ordini dal centro delle gradinate, due guardie a cavallo entrano nell’arena con costumi del seicento e cappello piumato, seguono i tre matadores accompagnati dagli aiutanti toreri, poi i banderilleros e i picadores a cavallo, e infine “il toro” che, spalancata la porta dei toriles, entra correndo nell’arena.
È lui il vero protagonista: un grande cartello lo presenta al pubblico: data di nascita, allevamento di provenienza e peso. Con il suo arrivo improvvisamente ogni brusio cessa e per qualche minuto domina il silenzio. Sono la tromba e i tamburi a scandire da ora in poi le diverse fasi del confronto: prima i picadores a cavallo che colpiscono il toro con la loro lunga asta appuntita, poi i banderilleros che, gettandosi contro le corna, cercano a loro volta di ferirlo e infine il matador con la tipica muleta rossa. È questo, come noto, il momento fondamentale perché tocca a lui confrontarsi con il toro per ucciderlo, e saranno allora fischi, applausi o uno sventolio di fazzoletti bianchi a sancire la capacità dimostrata nell’affrontare l’animale e nel colpirlo al cuore con un unico ed esatto colpo di spada. Nel torero il coraggio è un obbligo scontato; la paura o la rinunzia di fronte a un animale troppo grosso o a delle corna posizionate in modo più pericoloso non sono infatti ammesse (non solo sarebbe sommerso dalle proteste ma verrebbe subito portato in un commissariato e sottoposto a sanzioni finanziarie e, talvolta, all’arresto).
È dunque il coraggio la dote fondamentale di un torero e quello che si aspetta lo spettatore della corrida? È in García Lorca – come dicevamo – che troviamo in parte una risposta. Non è questo, afferma Lorca. Il torero che impressiona il pubblico con la propria audacia non torea, si limita a rischiare la vita in modo quasi ridicolo mentre il torero posseduto dal duende offre “una lezione di musa pitagorica” facendo dimenticare il rischio che corre continuamente esponendo il proprio corpo alle corna del toro. La geometria e la misura – precisa ancora il poeta – sono gli elementi fondamentali della fiesta, quello che conta quindi non è tanto l’uccidere ma il come si uccide: lo stile e il rispetto delle regole.
Non a caso infatti in un paese che – cito ancora Lorca – è l’unico ad aver trasformato la morte in “uno spettacolo nazionale” quello che viene valutato dal pubblico, o meglio dagli aficionados che tutte le domeniche si recano all’arena, è la maestria nell’attaccare (del torero) e la capacità di aggredire (del toro) sí che, a seconda dei casi, la corrida – se ben combattuta – si concluderà indifferentemente con il torero che fa il giro dell’arena tra le ovazioni della folla o con il toro che (ormai morto) viene trascinato dai cavalli lungo il circolo dell’arena a raccogliere i meritati applausi. Anche la corrida insomma – nella sua espressione più ‘vera’ – propone un confronto con il duende, un duende più impegnativo e crudele essendo in questo caso in gioco la stessa esistenza. È una sfida costante con la morte da condurre – potremmo concludere – con sincerità e disciplina; per questo non stupisce che, nei versi scritti per cantare l’amico Sánchez Mejías morto per le ferite riportate “alle cinque della sera”, Lorca ne elogi insieme la “forza” e la “saggezza”, la “grazia” e la “maturità”, l’“eleganza” e la “smania di morte”.
Discoteca. Movida. Covid-19. Una volta c’era lo Studio 54 a Manhattan, adesso il Twiga a Marina di Pietrasanta. Ognuno può pensarla come crede sulla evoluzione o sul decadimento del gusto, musicale e del costume, intercorso dagli albori del clubbing (1977 circa) ai giorni nostri. Per me è decadimento, ma potrebbe dipendere dal fatto che sto invecchiando; si sa che i “bei tempi” sono sempre quelli in cui eravamo ragazzi noi. Resta il fatto che non esistono due luoghi/fenomeni che condensino meglio il contrasto di valori e di interessi ed un simbolico contrapporsi tra frivolo e impegnato, tra effimero e duraturo, tra leggero e pesante, in tempi di pandemia.
Parto dai valori. Facciamo finta che chi parla di “diritto al divertimento” e “diritto alla socialità” non stia travestendo con concetti di valore la difesa mera, quanto comprensibile, di concreti interessi economici (di questo parleremo dopo). Voglio prendere sul serio il tema di dove i ggiovani preferiscono ritrovarsi e come i ggiovani preferiscono “divertirsi”. Da una parte c’è il concetto di socialità ludica. Dall’altra c’è la tutela della salute pubblica, che in realtà significa anche della salute privata, individuale, di ciascuno e specialmente dei più deboli (anziani, ammalati, immunodepressi). Non intendo cimentarmi pure io nell’interpretazione dei dati sulla risalita dei contagi; interpretazioni che servono, quasi sempre, a giustificare una tesi o la tesi contraria, le quali hanno un punto in comune: il fatto che preesistono ai dati, non conseguono ad essi. Sono tesi che si vogliono apodittiche, e interpretare la statistica serve semplicemente a rafforzare il proprio dogma, indiscutibile per definizione. Quindi se io sostengo, a priori, che esiste un complotto plutogiudaico per chiudere il pianeta a chiave sotto la minaccia di un orribile virus studiato a tavolino, ma contemporaneamente sovradimensionato e, tutto sommato, poco pericoloso, la risalita della curva contagiosa non è altro che propaganda per giustificare l’introduzione di uno Stato Etico, che mi dice come divertirmi e come curarmi anzi, che mi obbliga a non divertirmi e a curarmi. Come dire che Bill Gates, il Dio del Male, ha messo in circolazione un pericoloso virus per lucrare sulla commercializzazione del vaccino universale, ma il virus è poco più di un’ influenza; coerenza logica del ragionamento pari a zero (è una guerra batteriologica o è un banale raffreddore?) ma il complottista sa trovare collegamenti fantasmatici tra i fatti del mondo (idioti, svegliatevi!) e sorvola sui palesi ossimori delle sue elucubrazioni.
Se viceversa sono convinto che questo non sia che l’inizio di un’era di piaghe bibliche, e che il terribile antropocene ha ridotto la Terra ad una discarica rovente di cui l’epidemia Covid non è che una delle prime conseguenze, la chiusura temporanea dei locali dove si beve e si balla è una misura troppo blanda. Certi posti andrebbero murati e riconvertiti in fabbriche di mascherine.
Esagero? Se frequentate con un minimo di capacità (auto) critica i social network, converrete che è praticamente impossibile cambiare la propria opinione leggendo quella di uno che la pensa diversamente. Il social non serve a mettere in discussione le proprie idee, serve a sbeffeggiare l’opinione altrui, e glorificare la propria. Le fonti altrui sono fake per definizione, le proprie sono scolpite sulla pietra. La ricerca dell’attendibilità delle fonti non è un’attività contemplata, perché rischierebbe di farci cambiare opinione, e questo non è previsto.
La mia opinione sul versante “valori” prova a seguire, e non precedere, l’osservazione, filtrata dalle considerazioni di qualche tecnico assennato, dei dati sulla pandemia. Una delle principali ragioni per cui il virus colpisce meno duro che in marzo/aprile/maggio, sta nell’adozione di massa delle misure di distanziamento fisico e nella prevenzione con o senza dispositivi (igiene e mascherine, disinfettanti). Un’altra ragione sta nel fatto che le terapie sintomatiche sono più mirate che all’inizio della epidemia, e questo dipende in buona misura dagli errori commessi e dai tentativi fatti. Non esiste, invece, alcuna evidenza scientificamente provata che il virus in sè si sia “indebolito” o abbia perso “carica virale”. Molto più banalmente, se uno si becca uno sputacchio con mascherina addosso (possibilmente indossata sia dallo sputacchiatore che dalla vittima) incamera meno virus di uno che se lo prende in faccia senza protezione alcuna. Sarà anche un risultato parziale, ma serve ad evitare un bel po’ di infezioni severe, di quelle che portano in terapia intensiva. Se le ragioni sono queste, chiudere i locali dove le persone si assembrano naturalmente le une vicino alle altre, e farlo non per sempre, ma temporaneamente e magari diversificando per territori, è una misura di buon senso. Punto. Le altre considerazioni sono ovvie (non puoi evitare la vicinanza fisica in discoteca: appunto, quindi meglio chiuderla per un po’) o ridicole (dalle sette alle diciotto il virus non è meno aggressivo: no, però dalle diciotto alle sei si va in disco, nell’altra fascia oraria no).
Passiamo agli interessi. Qui gli schei sono il fulcro del mondo, di questo mondo. Nel mondo dell’effimero gli schei sono quanto di più duraturo esiste, e quando vengono a mancare la reazione è scomposta e arrogante, perchè scomposto e arrogante è il modo in cui, nel microcosmo del divertimento giovanile, vengono fatti i soldi. Non ho reperito dati attendibili che confermino la leggenda web secondo la quale i gestori delle disco denunciano mediamente un utile di 4.600 euro l’anno. Peraltro non si tratta del fatturato (o ricavi), che invece le stesse associazioni di settore attestano attorno al miliardo abbondante di euro. Diviso circa 3.500 locali, mediamente farebbe circa 340.000 euro l’anno, che ci può anche stare; non perchè questo sia il fatturato reale, ci mancherebbe altro, ma perchè è verosimile che all’Agenzia Entrate il dato medio che perviene sia questo. Diciamo che, visto che in questi giorni le medesime associazioni adombrano una (incredibile ed autolesionista, viste le denunce dei redditi) perdita del settore di 4 miliardi, e scontando una esagerazione di segno opposto in entrambi i dati, una ragionevole media recente degli incassi reali del settore potrebbe attestarsi, in un periodo ante epidemia, sui 2,5 miliardi. E nella media ci stanno gli estremi: come i circoli, che se non hanno già chiuso lo stanno per fare e la cui (purtroppo) marginalità sociale ed economica si riflette anche nell’inesistente eco mediatica delle loro difficoltà. E poi abbiamo l’estremo opposto, rappresentato dai sindacalisti ad honorem della ricchezza arrogante e scomposta, costruita su un disinvolto mixaggio (per dirla alla Bob Sinclar, altro milionario e vaniloquente genio delle consolle) tra risorse ereditate, capacità proprie e spiccata attitudine al delitto fiscale. Flavio Briatore e Daniela Santanchè, soci in affari, pagano per l’affitto dell’area dove insiste il mitico Twiga di Marina di Pietrasanta 17.620 euro l’anno. Avete capito bene. Il locale fattura, secondo gli ultimi dati noti, più di 4 milioni. E in Italia le concessioni demaniali sono state prorogate (in violazione dei dettami europei) fino al 2034, senza gara. Trasmissione ereditaria. Segmenti importanti del settore saranno anche in crisi, e c’è sicuramente una parte dei gestori della balneazione che rischierebbe di perdere le concessioni a favore dei grandi gruppi. Tuttavia, qualcuno mi spieghi perchè lo Stato, altro esempio, deve continuare a far pagare ai gestori del Papeete diecimila euro di affitto l’anno. Tra il non consegnare le nostre spiagge nelle mani degli sceicchi arabi o dei magnati russi e la creazione della ennesima minicasta di ipergarantiti, che non solo hanno la concessione perenne, ma la pagano un prezzo ridicolo, ci sarà pure una via di mezzo più equa. Stranamente, il principio della libera concorrenza vale solo quando riguarda gli altri. Quando riguarda se stessi, deve essere sacrificato in nome della “salvaguardia delle piccole imprese” (toglietevi lo sfizio di leggere qualcuna delle, talora esilaranti, prese di posizione contenute nel sito mondobalneare.com).
In conclusione: è giusto chiudere temporaneamente i locali da ballo, anche all’aperto, in nome della salute pubblica? Si, è giusto. Non c’è nulla di talebano in questa scelta, ma l’applicazione di un principio di responsabilità civica, secondo il quale nessuno può esercitare con arbitrio la propria libertà se danneggia o espone a grave rischio la salute altrui. Altrimenti vale tutto, compreso ubriacarsi e mettersi al volante. E’ giusto pensare a tamponare le conseguenze economiche di queste chiusure? Sì, è giusto, purchè non si trattino tutte le esigenze come se si trattasse invariabilmente di gente che viene ridotta alla fame. Qualunque misura di sostegno al settore dovrebbe essere informata al principio che il “settore” non è un monolite (esattamente come “le imprese”: Confindustria non rappresenta gli interessi del bottegaio), e che alcuni meritano aiuto, altri devono annoverare tra i costi d’impresa anche il pagamento di un giusto prezzo allo Stato, e non hanno diritto a un bel niente.
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I ragazzi osservano gli adulti più che non si creda e notano le loro incoerenze. Come quando parlano dei rischi di giocare con la droga, però poi uno studente spaccia e non succede niente.
Lo spaccino
Hai notato quel biondino?
Qui per tutti è lo spaccino.
Porta il fumo ai suoi compagni
con lauti guadagni.
Sanno tutto gli insegnanti
ma lo trattano coi guanti,
occhi chiusi e labbra strette
che non scattin le manette.
È venuto un genitore
a parlarne al professore
che l’ha detto al dirigente
e a sua volta ad un agente.
C’hanno fatto un bel discorso
che sembrava un predicozzo
e ora so che c’è una legge
e che questa ci protegge.
L’ho imparata, sì, in teoria
come la filosofia
perché poi niente succede:
anche la polizia non vede!
Ma io vedo quel biondino…
Sarà sempre uno spaccino?
Tanti insegnanti e operatori sono restii a segnalare un adolescente che cammina sul filo perché temono di farlo cadere. Nel caso da cui prende spunto la filastrocca, perfino la polizia municipale sapeva e non lo diceva a nessuno. Provo ogni volta a spiegare che la giustizia penale minorile è fortemente rieducativa e attenta alle persone, che il carcere è davvero l’ultima, ultimissima soluzione, e che le stesse opportunità non si danno ai maggiorenni, per cui un ragazzo che cammina sul filo se cade da minorenne trova una rete di protezione che a 18 anni e un giorno non avrà.
CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia tutti i venerdì.
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Tutti vogliono i Bot e i Btp italiani. Successo nelle aste di ferragosto nonostante la politica continui a non funzionare.
Questa settimana ha visto interessanti spunti di riflessione dal punto di vista dell’emissione di Titoli di Stato. Il dodici agosto il Tesoro ha offerto sette miliardi in Bot annuali venduti in asta ad interesse negativo del -0,192% in calo rispetto al -0,124% offerto nell’ultima emissione del dieci luglio. Il rapporto di copertura è stato del 1,74 in quanto la domanda è stata di 12,2 miliardi, quindi ben superiore rispetto all’offerta.
Giovedì 13 agosto il Tesoro ha invece offerto dei Btp con scadenza a tre, sette e trent’anni, per un importo complessivo di 6,75 miliardi. Il rapporto di copertura è stato anche qui interessante e precisamente del 1,63, 1,43 e 1,39, di nuovo insomma la domanda di Titoli è stata superiore all’offerta.
Ancora una volta è dimostrato il fatto che l’Italia non ha problemi nel trovare finanziatori desiderosi di comprare il suo debito, anzi. Ma sullo sfondo di queste emissioni c’è ancora il Recovery Found e lo Sure e, di certo, non è sparito il Mes con il quale prima o poi ci indebiteremo, visto anche il nuovo posizionamento di Mario Monti all’Oms.
Certo qualcosina in più la paghiamo sugli interessi dei Btp rispetto a spagnoli o inglesi ma questo è dovuto al fatto che l’Italia ha un investment grade bbb-, quindi al fatto che le agenzie di rating, già riconosciute incapaci di dare giudizi seri dal 2008 in merito alla qualità dei debiti, continuano ad avere più credibilità di quanta ne meritino.
Agenzie di rating ma anche Banca Centrale Europea e coordinamento con le politiche fiscali dei Paesi intralciano il corretto andamento degli eventi economici e, di riflesso, condizionano negativamente le aspettative dei cittadini.
Le Banche Centrali “espandono” i loro bilanci e la Bce supera i seimila miliardi seguendo la Fed che ha superato i settemila. Tale espansione è dovuta soprattutto alle politiche di acquisto di Titoli sovrani con lo scopo di immettere liquidità nei sistemi economici in modo da aumentare la capacità di spesa dei cittadini (famiglie e imprese). Acquisti che regolano anche lo spread che si mantiene basso quando c’è in giro la certezza che lo farà davvero o in caso servisse farlo (memo: il “whatever it takes” di Draghi).
Purtroppo le news parlano ancora di recessione, segno che qualcosa non sta funzionando probabilmente perché la moneta da sola non basta. C’è necessità di piani, strategie e unità d’intenti soprattutto nell’eurozona dove le politiche monetarie non trovano il necessario supporto nelle politiche fiscali degli Stati, ognuno segue le sue idee e gli obiettivi non si incontrano. La Bce “produce” soldi mentre gli Stati non li controllano e non decidono correttamente come impiegarli, probabilmente perché non esiste un coordinamento chiaro tra le diverse politiche nazionali che tendono a tutelare interessi particolari piuttosto che quelli della comunità dei cittadini europei.
Insomma, il debito oscilla tra serio e falso problema perché i finanziatori ci sono sempre stati, e continuano ad esserci, dato che l’Italia rimane un buon posto dove investire (un Paese non è fatto di soli politici che ‘discutono’ e giornali che denigrano ma anche di persone che producono, inventano, crescono). Del resto gli investitori sanno che gli interessi dipendono dalle farlocche agenzie di rating americane e non realmente da possibilità di default, quindi mentre comprano sorridono sapendo che non le sostituiremo con serie agenzie europee.
Dietro (o davanti) rimane fondamentale il comportamento (nonché gli Statuti) delle banche centrali che andrebbero rese più dipendenti dalle necessità delle comunità e meno da quelle dei mercati. Per finire, la comunità degli stati europei dovrebbe lavorare seriamente per… la comunità e quindi adeguare le esigenze di spesa (politica fiscale) agli interessi comuni piuttosto che preoccuparsi degli spread e di imporre metodi di indebitamento graditi alle élite finanziarie.
“Sono un matto, sono un vetero, sono trinariciuto?” Torna la rubrica GLI SPARI SOPRA , le considerazioni molto politiche di un politico. Ad alcuni i pensieri di Cristiano Mazzoni potranno sembrare solo il frutto amaro della delusione, della sconfitta, della nostalgia del tempo che fu. Sono però anche la rivendicazione di ideali e di valori che forse abbiamo dimenticato troppo in fretta. In un mondo sempre più confuso e complesso abbiamo sempre più bisogno di risposte, ma l’unico modo per trovarle è non smettere di interrogarsi. (La Redazione)
Quanti di noi avranno letto il Piano di rinascita democratica, il programma politico della Loggia Massonica propaganda due del disonorevole grande maestro Licio Gelli? Pochi.
Io credo di averlo letto per la prima volta agli albori del nuovo millennio, in rete si trovava ancora il documento originale con tanto di timbri e scritto a macchina, poi scannerizzato chi sa da quale mano. Oggi il documento originale in internet non l’ho più trovato ma tantissimi sono i siti che ne riportano il contenuto.
Credo che non sia più nella sfera delle opinioni, ma nei fatti e nelle sentenze cosa fu la loggia P2. Una associazione cospirativa, che ammantata dal sapore di destra democratica e con la responsabilità e complicità dello Stato, fu implicata e mandante, nella figura di Gelli, nella strage della stazione di Bologna del due agosto 1980 e in molti altri fatti oscuri di quel ventennio di sangue.
So i nomi, i mandanti, ma non ne ho le prove scriveva il Poeta e forse quelle parole gli costarono la vita.
Per curiosità, provate a scorrere i punti di quel programma e ditemi se non vi sembra che molti di quei punti si possano derubricare come ‘fatti’, cioè eseguiti, compiuti, insomma: riusciti. L’intento chiarissimo era infatti ‘moderatizzare’ e ‘destrificare’ l’Italia.
Nel programma vi è chiara la volontà di rendere “democratica” la Repubblica eliminando gli elementi di attrito, lotta e aggregazione di sinistra quali il Pci e la CGIL. Porre cioè un argine per mettere in un angolo circa il 30% della popolazione italiana. L’obbiettivo mi sembra ampiamente raggiunto, quarantasei anni dopo la scoperta del programma della loggia nel sottofondo di una valigia della figlia del non compianto venerabile, possiamo dire che l’argine ha addirittura prosciugato il fiume. Quel trenta per cento della popolazione non esiste più o forse non ha più rappresentanza, quindi si può ‘crocettare’ la casella morte della sinistra italiana.
La volontà di creare due partiti, uno comprendente i moderati di PSI-PSDI-PRI-PLI di sinistra e DC di sinistra e l’altro di destra DC-PLI-Destra Nazionale, non è stato completato solo per il numero dei partiti citati e per i nomi degli stessi, partiti, ma la vocazione americanista di aggregare tutto al centro con un occhio buono sulla destra mi sembra assolutamente raggiunta.
E che dire della creazione di una TV privata? La nascita di Mediaset negli anni ’80 ha aggiunto un duopolio libero e democratico (sic.), fors’anche con la spinta di Gelli sull’iscritto 1816.
La volontà di cambiare le menti degli italiani, lavorando sulla scuola e sul controllo dei mass-media risulta molto chiare tra le righe del programma di rinascita democratica.
Si vuole inculcare, anestetizzare, instillare, indottrinare, creando una popolazione di ottimi soldatini, applicando il modus operandi di “libro e moschetto, fascista perfetto”.
Occorre intervenire sulla magistratura, dice il saggio, come pure occorre eliminare le province e diminuire il numero dei parlamentari.
Tanto un parlamento così simile, non ha bisogno di una folta rappresentanza democratica.
Non vi sembrano temi di stratta attualità?
Credo però che queste tematiche, non siano poi tanto di moda, in questo lontano 2020, le persone hanno altro a cui pensare, ma io che spesso faccio come le cheppie, (nuoto contro corrente), penso invece siano temi da discutere, leggere e ricordare.
Soprattutto quando si cerca di eliminare negli anni e col tempo il significato di antifascismo. In quanti della destra democratica e pure tra la galassia dei moderati ritengono il fascismo un argomento da derubricare nei libri di storia, confinandolo in una ventina d’anni bui trascorsi nella prima metà del secolo? Quanti sbuffano quando si toccano i temi di un fascismo ancora vivo per decenni dopo la liberazione, insinuato tra le fila delle stato, delle fdo, dei rappresentati delle forze democratiche del nostro paese?
Sono un matto, sono un vetero, sono trinariciuto?
Può darsi, ma l’ideologia che ha insanguinato il secolo breve, continua a gocciolare e percolare tra le fila di una popolazione forse non ancora matura, forse ancora desiderosa di avere un uomo forte che decide per te, forse non ancora vaccinata contro il batterio nero.Mi aspetto tra i commenti, un ottimo e Stalin?
Non deludetemi.
Io non sono nessuno per avere la risposta per quello che è il punto focale della anomalia dell’Italia, il connubio tra stato e malavita, tra stato e poteri occulti, tra stato / mafia e terrorismo.
Se un mago Merlino, non scoperchierà questa pentola del diavolo forse mai l’Italia potrà fregiarsi del titolo di Repubblica democratica, fondata sulla verità e non sulla menzogna.
Aggiungo pure la volontà, scientifica e cosciente di adottare quella che fu la strategia della tensione, nata con le bombe fasciste, lanciate a bella posta per fare reagire un terrorismo rosso, molto spesso composto da rampolli della buona borghesia di quegli anni, che uccidevano nella convinzione di essere una avanguardia, mentre gli operai stavano con Guido Rossa. Lo credo realmente, i morti di quegli anni, hanno aiutato il programma della loggia di estinzione del più grande Partito Comunista d’occidente, proprio partendo da quegli anni di piombo.
Questo amore sa d’estate. Di passeggiate su e giù per i sentieri, di polvere fine che si insinua tra i capelli e la pelle. Un uomo normale che a me sembra bello, una voce calda che scioglie il cuore. L’amore è anche questo, un po’ di poesia che arriva a travolgere la mediocrità della vita quotidiana. Per tanto tempo ho pensato che nulla potesse reggere il peso della mia malsana abitudinarietà. Come si può resistere con qualcuno che fa un lavoro faticoso, ha gli occhi gonfi la sera e che continua a scrivere in modo un po’ forsennato e folle, in questo divenire sempre uguale che non finisce mai.
Per molto tempo ho pensato che pulire una casa, cucinare, stirare gli abiti fosse noioso e ripetitivo, malefico nel suo pretendere tempo e risorse. Fonte di annientamento, di routine, di stanchezza, di noia. Come è possibile che un amore possa sopravvivere a tutto questo?. In passato me ne sono andata per non soccombere, per non trovarmi imbrigliata in una quotidianità che mi avrebbe uccisa, che si sarebbe portata via parte di me, di quel che faccio e di quel che sono. Quelli come me sono persone strane, comunicano scrivendo, sembrano abbracciare le parole e piroettare con loro in una specie di valzer che dopo un turbinio di sillabe volteggianti, finisce nell’ordine più assoluto.
Come il posizionamento rigoroso di tutte le rondini sul filo, dalla più grande alla più piccola, così uno scrittore ordina le parole, le frasi, i paragrafi di un libro. Questo faccio ogni giorno, ordino le parole. In questo rigore c’è una via d’uscita, la luce in fondo al tunnel. Poi arriva la sera e io mi fermo a guardare un lavoro impegnativo e, a volte, un riuscito posizionamento di un po’ di verità su un foglio. Come può la creatività convivere con tutto ciò che è quotidiano senza stridere, mandare urla di soffocamento, sembrare un lavandino mezzo intasato che produce gorgogli di malumore e arrendevolezza. Come conciliare il lavoro, la noia dalla quale provo sempre a fuggire e che mi riacchiappa sempre, l’amore.
Un uomo. Eppure mi piace lui e il giorno sembra più bello, i gerani di Teresa brillano di un rosso strano, le mani sulla tastiera corrono veloci e sistemano sicure le parole. Le posizionano una volta per tutte, senza possibilità di scampo e rivalsa. Le inchiodano dentro questo tempo, dentro questo libro che sa di nuovo.
E’ arrivato lui in un giorno di sole. Gli occhi verdi come le felci e la bocca morbida. (Proprio a me doveva capitare). Pelle liscia e calda, un buffo modo di chinare il capo. Una presenza viva che ha invaso e riempito lo spazio, ha assorbito l’ossigeno fino quasi a farmi soffocare. Lui sulla pelle, lui negli occhi, lui nelle mani. Possibile che questo sentire e vedere possa sopravvivere? Che ci sia ancora una possibilità su un milione che questa magia possa diventare verità, che un’emozione possa diventare dedizione, che le mie lacrime abbeverino le felci dei suoi occhi, che si veda il futuro in quel luccichio. Possibile che questo sentire trovi una via per sopravvivere alla mediocrità delle giornate, alla ripetitività di quella mia estenuante ricerca di senso che si consuma ogni giorno tra la carta e l’inchiostro, tra i panni appesi al filo e il cesto in cui si ammucchiano le calze?.
C’è ancora una possibilità, c’è per me, c’è per tutti, c’è per pochissimi?. Lui è arrivato con quel suo modo gentile e non convenzionale, con curiosità e con un po’ di sorpresa. Ma io l’ho sorpreso? Io che scrivo e che infilo le parole come corallini tenuti insieme da un filo che forse un giorno qualcuno chiamerà collana. Li infilo cercando di combinarne i colori. Prima il blu, poi l’azzurro e il verdino, il verde scuro, il nero, il rosso scuro, il rosso geranio, l’arancione, il giallo sole e il giallo limone. Possibile che gli piaccia io che sono insofferente, testarda, ribelle, perfezionista. Eppure lui c’è ed io l’ho visto. Un profumo di pelle, un bacio, un sorriso, una corsa nel vento e nel tempo. Lui che si ferma a comprarmi un gelato e poi prendiamo un caffè. “Andiamo là. Là fanno il miglior caffè della città”. E poi i suoi jeans un po’ slavati e stretti, una maglietta bianca, una giacca di lino. Quella voglia di toccargli un orecchio, di accarezzarlo, di morderlo. Orecchie belle, piccole. Sanno un po’ di mare, un po’ di sale e un po’ di pace. Come faccio adesso a conciliare questo vento con la vita che ho. Se mai la mattina mi vedrà con quella maglietta blu che metto per dormire, con i capelli in aria che sembro un istrice, a piedi nudi mentre mi accovaccio sulla sedia come un gatto e mangio il pane fresco con il burro e lo zucchero. E poi quando andrò in bagno, mi laverò, vestirò, canterò qualche strofa di canzone con parole sbagliate e poi scenderò di corsa le scale come un fulmine che prima o poi si schianterà al suolo, facendo un frastuono da elicottero, svegliando cani, gatti e vicini di casa. Come potrà sopportare tutto ciò, e come potrò io pensare di costringerlo a questo, dentro questo mondo, dentro questa noia. Vorrà accompagnare questi giorni fatti di poco e di ritmi che si riproducono uguali, sempre quelli? Come potrò essere meno uguale o meno diversa, meno strana, meno prevedibile. Eppure lui c’è ed io l’ho visto. E’ pelle e carne viva, è un corpo esigente e sano, è aria da respirare, una parola per nulla banale. Come sia successo non lo so, non sembra vero, non era previsto, nessuno l’ha chiesto o l’ha cercato. Credevo fosse sposato ma non è così, non è nemmeno questo. Non lo è mai stato. Non ho scuse, devo mettermi di fronte a me, devo capire se posso darmi una possibilità, se posso credere che un futuro ci sarà. Lui dice che non sa cosa succederà, si vedrà. Dice che il presente è qui per noi, che il futuro sarà il bene che resterà. E io ora cosa faccio? devo dare una possibilità a questo accadere che non è come lo volevo, a questo tempo strano e sospeso. Eppure nel cielo una nuvola bianca c’è, la nuvola esiste indipendentemente da me. Una grande agitazione, una vita che si alza da terra, che rischia il volo con tutte le sue criticità. E’ rinato il tempo delle favole, il bisogno di un tocco leggero, di una mano che scaccia i fantasmi come fa con le mosche, con le ragnatele. Mi chiedo se possa bastare questo per ricominciare, per cambiare la mia vita, oppure è lei che ha già cambiato me. E’ arrivato lui, in quella giornata normale in cui mai avrei pensato di inciampare. Si è improvvisamente aperta una porta verso il futuro. Posso concedere a me stessa la speranza che domani sarà come oggi, che la nostra forza distruggerà la normalità, che lui potrà sopportarmi e trovare in ogni giorno una rinnovata energia?. Sono franata in uno strano tormento, in qualcosa che travalica i miei confini. Sono sommersa da lui, con lui. Continuo a pensarci, continuo ad annegare. Questa storia sta nascendo, è già nata.
Ho scoperto ora che voglio che la vita con la sua forza superi le mie convinzioni, i miei malumori e le mie perplessità e che mi porti leggera sulle ali del vento. Voglio lui che è pelle e sudore, carne e vita, sorriso e pensiero, occhi verdi come le felci, come il mare. In lui c’è un prato, una terra e una casa. Forse proverò ad entrare in quella casa in punta di piedi, cercando di non disturbare. Devo lasciare a questo tempo una possibilità, devo ridare spazio alla libertà ed al canto, alla vita nella sua novità. A lui che forse potrà lenire la paura, la preoccupazione per ciò che sarà. Forse finirà la mia guerra perenne nei confronti della quotidianità. I suoi occhi hanno il colore delle felci. Non resta che aprire la porta e poi si vedrà.
Mia madre Anna si trasferì a Pontalba quando si sposò. Prima abitava a Cremantello, il paese in provincia di Varese dove abita suo fratello e dove le mie cugine gestiscono il bar Ghepardi.
Quando mia madre abitava a Cremantello la sua casa non era quella annessa al bar dove ora vivono gli zii, ma era una casa di campagna con cortile, giardino, orto, rimessa, fienile e uno strano stanzino stretto e lungo, con una sola piccola finestra, che tutti chiamavano “il cantinetto”. Credo che lo chiamassero così perché in origine era destinato alle botti di vino appena fermentato. Il cantinetto era posizionato sul versante nord della vecchia casa e al suo interno la temperatura restava costante per quasi tutto l’anno. Si sentiva entrando uno strano odore di chiuso e muffa, forse dipeso dal fatto che il pavimento era di terra battuta, sempre un po’ umido.
In quella vecchia abitazione c’erano tanti oggetti e mobili di sconosciuta provenienza. Nessuno si ricordava che strada avessero fatto per arrivare lì, né chi fossero stati i primi proprietari della catena ereditaria che aveva destinato tutto quel mobilio nella vecchia casa della nonna Adelina. Si sapeva solo che appartenevano alla famiglia Ghepardi da generazioni. Mia madre, Anna Gherpardi, era nata tra quelle mura nel 1941.
Io ricordo che al centro del cortile c’era un meraviglioso albero di pere, che produceva dei frutti così dolci e sodi, da attirare l’interesse di buona parte del vicinato. Avevano la buccia color ruggine e dei puntini più scuri sulla parte “panciuta” del frutto. Maturati sull’albero, sotto il sole che arroventava il cortile, erano delle prelibatezze. Tutta via Don Mazzolari invidiava quelle pere e provava a farsele regalare dalla nonna, non appena le condizioni umorali della vecchia Adelina sembravano propizie.
La nonna aveva infatti un carattere particolare, bisognava incontrarla nel momento giusto, altrimenti invece delle pere ti regalava qualche vecchio maglione da disfare e ti diceva entro quanti giorni le servivano le matasse di lana già lavate. I gomitoli, gratuitamente arrotolati dai malcapitati vicini, servivano per confezionare le coperte che venivano vendute durante la festa della Madonna d’Ottobre e il cui ricavato andava alla Caritas di Cremantello. Il dilemma non era da poco: cercare di farsi regalare le pere e rischiare di avere in cambio maglioni da disfare, oppure evitare i vecchi maglioni e non poter assaggiare le pere? Il rischio valeva la pena di essere corso. Le pere erano irresistibili.
Le vicende di Cremantello sono tante e molto curiose. La vita rurale e agricola, con tanto di seconda guerra mondiale alle porte, ha reso quel posto il potenziale canovaccio di un vero romanzo che prima o poi qualcuno scriverà.
Tra le tante stranezze, vicende e curiosità che ho sentito raccontare su quel borgo, quella che mi fa sempre sorridere quando ci penso, è il nome dei vicini di casa della nonna Adelina. Si chiamavano Betulla e Tomeo e tutti li chiamavano Tulla e Teo. Da dove venissero quei due nomi esattamente non si sapeva e nemmeno ci si spiegava come due persone, con nomi del genere, avessero potuto sposarsi e vivere insieme serenamente. Ma si sa, la vita reale è molto più bizzarra della fantasia. Ciò che riusciamo a inventare assomiglia quasi sempre a qualcosa che abbiamo già visto e sentito, che fa parte della nostra cultura, del nostro patrimonio genetico. Ciò che veramente è, può davvero stupire. Tulla e Teo erano veri, chi mai avrebbe potuto inventarsi nomi del genere. Nessuno aveva chiaro il numero civico dell’abitazione di questi due personaggi. Non serviva. Quando qualcuno d’estate andava in vacanza e mandava loro una cartolina da qualche località di mare, scriveva sull’indirizzo “Betulla e Tomeo – Cremantello (VA)” e la missiva arrivava senza colpo ferire.
Due nomi davvero strani: Betulla e Tomeo, due diminutivi un po’ meno strani: Tulla e Teo (come una coppia di due comici da prima serata in TV), due cognomi assolutamente inutili. Nessun’altro a Cremantello aveva quei nomi, a cosa serviva aggiungere i cognomi?.
Tulla e Teo facevano i macellai. Aprivano la bottega tre mattine la settimana, il lunedì era giorno di chiusura e il resto del tempo-lavoro era destinato a preparare la carne per la vendita al dettaglio. Comprare le vacche, macellarle, sezionarle, togliere le interiora, lavare la trippa, segare le ossa e preparare dei bei pezzi di carne da vendere. A Betulla piaceva cantare e lo faceva sempre quando andava a lavare la trippa (lo stomaco della mucca) al fosso. L’acqua corrente puliva perfettamente le interiora. Lo stomaco del bovino diventava bianco e luccicante, pronto da cucinare la domenica. Tagliato a listarelle e bollito con diverse verdure, era uno dei piatti poveri più apprezzati e particolari del paese.
La canzone che Betulla prediligeva quando andava al fosso a lavare la trippa era “La bella la va al fosso”. Una canzone popolare dell’area settentrionale del nostro paese, una delle più conosciute della tradizione lombarda. Ne esistono diverse versioni, molto simili tra loro.
Inizia più o meno così:
“La bella la va al fosso/ ravanei, remolazz, barbabietol e spinazz/ tre palanche al mazz,/ la bella la va al fosso,/ al fosso a resentà.”
[La bella va al fosso/ ravanelli, rape, barbabietole e spinaci/ tre soldi al mazzo,/ la bella va al fosso,/ al fosso a lavare i panni.]
Betulla invece dei panni lavava la trippa, ma tutto il resto coincideva.
La canzone prosegue narrando che “la bella che lava i panni”, perde nel fosso il suo anello e non sa come fare a recuperarlo. Mentre è indecisa sul da farsi, vede un pescatore e gli chiede se può ripescarglielo. In cambio offre al pescatore un “regalo” in natura.
“E quan’ l’avrai pescato/ un regalo ti farò. […]/Andrem lassù sui monti/ ravanei, remolazz, barbabietol e spinazz/ tre palanche al mazz,/ andrem lassù sui monti,/ sui monti a far l’amor.”
[E quando l’avrai pescato/ un regalo ti farò. […]/Andrem lassù sui monti/ ravanelli, rape, barbabietole e spinaci/ tre soldi al mazzo,/ andrem lassù sui monti,/ sui monti a far l’amor.].
Accidenti che ricompensa per il recupero dell’anello!, forse dipendeva dall’avvenenza del pescatore, sarà stato giovane e bello, e forse anche dall’importanza di recuperare l’anello, magari era l’unica quantità d’oro appartenuta alla bella lavandaia … o forse semplicemente quelle parole permettevano di comporre una rima necessaria al ritornello e, di conseguenza, la canzone era venuta così.
Sta di fatto che Betulla e Tomeo erano conosciuti e stimati macellai e nessuno ha mai saputo che ci siano stati tra loro screzi, malumori o strani amori clandestini. Di certo c’era solo quella canzone innocua che cantava Tulla e non stupiva nessuno. Sicuramente non Teo.
Ma si sa, gli interessi comuni, soprattutto in tempo di guerra, permettevano di mangiare e, in quanto tali, erano imprescindibili. Senza la pagnotta sul tavolo per molti giorni consecutivi, l’amore non si faceva né col marito, né col pescatore, né col garzone delle consegne, né con altri. Credo ci fossero diversi maschi “interessanti” che avrebbero pasteggiato volentieri con un po’ di ossa e di polpa di carne appena frollata. Quale poteva essere il cambio? La carne fresca sarebbe stata un bel modo per festeggiare come si deve la domenica. La guerra è la guerra, il rispetto del corpo è un grande lusso e, sicuramente tutte le volte che si può, una virtù.
N.d.A.
I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.
Sono fiorite le calle. Vedessi come sono belle, Annina! Ho tolto l’erbaccia dal nostro giardino e ho pure imparato a stirarmi le camicie. Sorridi, lo so.
Ieri sera, Alfio e Giuseppe sono venuti a prendermi e mi hanno “trascinato” al bar. Hanno detto che è dura, ma la vita continua.
Abbiamo giocato a tresette e mi sono divertito. Il tempo è trascorso veloce e l’angoscia si è placata.
Sto preparando gli arnesi: ami, esche e canne, perché domenica mattina andiamo a pescare. Una giornata all’aria aperta mi farà bene.
Alfio e Giuseppe sono i miei amici più cari, ci conosciamo da quando eravamo ragazzini e ci capiamo al volo. E’ bello poter essere se stessi, senza finzioni o forzature, soprattutto quando si soffre.
Mi manchi Annina e adesso che sono solo, la sera non riesco più a guardare il telegiornale. Mi fa paura, con tutte le sue brutture e le sue miserie.
Allora accendo la radio, cucino e penso a te.
Mi sembra di sentire la tua mano che mi accarezza e la tua voce dolce che mi sussurra:
“Coraggio Alfredo. La vita è bella!”.
Uno strano agosto, questo, vissuto in punta dei piedi sui ritagli della paura e delle insicurezze che ci hanno accompagnati nei mesi scorsi, ma anche su ciò che rimane dell’impellente voglia di andare avanti, di quella speranza che, in fondo e per fortuna, non ci abbandona.
Ricorriamo al nostro almanacco mentale per richiamare i ricordi belli di annate più fortunate, sorridendo al richiamo di luoghi, fatti e persone che abbiamo incrociato sulla nostra strada nello stesso mese, in un agosto diverso, quando tutto sembrava libero dal vincolo del timore, dell’ansia, della circospezione, degli interrogativi.
Se poi gettiamo lo sguardo a un passato comune, tra fatti ed eventi che hanno segnato molti dei grandi cambiamenti, scopriamo che l’ottavo mese del calendario non è affatto la parentesi di tempo in cui tutto riposa e viene ricondotto all’inattività, alla sospensione di quell’operatività legata semmai al resto dell’anno.
Agosto del 1904, Weed brevetta – e lo raccontiamo con un briciolo di ilarità – le catene da neve, mentre qualche anno più tardi a Le Mans in Francia, stesso mese e stesso entusiasmo, Wilbur Wright, in elegante abito grigio e berretto da golf, si libra in aria con il prototipo di aereo messo a punto con il fratello, per ben un minuto e 45 secondi. Nel secolo precedente, nell’agosto del 1891, Thomas Edison aveva brevettato il kinetoscopio, precursore del proiettore cinematografico, rivoluzionando lo spettacolo e l’intrattenimento, mentre nel lontano agosto del 1609, Galileo Galilei presentava al cospetto del Senato di Venezia il suo telescopio rifrattore, perfezionato da un modello olandese già esistente. L’alacre lavoro e la fervida inventiva dell’umanità non si fermano mai, nemmeno in agosto, come non si fermano i suoi aspetti estremi: la crudeltà demoniaca e la santità. Nell’agosto del 1934, dopo la morte del presidente von Hindenburg, Adolf Hitler si attribuì il titolo di Führer e Cancelliere del Reich, accentrando nelle sue mani i poteri dello stato, instaurando il regime totalitario che conosciamo. Nel periodo agostano del 1910 Padre Pio, destinatario di venerazione popolare di imponenti proporzioni, viene ordinato sacerdote e nel 1978 venne eletto pontefice Giovanni Paolo I, Papa Luciani, che segnò la storia della Chiesa con il suo brevissimo pontificato di 33 giorni e la sua prematura e sconcertante scomparsa. Volti che in quei giorni di agosto, epoca dopo epoca hanno impresso la loro eredità, scellerata o santa che sia, nel ricordo di oggi. E nel sangue finisce il 23 agosto del 1927 con la sentenza di morte e condanna alla sedia elettrica di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, anarchici italiani emigrati in USA. L’accusa è omicidio per rapina, un addebito fazioso, un verdetto pretestuale in un clima di ‘politica del terrore’ a sfondo politico, un’ingiusta condanna che suscitò proteste in tutto il mondo; un errore ammesso pubblicamente solo nel 1977 dal governatore del Massachusetts. Un agosto di sangue anche quello del 1990, che racconta dell’omicidio efferato della giovane Simonetta Cesaroni, accoltellata per 29 volte. Un delitto mai risolto, avvolto ancora nell’ombra, che ricorda molti femminicidi attuali. E poi ancora, l’uccisione di Libero Grassi (1991), un uomo tutto d’un pezzo che osò sfidare la mafia. Ed è proprio in agosto che viene ritrovata nel quartiere degradato di Whitechapel a Londra, la prima vittima del non identificato Jack lo Squartatore, Ann Nichols, a cui seguiranno altri macabri ritrovamenti tra agosto e novembre dello stesso anno, il 1888. Un’estate tragica, quella dell’agosto del 1956 nelle miniere di carbone di Marcinelle in Belgio, dove un devastante incendio produsse fumo asfissiante nei cunicoli, uccidendo 262 lavoratori, dei quali 136 immigrati italiani. Un agosto nero da ricordare con cordoglio anche quello delle stragi nella stazione di Bologna (1980) e dell’Italicus (1974), in un’Italia colpita al cuore che si confrontava con l’eversione e il terrorismo, in cui oggi commemoriamo le vittime. E’ agosto anche quando avviene la prima scalata del monte Bianco nel 1956 e due anni dopo viene intrapreso il primo viaggio in sommergibile, sotto i ghiacci del Polo Nord, da parte di W. Robert Anderson e il suo equipaggio, in una missione definita ‘impossibile’. Nemmeno le guerre si fermano ad agosto: la prima guerra del Golfo Persico (1990) e il bombardamento atomico di Hiroshima (1945). Ad alleggerire i ricordi legati a questo mese e conferire una nota di autentica bellezza, ci pensano gli avvenimenti di agosto datati dei secoli scorsi: nel 1483 l’inaugurazione della Cappella Sistina, nel 1778 la prima rappresentazione al Teatro alla Scala di Milano, nel 1793 l’apertura del Louvre, oltre che la più recente prima rappresentazione alla Mostra del Cinema di Venezia (1932). E ad agosto tocca anche l’onere e l’onore di essere depositario della proclamazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, testo elaborato durante la Rivoluzione francese, contenente una solenne elencazione dei diritti dell’individuo e cittadino. Un agosto da dimenticare, il nostro? No, un agosto da ricordare che comparirà negli annali, come tutti gli altri, contornato da una narrativa che creerà suggestioni, solleverà ricordi, scatenerà curiosità in chi vivrà altri tempi, intento a commentare volti mascherati, barchini strabordanti di esseri umani alla deriva, inondazioni e ondate di calore, inaugurazioni di ponti figli di un disastro, politici allo sbaraglio e cittadini alle strette. Ma la vita è bella, e l’estate dura poco. Andiamo avanti.
Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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I MIEI
i Miei
Quanto è stata dura…
Il cancro fu un’apnea incerta
Per tutto l’ossigeno che occorse
E chi resta fuori – come loro-
Con tutta la pena in gola
Si domanda
Ce la fara’
A rifiatare ancora?
MIA MADRE HA RETTO
mia madre ha retto
Non so come
La brutalità del nome
Cancro
All’unico figlio
Che ha potuto avere
È stata della speranza
La mia seconda incubatrice
MIO PADRE
mio padre non è cambiato
So che ha assimilato la bufera
Tagliando la legna del dolore
Per i miei futuri inverni
Da professore
Se la Pasqua è il transitus Domini, il passaggio di Gesù da noi al Padre, la festa dell’Assunzione ci ricorda il transito di Maria, la sua Pasqua: “il suo passare a ciò che non passa” direbbe Agostino. L’iconografia in Santa Maria in Vado ce la presenta come Assunta in cielo nel dipinto di Domenico Monio, sovrastante l’altare del presbiterio; mentre la sua incoronazione è resa da Carlo Bononi nel tondo al centro del transetto. Ma è nella cappella di fronte al battistero, nella parete di destra, che essa viene raffigurata appunto nel momento del suo transito. E’ il dipinto di Vittorio Carpaccio di cui in Basilica è rimasta una copia, mentre l’originale si trova in pinacoteca.
Nel raccontarci di Maria, gli Atti degli apostoli fissano un ultimo fotogramma della sua vita, mentre è raccolta in preghiera nel Cenacolo con gli apostoli in attesa della Pentecoste. Non si parla dei suoi ultimi giorni. Sappiamo solo dall’evangelista Giovanni che questi, sotto la croce, la prese con sé come un figlio la madre sua. A colmare questa lacuna ci hanno pensato però i testi non canonici scaturiti dalla venerazione per la Madre di Dio, che riportano tradizioni antichissime, fino a descrivere il momento in cui la Vergine Maria si addormentò (c.d. dormitio virginis) e il suo corpo fu portato in cielo, assunto tra la gloria degli angeli accanto al Figlio risorto.
Transiti e dormizioni divennero così narrazioni che, dal V° secolo, ispirarono padri della chiesa, scrittori medioevali, poeti e pittori. Ne abbiamo una testimonianza meravigliosa nell’affresco, peraltro intatto, che si trova nel monastero di Sant’Antonio in Polesine, dove la Madonna dormiente, circondata dagli apostoli, è sovrastata dal Cristo che l’attende in cielo, reggendo in braccio ‒ sublime chiasmo teologico ‒ una Maria bambina.
Perché l’Assunta dormiente fa ricordare proprio l’episodio evangelico in cui Gesù ridà la vita alla fanciulla dormiente, la figlia di Giairo: «Entrato, disse loro: “Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme. … Prese la mano della bambina e le disse: “Talità kum”, che significa: “Fanciulla, io ti dico: àlzati!”. E subito la fanciulla si alzò e camminava», (Mc 5, 39; 41). Forse per questo, nel dipinto del Carpaccio, Maria è piccolina davanti al Figlio che l’ha risvegliata dalla morte, rialzata e posta accanto a sé dopo il suo cammino terreno.
Il cammino di Maria è, in fondo, la sua essenza: espressione di una maternità generatrice di grazia anche nel cammino della nostra fede. Lo sottolinea il Concilio che ha ricordato la “peregrinazione di Maria”, lei pure discepola alla sequela di Gesù in ascolto della sua parola: “anche la beata Vergine avanzò nella peregrinazione della fede e serbò fedelmente la sua unione col Figlio sino alla croce” (Lumen gentium, 58). Perché la fede è proprio questo andare, di giorno in giorno, di domenica in domenica, portando con sé la Parola e la sua beatitudine.
Beata te! Beata tu che hai creduto al fatto che la Parola di Dio si compisse nella tua vita nella forma di una maternità e così la portasse a pienezza. E lo stesso vale per la nostra fede. La beatitudine di chi crede che la Parola del vangelo compia la nostra umanità; compia la nostra vita, nonostante sia una vita piena di tanti vuoti, soste forzate e situazioni mortificanti; davvero la beatitudine della fede consiste nell’avanzare come Maria verso l’ultima Pasqua, nel ricevere, come Maria, la pienezza dell’ultima Pasqua.
Mi ritornano in mente le parole del vescovo Luigi Maverna, il quale parlava del “dramma della fede” proprio alludendo anche al suo percorso di malattia e sofferenza: “La fede, che nel suo affacciarsi, insinuarsi, ed emergere nella coscienza umana, è tanta fonte di travaglio, di tormento, di dolore e poi di desiderio e di gioia, ed ha come punto di arrivo la Pasqua: la conoscenza pasquale” (Lettera sulla fede 1994).
Non siamo molto avvezzi al libro dell’Apocalisse di Giovanni, malgrado sia un libro scritto per consolare i cristiani nella persecuzione, a noi uomini di oggi risultano molto difficili da cogliere i suoi simbolismi, le lotte, le distruzioni planetarie, i conflitti senza pietà che vi si raccontano. Ma ci può aiutare a comprenderlo il considerare come questo libro è strutturato: come una liturgia, quella dell’assembla domenicale raccolta nella celebrazione pasquale nel giorno del Signore. Potremmo infatti dire che essa nel cono di luce del libro dell’Apocalisse intravede in anticipo e celebra − la Chiesa celebra − l’Ultima Domenica, l’Ultima Pasqua, vittoriosa, di tutti.
Come nella nostra assemblea domenicale c’è l’esortazione alle comunità a ravvivare il loro amore e a transitare la soglia della porta sempre aperta della missione; c’è il libro della vita sigillato che il Signore Gesù presente in mezzo ai suoi riapre con la sua Parola, lo interpreta, rimuovendo i sette sigilli della sua incomprensibilità e mostrando la fine, non come una catastrofe, ma come vittoria sul male, come uno sposalizio tra cielo e terra. C’è la presenza dell’Agnello immolato trafitto ma vivente, in piedi segno di speranza nella persecuzione a cui attesta una fine: “Non avranno più fame e non avranno più sete, non li colpirà più il sole né alcuna arsura; perché l’Agnello che è in mezzo al trono li pascerà e li guiderà alle sorgenti delle acque della vita; e Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi”, (Ap 7, 16-17). Vi è pure l’Assunta la donna vestita di sole, la chiesa stessa che nella fede e nelle doglie del parto, nel travaglio della storia, continua a genera Cristo al mondo. La promessa dell’eliminazione della morte e della sua coorte: “non vi sarà più maledizione, non vi sarà più notte, e non avranno più bisogno di luce di lampada né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà” (Ap 22, 3-5).
La sconfitta dello strapotere della “bestia” e dei suoi alleati imperiali introduce la visione della Gerusalemme celeste la nuova umanità che scende dal cielo come una sposa il giorno delle nozze. È questo che noi facciamo ogni domenica: lasciamo entrare il futuro di Dio, il suo sogno, nella peregrinazione della nostra fede; anticipiamo, nell’oggi caotico, dolorosissimo, delle vicende umane, questa primizia del compimento che è l’eucaristia, farmaco di immortalità diceva Ignazio di Antiochia.
C’è un poesia di Mariangela Gualtieri che si sofferma su questo nostro travaglio del vivere e del credere, un questionare anche con “l’azzurrata Maria”, in sua compagnia, un chiedergli ragione se anche lei è passata attraverso “l’assillo che non molla”, dei distacchi generativi di una bruciante e sempre riaffiorante nostalgia e del male del vivere: quello dei pensieri e delle voci come sciame che affolla la mente, che sporcano i sogni come la neve quando cade a terra ed è calpestata nel fango.
Nello sguardo pacificato dell’Assunta dormiente, provvidenza di amore, sarà ridonata integrità e immacolatezza a ciò che non lo è più. Già ora nel suo ricordo, anche oggi, “i capelli sfiniti si mettono a dormire sul cuscino” e le ingombranti parole e voci assordanti ridotti a polvere sotto il letto, aspettando domani.
Me li pulisci tu i pensieri? Che sai di questo assillo che non molla? Del sonno sporco fitto d’un vociare circolare che soffia le parole nel padiglione. Che sai tu azzurrata Maria? Dimmi che lo sai. Che tu sai, che l’hai provato che tu l’hai mondato tutto il pensiero ne hai fatto Un’aria di colline nuove pacificata visione così che il cuore ha traboccato d’un silenzio subacqueo fino al grigio disteso cerebrale. Fino ai capelli sfiniti che ora si mettono a dormire sul cuscino e tutte le parole sotto il letto virano in polvere. Domani spazzeremo – Maria.
(Domande a Maria II, in Quando non morivo, Torino 2019, 23).
Con nostalgia e umorismo Iosè Peverati descrive un luogo d’incontro di un tempo, fra amici e famigliari, ovvero in “cumpagné”. I gesti rituali del “mlunàr”, dalla scelta del cocomero ai “”baricòcal” sonori per valutarne la maturazione, agli abili colpi di coltello, così come gli arredi del “caśón”, richiamano con precisione l’atmosfera e l’attesa per il momento conviviale.
L’autore passa dall’esilarante atteggiamento degli avventori di una volta agli ironici suggerimenti delle buone maniere di oggi a tavola, concludendo con una malinconica riflessione.
La mlunàra
V’arcurdèv, ragazìt, quand una volta
as andava a pasàr i dopmeźdì
‘vśin i caśùn ad cana dla mlunàra,
o la sira, da prima ch’a fés scur
fin dop ónd’s ór o meźanot pasà?
Agh iéra un tavulón d’ass iηciuldà,
soquànt baηchéti fati źó ala bona
e dill scaraη stabià coi… zucatìn.
Al mlunàr al starnéva na laηguória,
al la pasàva da na man a cl’altra
com s’al la pśés o s’al źughés a bala,
algh cazàva na ciòpa ad baricòcal
par védar se la iéra źa bunìda,
po’ algh fundàva uη curtèl col maηgh ad legn
par fàragh un tasèl làragh dó dida:
al la taiàva ad śbiès, tiràndal fóra
e al la mustràva a tuti, pin d’argói,
génd la solita fraś: “Ohi, taglio rosso!”.
E nu santà a cavàl d’uη santarìn,
una meźa laηguória par da dnaηz,
coη na bela guciàra e uη grustìn ‘d pan
as gudévn a magnàrin di bei tòch
e po’ i aηmìn ai spudàvan in tera.
Agh iéra quìi che spés i s’iηgusàva
e chi s’a sbrudaciàva da par tut:
aηch s’as a stava atenti d’aη spurcàras
par quant as fés, an as vaηzàva sut.
Mo dop, chi’s vléva dar na riηfrescàda
l’andava int al canàl par na nudàda.
Int la staśón d’istà, s’agh fén a ment,
a gustàvn ill laηguóri aηch stand iη pié
però as gh’aveva al mèi di cundimént
ch’al iéra quél ad star iη cumpagné.
Adès che la mlunàra l’è scadùda
tut’ill laηguóri il viéη cargà sui camioη:
śbiàvdi… ad vargógna il vién distribuìdi
int i supermarcà, dai frutaró
e in ogni ristorant, indù ch’il s’magna
par strùsi o par “dessert” iη ftiη sutìli
con i curtlìn e i furzinìn d’arźént;
gli àηm il s’a spuda con delicateza
int al pàlum dla maη coη sentimént
e il s’fa śbliśgàr coη finta indifaréηza
sóra l’urdlìn dal piàt o uη po’ più in déntar.
Agh è la nuvità seηza i aηmìη
mo com as putrà far, dop, par sumnàril?
Ala fiη, malcuntent, spés anuià,
la fila di aventór i salta sù
e i paga al cónt ch’l’è sémpar bel salà.
Purtròp la cumpagné l’as è smarìda,
tut’i zérca ad muciàr dla baiucàra
chi’d za chi’d là… an as tgnuséη gnaηch più:
ognuη peηsa par lu e, d’altra part,
col temp ach fa la vita l’è ‘csì cara…
Aηch la laηguória ch’l’aη custàva nient
al dì d’iηquó la costa purasà.
Che bei i nòstar temp, ala mlunàra!
La cocomeraia Ricordate, ragazzi, quando un tempo / passavamo l’intero pomeriggio / alla capanna del cocomeraio / fino alla sera, oltre l’imbrunire / oppure a mezzanotte già suonata? / C’era un tavolo grezzo di quattr’assi, / alcune panche fatte rozzamente / e sgabelli abbozzati con i tronchi… /
Il gestore sceglieva un bel cocomero, / come per gioco da una mano all’altra / lo palleggiava, quasi soppesandolo, / gli schioccava una serie di colpetti / per stabilirne la maturazione, / vi affondava la punta di un coltello / praticando un tassello di due dita, / lo tagliava di sbieco ed estraendolo / lo proponeva con ostentazione / esclamando orgoglioso: “Taglio rosso!”. /
E noi, a cavalcioni di sgabelli / con un mezzo cocomero davanti / un robusto cucchiaio ed un crostino, / ne gustavam pezzetti deliziosi / e sputavamo in terra i semi scuri. /
Spesso qualcuno si ingozzava in fretta / altri si sbrodolavano di brutto; / ma anche stando attenti a non sporcarsi / era difficil rimanere asciutti. / Ma poi, per salutare rinfrescata, / ci tuffavamo tutti nel canale. / Ed ogni estate, se ricordo bene, / gradivamo i cocomeri anche in piedi, / però c’era il miglior dei condimenti, / ch’era quello di stare in compagnia. /
Or si va meno alla cocomeraia, / i frutti sono messi su autocarri: / pallidi e… smorti son distribuiti / ai fruttivendoli, ai supermercati, / ai ristoranti dove si consumano / in fette trasparenti, per dessert, / con posatine lucide d’argento, / poi si sputano i semi dolcemente / sul palmo della mano con bel garbo / e si fan scivolare di nascosto / sul margine del piatto, al lato opposto. /
I nuovi sono pure senza semi, / ma come li potremo seminare? / Alla fine, annoiati e malcontenti, / se n’vanno gli avventori ad uno ad uno, / saldando conti sempre più elevati. /
Disperse le combriccole di amici, / ognuno è attento a cumular quattrini / quand’è possibile. Non ci si conosce; / si pensa più a sé stessi e, d’altra parte, / il costo della vita è lievitato / ed i cocomeri che costavan poco / aumentano di prezzo giornalmente. / Che bella un tempo la cocomeraia!
Tratto da:
Iosè Peverati, La giostra : poesie in dialetto ferrarese e in italiano, Bologna : Ponte Nuovo, 1996.
Iosè Peverati (Modena 1927)
Altre notizie biografiche sull’autore nel Cantóη Fraréś del 28 giugno 2020. [Vedi qui]
Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce il venerdì.
Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui]
Cover: Stadiéra con meloni: foto di Marco Chiarini
Dare ragione a ciascun genitore a turno è una strategia che tanti bambini sviluppano quando i genitori sono divisi e in aspro conflitto tra loro.
Il figlio allungabile
Sono un figlio molto abile,
sono allungabile.
Coi dispetti che mastico
son diventato elastico
e quando mi sposto
dalla mamma al papà
io non mi riconosco.
A ognuno mostro metà
del loro figlio conteso.
Ma dico, per chi mi avete preso,
per un Cicciobello?
E sul più bello
comprendo il fattaccio:
i genitori, quando si separano,
gli dai un dito e si prendono un braccio.
Il compiacimento riduce il conflitto. In questo modo i bambini si modellano sul genitore che li guarda in quel momento, per poi trasformarsi nel passaggio dall’altro. Il prezzo per questi piccoli Zelig è evidente: non riuscire a sviluppare una propria personalità, non sapere più qual è la propria posizione di fronte a un bivio qualsiasi.
CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia tutti i venerdì.
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Coronavirus. Discoteche, nuova ordinanza della Regione: capienza ridotta del 50% e obbligo di indossare sempre la mascherina. Chiusura immediata del locale non appena accertate le infrazioni. Bonaccini e Corsini: “Stretta per evitare che il contagio rialzi la testa. Servono comportamenti responsabili”
Il provvedimento in vigore dalle ore 13 di domani, 15 agosto, vale per quelle all’aperto ora in esercizio in Emilia-Romagna sulla base delle norme anti-contagio decise alla ripresa
Nuova ordinanza della Regione per contrastare il Coronavirus. E’ alla firma del presidente Stefano Bonaccini un provvedimento – in vigore dalle ore 13 di domani – che affronta il tema discoteche. Naturalmente si parla di quelle ora in esercizio in Emilia-Romagna, cioè quelle che hanno le caratteristiche per essere aperte sulla base delle norme anti-contagio decise nelle settimane scorse, alla ripresa. Si ricorda infatti che le discoteche ‘al chiuso’ non hanno riaperto.
L’ordinanza prevederà che il numero massimo di persone che possono entrare non sia superiore al 50% della capienza massima normalmente autorizzata. E prevede l’obbligo di indossare sempre la mascherina all’interno del locale, compreso durante il ballo, ammesso, va ricordato, solo in presenza di piste all’aperto.
Altra novità che sarà introdotta dall’ordinanza è la chiusura immediata del locale, senza alcun rimando ad ulteriori pratiche amministrative, se viene accertato dagli organi di vigilanza il mancato rispetto delle norme fissate dall’ordinanza stessa.
“Vogliamo evitare comportamenti che permettano al contagio di rialzare la testa- affermano il presidente della Regione, Stefano Bonaccini, e l’assessore al Turismo, Andrea Corsini-. Per questo è necessario rafforzare prevenzione e controlli, un impegno che va di pari passo con lo straordinario lavoro che i servizi sanitari stanno facendo nei territori grazie all’azione di tracciamento dei casi di positività al virus”.
“Una stretta- concludono il presidente della Regione e l’assessore al Turismo- utile anche a evitare che divertimento e svago possano lasciare spazio ad atteggiamenti irresponsabili, anche solo di pochi, che possano vanificare il lavoro di questi mesi. A tutela dei giovani stessi, ragazzi e ragazze, che devono sapere di non essere immuni o al riparo dal virus”.
“Tu sei colui che scrive ed è scritto.” Edmond Jabès
Terna estense
I
Poi si ha un bel dire, ma infine è qui che si torna
sempre, anche solo con il pensiero:
le quattro torri, i Diamanti, la meridiana
equinoziale dei Prioni, la Certosa
che mette a dura prova l’ateismo
con la bellezza; e l’orto di là, in cui tutti siamo
stranieri. E le quattro lune di Giove
tra il Capo delle Volte e Centoversuri.
Ma certo, è perché qui eravamo giovani,
penso guardando fuori quando il treno
oltrepassa la Darsena e il Volano
e passo il ponte e la punta di San Giorgio
Porta d’Amore Assiderato i baluardi
Salinguerra e contrada della Morte
poi detta Ghisiglieri, in cui misuravo
la mia altezza su quelle pietre d’angolo
di là dall’occhio della volta.
Ah ma vuoi dire, tu stai in una città
che uscite senza ombrello, che la pioggia
inizia quando terminano i portici:
poi però torni qui,
dove l’ombrello è meglio se ce l’hai
e di rado hai del tempo da passare
nella bellezza, ma poi ti porti via
come un hangover che dura tre giorni
la sindrome di Stendhal, e poi ritorni
per qualche ora e dopo riprendi il treno
oppure la Porrettana, e verso Gallo
o il metano già ti senti come
come dire, un vagabondo del Dharma.
II
In questa foto dieci per quindici si vede
l’ala dell’Ippogrifo che sorvola
la piazza verso le sette del mattino:
il listone, il castello, la Giovecca,
piume. Ignoriamo se tornasse
dalla luna o da un giro sui sobborghi
corrosi dalla crisi, con le crepe
del terremoto del duemiladodici;
poi è planato fuori porta, dove molti
secoli fa correva il fiume (nostra prima
radice) tra vecchi capannoni e buche.
Astolfo ha tagliato a piedi per i campi,
berretta storta, sigaro e mani in tasca –
certo, ci sarebbe voluta la tua Nikon.
III
Notte viene ogni notte, notte viene
per tutti. Siamo tutti parenti e non solo
qui in questa piazza, campo catino abside,
in questo accendersi di luci contro
la sera, contro la notte che viene.
Dunque era questa la capsula del tempo
che dicevamo da ragazzi, da nerd, da lettori
di Bradbury. Una capsula del tempo mezza rotta,
collabente in alcune particelle
immobiliari e con lavori di ripristino
malfatti, eppure ci si vede dentro
e lo spazio è più di quanto immaginassi,
e il tramonto è un re cremisi.
E poi, guardando meglio,
c’è come una felicità quasi
inumana,
che non mostra legami con gli eventi
che sta lì come il corpo, come i coppi
e lo scalone in cui ci sono tutti
i nostri passi.
Come un contener dentro moltitudini
qui in piazzetta. E c’è ancora il ragazzo
che acchiappa chi si è perso chi sta cadendo
giù da un campo di segale, solo che non lo vedi
ora, come il fienile che si sgretola,
la casa vuota, il prato fuori porta.
Silvia Tebaldi, ferrarese, a Bologna dal 1985. Ha scritto un romanzo, Vuoto centrale (pubblicato nella collana Walkie Talkie diretta da Luigi Bernardi, Perdisa Pop, 2009) e alcuni racconti, pubblicati in antologie (la più recente è Deaths in Venice, a cura di Laura Liberale, edita da Carteggi Letterari nel 2017) e online (su «Poetarum Silva», su «Argo» e su «Malgrado le mosche»). Ha lavorato in diversi uffici, biblioteche e ospedali. Fotografa, apprendista nella scrittura in versi, calligrafa e acquarellista a tempo perso.
La rubrica di poesia Parole a capo esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. .
Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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MI DICEVA LA SIGNORA
lo sai cosa mi pesa?
Questa testa a ciuffi di calvizie
E questi venti chili
Di pancia tesa
Che non vanno giù
Sono guarita e offesa
Mi guardo
E non mi riconosco più
Dopo la chemio
E non l’accetto
Mi diceva la signora
Dal bel viso
Accanto
Al mio solito letto
LA MIA FATICA
anch’io ho fatto la mia fatica
A digerirmi così
Senza capelli
Che l’impiegata mi disse
Che quasi non mi riconosceva più
Tanto ero cambiato
Dal collo in su
I miei boccoli
Erano il passato
Lei l’aveva detto con franchezza
Mi aveva misurato
Con la mia debolezza
SEI SOLO E PRECIPITI
sei solo e precipiti
Con il tuo mondo
Fino a che avverti
Il baratro
È senza fondo
Tra una bomba d’acqua e l’altra, tra epiche montagne di spaghetti allo scoglio, tra il su e giù dei vacanzieri in infradito e polpacci in vista, ingordi del passeggio sul trascurato e discusso viale Carducci epicentro della popular-movida, succede che i miti e rassegnati pseudo-radical-chic-noi, in lotte perenni con il dirimpettaio che esonda la strada con acqua e detersivo, proibitissimi in suoli pubblici, stiano cuocendo le tagliatelle da servire con vero pesto alla genovese agliato, quando, d’improvviso, dal fornello si alzano lunghe, fumose, giallastre lingue di fuoco. All’unisono risuona il verdetto: “La bombola del gas è finita!“. Immediatamente ci si precipita a telefonare all’unico distributore in zona. Risponde una voce severissima che annuncia l’arrivo: ore 16. Mi metto in moto un quarto d’ora prima e arriva il bombolaro. Il deposito delle bombole non è al piano, ma nel cortiletto dietro, chiuso da una saracinesca che impedisce, come del resto si è avverato, l’accesso a chi è in vena di furti. Chiedo se per cortesia mi aiuta ad alzarla, ma il gentiluomo con aria severissima mi spara un “niet!” degno d’altri tempi, visto che il suo è un altro lavoro che non contempla questi abbassamenti lavorativi. Umiliato e imbarazzato penosamente m’attacco non al tram ma alle sbarre. Inutilmente; finché il bombolaro sbuffando m’aiuta. Con fare rabbiosetto mi cambia velocissimo la bombola e sentenzia: “40 euro”. Gliene allungo 50 e ancor più brontolando scava tra i soldi che estrae dalla tasca finché trova il decino di resto e sparisce, ammonendomi di lasciare la saracinesca alzata se non riesco a chiuderla. Penso frattanto “Ma la ricevuta? Che sia un accordo tra impresa e amministrazione non lasciarla?”. Un parente che di queste cose s’intende sentenzia che siamo in regime di monopolio, lasciandomi a meditare.
Ai ‘laidensi’ l’ardua sentenza.
Ci arrischiamo in spiaggia dopo giorni e finalmente raggiungiamo la postazione, helas! accanto al campo di beach volley. Una troupe di ragazzini gioca e condisce il ritmo con un infilata di bestemmie che fa rimbombare le orecchie. Indifferenza totale da parte dei vicini d’ombrellone in parte, immagino, parenti. Alla più sonora chiamo il bagnino, che imbarazzato mi spiega che ha provato a zittirli senza successo. Chiedo allora di cambiare posto, ma nel tempo ferragostano risulta la mossa una pia illusione. Mentre digerisco la sconfitta arriva il mio pronipotino chiamato Sapientino: otto anni e trionfante mi annuncia che in settembre diverrò zio di un peloso, Benny, che spesso verrà lasciato da noi. Si aprono i cieli, squillano le trombe trionfali e mi sento felice. Sapientino sorride sornione, esibendomi le prove fotografiche dei genitori del cocker e della tenerissima bellezza di lui. Ci guardiamo negli occhi e riprovo dopo tanto tempo il sapore della felicità e nel cuore risuonano i versi di Eusebio-Montale:
Felicità raggiunta si cammina per te sul fil di lama. Agli occhi sei barlume che vacilla al piede, teso ghiaccio che s’incrina; e dunque non ti tocchi chi più t’ama.
Mi alzo indifferente alle provocazioni delle ‘sciacquette’, che come un mantra ritornano dal mare borbottando bestemmie.
Per fortuna ancora di giovani sani di cuore e di mente ce ne sono tanti.
“La poesia dice troppo in pochissimo tempo, la prosa dice poco e ci mette un bel po’. In ogni caso io godo nel minacciare il sole con una pistola ad acqua”.
(Charles Bukowski)
SOGNO AD OCCHI APERTI
Ne abbiamo appena fatto uno di sogni ad occhi aperti
Che tagliano la strada a quelli della notte
Tolgono la mente dai loro piedi
E senza cielo non hanno aria
Per una volta almeno
Gli occhi aperti
Hanno vinto su quelli chiusi
Che meraviglia
Forse in segreto si sono collusi
Prima abbiamo brindato alle nostre poesie
A noi
Alle nostre vite
Poi abbiamo brindato a noi
Alle nostre vite
Alle nostre poesie
Poi abbiamo brindato
Alle nostre gioie
Alle nostre follie
A tutte le vacche che non sono nere
Poi ci siamo ubriacati
E con l’ultima bottiglia
Ce ne siamo andati
Dovevo spiegarti Hegel
Dentro al saccoapelo
Tu entrata vestita perché hai freddo
Io un po’ meno
Perché mi va di sentire il contatto su tutta la pelle
In un groviglio di gambe e di stelle
Dopo se ci può essere un dopo
Dentro al saccoapelo e i frammenti teologici giovanili
Col prosecco che richiama
Altro prosecco
E il dubbio che l’infinito abbia bisogno di vino nero
Sempre per le vacche
Ma anche per davvero
Tu scegli i vestiti a seconda di come mi vedi
Io me li tolgo a seconda se ti vedo
E così cominciamo a ridere
Lo facciano anche da sobri
Cominciamo a ridere
A ricordare
Tutte le nostre storie
A non ricordare bene
Piovono frammenti di luce
Le tue azioni di disturbo
Sono diventate dolcissime
Serenate
Alla nostra notte
Roberto Dall’Olio (1965), bolognese, docente di filosofia e storia al Liceo Classico Ariosto di Ferrara. Ha pubblicato diversi volumi di poesia. E’ del 2015 il poema “Tutto brucia tranne i fiori” Moretti e Vitali editore- nota di Giancarlo Pontiggia postfazione di Edoardo Penoncini – con il quale ha vinto il premio Va’ Pensiero 2015. Con l’editore L’Arcolaio ha pubblicato il poema “Irma” con note di Merola, Muzic, Sciolino, Barbera e la raccolta di poesie “Se tu fossi una città” con nota di Romano Prodi. Vive a Bentivoglio nella pianura bolognese ove è presidente della sezione locale dell’A.N.P.I.
La rubrica di poesia Parole a capo esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. .
Secondo me c’è ancora qualcuno che pensa che sbattere in prima pagina il curriculum degli illeciti del Vicesindaco di Ferrara possa far cambiare opinione a chi l’ha votato. Come se cercare difottere schei al Fisco e non pagare l’avvocato fosse incompatibile con un incarico istituzionale.
Ma scusate. Un individuo diventato una specie di affettuosa macchietta dell’italiano di successo, al punto da essere chiamato solo col suo nome proprio (Silvio) sia dai sostenitori che dai detrattori, ha iniziato la sua carriera da imprenditore con fondi e garanzie della banca Rasini, dichiarata dagli stessi mafiosi come la banca che riciclava il denaro sporco (ci ha lavorato il padre, di Silvio); attraverso un suo plenipotenziario siciliano, collezionista di libri antichi e frequentatore di uomini della Cupola, ha stipulato un patto di reciproca protezione con la mafia corleonese, facendosi proteggere personalmente da un certo Mangano, ospitato come stalliere a casa sua ad Arcore e definito da Paolo Borsellino come una delle teste di ponte della mafia siciliana verso il Nord Italia; ha occupato abusivamente frequenze televisive, facendosele sanare ex lege; è uscito indenne da quasi tutti i processi a suo carico (tranne uno, per frode fiscale, per cui è stato condannato) perchè prescritto, amnistiato o perchè il reato è stato depenalizzato in Parlamento dall’opera delle sue squadre di avvocati/parlamentari; ha utilizzato le prestazioni sessuali di ragazze anche minorenni (non lo dico io, lo dice la sua ex moglie) allestendo le sue festicciole, pare, anche in sedi istituzionali; è stato uno dei primi tesserati alla loggia P2 di Licio Gelli, mandante della strage di Bologna. A guardare le accuse a cui è sfuggito – nel senso che non ha scontato la pena – altro che persecuzione giudiziaria delle toghe rosse, viene da dire che ha avuto dalla sua buona parte della magistratura giudicante. Costui è stato Presidente del Consiglio per complessivi dieci anni, superando Andreotti e superato per durata solo da Giolitti e Mussolini. Con il suo impero editoriale costruito su un colossale conflitto di interessi (a un certo punto agito direttamente, da capo del governo), costui è il personaggio che ha modificato in maniera più profonda, capillare e duratura il costume e la cultura di massa dell’italiano, con una notevole sagacia, oltre che con una inarrivabile disinvoltura. Il partito da lui fondato è stato sbeffeggiato dall’intellighenzia anzitutto per il nome scelto (Forza Italia, simile ad un coro da stadio), dopodichè è arrivato a prendere più del trenta per cento dei voti degli italiani, che sono andati direttamente a lui, perchè Forza Italia non esiste senza di lui.
L’Italia è il paese che, per una volta (di solito accade il contrario), ha anticipato gli Stati Uniti d’America, lanciando la moda del tycoon al potere. Anche negli USA molti lo ritenevano impossibile, eppure sono stati capaci di eleggere Presidente uno i cui hotel e casinò sono finiti per sei volte in bancarotta tra il 1991 e il 2009, in gran parte a causa dell’incapacità di saldare i debiti contratti o di rinegoziare i debiti con le banche, i proprietari e i piccoli creditori. Uno che al settimanale Newsweek nel 2011 dichiarò: “Ho sempre giocato con le leggi sulla bancarotta – vanno molto bene per me”. Uno che disse a tal proposito: “Ho utilizzato le leggi di questo paese per pagare i miei debiti… Be’, abbiamo una compagnia. Metteremo tutto a bilancio. Negozieremo con le banche. Faremo un grande affare. Sapete, è come al The Apprentice. Non è un fatto personale. Sono solo affari”.
Troppa gente continua ad ignorare la saggezza di EnnioFlaiano, che affermò: “nel nostro paese la forma più comune di imprudenza è quella di ridere, ritenendole assurde, delle cose che poi avverranno”. In un panorama simile, continuo a stupirmi del fatto che ci sia molta gente che non capisce come un sedicente disabile che corre dietro a disabili veri, che festeggia per piazza stile “è arrivato l’arrotino” in pieno lockdown, che parcheggia l’auto regolarmente sotto il Comune, che filma la Jacuzzi che si è fatto montare nella casa popolare che continua ad abitare, nonostante si attribuisca un lauto indennizzo come amministratore – pignorato dall’ Agenzia delle Entrate – possa continuare a fare il Vicesindaco della città. Ma signori, quello è il suo posto. Avesse osato di più, a quest’ora sarebbe presidente di Regione, un Formigoni, un Galan. E’ questione di proporzioni.
Purtroppo stiamo tutti contribuendo a forzarle, queste proporzioni, attribuendo a questo individuo la forza che non ha. Noi gliela diamo, questa forza – ed io contribuisco con questo pezzo una tantum, promettendo a me stesso che non lo farò più. Lodi avrebbe preso tante preferenze: no, ha preso un migliaio di preferenze su centomila aventi diritto, circa un ferrarese su cento. Certo, è quello che ne ha avute di più, ma perchè tutti gli altri candidati ne hanno prese di meno. Un ferrarese su cento ha espresso la sua preferenza per il piccolo guitto da sagra paesana, e allora? Quando un signore di questa statura, dall’alto delle sue mille preferenze, si guadagna, di rimbalzo, articoli di giornale sulla stampa francese e inglese, monologhi pseudosatirici dei neopolemisti italiani alla moda (tendo a diffidare di chi costruisce la sua carriera esclusivamente sullo sputtanamento altrui), servizi di prima pagina sui magazine di approfondimento in prima serata, vuol dire che è proprio il mondo dell’informazione a fornire a questo soggetto il propulsore per lanciare i suoi “messaggi” più lontano di quanto potrebbe fare con le sue sole mani. E’ l’informazione malata e ridicola a conferirgli quei superpoteri da supereroe dei bar, e la cosa più grave è che uno dei megafoni più efficaci della sua “attività” glielo fornisce l’informazione “progressista”, amplificando le sue gesta a dismisura, come se questo potesse spostare minimamente l’opinione di qualcuno che gli ha espresso la sua preferenza. Nessuno che venga sfiorato dal sospetto che chi gli ha espresso la sua preferenza lo abbia fatto esattamente perchè costui è fatto così. Che senso ha, mi chiedo, dirsi tanto popolari quando si consegna, ingenuamente, nelle mani dell’avversario una delle armi mediatiche più basiche della pop art? Andy Warhol diceva che non devi leggere la stampa che ti riguarda, devi pesarla. In questa città ci sono almeno due personaggi che non hanno lo stesso spessore culturale, ma che accomuno per la capacità di volgere a proprio favore gli strali dei nemici, nutrendosi dell’ossessiva e scandalizzata attenzione altrui. Credo che chi si sente da un’altra parte dovrebbe dichiarare quali sono le sue ragioni e proposte alternative, per il presente e il futuro. Credo che chi è stato dall’altra parte, e ha perso, dovrebbe chiedersi se far saltare in aria ventunomila risparmiatori senza muovere un dito (e non parlo del sindaco Tagliani), anzi talora rivendicando la bontà dell’operazione, non sia stato il perfetto brodo di coltura del Masaniello della Bassa.
Difendere la capacità di spesa dei lavoratori. Perché la quota salari è stata erosa dalle necessità della globalizzazione
Dagli anni ’80 la globalizzazione ha distrutto il mercato interno, assolvendo una necessità del capitalismo finanziario. A pagarne il prezzo, in termini di domanda aggregata e di pil, è stata la quota destinata ai lavoratori e alla classe media e a sopperire a tale mancanza è stato lo Stato. La teoria dei bilanci settoriali spiega che i soldi possono venire solo da tre ‘dimensioni’ economiche, ovvero dall’estero (esportazioni maggiori delle importazioni), dal bilancio delle famiglie e delle imprese e dal bilancio dello Stato. Quindi non risulta particolarmente complicato, osservando il grafico seguente, capire chi abbia subito scelte così devastanti per gli equilibri interni di una nazione.
Il grafico che segue è tratto dai lavori di qualche anno fa del prof. Alberto Bagnai
E porta ad interessanti considerazioni, sempre anticipate anni orsono dallo stesso prof. Bagnai:
La quota salari si impenna prima nel 1963, a seguito di un primo ciclo di lotte operaie che si associano anche a una fiammata del tasso di inflazione, che raggiunge il 5%. L’inflazione accelera nuovamente nel 1969, a seguito dell’autunno caldo, che porta pure lui a un aumento dell’inflazione. Segue, nel 1974, l’esplosione dell’inflazione dovuta al primo shock petrolifero. In quell’anno il salario reale smise di crescere, perché operai e sindacati erano stati colti di sorpresa, e la quota salari si flesse leggermente. Poi, dall’anno successivo, le lotte che portarono il Partito Comunista Italiano al proprio massimo storico in termini elettorali (34% nel 1976) spingono la quota salari a un massimo storico del 51%.
Dal divorzio (fra Tesoro e Banca d’Italia) in poi è una continua flessione, che porta la quota salari a toccare, all’entrata dell’euro, i valori dell’inizio degli anni ’60.
In pratica quando i sindacati lottavano per i salari ed esisteva un partito che effettivamente rappresentava i lavoratori il benessere, in termini finanziari, cresceva equamente distribuito mentre l’inflazione, al contrario di quanto spesso si dice, non erodeva i salari, cioè a soffrire per l’inflazione non erano i lavoratori ma il capitale. E sempre seguendo lo stesso ragionamento possiamo vedere dal successivo grafico, che proviene dalla stessa fonte, la quota salari rispetto alla produttività
Che ci dice evidentemente che quando i salari crescono più della produttività non ne bloccano la crescita stessa mentre la stabilizzazione dei salari… stabilizza anche la crescita, cioè quando non crescono i salari diminuisce la crescita della produttività e di conseguenza si soffre il mal di PIL. Lottare contro l’inflazione è stato come lottare contro lavoratori e famiglie in nome di Weimar e dello Zimbawe che invece avevano avuto ben altre ragioni di esistere, storiche e sociali prima di tutto, e solo dopo economiche. Purtroppo le nostre classi dirigenti sono state breve a fare i loro interessi utilizzando anche argomenti senza fondamenta.
Di seguito il grafico con dati OCSE che mostra quanto i salari in Italia si siano fermati agli anni ‘90
La quota salari dunque e inequivocabilmente perde terreno. Allo stesso tempo imprenditori e affaristi (in senso positivo) hanno continuato o migliorato i loro guadagni e poiché da una parte i lavoratori e le famiglie potevano comprare, in aggregato, sempre di meno e la nostra bilancia commerciale si è tenuta su di un sostanziale e più che dignitoso pareggio viene da se che a coprire il gap sia stato lo Stato attraverso la tanto vituperata spesa pubblica. Che, infatti, è aumentata a dismisura proprio dagli anni ’80 sia per l’aumento degli interessi sui titoli di stato (nel 1981 ci fu il “divorzio” tra Banca d’Italia e Tesoro per cui a decidere l’interesse sui Titoli negli anni successivi furono i mercati finanziari) sia perché lo Stato dovette coprire il gap di domanda aggregata (cioè doveva spendere quei soldi che i lavoratori e le famiglie non riuscivano più a spendere) a sostegno del risparmio e delle aziende. Anche di quella parte dell’industria che oggi ritiene lo Stato il ladro del futuro dei nostri figli.
Lo Stato, in termini di bilancio, ha fatto bene il suo lavoro mentre sbagliate sono state le scelte politiche e di investimento effettuate da chi aveva il potere di farle, ma non sempre la legittimazione. Di fatto il mercato interno è stato seriamente compromesso e a fare danni ci si è messa anche la sinistra che invece di difendere il lavoro e i salari ha preferito accodarsi alla guerra all’inflazione e alla sovranità politica e monetaria. Di conseguenza la bilancia commerciale ha cominciato a rivestire importanza sempre maggiore, esportare merci per recuperare capitali è un modo per compensare la carenza di domanda interna e legittimare l’abbassamento dei salari.
Dipendere dall’estero invece di concentrarsi sulla capacità di spesa interna, però, non è un buon modo di pensare al futuro e questa scelta, combinata con la distruzione dei confini (politici e monetari) rende i più deboli sempre più indifesi. Non saranno certo i mercati o le élite, la cui esistenza oggi ammettono anche giornalisti non schierati con il complottismo mondiale, a difenderli o a spendersi per i loro diritti.
Affidare alle grandi imprese e all’economia “sciolta” da impegni comuni i destini dei lavoratori è stato un grande errore, lo Stato doveva e deve vigilare e persino dirigere quanto basta, ma evidentemente chi ha occupato le leve del potere ha lavorato per il capitale con il supporto di sindacati, giornali e TV. Il sociale sta allora scomparendo dietro una parvenza di benessere diffuso e di opportunità per tutti ma solo se perdiamo di vista l’aggregato che invece ci racconta la storia vera.
Cosa sarebbe allora urgente fare? Riprendere in mano i destini della politica economica per aumentare la capacità di spesa interna, quindi un aumento dei salari che recuperi la quota persa negli ultimi decenni secondo il principio che direttamente o indirettamente tutti partecipiamo a realizzarli e che se si decide di vivere in una società bisogna accettarne anche gli impegni conseguenti di solidarietà oltre che di partecipazione. Bisognerebbe poi tenere aperti i confini agli stimoli culturali, scientifici e di normale partecipazione alla storia umana ma chiuderli alla globalizzazione finanziaria, dei capitali e delle imprese in modo da salvaguardare i nostri lavoratori e le nostre famiglie cosa che aiuterebbe anche a migliorare le condizioni lavorative all’estero. Si pensi a cosa succede nel mondo della moda, lo schiavismo esportato per risparmiare a volte un euro a capo per massimizzare i profitti di poche grandi marche, il tutto possibile solo a causa delle scelte di non intervento dello Stato, del liberismo economico e della globalizzazione finanziaria.
Difendere le aziende dalla necessità di concorrere in maniera non controllata deve essere visto come una necessità per difendere il lavoro, non servono sussidi per tenerle aperte ma regole che le difendano dalla concorrenza esterna in modo da permettere che possano vivere di domanda interna, il che porterebbe alla corrispondenza tra salario e produttività che altrimenti potrà essere raggiunto solo balcanizzando. Saremo cioè produttivi quando riusciremo a produrre beni da vendere all’estero a prezzi da mercato cinese e viene da sé che per farlo i salari dovranno sempre di più adeguarsi al ribasso.
Terrorista: quante volte al giorno sentivamo pronunciare questa parola fino allo scorso anno? Sembrava fosse riconosciuta da chiunque come la colpa del secolo, ma dovevamo ancora affrontare quella che da mesi chiamano “transizione alla nuova normalità”.
La persona asintomatica – rispetto a quale malanno, tuttavia, non è mai specificato – è la nuova figura untrice dei nostri tempi. Tanto che, quando il 15 luglio lessi sull’Huffington Post “Così un’asintomatica ha contagiato 71 persone prendendo un ascensore”, il puzzo di notizia farlocca non ha tardato a palesarsi. La ricerca scientifica cui si fa riferimento, pur mostrando un titolo concettualmente identico, non ne giustifica l’utilizzo a fini giornalistici. Mentre chi appartiene al mondo scientifico, infatti, possiede le competenze utili per leggere gli studi pubblicati, che quasi mai presentano dimostrazioni assolute, chi non ne fa parte rischia di assumere per certo dati che certi non sono. L’indicativo presente sfoggiato dall’articolista afferma una verità assente nello studio scientifico, ma addirittura non è quest’ultimo la sua fonte, come risulta evidente dall’informazione secondo cui il viaggio in ascensore della donna asintomatica sarebbe durato sessanta secondi. Dato, questo, apparso sin dai primi articoli [vedi qui] battuti dopo circa una decina di giorni dalla pubblicazione della ricerca, e non presente in quest’ultima. Leggendo con attenzione il paper che imposta e rende pubblica la questione, e che al momento attuale è un semplice report della ricerca condotta non definitivo e suscettibile di modifiche, è già il primo capoverso a indicare l’interpretazione fornita come probabile, e non sicura. Al contrario di quanto si legge sul sito italiano, non è detto che il focolaio sia partito dalla donna asintomatica: lo stesso studio afferma che le prime cinque persone ipoteticamente infettate dalla donna, per via indiretta, non hanno seguito nei giorni precedenti un regime di quarantena – solo lei è stata tenuta a farlo, provenendo dagli Stati Uniti – . Semmai, non hanno frequentato luoghi a trasmissione sostenuta del Sars–Cov-2, secondo i dati utilizzati a riguardo. Il fulcro del problema è tuttavia un altro. La vicenda studiata è ambientata in piena epidemia primaverile, tra marzo e aprile, e difficilmente è attualizzabile ai giorni in cui se ne è data notizia, per non dire che è impossibile estenderla ai mesi futuri.
Di certo sappiamo che la ricostruzione esposta dal notiziario non consegna al pubblico la corretta chiave di lettura: se anche l’ipotesi epidemiologica in discussione fosse la più probabile, i risultati sarebbero utili semplicemente per comprendere le modalità specifiche di diffusione che hanno caratterizzato questo determinato virus nel periodo e nel luogo descritti. Nessun allarme in vista.
Mentre la scuola sui banchi a rotelle corre verso il collasso, a settembre tornerà in cattedra l’insegnamento dell’educazione civica dai tre ai diciott’anni. Educazione civica è un binomio che non mi piace. Non mi piace “educazione”, non mi piace “civica”. Innanzitutto perché si chiamava così già nel 1958, quando fu introdotta nell’insegnamento a partire dalle medie, lasciando fuori l’avviamento professionale e la scuola elementare, che ancora aveva la religione cattolica come “fondamento e coronamento dell’istruzione”.
Sessantadue anni dopo si presume che paese, scuola e mondo siano profondamente cambiati e con loro le categorie e i paradigmi con cui guardarsi intorno. Ci si poteva almeno preoccupare di segnare la differenza. In compenso la distanza l’ha marcata, nel frattempo, la sociologia, facendo della dimensione “materiale” della cittadinanza l’oggetto dei suoi studi.
Educazione poi richiama ‘conformismo’, ‘forgiare’ e ‘plasmare’ secondo un modello che deve rendere tutti uguali, con finalità che sono state predefinite altrove, lontano dai progetti di vita delle persone. Una dimensione da ‘educazione nazionale’, di cui la storia del secolo che ci siamo lasciati alle spalle si è già incaricata di denunciare tutti i possibili effetti deleteri.
Civica: civis, il cittadino. Il ‘civis romanus’ distingueva il cittadino romano da chi cittadino non era. La nostra Costituzione, al contrario, non compie questa discriminazione, tutela la cittadinanza anche di chi cittadino non è, perché straniero.
Cittadinanza possiede una valenza più ampia di cittadino, perché esprime l’azione dell’individuo nel contesto della comunità politica, segna la linea di demarcazione tra il cittadino passivo e il cittadino attivo. Si può essere cittadini modello, rispettosi delle leggi, delle norme e dei regolamenti e non praticare la cittadinanza, perché impedita, quella che oggi rivendichiamo come cittadinanza attiva.
Un’idea di educazione civica, dunque, troppo parente del ‘law and order’. Il sospetto è che a ispirare la legge sia stata questa preoccupazione inconfessata di fronte all’incapacità di ricomporre un tessuto sociale che si va sempre più lacerando. E poi perché tornare a irrigidire il tutto nel nozionismo e nella valutazione, come una sorta di secondo voto in condotta. Tutto era già scritto prima in Cittadinanza e Costituzione delle Indicazioni Nazionali. Una pratica alla cittadinanza da crescere e vivere con coerenza, a partire dalla organizzazione della vita scolastica e dalle relazioni al suo interno, fino alla trasversalità disciplinare e ai rapporti con il territorio e con il mondo. Non un’educazione, ma un apprendimento permanente, un modo d’ essere, di vivere da esercitare ogni giorno a scuola come in famiglia e nella società.
Non era l’educazione civica che doveva entrare a scuola, semmai era la scuola che doveva incontrare l’educazione civica fuori, nella società, nelle relazioni con il territorio, nella coerenza delle condotte, nella gerarchia dei valori, nell’organizzazione e nel modo di funzionare delle istituzioni, nel loro rapportarsi con i cittadini, a partire dai giovani. Un apprendimento diffuso nel tessuto della società e dei luoghi dell’abitare. Perché se questo manca non c’è educazione civica che possa funzionare. Mentre il cittadino è quello che rispetta le leggi, che sta alle regole, la cittadinanza è molto di più, perché la cittadinanza è anche assunzione di responsabilità.
Nella legge e nelle linee guida ministeriali per l’insegnamento dell’educazione civica non compaiono né l’etica né il ‘bene comune’. Si parla dei “beni comuni”, ma si tace del “bene comune”, della responsabilità che ognuno porta nei confronti di sé e degli altri, il labile confine tra l’osservanza della legge e l’etica delle condotte. L’etica, terreno delicato soprattutto per il rapporto tra giovani e adulti, per la coerenza dei comportamenti di questi ultimi, la loro testimonianza, la pratica dei precetti che si intendono inculcare con l’educazione. Etica e bene comune avrebbero dovuto occupare il centro della formazione ‘civile’ dei nostri giovani. Civile in quanto educazione alla convivenza.
Ma non è così.
Forse si è trattato di un ‘lapsus freudiano’, perché avrebbero messo in imbarazzo la credibilità degli adulti e del paese. L’etica della cosa pubblica violata dalle forze dell’ordine alla magistratura, dalle istituzioni alla politica, dalla corruzione all’evasione fiscale, dove non pagare le tasse od esportare i soldi nei paradisi fiscali è da furbi. Per non parlare dei mali endemici, dai segreti di stato, alle stragi di cui ancora non si conoscono i mandanti, fino alla ‘ndrangheta, mafia e camorra e la loro connivenza con gli apparati deviati dello stato.
L’etica per Aristotele è una scienza eminentemente pratica, dove il sapere deve essere finalizzato all’agire. Il ‘sapere’. Ecco ciò che rende debole questa idea di educazione civica. Perché a fare la differenza con la società del 1958 è proprio il sapere. Quelli erano ancora gli anni della alfabetizzazione, la scuola di massa neppure era all’orizzonte.
Oggi l’educazione permanente ha superato, almeno in teoria, la scuola di massa, siamo entrati nell’epoca della “società della conoscenza”, quella che l’Europa ha proclamato vent’anni fa con il Memorandum di Lisbona, ma che legge e linee guida ministeriali ignorano.
Società della conoscenza, perché nel ventunesimo secolo il sapere è divenuto la questione centrale di ogni cittadinanza. Possedere il sapere in continua evoluzione, per essere in grado di orientarsi nella complessità che cambia rapidamente la geografia dei pensieri e del mondo, possederlo oggi è la chiave di tutte le democrazie e dell’esercizio dei diritti della persona.
Non è sufficiente ricordarsi di fare oggetto di studio l’Agenda 2030 dell’Onu, semmai citando la questione della sostenibilità ambientale per poi tacere della sostenibilità sociale, dalla parità di genere, alla lotta all’omofobia e alla transfobia, fino al fenomeno epocale delle immigrazioni. Apprendere ad essere cittadini significa innanzitutto essere culturalmente attrezzati per districarsi tra complessità e molteplicità sempre più crescenti, per governare le contraddizioni, per penetrare oltre la superficie delle cose, per essere capaci di orientare il processo di costruzione del proprio sapere.
Se la nostra scuola non sa fare questo prima di ogni altra cosa, nessuna Costituzione, per quanto robusta, come nessuna Agenda 2030 potranno colmare il vuoto di formazione, di autonomia e di libertà delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi, né potranno garantire un futuro sostenibile per l’ambiente, la società e l’economia.
Negli Stati Uniti continuano le proteste esplose in maniera capillare dopo l’uccisione di George Floyd da parte di Derek Chauvin, un ufficiale di polizia bianco di Minneapolis che lo ha tenuto bloccato a terra per quasi 8 minuti. L’onda di queste proteste si è diffusa a macchia d’olio in tutto il mondo e gran parte degli sportivi di ogni disciplina si sono allineati, chi più chi meno, con i manifestanti che chiedono giustizia e parità di trattamento da parte delle istituzioni americane. Lewis Hamilton, Megan Rapinoe, LeBron James e tantissimi altri hanno dimostrato solidarietà concreta al movimento delle proteste; i giocatori della Premier League sono scesi in campo con la scritta Black Lives Matter sul retro delle maglie al posto del loro nome. L’ondata ancora oggi, dopo quasi due mesi, non si ferma. Il movimento vuole unire diverse lotte sotto la bandiera dell’uguaglianza e lo sport può essere un veicolo importante per smuovere le coscienze della gente.
In passato infatti è stato fondamentale nelle lotte per i diritti civili: il primo giocatore afroamericano a calcare i parquet dell’NBA fu Earl Lloyd nella stagione 1950/51, quattro anni dopo la fondazione della lega avvenuta nel 1946. In quegli anni, nella Major League Baseball (la lega nazionale americana di baseball) fece il suo esordio Jackie Robinson che nel 1947 approdò ai Brooklyn Dodgers (gli attuali Los Angeles Dodgers) diventando il primo nero della storia della MLB. Per la lega nazionale football, la NFL, si attese ancora qualche anno: James Harris divenne il quarterback dei Buffalo Bills nel 1969, rompendo il muro dei pregiudizi anche nel football americano.
Prima dell’apparizione nelle maggiori leghe sportive americane di questi tre atleti, gli afroamericani giocavano in campionati a parte, sparsi un po’ in tutto il paese.
Facendo un salto in avanti fino ai giorni nostri la situazione è capovolta, soprattutto nella NBA: i migliori giocatori di tutto il paese sono afroamericani così come i migliori interpreti della storia del gioco. Ora è quasi scontato avere un roster con più neri che bianchi ma quando la lega era agli albori della sua storia c’erano delle leggi che non permettevano tutto ciò.
Ulteriori passi avanti si sono fatti negli ultimi anni nella pallacanestro americana dove ci sono stati i primi due giocatori professionisti che hanno dichiarato la loro omosessualità: John Amaechi e Jason Collins. Il primo, che ha un passato anche in Italia nelle file della Virtus Bologna, ha dichiarato pubblicamente di essere omosessuale il 18 febbraio 2007, pochi anni dopo il suo ritiro dal basket giocato, avvenuto nel 2003. Collins invece è stato il primo giocatore in attività a fare coming out: nel 2013 attraverso un articolo sulla rivista Sport Illustrated che inizia con la frase ormai famosa:”I’m a 34-year-old NBA center. I’m black. And I’m gay.” Collins si ritirerà la stagione successiva dopo aver giocato un anno con i Brooklyn Nets. [Vedi qui]
Nella MLB già negli anni 70 ci fu il primo giocatore a fare coming out: Glenn Burke fu tesserato dai Los Angeles Dodgers per la stagione 1976, e due anni dopo decise di dichiarare la sua omosessualità. In quel periodo gli Stati Uniti erano un calderone di manifestazioni di ogni tipo: tra le marce per i diritti dei neri, delle donne, contro le guerre che vedevano coinvolta la nazione, c’erano già i primi gruppi lgbt che si organizzavano per lottare per i propri diritti. Il 1978 fu l’anno dell’uccisione di Harvey Milk, primo consigliere comunale della città di San Francisco apertamente omosessuale. In questo contesto, la decisione di Glenn Burke gli compromise la carriera: venduto dai Dodgers giocò una sola stagione agli Oakland Athletics prima di ritirarsi alla fine del 1979. Burke risultò positivo ad un test per l’AIDS nel 1993; nel 1995 morì per le complicazioni della malattia. Negli ultimi due anni di vita scrisse la sua biografia dove dichiara :«Nessuno può più dire che un gay non può giocare in Major League, perché io sono gay e ce l’ho fatta.»
Il football arriva per ultimo anche stavolta: il 10 febbraio del 2014 Michael Sam si dichiara omosessuale prima ancora di approdare nella lega dei professionisti. Dopo anni promettenti al college a maggio del 2014 viene scelto dai St.Louis Rams dove gioca una buona stagione, ma non abbastanza per essere confermato; svincolato passa ai Dallas Cowboys e infine, nella stagione 2015, ai Montreal Alouettes, squadra della massima lega canadese. Al termine della stagione annuncia il ritiro acausa delle pressioni psicologiche che è costretto a sopportare per via del suo coming out.
Questi atleti afroamericani dichiaratisi omosessuali sono stati un punto di svolta per lo sport professionitico maschile americano: soprattuto Amaechi e Collins hanno dimostrato, in quanto neri e omosessuali(quindi doppiamente discriminati) di poter competere in un mondo dominato dai pregiudizi sulle questioni razziali e di genere.
Inutile dire che nel mondo femminile l’argomento è sdoganato su molti fronti: la nazionale statunitense femminile di calcio ha in Megan Rapinoe la sua punta di diamante. Centrocampista offensiva attualmente in forza al Reign Fc, vanta due mondiali conquistati con la nazionale e, nel 2019 ha vinto il premio come miglior giocatrice del mondiale di Francia (poi vinto dalle americane) assieme al Pallone d’Oro assegnatole il 2 dicembre dello stesso anno dalla rivista France Football.
Dopo l’uccisione di Floyd, la calciatrice ha cominciato una vera e propria battaglia sui social network contro gli abusi della polizia chiedendo a gran voce parità di diritti tra persone di etnie diverse, arrivando a dichiarare la sua candidatura alla Casa Bianca per le elezioni di Novembre. È una provocazione più o meno velata alle reazioni mostrate da Trump nei confronti dei manifestanti e degli atleti che, anche in passato, hanno preso posizione a favore dei manifestanti. La Rapinoe ha dichiarato: <>. Già in passato la calciatrice è stata protagonista di uno scontro con Trump, lanciando parole pesanti durante del mondiale 2019 in cui la Rapinoe ha scelto di boicottare l’Inno, non cantandolo prima di una partita. Il presidente aveva subito “beccato” la calciatrice che ha risposto prontamente: <> Megan Rapinoe è impegnata anche nella battaglia della “Equal Pay” che ha come obbiettivo la parità salariale tra uomini e donne nello sport professionistico; obbiettivo ancora molto lontano dalla sua realizzazione effettiva, ha tuttavia l’appoggio di molte sportive anche nel vecchio continente. La campionessa americana è lesbica dichiarata e non si fa problemi a parlare dell’argomento.
Già in passato ci sono state delle sportive a dichiarasi lesbiche: Martina Navratilova e Billie Jean King nel tennis, Natasha Kai e Abby Wambach nel calcio, più recentemente Diana Taurasi e Elena delle Donne nel basket WNBA(lega profesionistica femminile americana), e molte altre ancora, tutte impegnate nel sociale o in eventi di beneficienza.
La differenza tra uomini e donne è lampante sotto questo punto di vista.
Tornando però nel maschile, c’è un altro esempio di coming out: Robbie Rogers calciatore americano con diverse presenza anche in nazionale, nel 2013 annuncia sul suo blog di essere omosessuale e di ritirarsi momentaneamente dall’attività agonistica.
Il football arriva per ultimo anche stavolta: il 10 febbraio del 2014 Michael Sam si dichiara omosessuale prima ancora di approdare nella lega dei professionisti. Dopo anni promettenti al college a maggio del 2014 viene scelto dai St.Louis Rams dove gioca una buona stagione, ma non abbastanza per essere confermato; svincolato passa ai Dallas Cowboys e infine, nella stagione 2015, ai Montreal Alouettes, squadra della massima lega canadese. Al termine della stagione annuncia il ritiro a causa delle pressioni psicologiche che è costretto a sopportare per via del suo coming out.
Questi atleti afroamericani dichiaratisi omosessuali sono stati un punto di svolta per lo sport professionistico maschile americano: soprattuto Amaechi e Collins hanno dimostrato, in quanto neri e omosessuali(quindi doppiamente discriminati) di poter competere in un mondo dominato dai pregiudizi sulle questioni razziali e di genere.
Inutile dire che nel mondo femminile l’argomento è sdoganato su molti fronti: la nazionale statunitense femminile di calcio ha in Megan Rapinoe la sua punta di diamante. Centrocampista offensiva attualmente in forza al Reign Fc, vanta due mondiali conquistati con la nazionale e, nel 2019 ha vinto il premio come miglior giocatrice del mondiale di Francia (poi vinto dalle americane) assieme al Pallone d’Oro assegnatole il 2 dicembre dello stesso anno dalla rivista France Football.
Dopo l’uccisione di Floyd, la calciatrice ha cominciato una vera e propria battaglia sui social network contro gli abusi della polizia chiedendo a gran voce parità di diritti tra persone di etnie diverse, arrivando a dichiarare la sua candidatura alla Casa Bianca per le elezioni di Novembre.
È una provocazione più o meno velata alle reazioni mostrate da Trump nei confronti dei manifestanti e degli atleti che, anche in passato, hanno preso posizione a favore dei manifestanti. La Rapinoe ha dichiarato: “Conosco bene la situazione che si prova ad ascoltare l’Inno Nazionale sapendo che non ti rappresenta del tutto“. Già in passato la calciatrice è stata protagonista di uno scontro con Trump, lanciando parole pesanti durante del mondiale 2019 in cui la Rapinoe ha scelto di boicottare l’Inno, non cantandolo prima di una partita. Il presidente aveva subito “beccato” la calciatrice che ha risposto prontamente: “Non andrò alla Casa Bianca nel caso in cui dovessimo vincere e fossimo invitate, cosa di cui dubito.” Megan Rapinoe è impegnata anche nella battaglia della “Equal Pay” che ha come obbiettivo la parità salariale tra uomini e donne nello sport professionistico; obbiettivo ancora molto lontano dalla sua realizzazione effettiva, ha tuttavia l’appoggio di molte sportive anche nel vecchio continente. La campionessa americana è lesbica dichiarata e non si fa problemi a parlare dell’argomento.
Già in passato ci sono state delle sportive a dichiarasi lesbiche: Martina Navratilova e Billie Jean King nel tennis, Natasha Kai e Abby Wambach nel calcio, più recentemente Diana Taurasi e Elena delle Donne nel basket WNBA(lega profesionistica femminile americana), e molte altre ancora, tutte impegnate nel sociale o in eventi di beneficienza.
La differenza tra uomini e donne è lampante sotto questo punto di vista.
Tornando però nel maschile, c’è un altro esempio di coming out: Robbie Rogers calciatore americano con diverse presenza anche in nazionale, nel 2013 annuncia sul suo blog di essere omosessuale e di ritirarsi momentaneamente dall’attività agonistica. Ritornerà a giocare nei Los Angeles Galaxy dal 2014 al 2017 per poi ritirarsi definitivamente. Nel 2017 si è sposato con il suo compagno ed ha avuto un figlio tramite maternità surrogata. È stato il primo calciatore professionista a dichiararsi gay nella MLS(Major League Soccer) nel pieno della sua carriera.
Tutte queste storie sono collegate al movimento Black Lives Matter? Per quanto mi riguarda assolutamente si. Queste vicende fanno parte del passato, più o meno recente, degli Stati Uniti e dopo il 25 maggio è sotto gli occhi di tutti come il paese “guida” delle democrazie occidentali sia molto indietro sulle questioni dei diritti civili. Le manifestazioni anche violente viste in questi mesi sono una conseguenza di politiche economiche e soprattutto culturali portate avanti dai governi americani degli ultimi 50 anni e l’attuale amministrazione Trump dimostra di non volere fare passi avanti. Lo sport farà la sua parte come ha sempre fatto per spostare le coscienze dalla parte giusta.
Qualche anno fa al Festival Internazionale di Ferrara presenziò Angela Davis, che in quanto a lotte per i diritti civili non è seconda a nessuno. Andai a quell’incontro e in un suo intervento la Davis disse: “Le lotte per i diritti civili sono lotte per i diritti di tutti. È una cosa di buon senso“. Come darle torto. Le proteste del movimento Black Lives Matter riguardano tutti, così come le storie di questi atleti ed atlete che, nel passato come al giorno d’oggi, guidano il cambiamento attraverso uno degli strumenti più efficaci: lo Sport in tutti i suoi aspetti.
Il leggendario supplizio sulla graticola di San Lorenzo ed i fenomeni astronomici delle Perseidi nel periodo estivo hanno ispirato artisti e letterati. Molto noti, ad esempio, sono la poesia X agosto di Giovanni Pascoli e il dipinto San Lorenzo di Francisco de Zurbaràn all’Ermitage di San Pietroburgo.
Anche alcuni nostri autori, rievocando le piaghe del santo, le stelle cadenti, i desideri da esprimere in silenzio, hanno rappresentato in dialetto le loro emozioni.
Ecco l’accenno devozionale di Alessandro Corazza (Portomaggiore 1932) in:
Saη Luréηz da la calùra ….
Strisci luśénti ach vóla… sparpajà,
e ch’il sparìs int uη suspìr struzà;
bruśadur fréschi fréschi su pèll viva:
il piàgh ad Saη Luréηz, ech il s’arvìva!
…..
Striscie lucenti che volano… sparpagliate, / e che scompaiono in un sospiro strozzato; / bruciature fresche fresche su pelle viva: / le piaghe di San Lorenzo (le stelle cadenti), ecco si ravvivano!
Ancora, la dimensione affettiva di Alberto Ridolfi (Ferrara 1931- 2012) in; Saη Luréηz ….
Stasìra
l’è la nòt ad Saη Luréηz.
A sén vanzà alvà
a guardàr in su,
zarcànd ad cójar
na vìrgula, int al ziél,
in mèź a tuti chi puntìn.
…..
Stasera / è la notte di San Lorenzo. / Siamo rimasti alzati / a guardare in su, / cercando di cogliere / una virgola, nel cielo, / in mezzo a tutti quei puntini.
Infine, la sfera intimista di Liana Pagnanelli Medici (Copparo 1930 – 1992)
La not ad Saη Luréηz Mo che scuηvulzimént iη ziél stasìra,
as a scumbìna tut al firmamént,
squaśi ho paura e a sént la testa ‘ch źira
par stal spetàcul màgich e impunént.
Tut j ann aspèt sta not ad Saη Luréηz
int uη mié nić segrèt fra l’erba spagna
e, par la mié racòlta d’esperiéηz,
a guard, a guard, stand ztésa int la campagna!
Il viàźa il stél in tgnùda da graη sira
con di vestì brilànt e risplendént
la cóa luηga a luηgh al ziél is tira
cumè dil dam, ad quéli dal zinchzént.
Mo cusa pagarésia pr’èsar là
tra cal brilór ad pólvar sideràl
vulàr iηsiém a lor iη libartà
seηza cascàr e seηza fàram mal!
Qualcdùη lasù l’ha vist e l’ha capì
tuta sta vója ach gh’éa ad cal luśór
e una briśulìna al m’n’ha spedì:
una bacióśla ‘ch’m’è vulà in s’al cuór!
La notte di San Lorenzo Ma che sconvolgimento in cielo stasera, / si scombina tutto il firmamento, / quasi ho paura e sento la testa che gira / per questo spettacolo magico e imponente. /
Tutti gli anni aspetto questa notte di San Lorenzo / in una mia nicchia segreta fra l’erba medica / e, per la mia raccolta di esperienze, / guardo, guardo, stando distesa nella campagna. /
Viaggiano le stelle in abbigliamento da gran sera / con vestiti brillanti e risplendenti / la lunga coda lungo il cielo si tiran dietro / come delle dame, di quelle del ‘500. /
Ma cosa pagherei per esser là / tra quel brillìo di polvere siderale / volare insieme a loro in libertà / senza cadere e senza farmi male. /
Qualcuno lassù ha visto e ha capito / tutta questa voglia che avevo di quel lucore / e una briciolina me ne ha spedito: / una lucciola che mi è volata sul cuore!
Tratta da: Liana Medici Pagnanelli ; Bruno Veronesi, Atmosfera padana, Copparo : Lions Club, Copparo, 1990.
(Altre notizie biografiche su Liana Medici Pagnanelli nel Cantóη Fraréś del 5 giugno 2020)
Per concludere un detto popolare:
“Par Saη Luréηz na graη calùra, par Saη Vizéηz na gran fardùra: l’un e l’àltar póch i dura.” Per San Lorenzo (10 agosto) una gran calura, per San Vincenzo (22 gennaio) un gran freddo: l’uno e l’altro poco durano.
Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce al venerdì mattina.
Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui]
Cover: Canonica della chiesa di S. Lorenzo, Ducentola (Fe). Foto di M. Chiarini, 2016.
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