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Bibliotecari in viaggio:
Palermo, la BPG fa visita alla BOOQ

LA BIBLIOTECA POPOLARE GIARDINO IN VIAGGIO
(PRIMA TAPPA PALERMO)

Da mesi si parlava tra noi soci/e volontari/e della Biblioteca Popolare Giardino di metterci in moto per andare ad incontrare altre realtà affini alla nostra: biblioteche di quartiere, centri culturali impegnati nei territori di riferimento. Dopo diverse esperienze all’estero grazie ad alcuni viaggi -promossi e organizzati  dalla Cooperativa EQUILIBRI di Modena nell’ambito di un Progetto Erasmus dell’Unione Europea per l’educazione permanente degli adulti – che hanno permesso ad alcunə di noi di arricchire conoscenze e curiosità, abbiamo deciso di cominciare ad organizzare dei tour in luoghi vicini e lontani, vicinissimi o lontanissimi, sulla base dei periodi dell’anno e della sostenibilità economica (particolare, questo, per nulla trascurabile, dal momento che, in assenza di fondi ed eventuali finanziamenti, tutto va affrontato a spese proprie).

L’ingresso della BOOQ di Palermo

Per il primo dei nostri spostamenti si è deciso di andare a Palermo, attrattə certo dalla bellezza della città, ma spintə soprattutto dalla volontà di incontrare l’amicissimo Gabriele e la sua BOOQ – Bibliofficina Occupata di Quartiere. Ci interessava sicuramente andare a conoscere luoghi, spazi, organizzazione, progetti della BOOQ, ma volevamo che a illustrarci il tutto fosse appunto Gabriele, che alcune di noi avevano conosciuto in Erasmus a Colonia e ad Atene. Partiamo in 10: Arianna, Alessandra, Guido, Cristina, Alida, Tito, Serena, Giuliana, Nice ed io.

Gabriele ci ha accoltə con la sua simpatia ed empatia ed entusiasmo e professionalità, ci ha aperto la BOOQ in un giorno festivo e ha risposto a tutte le nostre curiosità sia ‘tecniche’ che ‘intellettuali’ e di tipo sociale. A noi interessava anche inquadrare la BOOQ nel suo territorio di riferimento, per darle un posto adeguato nella visita che insieme stavamo facendo di luoghi e zone significativi della città di Palermo. Perciò la inseriamo nei percorsi che, nel pomeriggio del primo nostro giorno palermitano, ci conducono da Ballarò (necessaria tappa per gustare cibo e folklore colorato e rumoroso) al mare passando per Piazza Bellini con la bella Chiesa dell’Ammiraglio detta la Martorana e accanto la cappella di San Cataldo con le tre cupolette rosse, Piazza Quattro Canti, Piazza Pretoria con al centro la fontana omonima, il Lungomare che ci porta al Foro Italico, con la bella Passeggiata delle Cattive dalla quale, voltandosi indietro, si vede il suggestivo ed emozionante murale dedicato a Giovanni Falcone e  Paolo Borsellino.

Arriviamo così alla Kalsa, l’Eletta, cittadella fortificata davanti al mare fondata in epoca araba. La presenza di BOOQ nel quartiere della Kalsa, che negli ultimi anni ha mutato fisionomia, composizione demografica e modalità di utilizzo degli spazi pubblici, parte, nel 2014, dalla sua collocazione in un complesso architettonico da tempo inutilizzato. L’edificio che la ospita è l’antico Convento di Santa Teresa delle Carmelitane Scalze poi Istituto delle Artigianelle di proprietà del Comune di Palermo. L’involucro storico è stato riconvertito, grazie ad un progetto attento e sostenibile, in uno spazio culturale e di integrazione aperto a tutta la comunità di abitanti. Il progetto di riqualificazione, nel rispetto della struttura esistente, propone una nuova configurazione spaziale, funzionale alle attività della bibliofficina di quartiere; tiene conto delle funzioni future, del contesto storico nel quale si trova, della sostenibilità dell’intervento.

Le scelte progettuali sono state frutto di un lavoro di interazione tra diversi soggetti che si sono confrontati sulle caratteristiche che lo spazio di BOOQ avrebbe dovuto avere (accoglienza, convivialità, studio, manualità, scambio di conoscenze), rappresentando, nelle forme come nelle scelte compositive e cromatiche, un vero e proprio metodo applicato alla progettazione, al recupero e all’uso degli spazi, agli arredi. Questi, disegnati su misura, sono riconoscibili per le caratteristiche cromatiche, le forme e i materiali scelti.
Gabriele ci illustra il vivace percorso che, a partire da esperienze molto significative, per il quartiere, di attivismo e occupazioni, ha portato alla individuazione dello spazio sopra descritto ed è giunto in diversi anni all’aspetto e alle funzioni attuali.

Il 2 gennaio del 2017 BOOQ diventa un’associazione di promozione sociale nella quale confluiscono cittadini e associazioni. La scelta di costituirsi in APS è il risultato di un lungo ragionamento sulle attività del gruppo e sulle contraddizioni in cui ci si trova ad agire: la gestione degli spazi pubblici, la cultura come bene comune, l’accesso ai servizi sempre più demandato al terzo settore.

Diventare un soggetto giuridico senza rinunciare a uno spirito di attivismo a favore dei diritti umani significa dialogare con le istituzioni pubbliche e private, pensare a forme di autoreddito, intervenire nei processi sociali e culturali per contrastare i fenomeni di marginalità ed esclusione.

Diffusa, aperta, solidale sono le parole e azioni che descrivono BOOQ e noi, anche se ci troviamo a visitarla in un giorno senza bambini né adulti intorno, riusciamo ad immaginare il fervore dei giorni di apertura, giacché ci muoviamo negli spazi in cui bambine e bambini troveranno libri belli e di qualità, posti morbidi e mondi da esplorare; intuiamo, dalla presenza di libri ad alta leggibilità e da informazioni su laboratori in cui si valorizzano le diversabilità, che chi ha delle difficoltà non verrà escluso.

Sala lettura e video BOOQ
Gli attrezzi della Bibliofficina

Curiosando tra gli scaffali, guidati da Gabriele, scopriamo il ricco patrimonio di libri di letteratura, politica, educazione e società provenienti da donazioni e/o acquisti, atti a soddisfare esigenze di svago e di studio degli utenti; osserviamo, molto incuriositi, la zona della officina vera e propria, con una parete ricca di attrezzi di ogni tipo predisposti all’interno del Progetto ZERO (Zona Ecologica Riuso Oggetti) nato con l’obiettivo di promuovere la condivisione di strumenti domestici poco utilizzati, al fine di ridurre gli sprechi e promuovere un modello economico circolare. L’attività prevalente è quella che consente il recupero di vecchie biciclette. Grazie agli attrezzi specifici messi a disposizione e all’aiuto di altri ciclisti più esperti, chiunque può imparare a riparare la propria bici e mantenerla sicura.

Davanti All’Annunciata di Antonello da Messina

Gratificatə dalla entusiasmante visita alla BOOQ, proseguiamo, nei giorni seguenti, i nostri itinerari in cerca di cose belle. La mattina del secondo nostro giorno a Palermo ci rechiamo al Palazzo Abatellis, sontuosa dimora tardo quattrocentesca – che fu anche convento benedettino – più volte rimaneggiata e poi ampliata. Nel 1954, dopo i pesanti danni subiti nel corso della guerra, fu restaurata e adattata da Carlo Scarpa a sede della Galleria Regionale Interdisciplinare della Sicilia.

Rimaniamo incantatə in particolar modo dagli interventi architettonici che danno risalto ai capolavori raccolti: in primo luogo Il trionfo della morte, grande affresco realizzato intorno alla metà del Quattrocento, collocato in una sorta di grande cappella e contemplabile anche dall’altro grazie a una sorta di balconata ideata da Scarpa. E poi l’Annunciata, l’inarrivabile piccola tavola di Antonello da Messina, in cui il perfetto ovale del volto della Vergine emerge dalla geometria essenziale del manto.

Il Teatro Massimo è la successiva, affascinante tappa, seguito dal magnifico Orto Botanico, in cui ci deliziamo tra alberi centenari, innumerevoli piante grasse e altrettante esotiche, ma soprattutto gioiamo quando va a buon fine la ricerca del sicomoro di cui parla Paola Caridi nel suo Il gelso di Gerusalemme.

Il terzo giorno ha visto alcunə di noi recarsi a Monreale e altrə al Palazzo dei Normanni e Cappella Palatina e, in serata, tuttə in un luogo particolarmente significativo, collocato in un quartiere popolare, la Zisa, termine arabo che significa la Splendida, perché splendido era il castello omonimo costruito nel 1180, testimonianza dell’arte arabo-normanna in Sicilia.

Ci arriviamo di sera e giriamo per un po’ a vuoto, in cerca dei Cantieri Culturali, un’area di archeologia industriale trasformata in fabbriche per la produzione di valore culturale; il complesso, di 55.000 metri quadrati, è quello delle ex fabbriche di mobili Ducrot, chiuse nel 1968 e acquistate nel 1995 dal Comune di Palermo, che iniziò uno straordinario esperimento, in parte governato, in parte spinto dal basso, di rigenerazione urbana e sociale. Molti dei padiglioni del complesso sono stati recuperati e rivitalizzati come centro di cultura per mostre d’arte contemporanea e fotografia, spettacoli teatrali, musicali, cinematografici, incontri di letture, iniziative di comunità.

Teatro Massimo
Il Sicomoro nell’Orto Botanico
Murale dedicato a Falcone e Borsellino

Dobbiamo ammirare ed intuire tutto dall’esterno, perché è domenica e tutti gli spazi sono chiusi, tutti tranne uno, proprio quello che desideriamo vivere, vedere, respirare: il Centro Internazionale di Fotografia di cui il sindaco Leoluca Orlando affidò nel 2017 la direzione a Letizia Battaglia che lo aveva sognato e immaginato e ci furono tanti che gli chiesero: Picchì idda? Ci aggiriamo tra le sale dalle suggestive pareti nere su cui spiccano le foto di una mostra che si inaugura proprio il 3 novembre, ma poi siamo assolutamente catturatə e catalizzatə dalla sala in cui sono esposte moltissime foto di Letizia stessa e di molti altri fotografi, che riproducono i tanti, troppi fatti drammatici che hanno insanguinato Palermo negli anni bui in cui la mafia sparava, si sparava e attentava.

Un brillante concerto jazz in un locale accanto al Carcere dell’Ucciardone ci restituisce un po’ di sorrisi e vitalità, nella sera conclusiva del nostro primo viaggio bibliotecario.

Le foto sono di Maria Calabrese, Alessandra Muntoni, Alida Nepa e Arianna Chendi.
In copertina: le volontarie della Biblioteca Popolare Giardino di Ferrara ospiti della Bibliofficina Occupata di Quartiere di Palermo.

Per leggere gli articoli di Maria Calabrese su Periscopio clicca sul nome dell’autrice.

Per certi Versi
OGLIASTRA

Ogliastra  (a novembre)

I corbezzoli bruni
sole generoso
Quel granito
Del popolo Sardo
Un mito antico
Sull’altopiano
Verso Goloritze’
In fondo
Sì spalanca
paradiso
Di uno spettacolo
Blu metano

Si faceva il bagno

Là dove
Ci sono
Gli alberi
stelle
Di Natale
La memoria
Insegna
Ogliastra
Isola
Nell’isola
La Sardegna

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

La Ferrara di oggi e la Ferrara futura… tutta da costruire

La Ferrara di oggi e la Ferrara futura… tutta da costruire.

Non era difficile immaginare che la politica a Ferrara sarebbe stata fortemente impegnata a discutere della vicenda che ha visto la condanna dell’assessore della Lega Lodi a 2 anni e 10 mesi per induzione indebita a dare o promettere utilità.
Come prevedibile, stiamo assistendo a difese d’ufficio imbarazzanti e a richieste di dimissioni immediate, ritenendo che attorno a ciò si giochi una partita importante per il futuro dell’Amministrazione di destra. La mia opinione, senza sottovalutare la questione e soprattutto la sua gravità inaudita, è un po’ diversa. Svestiti i toni sguaiati e sopra le righe dell’assessore e già vicesindaco Lodi – fatto già iniziato con la nuova consiliatura e che la vicenda giudiziaria contribuirà ad accelerare – in realtà, a me pare che continueranno, con un po’ di più di aplomb “istituzionale”, le linee di fondo con cui la destra sta governando questa città dal 2019.

Penso le si possano riassumere utilizzando questa triade, la stessa che possiamo osservare, con i dovuti aggiustamenti, nell’azione del governo nazionale: affidamento al mercato e al neoliberismo, ricerca del consenso rivolta in particolare al ceto medio e ai commercianti, con una buona dose di propaganda, e comando sui punti di fondo che si vogliono affermare e nei confronti di chi dissente. Poi, in ogni opzione importante questi elementi si combinano tra loro. Proviamo, per esemplificare, a vederne alcuni.

Nei giorni passati, il Consiglio comunale ha approvato il PUG (Piano Urbanistico Generale), un progetto che, messa da parte la retorica falsa e altisonante della rigenerazione urbana e dell’ambientalismo di facciata, si rivela a maglie talmente larghe, che inevitabilmente si risolverà nel lasciar spazio ai soggetti privati e alla loro contrattazione con l’Amministrazione. In più, assunto con una discussione ristretta nei tempi, senza confrontarsi con le realtà associative che avevano avanzato proposte “scomode” e bocciando, con furore ideologico e al di là di qualsiasi merito, tutti gli emendamenti proposti dalle opposizioni in Consiglio comunale: un paradigma perfetto che coniuga impostazione mercatista e volontà di comando.

Nelle prossime settimane, probabilmente, si arriverà a decidere sull’affidamento della gestione del servizio dei rifiuti urbani, che ora è in proroga ad Hera dalla fine del 2017. Non è un mistero che le intenzioni dell’Amministrazione guardino alla promozione della gara, con la conseguenza, più che prevedibile, che essa sarà appannaggio di Hera, nonostante la Rete Giustizia Climatica e Forum Ferrara Partecipata abbiano abbondantemente dimostrato – anche con conti alla mano- che la ripubblicizzazione del servizio è assolutamente utile e possibile. In questo ispirandosi anche all’esperienza di Alea di Forlì e dintorni, società a totale capitale pubblico, che sta ottenendo i risultati migliori in regione per quel che riguarda la riduzione della produzione dei rifiuti e il fatto di rendere minori quelli non riciclati.
Non importa che Hera, ultimamente, sia stata multata dall’Agenzia per la Concorrenza e il Mercato per circa 2 milioni di euro per il suo atteggiamento speculativo messo in atto proprio qui a Ferrara rispetto agli aumenti ingiustificati della tariffa del teleriscaldamento: quel che conta è che si proceda con le politiche di privatizzazione dei beni comuni, che anche qui sia il mercato a dettare le scelte.

In quanto alle politiche di favore nei confronti della propria base sociale di riferimento, non c’è che l’imbarazzo della scelta per trovare le prove di tutto ciò: si può spaziare dall’idea della città attrattiva per il turismo, concepito unicamente in una logica di risorsa economica, fino all’utilizzo, del tutto improprio, che si vuole rendere permanente, del Parco Bassani per lo svolgimento di grandi eventi, snaturandone il ruolo di nodo ecologico, incompatibile per questo genere di attività. Il tutto supportato da uno studio, falsato e artatamente costruito, per dimostrare che il concerto di Bruce Springsteen tenutosi lì l’anno scorso avrebbe generato circa 10 milioni di indotto per la città!

Finisco questa carrellata esemplificativa con la vicenda del Centro sociale La Resistenza, “sequestrato” dall’Amministrazione da più di un anno con pretesti gonfiati (le condizioni di sicurezza del luogo) e perseguendo una logica ostruzionistica rispetto all’intenzione di chi l’ha gestito per intervenire e risolvere i problemi esistenti: una scelta emblematica per un’Amministrazione che vuole, contemporaneamente, chiudere gli spazi sociali, affermare che solo il mercato può decidere sugli spazi urbani, e colpire le persone e le realtà sociali che si permettono di criticarla.

A me pare chiaro che l’impostazione di fondo su cui l’Amministrazione di destra sta basando la propria iniziativa non ha un grande respiro e non è in grado di disegnare una prospettiva per il futuro. Non è in grado. cioè. di dare risposte adeguate ai problemi strutturali che assediano Ferrara, una città che vive una deindustrializzazione crescente, che non ha una vocazione definita dal punto di vista produttivo e incapace di creare lavoro di qualità, che rischia di veder accentuare la propria dipendenza da dinamiche esterne e dalle città limitrofe, finora Bologna e in futuro magari da Ravenna, che vede espandersi le problematiche crescenti relative ad un forte invecchiamento della popolazione. Figuriamoci poi rispetto alla necessità di confrontarsi con i nuovi temi emergenti, da quello di progettare una città “decarbonizzata” a quello di trattenere il numero significativo, cresciuto in termini importanti negli ultimi anni, degli studenti che frequentano l’ateneo, solo per citarne due.

Ciò non toglie che non si può negare che, come dimostra la riconferma del sindaco con un buon risultato nella tornata amministrativa del giugno scorso, finora questa stessa impostazione dell’Amministrazione ha goduto di un consenso reale.
Il punto è che non si può semplicemente aspettare che essa mostri le sue contraddizioni e la sua debolezza e tantomeno affidarsi a vicende giudiziarie.

Si tratta, invece, di avere una chiarezza sufficiente per vedere che solo una progettualità alternativa, la messa in campo di un’altra idea di città può far venire meno l’appoggio delle persone a questa regressiva esperienza amministrativa. E questa non si può dare, da una parte, senza una messa in discussione anche della lettura e delle opzioni che hanno animato il centrosinistra in un arco di tempo che dura da ben più di un decennio, e senza individuare, dall’altra, alcuni punti di fondo, selezionati ma anche con un valore “simbolico” alto, capaci appunto di comunicare un’altra idea di città.

Soprattutto, questo approccio non può vivere al di fuori di una forte mobilitazione sociale, di cui si intravedono le possibilità, ma che va anche costruita con determinazione. Se dovessi indicare una sola questione (anche se, ovviamente, bisognerà mobilitarsi anche su altre), nell’immediato mi viene da dire che la battaglia per far riaprire il Centro sociale La Resistenza potrebbe avere queste caratteristiche, di far vivere cioè un’idea di città che respinge la logica di privatizzazione dello spazio pubblico e propone invece un’alternativa basata sulla socialità e la partecipazione. Una battaglia su cui innestare una mobilitazione sociale e politica unitaria ed estesa. Penso valga la pena provarci.

In copertina: Ferrara, Palazzo Todeschi, particolare del soffitto – foto Roberto Targa.

Per vedere tutti gli articoli e gli interventi di Corrado Oddi su Periscopio, clicca sul nome dell’autore

Presto di mattina /
La rosa di Natale

Presto di mattina. La rosa di Natale

Il volto della stella

In un’intervista degli anni ’90, Iosif Brodskij (1940-1996) ricordava di aver cercato di scrivere una poesia per ogni Natale e non sempre ci riuscì. Le sue Poesie di Natale (Adelphi, Milano 2004), in tutto diciotto, le compose quasi fossero «un augurio di compleanno». Nella Natività amava vedere «quella concentrazione di ogni cosa in un solo luogo – il che è quanto si verifica nella scena della grotta» (ivi, 2a di copertina).

Nella fredda stagione, in luoghi avvezzi all’afa
più che al gelo, e a piatte distese più che ai monti,
nacque un bambino per salvare il mondo, in una grotta;
turbinava il vento, come può solo nel deserto d’inverno.
Enorme tutto gli sembrava; il seno della madre, le nari
del bue fumanti di vapore, i re Magi; quei doni
da Gaspare, Melchiorre e Baldassarre fin lì portati.
Il bimbo era un punto solamente. E un punto era la stella.
Con gran circospezione, senza neppure un battito
di ciglia, tra rade nubi, di lontano, dalle profondità
del Cosmo, giusto dall’altro estremo, la stella fissava
nella grotta il bimbo sulla greppia. Di un padre era lo sguardo.
(Ivi, “Stella di Natale”, 24 dicembre 1987, 73)

 

Sì, proprio tutto è concentrato lì in quella grotta dell’umano gelo, direbbe Clemente Rèbora (1885-1957), ma un fuoco dentro resta, e pace altra sta a custodire l’infinita pena d’uomini e di donne. Pace parla ancora al cuore che domanda.

Gesù Signore, dàmmi il tuo Natale
di fuoco interno nell’umano gelo;
tutta una pena in celestiale pace
che fa salva la gente e innamorata
del Cielo se nel cuore pur le parla.
(Clemente Rebora, Le poesie 1913-1957, Garzanti, Milano 1994, 288).

 

“Ave”, è d’inverno il canto delle rose

Carlo Betocchi (1899-1986), che fonda la sua poetica su un linguaggio diretto, sul realismo e su una forte tensione etica, pensa che a Natale l’inverno sarà rivestito di fiori reali e in terra, come il gloria degli angeli in cielo, la rosa, il giglio, l’elleboro diranno il loro “Ave”, “Bene valete”: saluto e benedizione.

Ma non basta augurare il bene; è poca cosa. Credere proprio a Natale allora sarà non senza gli altri, non senza rivestire il patire loro; per noi come per gli ellebori sarà stare erbosi e fitti come croci nel gelido freddo dei conflitti, rivestendo “l’empio sterno delle città distrutte” dalle guerre.

Sarà, per i fiori reali, inverno,
un mitico inverno di brine,
d’ albori, di chiarezze tutte gelo;
e diranno «Ave» senza fine.
La rosa con il giglio con l’elleboro
rivestiranno l’empio sterno
delle città distrutte, un roseo fuoco
a vaghi armenti. Ma sarà poco
credere! Dovremo star confitti
nel freddo, di là dallo schermo
della rassegnazione, erbosi e fitti
come croci, nell’inverno.
(“Sarà inverno”, in Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1996, 512).

La luce dell’elleboro, sole infante, luce nascente nell’inverno

Per la sua radice nera è nominato l’Helleborus niger. È una pianta perenne resistente al freddo che appartiene alla famiglia delle Ranunculaceae, alta non più di 40 centimetri. Ha corolla pendula formata da cinque petali, come i cinque sensi nostri.

L’elleboro, nonostante il suo brunito nome, ha fiori candidi e pistilli dorati come solari raggi di luce. Fiorisce all’inizio dell’inverno nel mese di dicembre, come a simboleggiare «l’alba del solstizio invernale e l’oro del sole nuovo, del sole “bambino”, destinato a crescere sull’orizzonte» (A. Cattabiani, Florario, 319).

Il suo nome deriva dal termine greco “elleboros”, termine formato da due parole che tradotte significano “far morire” e “nutrimento”: le sue radici se ingerite sono infatti velenose, ma da esse si ricava un rimedio e nutrimento medicinali che nell’antichità si pensava fossero curativi della pazzia.

Di Eduard Mörike (1804-1875), poeta e narratore tedesco pastore luterano e docente di letteratura tedesca, è la lirica più famosa dedicata all’elleboro: A una rosa di Natale, (Auf eine Christblume, 1842).

Di lui Cristina Campo scrive: «Solitario e purissimo cantore svevo… nostalgico pastore “in cilindro e parapioggia” colui che prediligeva Mozart quando l’Europa intera apparteneva a Beethoven: che giocava coi bambini, parlava con gli alberi e faceva dell’amicizia una religione» (Sotto falso nome, Adephi, Milano 1998, 189-190. Il suo testo più conosciuto è Mozart in viaggio verso Praga, Passigli Editori, Bagno a Ripoli FI 1990).

L’Helleborus niger nella lingua del poeta suona Christblume e Weihnachtsblume: Fiore di Cristo e insieme Fiore di Natale. Il poeta, osserva anche gocce purpuree sul biancore dei petali a ricordargli il sangue della Passione, presagio della morte già nella immacolatezza della nascita e paragonando la sua corolla alla veste nunziale di Maria la Madre Benedetta.

A una rosa di Natale

Figlia della foresta, parente dei gigli,
quelli sconosciuti, cercata da me da tanto tempo,
nel camposanto dimenticato di una chiesa, freddo e invernale!
Per la prima volta, o bella, ti ho trovata!
Per mano di chi sei fiorita qui,
non so, né di chi sia la tomba che custodisci;
Se è un giovane, gli è stata donata la salvezza,
Se è una fanciulla, dolcemente è caduta la sua parte.
Nel boschetto vicino, coperto di luce nevosa,
dove il cervo pascola piamente davanti a te,
Vicino alla cappella, vicino allo stagno cristallino,
Lì cercai il tuo regno magico.
Sei bella, figlia della luna, non del sole;
La delizia di altri fiori ti sarebbe fatale,
Ti nutre, il casto corpo pieno di gelo e di fragranza,
l’aria dolce e balsamica del freddo celeste.
Nel tuo seno dorato si crea
Una fragranza che a malapena si annuncia;
Così profumava, toccato dalla mano di un angelo,
La veste nuziale della madre benedetta.
Tu saresti, ricordando la santa sofferenza,
vestita da cinque gocce di porpora, bella e unica:
Ma tu ti adorni come un bambino, nel periodo natalizio,
di verde chiaro con un soffio il tuo vestito bianco.
L’elfo, che nell’ora di mezzanotte
va a danzare nella terra luminosa,
di fronte al tuo mistico splendore si ferma timidamente
Curiosamente tace da lontano e si allontana.
Nella terra invernale dorme un fiore,
La farfalla che un tempo si aggirava intorno a cespugli e colline
Nelle notti di primavera cullando l’ala di velluto;
Non assaggerà mai il tuo seme di miele.
Ma chi sa se il suo tenero spirito
Quando ogni traccia dell’estate sarà svanita,
un giorno si inebrierà della tua morbida fragranza,
invisibile a me, circonderà te fiorita!
(Canti scelti di Eduard Mörike, Carabba editore, Lanciani [Chieti] 1939, 104-105, nuova traduzione di Christine Schwienbacher).

La leggenda della Rosa di Natale

Anch’io a Natale ho scritto per diversi anni storie di alberi per la gente della parrocchia e così per non saltare l’anno ho ricevuto un’assit. Non mi sono lasciato sfuggire la storia della scrittrice svedese Selma Lagerlöf (1858-1940).

È stata la prima donna a vincere il Nobel per la letteratura nel 1909 a soli 51 anni e nel 1914 entrò a far parte dell’Accademia svedese. Nei suoi racconti rivive la Svezia delle antiche fiabe, quella dei miti e delle leggende, delle storie tramandate nella lunga notte nordica.

Così inizia il racconto:

«La moglie del brigante, che viveva in una caverna lassù nella foresta di Göinge, si era messa un giorno in viaggio per andare a mendicare giù in pianura. Il brigante era un bandito fuorilegge e non osava uscire dalla foresta, accontentandosi di stare in agguato dei viandanti che si avventuravano nella fascia dei boschi. Mendicando di casa in casa, la moglie del brigante arrivò un giorno a Öved, che all’epoca era un monastero. Suonò e chiese del cibo. Il guardiano abbassò uno sportellino che si apriva nel portone e le allungò sei pani rotondi: uno per lei e uno per ogni ragazzo».

Il monastero era circondato da un altro e massiccio muro. Impossibile era vedervi dentro; ma uno dei figli scoprii una porticina lasciata aperta da un monaco converso. Sgattaiolando dentro la donna rimase stupita nel vedere il giardino e il suo splendore. L’Abate Hans infatti ne aveva fatto un orto botanico senza paragoni. L’aveva arricchito di piante e fiori portati da tanti paesi. Era davvero il suo orgoglio, se così si può dire di un dimesso abate, ma certo il più bello di tutta la regione.

Accortosi dell’intrusione il monaco converso, che aveva l’abitudine di strappare tutte le erbacce che gli capitavano sotto gli occhi, si affrettò prima con le buone maniere, ma poi, visto l’inefficacia di quelle si premurò, per convincere gli intrusi, di chiamare in aiuto alcuni monaci nerboruti così da costringere la donna e i suoi figli ad allontanarsi. Ma non bastarono neppure loro; quella fu irremovibile e li raggelò, gridando e minacciando addirittura di far venire il brigante suo marito.

Accorse così alle grida anche l’abate Hans, preoccupato della quiete, e congedati i monaci, per tranquillizzare la donna, la invitò a visitare tutto il suo orto botanico, sentiero per sentiero aiuola per aiuola attraversando arbusti, siepi e alberi secolari.

L’abate Hans passando tra i sentieri e volgendo intorno lo sguardo su quella meraviglia sempre cangiante che gli sollevava l’animo, tuttavia teneva pure d’occhio la moglie del brigante e vedendola sorridere allegra, si compiaceva. Si accorse però ad un tratto che quel suo sorriso, nascondeva qualcosa, sembrava di sfida ne fu certo quando la donna gli disse: «Alla prima occhiata ho pensato di non averne mai visto uno più bello, ma ora mi accorgo che non regge il confronto con un altro che conosco».

A quelle parole l’abate Hans fu scosso da un fremito interiore e l’afferrò un incontenibile desiderio di vedere quel giardino misterioso nel cuore della foresta di indicibile bellezza, ma che secondo le parole della donna era visibile solo la notte di Natale: di lì a pochi giorni dunque.

Così nonostante la contrarietà di tutti i monaci, l’abate chiese al vescovo di Absalon il permesso di recarsi nella foresta e, sapendo l’ostilità terribile del brigante che gli avrebbe impedito l’ingresso, domandò per lui un lasciapassare: in cambio, il perdono di tutti i suoi misfatti e il ritorno tra la gente dei villaggi.

E il vescovo gli rispose: «“Questo te lo posso promettere, abate Hans”, disse sorridendo. “Il giorno che mi manderai un fiore del giardino di Natale di Göinge, ti farò avere lettere d’assoluzione per tutti i fuorilegge che vorrai”».

Così, presto di mattina la vigilia del Natale, dopo aver attraversato per tutto il giorno la foresta, l’abate e il monaco converso, giunsero ormai congelati alla grotta del brigante guidati da uno dei figli. Trovarono grande miseria e pure ostilità e aggressività, ma solo nelle parole, che non gli furono d’ostacolo ad entrare in quella povertà disarmante.

Nell’incontro tra quei due mondi, ci volle umiltà, pazienza resistente e la promessa d’assoluzione e, alla fine, il brigante patteggiò una tregua temporanea giungendo persino a rispondere all’Abate: «Sì, sì, se avrò una lettera d’assoluzione da Absalon, ti prometto che non ruberò mai più nemmeno un’oca».

Ma intanto giunse piano piano con la neve la notte silenziosa e santa e la donna che era rimasta a vegliare il bosco dalla finestra disse all’abate Hans: «Tu stai qui a chiacchierare, abate Hans, e finiamo per dimenticarci di tenere d’occhio la foresta. Non sentite che le campane di Natale hanno già cominciato a suonare?».

 «Aveva appena pronunciato queste parole che tutti balzarono in piedi e corsero fuori. Ma nella foresta regnava ancora la notte buia e il gelido inverno. L’unica cosa che avvertirono fu uno scampanio lontano portato da un leggero vento da sud.

“Come potranno questi deboli rintocchi ridestare la foresta morta?” si domandava l’abate Hans. Ora che stava nel mezzo dell’oscurità invernale, gli sembrava molto più improbabile di quanto avesse mai creduto che lì potesse spuntare un rigoglioso giardino.

Ma quando le campane ebbero suonato per qualche minuto, un improvviso chiarore penetrò la foresta. L’attimo dopo era di nuovo buio, e poi tornò la luce. Si insinuava come una nebbia radiosa tra gli alberi scuri, e continuò a espandersi finché la notte si diradò in una pallida aurora.

Allora l’abate Hans vide che la neve era sparita dal suolo, come se qualcuno avesse tolto un tappeto, e la terra cominciava a inverdire. Le felci allungavano le loro fronde, incurvandosi come pastorali. L’erica che cresceva sulle rocce e le mirici radicate nel muschio si rivestivano di verde acceso. Il muschio si espandeva e si sollevava e fiori primaverili spuntavano con i loro boccioli rigonfi, con già un accenno di colore.

Il cuore dell’abate Hans batteva forte davanti a quei primi segni del risveglio della foresta. “Che a un vecchio come me sia dato di assistere a questo miracolo!” pensò, e le lacrime premevano per sgorgargli dagli occhi. A tratti diventava così buio che temeva il ritorno delle tenebre della notte. Ma presto irruppe una nuova ondata di luce che portava con sé gorgoglii di ruscelli e scrosci di cascate. Allora sugli alberi germogliarono le foglie, così in fretta che era come se un nugolo di farfalle verdi fosse venuto a posarsi sui rami.

E non erano solo gli alberi e le piante a risvegliarsi, perché tra i rami cominciarono a saltellare i crocieri, e i picchi martellavano le cortecce tra nuvole di schegge. Un volo di storni migranti verso settentrione scese a riposarsi su un abete. Erano storni superbi: le punte di ogni piccola piuma brillavano rosse e quando si muovevano luccicavano come gioielli.

Il buio tornò per un istante, seguito da una nuova ondata di luce. Da sud spirò un forte vento caldo che sparse sul suolo della foresta tutti i piccoli semi delle terre meridionali che gli uccelli e le navi e i venti avevano portato fin lassù e che non avrebbero potuto crescere per i rigori dell’inverno. E ora si radicavano e germogliavano nell’attimo stesso che toccavano terra. Alla successiva ondata di luce sbocciarono i mirtilli rossi e neri. Anitre selvatiche e gru riempirono l’aria dei loro gridi acuti, i passeri costruivano i nidi, e i piccoli degli scoiattoli giocavano sui rami più alti.

… Le ondate di luce calda si succedevano senza posa e ora portavano con sé semi di floristelle. Il polline dorato della segale galleggiava nell’aria, e poi arrivarono farfalle così grandi che sembravano gigli volanti. Un alveare nel tronco cavo di una quercia traboccava già di miele che gocciolava lungo la corteccia.

Ora fiorivano anche le piante provenienti da paesi lontani. Le splendide rose si arrampicavano sulla parete della montagna gareggiando con le more, e nel sottobosco spuntavano fiori grandi come volti umani. L’abate Hans pensava al fiore che aveva promesso al vescovo Absalon, ma non si decideva a coglierlo. Ogni nuovo che sbocciava era più incantevole degli altri e lui voleva scegliere il più bello di tutti.

Ma in tutto quello splendore il monaco converso e apprendista giardiniere, fino a quel giorno sempre dedito a strappare le erbacce, non vedeva niente di buono, presagiva in quella nascita e risveglio precoci della foresta addirittura una macchinazione del diavolo, una stregoneria per ingannare il suo abate e così cercava in tutti i modi di dissuaderlo e convincerlo ad andare via e via in fretta.

Ostinato a vedere erbacce in ogni dove dimenticò la parabola evangelica e per togliere la zizzania strappò anche il grano buono. Così quando un piccolo colombo si posò sulla spalla dell’abate il monaco, visti vani tutti i tentativi di persuaderlo, alle fine gridò con tutta la forza che aveva in corpo: «Tornatene all’inferno da dove sei venuto!».

A quelle parole tutto si spense, d’improvviso tutto fu inghiottito dal buio, tornò la notte fonda e il gelo e la neve imprigionarono di nuovo la foresta. In quel momento l’abate Hans si sentì morire, una stretta fortissima al cuore e cadendo sulla neve si ricordò della promessa fatta al vescovo di portagli un fiore da quel giardino e dell’assoluzione promessa al brigante, fece solo in tempo ad annaspare nel muschio con la mano e a frugare tra le foglie per cercare almeno un piccolo fiore. Ma dopo quello sforzo non riuscì più a rialzarsi e rimase morto coperto dalla neve.

Quel giorno, il Natale del Signore, i monaci raggiunta la foresta ritrovarono il suo corpo. E quel Natale fu così anche il dies natalis dell’abate Hans, passando ancora una volta dal buio alla luce egli entrò vivo in quel giardino sorprendente, perduto e ritrovato.

Fu riportato nel monastero con grande dolore e rimpianto. La notte seguente nella veglia funebre i monaci si accorsero che teneva qualcosa serrato nel pugno della mano congelata. A fatica l’aprirono e vi trovarono dei piccoli tuberi bianchi che l’abate doveva aver strappato tra il muschio e le foglie prima di morire.

Il monaco converso che piangeva e gemeva più di tutti, perché sapeva di averne causato la morte con la sua stoltezza, a quella vista trasalì e comprese che c’è anche un tempo per piantare. Si fece coraggio, prese dalla mano del suo abate quei tuberi diventati a lui così preziosi e andò ad interrarli nel giardino del monastero.

Per tutto quell’anno rimase addolorato e terribilmente affranto vegliando giorno e notte su quelle piante. Ora non strappava più le erbacce ma curava le erbe più fragili e malate. Così arrivò anche quell’anno la vigilia di Natale.

In quella vigilia il monaco «sentì più vivo nell’anima il ricordo dell’abate Hans e uscì nel giardino per rivolgere a lui i suoi pensieri. Finché passando accanto al posto dove aveva interrato i tuberi nudi, vide che erano cresciuti dei rigogliosi gambi verdi con in cima dei bellissimi fiori con foglie bianco argentate.

Corse a chiamare tutti i monaci di Öved, i quali, vedendo che le piante fiorivano la vigilia di Natale, quando tutte le altre erano come morte, capirono che l’abate Hans aveva realmente raccolto quei fiori nel giardino di Natale della foresta di Göinge.

Il frate giardiniere chiese il permesso di portarne qualcuno all’arcivescovo Absalon. Quando gli fu davanti gli porse i fiori dicendo: “Questi li manda l’abate Hans. Sono i fiori che promise di cogliere per te nel giardino di Natale della foresta di Göinge”. Al vedere quei fiori nati dalla terra nel gelido inverno, l’arcivescovo di Absalon impallidì come se avesse incontrato un morto. Dopo un lungo silenzio disse: “L’abate Hans ha mantenuto la sua promessa, e io manterrò la mia.”

Quando giunse nella foresta la lettera del vescovo «il bandito rimase lì pallido e muto, ma la moglie rispose per lui: “L’abate Hans ha mantenuto la sua promessa, e il brigante manterrà la sua”. Quando il brigante, la moglie e i figli abbandonarono la caverna, il frate converso vi andò ad abitare e visse lassù in solitudine, continuando a pregare che la sua durezza di cuore potesse essergli perdonata».

A perenne ricordo di quel luminoso Natale di Göinge, nella foresta ritornata oscura, è rimasto anche oggi a far luce un fiore, il più bello di tutti: la pianta di elleboro nero, che da quel giorno fu chiamata Rosa di Natale.
(La leggenda della Rosa di Natale, Iperborea, Milano 2014).

 

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Niente da vedere. Cronache del Polesine ed altri spazi sconfinati
Il libro-documentario di Sandro Abruzzese

Niente da vedere. Cronache del Polesine ed altri spazi sconfinati. Il libro-documentario di Sandro Abruzzese

L’ultimo libro-documentario di Sandro Abruzzese e Marco Belli Niente da vedere, pubblicato nella collana Che ci faccio qui di Rubbettino  è un sofisticato esercizio di traduzione. Dietro (o avanti) la raccolta di Cronache del Polesine ed altri spazi sconfinati, come recita il sottotitolo, si nasconde altro, anzi si vede tutto il resto.

Questa narrazione foto-letteraria dei due autori a me è subito apparsa come un manifesto sul tema  della “traduzione della realtà” in immagini o in parole.

Già dai titoli dei capitoli si coglie questa particolarità: l’istituirsi nel libro e grazie al libro di un intreccio, tra quelle “cose” che non vediamo ma che tentiamo di tradurre grazie ai linguaggi, con quelle altre “cose” che pur vedendole “concretamente”, non riusciamo a tradurre in alcun modo.

Forse appartiene solo alla poesia questa capacità di complementare questi due aspetti e creare l’intreccio del quale parlo; una poesia, per esempio, come quella di Angelo Andreotti, poeta di questi stessi spazi:

Così ogni transito, come ogni tragitto,
è sempre un attraversare alla cieca
un passaggio dal noto all’ignoto,
e ignoto è anche il passo che ancora
non tocca pietra. E tuttavia, sempre,
tutto ha più di una sintassi.
Il percorso non è mai lo stesso
il ruscello dissotterra le pietre
cambia l’assetto del camminamento
e la tenuta non è più sicura.
Si va a intuito. Si valuta.
Si sceglie, ma ogni giudizio
è una scommessa dall’esito incerto
comunque ineluttabile.
[Da Pietre di passo, pg.11, puntoacapo Editrice, 2023]

Tornando alla composizione fotografica di Belli e alla paratassi testuale di Abruzzese si ha questa stessa impressione di transito, quasi gli autori volessero spingerci continuamente a (ri)attraversare vere e proprie cornici narrative nella loro aspirazione (poetica) di sparire nell’azione.

Sono queste cornici, non necessariamente fisiche, che predispongono noi osservatori/lettori davanti allo scatto o al testo, quasi a invitarci a un posizionamento, mediante una inversione tra figura e sfondo, tra verticale e orizzontale, tra visione (reale o immaginaria) e linguaggio.

Un elemento compositivo questo, il cosiddetto doppio framing, che induce a ragionare sulla traduzione. In generale una cornice forza il posizionamento: si può guardare dentro o rimanere fuori, raccontare il sogno o solo osservarlo. Così come il fotografo che esita nello scatto per… farsi scattare; come fa l’autore nell’ascolto per… farsi parlare.

Le foto di Belli sono un buon esempio per chiarire il concetto.

Oltre al consueto formato fotografico, appare evidente in quasi tutte le foto una seconda cornice che, come insegna il magistero di Luigi Ghirri, necessariamente allinea e dirige lo sguardo. Quelle rappresentate da Belli sono però cornici… velate appositamente per evitare allo sguardo di indugiare su eventuali… interni: in questo modo non sembra esistere una realtà… nascosta, uno spazio successivo a quello mostrato. E forse neppure un tempo seguente.

No, la realtà è tutta lì esterna, ampia, aperta non ha bisogno di essere ulteriormente tradotta, così comprensibile quale è, quasi una visione onirica come quella di Kekulé che raccoglie l’intero saputo cosciente, tutto, e l’insaputo inconscio più di tutto. Una visione che spiega senza parlare. Un’ampia mappa che abbraccia l’intero territorio.

Come è noto la traduzione, in fotografia, è una operazione di esclusione: si esclude il resto del mondo per farne vedere solo un pezzettino. Ma qui si esaltano spazi sconfinati attraverso un piccolo scatto su piccole volumetrie chiuse o abbandonate.

A pg. 65 Abruzzese “confessa” il suo metodo di… traduzione: «…l’impreparazione è il motore del viaggio, guai a saperne qualcosa di più…Voglio dire che quando ci si prepara, non so come, ma si finisce per trovare solo conferme, oppure per vedere proprio ciò che avevamo studiato in precedenza e non altro. Per cui il mondo diventa un’ipotesi da verificare».

Questi racconti quindi non sono un insieme di dati e di nozioni da sommare per dimostrare qualcosa (una nota realtà, una verità nascosta), ma tasselli di un puzzle necessari per comporre un immagine più grande, come quei volti giganteschi delle pubblicità formati da tantissime minuscole e irrisolvibili facce. L’espressione dell’enorme volto è il racconto delle singole espressioni. L’ampio spazio è formato da frammenti e la cornice piccola contiene, per così dire, quella più grande.

Bisogna tornare e ritornare sui singoli volti, muoversi lentamente tra le “foto tessere” (i singoli racconti), nel tentativo di ricomporre una realtà spaziale e dunque una fluidità temporale.

È attraverso questo gioco di doppie cornici – foto nella foto, racconti nel racconto – che la verità di questi luoghi resiste ad ogni cambiamento e in tal modo crea il fondamento di una presenza umana che pare sia qui per allontanarsi e contemporaneamente nascondersi, aprirsi in spazi sconfinati e ritirarsi nel filo di un campanile, esibirsi con sguardi invisibili e parole silenziose.

La verità è ciò che non possiamo cambiare e non possiamo tradurre, perché il cambiamento come la traduzione (in immagini o in parole) opera a posteriori una scrematura, una discriminazione che appartiene tanto alla foto che alla parola. La verità è proprio ciò che non possiamo vedere.

Ed è seguendo alla lettera il titolo del libro che gli autori ci aiutano almeno a non modificarla tale quale è. Non c’è niente da vedere perché la verità è tutta qui, in quello che non si può cambiare che non si può mostrare o raccontare: metaforicamente essa è la palude sulla quale stiamo e gli spazi infiniti tutto intorno. 

Per leggere gli articoli di Giuseppe Ferrara su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Intervista a Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia

Intervista a Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia

L’efficacia del sistema internazionale di protezione dei diritti umani – che comprende sia gli accordi di diritto internazionale che gli organi di giustizia internazionale – dipende dalla volontà degli stati di collaborare. Sempre più spesso, purtroppo, vediamo in azione i doppi standard: quelli per cui l’invocazione della violazione di un trattato internazionale viene sollevata nei confronti di uno stato “nemico” e taciuta se lo stato è “amico”

 

La risoluzione dell’assemblea generale dell’ONU del 17 dicembre rappresenta un interessante passo avanti, ne puoi spiegare gli aspetti positivi?

Intanto, il numero dei voti a favore continua di biennio in biennio ad aumentare: quest’anno è arrivato a 130. In secondo luogo, ma in conseguenza del primo, alcuni stati cambiano da un biennio a un altro posizione: da contrari ad astenuti o, ancora meglio, da astenuti a favorevoli. Gli stati che votano contro, e ancor di più quelli che continuano a usare la pena di morte, sono sempre più una ridotta minoranza.

Il problema resta cosa fare nei due anni che passano tra una risoluzione all’altra: rischiamo di avere una retorica abolizionista globale senza una politica abolizionista globale. Dovrebbero esserci azioni concrete, nei 24 mesi in questione, azioni concrete per salvare vite umane o condanne con effetti concreti per le esecuzioni che hanno luogo.

Mentre la prospettiva che uccidere una persona sia una soluzione perde via via peso stanno aumentando le cosiddette “esecuzioni extragiudiziali” su cui Amnesty fa una campagna e un monitoraggio da tempo, ci puoi illustrare la situazione?

Mi viene in mente il commento che feci, tra me e me, quando la Guinea Equatoriale abolì alcuni anni fa la pena capitale: non ne ha più bisogno, ricorre ad altri metodi che danno meno nell’occhio, in quel caso le detenzioni in isolamento senza contatti col mondo esterno. C’è poi, giustamente, il tema della “giustizia fai da te”, ovvero gli omicidi mirati che si verificano soprattutto in situazioni di tensione o di conflitto. Un esempio clamoroso è quello dell’uccisione, da parte di Israele, di due (se non di tutti e tre) i leader politico-militari di Hamas di cui la Corte penale internazionale aveva chiesto – per poi averne uno, nel caso di quello forse ancora vivo ma è evidente che li avrebbe avuti tutti e tre – e ottenuto l’emissione di un mandato d’arresto. Si sfrutta, in questo caso, l’incomprensione del fatto che gli omicidi mirati sono essi stessi delle violazioni dei diritti umani.

Più in generale come vedi il discredito che convenzioni e istituzioni internazionali stanno subendo negli ultimi anni?

L’efficacia del sistema internazionale di protezione dei diritti umani – che comprende sia gli accordi di diritto internazionale che gli organi di giustizia internazionale – dipende dalla volontà degli stati di collaborare. Sempre più spesso, purtroppo, vediamo in azione i doppi standard: quelli per cui l’invocazione della violazione di un trattato internazionale viene sollevata nei confronti di uno stato “nemico” e taciuta se lo stato è “amico”; quelli per cui distinguiamo le persone richiedenti asilo da accogliere in dignità e diritti da quelle che respingiamo; quelli per cui la giustizia internazionale va elogiata se emette un mandato di cattura verso il leader del campo avverso e va dileggiata se lo fa verso un amico.

Tu pensi che una riforma in senso democratico dell’ONU (come suggeriscono gli obiettivi della Terza Marcia Mondiale per la Pace e la Nonviolenza) possa essere un passo verso la soluzione dei conflitti internazionali e del miglioramento dei Diritti Umani?

Questa riforma è più che mai necessaria, anche per dare voce e spazio al cosiddetto Sud globale. In particolare, il Consiglio di sicurezza è composto, per quanto riguarda i membri permanenti, dagli stati vincitori della Seconda Guerra Mondiale o dai loro eredi. Quattro quinti di loro, che dovrebbero assicurare la pace e la sicurezza a livello mondiale, sono intervenuti con le armi nel conflitto siriano nello scorso decennio.

Da anni, Amnesty International chiede che in caso di crisi umanitarie e dei diritti umani non sia consentito usare, da parte dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza, il potere di veto. Forse non c’è esempio più forte e peggiore di doppi standard dell’uso contrapposto del potere di veto: degli Usa per proteggere Israele, della Russia per proteggere la Siria di Assad.

Metalmeccanica: volano i profitti, giù i salari

Metalmeccanica: volano i profitti, giù i salari

di Marco Togna
Pubblicato su Collettiva del 18 dicembre 2024 

La Fiom Cgil presenta lo studio sui numeri del settore: raddoppiano gli utili delle imprese, briciole per i lavoratori. De Palma: “Servono strumenti straordinari”

Un report che ha anzitutto affermato due verità. La prima è che la metalmeccanica è un settore in espansione: nel 2023, infatti, l’occupazione è cresciuta di 103 mila unità, passando da 2 milioni 572 mila lavoratori a 2 milioni 675 mila. La seconda è che è un settore molto significativo per l’economia italiana: nel 2022 il suo peso, rispetto al totale delle attività economiche nazionali, è stato dell’8,16% in termini di valore aggiunto e del 9,14 come investimenti fissi lordi.

Raddoppiano gli utili, calano gli investimenti

Il report inizialmente si concentra sulle principali voci del “conto economico” nel periodo 2019-2023. A fronte di un incremento del 33,47% del valore della produzione, gli utili netti sono aumentati del 91,56% (rispetto al 2019 sono quindi quasi raddoppiati), mentre i costi per il personale hanno registrato una crescita soltanto del 19,48. Tanto per essere chiari: nel 2023 le imprese metalmeccaniche hanno realizzato oltre 30 miliardi di euro di utili.

Notevole è anche la differenza tra investimenti e profitti. Nel 2023 i primi rappresentavano il 34,95%, in progressiva diminuzione dal 2019. I profitti, invece, nel medesimo anno toccavano quota 65,05%, in progressivo aumento dal 2019.

La ricchezza prodotta va a vantaggio solo dei profitti

La quota di valore aggiunto che va ai lavoratori è diminuita tra il 2019 e il 2023 di 7,34 punti percentuali, mentre la quota di profitti lordi (Ebitda) è aumentata di 7,63 punti percentuali. Cosa vuole dire? Che la distribuzione della ricchezza prodotta è andata a vantaggio dei profitti e a totale discapito dei salari.

Va segnalato, inoltre, che il valore aggiunto per ora lavorata in Italia è superiore alla media Ue (nella metallurgia, ad esempio, è del 70,83% contro il 35,33). Di contro, il costo del lavoro è più basso della media Ue: sempre nella metallurgia, è del 30,95% contro una media europea del 31,33. Se poi calcoliamo l’incidenza del costo del lavoro sul valore aggiunto, continuando a prendere la metallurgia come esempio, in Italia è del 43,70% contro una media Ue del 58,75.

Migliaia i posti di lavoro persi, boom della cassa integrazione

Partiamo dagli ammortizzatori sociali. Nei primi otto mesi del 2024 (ossia da gennaio ad agosto) le ore di cassa integrazione hanno abbondantemente superato i 19 milioni (per la precisione: 19.467.052), registrando un balzo in avanti di oltre cinque milioni nel medesimo periodo del 2023 (erano 14.042.229).

Venendo ai 38 tavoli di crisi attivati al ministero delle Imprese presi in considerazione dal report, il primo dato è che dall’origine della crisi (il cui anno è diverso da azienda ad azienda) il numero di posti di lavoro persi è pari a 11.452. Il numero di addetti attualmente coinvolti in situazioni difficili (cioè con esuberi dichiarati e/o lavoratori in ammortizzatori sociali) è pari a 18.055: il 44,5% del personale attualmente in forza a tali aziende.

Il primo comparto maggiormente in difficoltà è quella della siderurgia, con 8.240 addetti coinvolti. Dall’origine delle crisi a oggi in questo settore sono stati persi 5.177 posti di lavoro, mentre il totale dei lavoratori coinvolti costituisce il 54,4% dei dipendenti attuali. Qui si segnalano i casi delle Acciaierie d’Italia (ex Ilva) con 5.650 lavoratori coinvolti, cui seguono Jsw Steel Italia (1.488) e Berco (550).

Il secondo comparto è l’elettrodomestico, con 2.618 addetti coinvolti. Dall’origine delle crisi a oggi qui sono stati persi 1.766 posti di lavoro; il totale dei lavoratori coinvolti costituisce il 27% dei dipendenti attuali. I casi principali sono quelli della Beko (ex Whirlpool), con 1.935 addetti coinvolti, cui seguono Italian Green Factory (ex Whirlpool), con 295 addetti coinvolti ed Electrolux (283). Il terzo comparto è quello delle telecomunicazioni ed elettronica (2.362), cui seguono l’automotive (2.299, escludendo Stellantis), altri mezzi di trasporto (1.509) e l’energia (1.027).

Riguardo l’automotive, dall’origine delle crisi a oggi sono stati persi 1.372 posti di lavoro, mentre il totale degli addetti coinvolti costituisce il 35,5% dei lavoratori attuali. Si segnalano i casi della Tecnologie Diesel (700 dipendenti), cui seguono Lear Corporation (390), Speedline (270), ex Blutec (210) e Denso Manufacturing Italia (200).

Il caso Stellantis

Partiamo dall’esorbitante differenza di stipendi. Nel 2023 l’amministratore delegato Carlos Tavares (ora ex ceo di Stellantis) ha guadagnato 23,5 milioni di euro. Nello stesso anno la paga mensile media di un operaio è stata di 2.100 euro lordi, che scende a 1.200 euro netti nei periodi di cassa integrazione.

Il 53,31% dei lavoratori ex Fiat è attualmente coinvolto in ammortizzatori sociali, praticamente non c’è stabilimento che non sia alle prese con riduzioni di orario e di stipendi. Segnaliamo solo i casi più eclatanti, a partire da Melfi (Potenza), dove 5.361 lavoratori (su complessivi 5.400) sono in contratto di solidarietà fino al 26 giugno 2025.

Passiamo poi all’impianto di Pomigliano d’Arco (Napoli) dove sono in ammortizzatori sociali tutti i 4.001 lavoratori per le ultime 24 settimane, con la cassa integrazione ordinaria chiesta appunto per tutti. Vi è Termoli (Campobasso), con 1.931 addetti (su complessivi 2.020) in ammortizzatori sociali: di questi, 887 della unità Fire sono in contratti di solidarietà al 90 per cento fino al 1° agosto 2025.

Cassino (Frosinone) 1.960 lavoratori (su complessivi 2.450) sono in contratti di solidarietà, mediamente all’80 per cento, fino al 25 aprile 2025. Nell’impianto di Atessa 1.500 lavoratori (su 4.830) sono in cassa integrazione ordinaria fino al 19 gennaio 2025, ma questa potrebbe essere prorogata fino a giugno 2025. A Pratola Serra tutti i 1.500 lavoratori sono in cassa integrazione ordinaria fino a giugno 2025.

Concludiamo con lo stabilimento torinese di Mirafiori. In contratti di solidarietà, dal 7 gennaio prossimo al 2 agosto 2025, sono gli 804 lavoratori (su 1.005) delle Carrozzerie 500 Bev, i 635 (su 794) delle Carrozzerie Maserati, i 267 (su 334) della ex Pcma di San Benigno, i 240 (su 300) delle Presse e i 76 (su 96) della Costruzione Stampi. In cassa, ma per ora fino al 14 febbraio 2025, i 203 lavoratori (su 254) del reparto Preassembly & Logistic.

De Palma, Fiom: “Bloccare i licenziamenti, aumentare i salari”

“Questi numeri ci dicono che l’Italia, senza l’industria, non farebbe parte del G7, non sarebbe nei consessi internazionali. Pensiamo, proprio partendo da questo, che occorra rimettere al centro il ruolo dell’industria metalmeccanica”, dice il segretario generale Fiom Cgil: “Abbiamo bisogno di lavorare a un’autonomia del nostro sistema industriale, a una sovranità italiana ed europea dell’industria, perché i beni e i mezzi che noi produciamo sono quelli che determinano il futuro della nostra società”.

Work now for the future”, questo il piano presentato oggi dalla Fiom. “La prima cosa da fare è impedire il processo di distruzione in atto della struttura industriale nazionale ed europea”, spiega De Palma: “Noi importiamo acciaio dall’Indonesia e dalla Turchia, auto dalla Turchia e dall’Algeria. Il processo di finanziarizzazione dell’economia sta mettendo in discussione l’industria europea, con il risultato che le aziende fanno profitti ma mancano sia gli investimenti sia le risorse per i salari”.

Con il sindacato continentale la Fiom ha costruito una proposta fondata su due elementi. “Abbiamo anzitutto bisogno di mantenere la capacità produttiva installata, che è quella che ci ha consentito di ripartire dopo l’emergenza Covid”, illustra il leader sindacale: “E abbiamo bisogno di uscire dalla competizione tra Paesi europei e, guardando all’Italia, dalla dinamica competitiva tra regioni, approdando invece a un sistema cooperativo di politiche pubbliche”.

Serve, dunque, un confronto tra il sistema delle imprese, l’Unione Europea e il governo nazionale per realizzare un “agreement for labour and environment”. Per De Palma “è del tutto evidente che il modello continentale basato sull’export degli anni passati non regge a causa delle attuali crisi geopolitiche. Occorre far ripartire la domanda interna all’Europa, e questo si deve fare allargando la base occupazionale e aumentando i salari”.

Da un punto di vista industriale, il segretario generale Fiom rileva la necessità di “accorciare le filiere produttive e fare investimenti in ricerca e sviluppo per ridurre il dumping con altri sistemi industriali, come quelli di Cina e Stati Uniti”. Altrettanto indispensabili sono alcuni interventi straordinari: “Pensiamo a tre fondi pubblici. Il primo di investimento nei settori strategici, il secondo per realizzare l’aggregazione delle piccole e medie imprese delle filiere che lavorano sullo stesso prodotto, il terzo per dare vita a un’agenzia di ricerca e sviluppo”.

Ma c’è di più. “Occorre avviare – conclude De Palma – un osservatorio nazionale dell’industria metalmeccanica e bloccare i licenziamenti. Occorre, infine, istituire uno strumento straordinario quinquennale per accompagnare i lavoratori nell’attuale fase di transizione ecologica e tecnologica, da realizzare con un mix tra contratto di espansione per favorire l’assunzione di giovani, la formazione e la riduzione dell’orario di lavoro”.

 

Parole e figure /
Inseguendo Monsieur Degas – Strenne natalizie

Impressionismo, danza, Degas. Tre parole sotto l’albero. Finalista al Premio Andersen XXX edizione come ‘Miglior libro di divulgazione’, “Inseguendo Degas”, di Eva Montanari, ci conduce nell’effervescente Parigi ottocentesca.

Ottocento, Parigi – città del cuore, città nel cuore – e una giovane ballerina dell’Opera, che, al termine delle interminabili e dure prove generali, scopre di aver scambiato la sua borsa con quella di Monsieur Edgar Degas, il pittore che per mesi ha ritratto le ballerine mentre danzano, si riposano e chiacchierano. Accanto a lui all’Opera, il fedele cagnolino Dudù che quasi quasi conosce, ormai, anche lui i leggeri e delicati passi di danza.

Che disastro: nella borsa della ballerina c’è il tutù nuovo fiammante che deve indossare quella sera! Come farà mai ora, non può certo usare i tubetti di colore… Bisogna sbrigarsi allora, e fuori piove pure a dirotto…

La ragazza corre per la città in cerca del Maestro e incontra alcuni straordinari artisti che ritraggono la Ville Lumière di quegli anni. Incontriamo Gustave Caillebotte che coglie, sulla tela, l’impressione leggera della pioggia, volgendo lo sguardo a Monsieur Claude Monet.

Il suggerimento è che Degas, passato di lì poco prima, sia andato a mangiarsi un boccone al Moulin de la Galette, a Montmartre. Tempo di arrivarci e splenderà il sole.

La luce filtra dal pergolato: lui è lì dentro, eccolo in compagnia. Ma le ballerine sono tante, troppe. Pennellate di colori, una folla allegra e festante, un’atmosfera magica.

Il celebre Monsieur Renoir le dice che Degas si è allontanato per comprare dei colori. Bisogna correre al negozio, allora, quello di Père Tanguy. Che vetrina meravigliosa!

Nulla di fatto. Il pittore irraggiungibile sta andando a portare i colori alla pittrice americana Mary Stevenson Cassatt. Una pittrice donna, che bella e inattesa scoperta! Bisogna precipitarsi da lei. Ad aprire la porta, una modella. Degas è uscito, ancora, ora è diretto verso l’Opera dove deve dipingere il balletto di quella sera. La corsa continua.

Finalmente. La ballerina dai capelli color terra d’ombra e Degas si ritrovano poco prima dell’apertura del sipario. Lui dipinge. Sarà sempre e solo lei la protagonista.

“Degas mi mostrò la tela che stava dipingendo. Rappresentava l’Etoile, la stella dello spettacolo. E quella ballerina ero io”.

Un magnifico tributo all’Impressionismo francese, alla danza e alla favolosa città di Parigi che, a Natale, è più scintillante che mai.

Eva Montanari, Inseguendo Degas, Kite edizioni, Padova, III edizione 2022, 40 p.

Eva Montanari è nata a Rimini, e, fin da bambina, ama leggere e inventare storie con immagini e parole. Oggi è un’autrice e illustratrice e vive fra Rimini e Milano. Dal 2000 i suoi albi sono stati pubblicati in Italia, Stati Uniti, Inghilterra, Cina, Taiwan, Brasile, Spagna, Francia, Germania, Giappone e tradotti anche in Portogallo, Corea, Croazia, Finlandia, Turchia, Tailandia e Argentina. Lavora con tecniche tradizionali: matite, gessi, colori a olio, tempere acriliche e ama realizzare sculture polimateriche. I suoi lavori sono stati selezionati per l’esposizione della Fiera del Libro per ragazzi di Bologna, “Original Art”-Society of Illustrators (New York), Mostra Internazionale di Illustrazione di Sarmede, Croatian Biennal of Illustration, Nami Island Exhibition, Ilustrarte (Portogallo), Sharjan Book Fair (UAE), Little Hakka international Picture Book (China). Fra i premi ricevuti: Premio Alpi Apuane, Premio Primavera del libro, Premio Sardegna, Premio Roberta Maloberti, Premio Cassa di Risparmio di Cento, Premio Fiera del libro di Torino, Premio ministero della Cultura Spagnola, Little Hakka prize. Sito web

POVERA ITALIA.
Chi paga le tasse e chi non le paga.

Chi paga le tasse in Italia? E chi non le paga?

L’Europa (e anche l’Italia) differisce dal modello americano perché si pagano più imposte, in cambio di più servizi (welfare) come sanità, scuola, pensioni e molti altri sussidi a favore dei più fragili e bisognosi. Per questo, gli immigrati, sono attratti dai paesi nordici (Svezia, Danimarca, Finlandia, Norvegia) ma anche da Germania e Gran Bretagna che hanno forti welfare a favore dei più fragili e dove quindi le disuguaglianze sono minori.

Negli Stati Uniti si pagano meno imposte ma chi evade è fortemente perseguito al punto che un terzo dei detenuti lo è per evasione fiscale, mentre in Italia non c’è nessuno in prigione per aver evaso il fisco. Ma gli Stati Uniti non sono stati sempre così, sia nel periodo del New Deal sia negli anni ’50 si pagavano molte imposte se eri ricco e l’aliquota saliva all’80% per quei redditi che superavano la soglia dei 400mila dollari all’anno.

In Italia le entrate tributarie sono circa 860 miliardi, dei quali 295 sui consumi (iva,…), 301 sui redditi (205 di Irpef, 52 da Ires/imprese, poi addizionali locali) e 264 da oneri sociali pagati da imprese e lavoratori per pensioni e sanità. Le entrate tributarie dell’Irpef (sul reddito) sono basse anche perché circa 100 miliardi sono di detrazioni per casa, salute e altre spese, di cui usufruiscono in maggior misura i redditi medio-alti.

Le imposte sui consumi sono pagate da tutti ogni volta che acquistiamo e sono regressive, nel senso che pesano di più su chi guadagna meno.
Quelle sul reddito sono pagate per l’83% da pensionati e dipendenti (che non possono evadere in quanto hanno una trattenuta alla fonte), mentre i 5,8 milioni di lavoratori autonomi hanno un’altissima evasione stimata al 68% di quanto dovrebbero dichiarare: su 100 euro ne dichiarano in media 32 (fonte Agenzia delle Entrate, vedi la tabella sottostante)

Ciò spiega perché in Italia l’evasione fiscale sia stimata al 10,8% del gettito, mentre nella media UE è la metà (5,3%). Lo Stato italiano è gravato quindi da due zavorre: 1) 83 miliardi di evasione fiscale; 2) da 100 miliardi di interessi che paga sul debito pubblico. Quasi la somma della spesa per scuola e università (80 miliardi) e della sanità (130 miliardi).

Meno imposte, più crescita? Un’illusione

I partiti di destra sostengono che con meno imposte si rafforzerà la crescita economica. In realtà solo in alcuni casi ciò avviene quando, per esempio, imprese e lavoratori autonomi e professionisti, pagando meno imposte, fanno più investimenti o pagano salari più alti.
Nelle società dove c’è un alto senso civico pagare tutti meno tasse potrebbe in effetti produrre più sviluppo, anche se l’esperienza di 50 anni dice che ciò non è mai avvenuto e quasi sempre si è usata l’elusione fiscale (legale, cioè leggi con cui si paga meno) e l’evasione (illegale) per aumentare il proprio patrimonio immobiliare (sono 5,7 milioni le seconde case in Italia) o mobiliare (depositi in banca, azioni, obbligazioni,…).
Così si spiega perché gli italiani posseggano uno dei patrimoni liquidi (solo di depositi bancari 1.572 miliardi, senza considerare azioni e obbligazioni) maggiori al mondo. Patrimonio che però si concentra tra i ceti ricchi e abbienti, i quali si sono arricchiti pagando anche meno imposte. Il risultato è: Stato povero, maggioranza degli italiani poveri e una minoranza (20-30%) abbienti e ricchi. E lo si vede bene nelle imposte sull’eredità che da noi sono 10 volte inferiori a quelle di Stati Uniti, UK, Germania e Francia.

Da 30 anni i ricchi di tutti i paesi, grazie alla globalizzazione, o non pagano imposte sfruttando i vari paradisi fiscali o pagano sempre meno, a causa della concorrenza che i paesi si fanno tra loro per attrarli (in assenza di una regola internazionale). La UE ha imposto all’Irlanda di incassare almeno 13 miliardi di mancate imposte di Apple negli ultimi 15 anni. Così il nostro bravissimo e umile Sinner non paga le imposte in quanto residente a Montecarlo e i gli eredi Luxottica (come gli altri ricchi) pagano una cifra irrisoria di eredità.

La tendenza in tutti i paesi occidentali è ridurre le imposte sul reddito in modo però da far crescere quelle sui consumi (iva) salita in Italia al 22%.

L’attuale Governo Meloni riduce le imposte di qualcosina a 31 milioni di contribuenti dipendenti (quelli con redditi fino a 35mila euro all’anno) e favorisce col concordato anche tutti i 5,8 milioni di lavoratori autonomi. Professionisti e imprese che hanno fatturato quest’anno molto più che nel 2023 possono dichiarare un aumento “presunto” del 10% dei loro redditi, anche se nella realtà li hanno raddoppiati. Inoltre a chi concorda un imponibile anche di poco superiore a quello del 2023, si apre l’opzione di versare un’aliquota ridotta – fra il 10% e il 15% – sanando con un condono tutte le controversie aperte relative agli anni 2018-2022. Opzione offerta a chi ha una bassissima fedeltà fiscale, cioè a evasori sistemici.
Una proposta poco astuta, in quanto da un lato lo Stato rinuncia a future entrate e chi non si aspetta forti aumenti di reddito non aderirà. Se “pizzicati” dal fisco sanno di cavarsela in quanto prima o poi pensano che arriverà un altro concordato (ne sono stati fatti 10 negli ultimi 15 anni). E ciò spiega perché il direttore dell’Agenzia delle Entrate Ruffini se ne sia andato (“…che ci sto a fa”).

Pagando meno tasse ed evadendole ci sono però alcuni “effetti collaterali”.
Il primo riguarda il ceto medio e alto dei dipendenti (7-8 milioni, quasi un quarto dei contribuenti) che vede crescere il suo contributo al totale delle imposte sul reddito (73% del totale).
Anche i pensionati con più dii 2mila euro al mese sono penalizzati perché sono indicizzate all’inflazione solo per il 25% e quindi anno, dopo anno, perdono potere d’acquisto. Infine non ci sono soldi per scuola, sanità e altri sussidi.

Scuola e sanità pubblica  allo sbando

La scuola e l’università versano ormai in uno stato di coma che ben conosce[1] chi ci lavora e di cui si parla poco perché, anche se ci fossero più risorse, lo stesso centro-sinistra non sa bene come spenderle (e infatti manca una proposta). Il vecchio modello educativo (specie alle superiori) è entrato completamente in crisi con studenti resi più abulici dall’uso delle app degli smartphone e indisposti a stare in classe ad imparare. Il che sta producendo un terrificante abbassamento dell’apprendimento (metà studenti sono scarsi in matematica e italiano) e l’ultima indagine Pisa dice che i nostri laureati ne sanno quanto i diplomati finlandesi.

Nella sanità la situazione è in peggioramento costante da 15 anni e sono ormai un terzo (41 miliardi) le spese che paghiamo per cure private…chi se lo può permettere di non aspettare mesi per le cure nei servizi pubblici. I poveri (7,6% della popolazione) invece non si curano più non potendo permettersi queste spese.

Se questa tendenza prosegue il sistema sanitario sarà sempre più privato (all’americana), con assicurazioni per chi può permetterselo, sapendo però che ciò comporta (per tutti) spese maggiori.
Negli Stati Uniti un’assicurazione media costa 6mila dollari all’anno per ciascun cittadino (noi ne spendiamo a testa in media 1.915 di imposte), ma spesso non consente le cure più costose e ciò spiega il consenso di massa che ha avuto tra gli americani l’omicida Luigi Mangione che ha assassinato il capo di una grande assicurazione sanitaria perché una delle pratiche diffuse nelle assicurazioni Usa (quotate in borsa) è quella che, dovendo garantire profitti agli azionisti, tagliano le cure troppo costose ed hanno una ipertrofica burocrazia (3 impiegati per medico, mentre in Italia abbiamo 3 medici per ogni impiegato amministrativo).

In un paese come l’Italia dove crescono le disuguaglianze e triplicano i poveri assoluti (da 2,1 milioni del 2006 a 5,7 del 2023) e quelli relativi (da 6,5 milioni a 8,6), afflitto da bassi salari e da una crescita di occupati solo in settori poveri (turismo, edilizia, servizi poveri), da una crisi industriale sempre più grave, da un ceto medio sempre più povero e imbufalito, potrebbe succedere al Governo Meloni (al di là dei consensi attuali) quello che è già successo a Renzi e al M5S.
Non è però chiara la ricetta dell’opposizione, vincolata da un’Europa che esige una crescente austerità fino al 2032 e con pulsioni UE-Nato al riarmo passando dall’attuale 1,57% del PIl al 3% (da 30 a 60 miliardi). Col clima che peggiora e un debito pubblico cresciuto (a valori costanti) di 53 miliardi all’anno dal 2008 al 2024, non si sa dove trovare i soldi…a meno che non si cerchino tra chi li ha. La ricetta mainstream è sempre la stessa (tecnologia & innovazione e globalizzazione) che ci ha portato fin qui.

Ma un recente studio della Luiss[2] mostra che l’investimento in scuola, sanità e protezione sociale è uno dei fattori che spiega la differenza nella crescita del reddito pro-capite, in quanto accresce il “capitale umano” generando effetti sulla produttività del lavoro e maggiore uguaglianza di opportunità. L’Italia dal 2000 al 2020 ha investito la metà (0,5%) della media UE, deteriorando il suo welfare. Nella scuola spendiamo il 4,1% del PIL e, insieme a Bulgaria, Grecia, Romania, siamo tra chi spende meno in UE. Nella sanità siamo precipitati. Ma noi insistiamo con tecnologia & innovazione, austerità e ora col riarmo. Sarebbero le basi del nostro sviluppo umano. Poveri noi.

Note:
[1] Jonathan Haidt[1] (La generazione ansiosa) la chiama la “grande Riconfigurazione”. L’introduzione dello smartphone dal 2008 ha portato l’infanzia (e adolescenti) a crescere basandosi sul telefono anziché sul gioco libero. I danni sui nostri giovani sono di portata gigantesca e spiegano, più ancora dell’economia, perché Russia, Cina e BRICS scommettono sul declino dell’Occidente.
[2] Institute for European Analysis and Policy (LEAP), presieduto da Valentina Meliciani, ordinario di Economia applicata alla Luiss su un campione di paesi della UE dal 2000 al 2022.

Per leggere gli altri articoli e interventi di Andrea Gandini, clicca sul nome dell’autore.

Parole a capo
Michela Silla: alcune poesie da “Cosa c’è di vero nelle città di mare”

La notte è calda, la notte è lunga, la notte è magnifica per ascoltare storie.
(Antonio Tabucchi)

 

La testa sulle mie ginocchia

occhi farfalla

volto alba

dove tutto inizia
ora e sempre.

Mi chiedi le rondini dove vanno,
se si perdono.

 

*

 

I passi che hai fatto
verso me controvento,

le porte del treno
su nero feroce.

Sono oceani
le strade che prendi.

 

*

La notte arida di zolle,

ti cercavo dal crinale
ma non guardavo la cima –

ora che niente è come prima,
dall’alto mani operose
case crollanti, veli di spose,

svolgi per noi corde di luce;
calano adagio da spazi tra nubi.

 

*

 

Non vinceranno
la foglia secca sul ciglio della via
o i muri grigi di periferia,

ma l’abbraccio, la preghiera,
l’odore del pane,
la dolcezza della sera;

la mattina presto l’aria pungente
che dice: sei ancora qui

e non hai capito niente.

 

*

 

Notte di gigli, si apre il mare,
la medesima incoscienza
della stella che si lascia cadere.

 

*

 

Maestrale spezza i rami,
il cielo è fermo,
non cede.

 

 

Michela Silla, nata a Cagliari nel 1984, è laureata in Lettere e ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Filologia, Letteratura italiana, Linguistica. Attualmente vive a Firenze e insegna italiano lingua seconda e strategie creative per gli insegnanti di lingua. Ha pubblicato Limpida a guardare (Transeuropa Edizioni, 2022) e i suoi testi sono apparsi in alcune riviste letterarie. È attiva nel panorama culturale e artistico di Firenze dove cura la rassegna poetica “Il prodigio della lingua nella poesia”. In Parole a capo sono uscite alcune altre sue poesie il 15 febbraio 2024.

Ringrazio l’autrice per avere autorizzato la pubblicazione di questi versi tratti dal suo nuovo libro “Cosa c’è di vero nelle città di mare“, edita da CartaCanta (Capire Edizioni), 2024, nella collana diretta da Davide Rondoni “I Passatori – Contrabbando di poesia”. Il libro è acquistabile in libreria e negli store online. 

NOTA REDAZIONALE: “Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”. Per rafforzare il sostegno al progetto invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica. 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 263° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Appello: Israele, Palestina e Italia, uniti contro la guerra

Israele, Palestina e Italia, uniti contro la guerra

Il 15 dicembre, Giornata nazionale dell’obiezione di coscienza e del servizio civile, è stata resa pubblica la Dichiarazione congiunta di obiezione di coscienza alla guerra di tre movimenti che lavorano insieme in Israele, Palestina e Italia.

Con questo documento (non il solito appello, ma un’assunzione di responsabilità), che presentiamo nelle lingue dei tre movimenti, ci impegniamo a sostenere azioni concrete nei prossimi mesi in Italia, in Israele e Palestina, chiedendo il sostegno (morale, economico, operativo) di tutti coloro che vogliono favorire un processo di pace.

Il testo che segue è uno dei frutti del lavoro di solidarietà internazionale con i gruppi misti che il Tour in Italia, sostenuto dalla Campagna di Obiezione alla Guerra, promosso dal Movimento Nonviolento con le associazioni israelo-palestinesi Mesarvot e CPT ha generato.
È scritta in arabo, ebraico, italiano, la Dichiarazione congiunta dei tre movimenti pacifisti che lavorano come “gruppo misto” di obiezione alla guerra.

Israele, Palestina e Italia, uniti contro la guerra.
Dichiarazione congiunta per un comune lavoro di pace

a partire dall’obiezione alla guerra

إعلان مشترك من أجل العمل لسلام مشترك،
رفض الحرب والاحتلال

הצהרה משותפת למען פעילות שלום משותפת,
מסרבים למלחמה ולכיבוש

 La violenza genera violenza, il sangue chiama altro sangue, e noi siamo determinati a spezzare questo ciclo che altrimenti conduce alla morte e alla distruzione reciproca di tutti. Siamo obiettori di coscienza e resistenti nonviolenti che hanno scelto la nonviolenza, convinti che sia per noi la forma migliore di resistenza al male, a difesa della vita, della giustizia e dei diritti di tutti.

العنف يولد العنف، والدم يدعو إلى مزيد من الدماء، ونحن عازمون على كسر هذه الدائرة التي تؤدي إلى الموت والدمار المتبادل للجميع. نحن المستنكفين ضميريًا والمقاومين السلميين اخترنا اللاعنف، مقتنعين بأنه أفضل شكل من أشكال المقاومة للشر، دفاعًا عن الحياة والعدالة وحقوق الجميع.

אלימות מולידה אלימות, דם קורא ליותר דם, ואנו נחושים לשבור את המעגל הזה שאחרת מוביל למוות ולהרס הדדי לכולם. אנחנו סרבני מצפון ומתנגדים לא אלימים שבחרו באי אלימות, משוכנעים שזו הדרך הטובה ביותר להתנגד לרוע, להגן על החיים, הצדק והזכויות של כולם.

 

Attraverso l’obiezione di coscienza e la resistenza nonviolenta, lavoriamo per ripristinare la giustizia per tutti, dalla quale può sorgere la pace. E la pace, a sua volta, promuoverà la giustizia e il rispetto del diritto. “Giustizia e pace si baceranno,” è scritto nei testi sacri per ebrei, cristiani e musulmani.

من خلال الرفض الضميري والمقاومة السلمية، نسعى إلى استعادة العدالة للجميع التي منها سينبثق السلام. والسلام بدوره يعزز العدالة واحترام القانون. “العدل والسلام يتبادلان القبلة”، كماورد في النصوص المقدسة لليهود والمسيحيين والمسلمين على حد سواء.

באמצעות סרבנות מצפון והתנגדות לא אלימה, אנו שואפים לשקם את הצדק לכולם, שממנו יוכל לצמוח השלום. שלום, בתורו, יקדם צדק וכיבוד החוק. “צדק ושלום יתנשקו”, נכתב בטקסטים הקדושים של יהודים, נוצרים ומוסלמים כאחד.

 

Già lavoriamo insieme – israeliani, palestinesi, italiani – per difendere il diritto umano fondamentale all’obiezione di coscienza e il diritto di tutti a vivere in pace e libertà. Le armi e le voci dell’odio devono tacere per lasciare spazio alla verità e alla riconciliazione. Chiediamo un immediato cessate il fuoco, che noi stessi abbiamo già attuato, lavorando insieme come gruppi misti per dimostrare che la collaborazione, anche in mezzo a una radicata oppressione, può piantare i semi di un futuro più giusto e pacifico.

نحن نعمل معًا – إسرائيليون وفلسطينيون وإيطاليون، للدفاع عن الحق الإنساني الأساسي في الرفض الضميري وحق الجميع في العيش بسلام وحرية. يجب إسكات الأسلحة وأصوات الكراهية لإفساح المجال للحقيقة والمصالحة. نطالب بوقف إطلاق النار الفوري، وهو ما قمنا به بالفعل من خلال العمل معًا في مجموعات مختلطة، مما يظهر أن التعاون، حتى وسط القمع العميق، يمكن أن يزرع الآن بذور مستقبل أكثر عدلاً وسلامًا.

אנחנו כבר עובדים יחד – ישראלים, פלסטינים, איטלקים – כדי להגן על זכות האדם הבסיסית לסרבנות מצפונית והזכות לחיות בשלום ובחופש. יש להשתיק את כלי הנשק ואת קולות השנאה כדי לפנות מקום לאמת ולפיוס. אנו דורשים הפסקת אש מיידית, אותה כבר יישמנו בעצמנו על ידי עבודה משותפת בקבוצות מעורבות, ומוכיחים כי שיתוף פעולה, גם תחת דיכוי עמוק, יכול לשתול כבר עכשיו את זרעי עתיד צודק ושלו יותר.

 

Conosciamo la forza della nonviolenza come stile di vita e come potenza capace di contrastare l’ingiustizia, la violenza e la guerra. Lavoriamo sia per resistere nonviolentemente alla guerra sia per favorire trasformazioni sociali, promuovendo una cultura di pace. Crediamo nella libertà, nella democrazia e nei diritti umani, e ci impegniamo per un rispetto reciproco tra i nostri popoli.

نحن نعرف قوة اللاعنف كأسلوب حياة وكقوة عظيمة لمواجهة الظلم والعنف والحرب. نحن نعمل على مقاومة الحرب بطريقة سلمية وتحقيق التحول الاجتماعي وتعزيز ثقافة السلام. نحن نؤمن بالحرية والديمقراطية وحقوق الإنسان، ونسعى إلى الاحترام المتبادل بين شعوبنا.

אנו מכירים בעוצמתה של ההתנגדות הבלתי-אלימה כדרך חיים וככוח אדיר להתמודדות עם אי-צדק, אלימות ומלחמה. אנו פועלים הן להתנגדות למלחמה בדרכי שלום והן להשגת שינוי חברתי, תוך טיפוח תרבות שלום. אנו מאמינים בחירות, בדמוקרטיה ובזכויות אדם, ואנו שואפים לכבוד הדדי בין עמינו.

 

La coscienza individuale è una difesa contro la propaganda di guerra e può proteggere i civili dal coinvolgimento in guerre di conquista e oppressione. Faremo tutto ciò che è in nostro potere per proteggere il diritto umano all’obiezione di coscienza al servizio militare nelle nostre comunità.

الضمير الفردي هو حصن ضد دعاية الحرب ويمكن أن يحمي المدنيين من الانخراط في حروب الغزو والقمع. سنبذل قصارى جهدنا لحماية الحق الإنساني في الرفض الضميري للخدمة العسكرية في مجتمعاتنا

המצפון האישי הוא מגן מפני תעמולת מלחמה ויכול להגן על אזרחים מפני מעורבות במלחמות כיבוש ודיכוי. נעשה כל שביכולתנו כדי להגן על הזכות האנושית לסרבנות מצפון בשירות צבאי בקהילותינו.

 

L’occupazione militare israeliana della terra destinata al popolo palestinese è da lungo tempo fonte di oppressione, una violazione del diritto internazionale e dei diritti fondamentali dei palestinesi: il diritto di esistere come persone libere e sovrane. Questa occupazione, che ha causato profonde ingiustizie e sofferenze insostenibili, è aggravata da altre forme di violenza contro civili inermi, a cui si risponde con la brutalità delle stragi di civili innocenti a Gaza, alimentando la spirale di odio e vendetta: finché esiste l’oppressione, la resistenza persisterà. Per interrompere questo ciclo vizioso, è necessario abolire il sistema di occupazione e apartheid che lo genera.

منذ مده طويله يشكل الاحتلال العسكري الإسرائيلي للأراضي الفلسطينية مصدرا للقمع، وينتهك القانون الدولي والحقوق الأساسية للفلسطينيين: الحق في الوجود كشعب حر وذو سيادة. هذا الاحتلال، الذي تسبب في ظلم عميق ومعاناة لا تطاق، يزداد سوءًا بأشكال أخرى من العنف ضد المدنيين الأبرياء، كالمجاز الوحشية التي ترتكب بحق المدنيين الأبرياء في غزة، هذا العنف يؤدي إلى تصاعد دوامة الكراهية والانتقام: طالما استمر القمع، ستستمر المقاومة. لكسر هذه الدائرة العنيفة، يجب إلغاء نظام الاحتلال ونظام الفصل العنصري الذي يولدها.

הכיבוש הצבאי הישראלי של אדמות הפלסטיניות הוא המקור של הדיכוי, ומהווה הפרה של המשפט הבינלאומי ושל הזכויות הבסיסיות של הפלסטינים, כולל את הזכות להתקיים כעם חופשי וריבוני. הכיבוש הזה, שגורם לעוולות עמוקות ולסבל בלתי נסבל, מייצר צורות אחרות של אלימות המופנות כלפי אזרחים תמימים, המלוות באכזריות של טבחים באזרחים תמימים בעזה, ומתדרדרות לספירלה של שנאה ונקמה: כל עוד יהיה דיכוי, ההתנגדות תימשך. כדי לשבור את המעגל האכזרי הזה, יש לבטל את משטר הכיבוש ואת משטר האפרטהייד המוליד אותו.

 

Tutto questo deve finire.
Ci sentiamo uniti e siamo solidali con chi soffre per qualsiasi guerra nel mondo oggi.

هذا يجب أن ينتهي.
نحن شعر بالوحدة والتضامن مع كل من يعاني من أي حرب في العالم اليوم.

זה חייב להסתיים.
אנו מרגישים מאוחדים ועומדים בסולידריות עם כל קורבן מלחמה בעולם כיום.

 

Community Peacemaker Teams – Palestine

Mesarvot  – Israel

Movimento Nonviolento – Italia

 

La scrittura del colore: haiku e pitture di Isabella Guidi.
Dal 22 al 30 dicembre al Centro Documentazione Donna

La scrittura del colore: haiku e pitture di Isabella Guidi

Dal 22 al 30 dicembre 2024 la pittrice Isabella Guidi esporrà la sua raccolta di opere pittoriche dedicate ai colori della natura ed accompagnate da brevi testi poetici che l’autrice ha scritto e ai quali si è ispirata per realizzare i quadri.

Lo spettatore viene condotto, quasi sospinto, ad una riflessione che va oltre le immagini, toccando ora momenti sofferti, come di fronte ai quadri che parlano della violenza della guerra o di quella subita dall’ambiente, a volte elegiaci nell’immergersi in acque cristalline di oniriche baie marine o fluviali nel luccicante cielo notturno. La luce lunare esercita sull’autrice un profondo fascino, tanto che la maggior parte delle opere esposte sono state realizzate proprio a partire dall’atmosfera notturna a lei così cara.

Non si può non essere coinvolti, trascinati dal vortice di colori, forme, immagini, suoni, che la Guidi ha realizzato: la sua ricca gamma cromatica del blu utilizzata per esprimere la notte, l’acqua, le ombre; del giallo che suggerisce non solo luce solare, ma anche le spighe di grano maturo ed il riflesso della luna sul panorama campestre; del rosso che caratterizza la frutta matura ma anche il sangue, sono solo alcuni esempi della maestria con cui la pittrice attira lo sguardo e lo conduce dentro la tela e nel profondo dell’animo, invitando ad una pausa che le parole aiutano a riempire di senso.

Proprio il profondo legame tra i due linguaggi artistici utilizzati, ha indotto l’autrice a coinvolgere le poetesse ed i poeti dell’Associazione Ultimo Rosso i quali terranno un Reading venerdì 27 dicembre alle ore 17.30 condividendo con i presenti alcuni loro testi scritti ispirandosi ai quadri della Guidi.

Non resta che invitare tutti a visitare l’esposizione e, soprattutto, a partecipare all’evento del 27 dicembre, quando le parole sensibili ed attente dei poeti amplieranno le suggestioni provenienti dai quadri.

Isabella Guidi
La scrittura del colore

22 dicembre – 30 dicembre 2024
Centro Documentazione Donna
via Terranuova 12/b – Ferrara

27 dicembre, ore 17.30: reading di poesia della Associazione Ultimo Rosso

 

La scrittura del colore

La pittura è un viaggio affascinante e interminabile.

La magia che si crea nell’incontro del colore con la scrittura trasforma i pensieri e li amplifica in quel meraviglioso “non detto” che va oltre le immagini. Dipingere evocando parole. Scrivere evocando colore.

Non descrivere ma fare sintesi, immaginando che basti veramente poco per entrare in sintonia con il mondo e trovare connessioni con le emozioni degli altri.

Non so quindi se questi lavori che vi presento sono “haiku”, tuttavia, tentavano di dichiarare il mio amore infinito per le parole.

Sono lavori silenziosi, brevi componimenti dell’anima che raccontano molte cose di me.

(Isabella Guidi)

Nel-cortile  dello scultore
con-intrecci di ferro
la luna fa meraviglie.

 

Isabella Guidi Riflessi-sullacqua-i-pesci-ignorano-lesca-a-fraseggiar-tra-luna-e-stelle-il-pescatore

Riflessi sull’acqua
i pesci ignorano l’esca
a fraseggiar tra luna e stelle il pescatore.

 

Prati di giugno
sotto la luna
leggeri esercizi di grilli.

 

Immenso sole d’Oro
risplende sulla Guerra
offesa eterna ai Potenti.


Camini e cielo scialbo
tra le cose consuete
fabbrica  quasi romantica.

 

Tace il vento impetuoso
scogliera di notte
silente il faro riposa.

 

ISABELLA GUIDI
Sono nata a Ferrara. Ho conseguito il diploma di maturità artistica presso il Liceo Artistico di Bologna e mi sono diplomata all’Accademia di Belle Arti di Bologna nella sezione di Scultura sotto la docenza di Quinto Ghermandi e Nicola Zamboni. A Ferrara, ho frequentato gli studi di Marcello Tassini, Laerte Milani e Gianni Vallieri. Ho iniziato una intesa carriera espositiva: dal 1988 al 2024, una trentina di personali, in Italia ed all’estero. Dal 1997 al 2010 ho avuto opere in permanenza in alcune Gallerie a Parigi, ho partecipato al Salone d’Autunno di Parigi nel 2002, 2005, 2008, 2022 e sono stata invitata ad esporre per l’Istituto Italiano di Cultura di Amburgo (Jork) e  Hannover (Wolfsburg) in Germania nel 2001. Nel 2016 a Ferrara, ho ricevuto il 2° premio per la Narrativa al Concorso “Lascito Niccolini” con il libro: “Verresti con me? Gianni Vallieri, la Pittura e Io”. ​Dal 1990 sono Istruttore Culturale del Laboratorio delle Arti del Comune di Ferrara.

Per leggere gli articoli di Cecilia Bolzani su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

 

Quaderni Poggesi Anno 2024: che traguardo

Quaderni Poggesi Anno 2024: che traguardo

Vorrei poter dire in tutti i sensi che questa volta, scrivendo sulla presentazione del Quaderno Poggese n.14 avvenuta lo scorso 13 dicembre nella sera di Santa Lucia, faccio del campanilismo. Alla lettera, però, la battuta non può funzionare, dal momento che il campanile della Chiesa Abbaziale di Poggio Renatico è stato abbattuto il 4 giugno del 2012, due settimane dopo il terremoto e ne rimane soltanto la struttura di base, più antica. Un mozzicone di pietre che da qualche mese si vede circondato dai ponteggi e dai tralicci della ristrutturazione, attesissima, del complesso edificio della Abbazia.

Tengo per buona la metafora del campanile e vado a dare conto di una serata importante per la Associazione Storico-Culturale Poggese, la quale si è costituita nel 2007 con la vocazione allo studio del territorio sotto il profilo storico e nelle sue manifestazioni culturali passate e presenti.

La pandemia da Covid ha interrotto al n.12 la serie dei Quaderni Poggesi pubblicati annualmente; dalla ripresa delle attività nell’aprile 2023 e dalla pubblicazione del Quaderno n.13 dopo un anno di lavoro nello scorso mese di marzo, eccoci dunque al traguardo del n. 14, col quale si è ripristinata la tradizionale ricorrenza prenatalizia di dicembre per la presentazione a soci, compaesani e sostenitori.

Mentre ne scrivo e ci ripenso ritrovo il filo tenace che dall’atto della fondazione della Associazione ha condotto fino a qui tutti coloro che hanno scritto sulla Storia del paese e le storie della gente che qui è nata e ci ha vissuto o ci vive ancora, esprimendo il senso forte della comunità e al contempo spaziando nei mosaici della storia grande.

Quanti punti di incontro si trovano tra le vite dei singoli e i quadri epocali che le accolgono. Che le determinano e, voglio credere, ne sono talvolta determinati. Sono affreschi della vita politica, del contesto ambientale e della cultura paesana in tutte le sue manifestazioni.

A scriverle, alcuni soci fondatori che con continuità in questi anni hanno studiato e poi restituito a noi il nostro territorio, più altri soci che si sono avvicendati nel tempo a dare le pennellate più variopinte al quadro.

Il mio ruolo di neo-presidente prevede che presenti  in rassegna i tredici articoli del nuovo Quaderno, i quali intanto vengono proiettati su un grande schermo e il centinaio di persone sedute nel bell’auditorium delle Scuole Medie può condividere i testi e le tante foto che li corredano. Vedo molti sfogliare curiosamente la copia che hanno appena ricevuto in qualità di iscritti.

Indico i contenuti essenziali di ogni contributo, cerco di mettere in evidenza gli intrecci tra le storie, spostando di volta in volta il cursore del tempo dal passato all’oggi.  Mi soffermo sui documenti storici salienti riprodotti nelle foto e cito dai testi passi significativi.

Prima di tutto ho esplicitato il motivo per cui la copertina ritrae il Palazzo Lambertini ristrutturato, con la nuova torre riedificata dopo il rovinoso crollo del 2012 e l’intera struttura riportata a nuova vita. Per la nostra comunità l’inaugurazione di quello che chiamiamo comunemente Castello rappresenta sicuramente l’evento più importante di questo 2024.

Il primo articolo è rivolto proprio alla sua storia plurisecolare: indagando sulle origini della casata Lambertini porta indietro il cursore del tempo fino al Medioevo e si fissa in particolare sul 1377, anno fondamentale per la storia della Chiesa e per noi poggesi: papa Gregorio XI ricondusse la corte papale a Roma dopo il lungo periodo avignonese e intraprese una politica di forte controllo sulle città italiane che intanto avevano tentato di affermare la propria autonomia.

Egano Lambertini, esponente di una delle famiglie nobili più potenti di Bologna, scelse non a caso di far costruire qui il suo Palazzo, per prendere le distanze dagli attriti che ribollivano in città tra controllo papale e aspirazioni del Comune cittadino a mantenersi autonomo.

Passo a mostrare nell’articolo successivo l’interessante documento che elenca i 32 componenti della Banda Musicale Poggese nel 1860: di ogni elemento vengono indicati il nome, il ruolo rivestito nell’organico e lo strumento suonato. Gran bella storia questa della banda, che accompagna tra Ottocento e Novecento la Storia e le storie che dicevo. Un esempio soltanto:  siamo risaliti col cursore all’ottobre del 1859, quando il suono della Banda Comunale accompagnò l’innalzamento dello Stemma Sabaudo “con molta affluenza di popolo che echeggiava con molti Evviva all’Italia Unita ed al Re Vittorio Emanuele II”.

Se lo zoom torna a restringersi dall’intera nazione al nostro paese, nello stesso anno 1859 assistiamo al riordino amministrativo dei territori dell’Emilia-Romagna e al passaggio di Poggio Renatico dalla giurisdizione amministrativa di Bologna perdurata per circa un millennio alla provincia di Ferrara.

Eccoci ora alle storie. Mostro le foto di un poeta poggese del primo Novecento, dei due libri che ha pubblicato sui quali ho lavorato con una giovane laureanda in Lettere. Racconto di lui e della moglie legati da un amore fortissimo, del suo talento multiforme e della cifra pascoliana dei suoi versi.

Lascio la parola a due giovanissime autrici e sono davvero contenta della loro partecipazione al Quaderno e a questa serata. Hanno scritto sulle attività di Estate ragazzi, il campo estivo parrocchiale che da trent’anni  aggrega molti bambini tra i 6 e i 14 anni e i loro animatori.

Sono precise e aggraziate nel resoconto delle tante avventure che hanno condiviso, prima da bambine e ora come animatrici. Giovani come sono, delle liceali, fanno pensare alla continuità che si realizza tra come eravamo e come siamo in una lunga catena di generazioni.

Alla vita attiva della parrocchia e alla crescita spirituale che si realizza nella solidarietà e nell’amicizia rimandano anche l’articolo sulla Compagnia del Santissimo Sacramento e sul Coro Giovani.

Figure di paesani, donne e uomini dal profilo tratteggiato con parole di affetto (e di effetto) si alternano negli altri articoli. Sono ricordati per un modo di dire, un mestiere (come Carlo, titolare storico della Salumeria Montanari e come Fonso il fabbro), una visione tutta personale del mondo (la Nina), un modo speciale di fare del bene al prossimo, come Riccardo e don Renato.

Si riscostruisce la storia della pallavolo poggese dai suoi esordi negli anni Settanta a oggi, e ci sono le foto di amici e coetanei miei e di altri che sono qui stasera.

Vicini al Natale come siamo,  la consueta rassegna sui cibi del nostro territorio non può che riguardare i salumi e non può che dare risalto alla bondiola tutta nostrana. Con un briciolo di rigorosa storia sulla conservazione delle carni e sui salumi, appunto, dalla preistoria a oggi!

La rubrica che chiude il Quaderno si chiama A Poggio si parlava così e potete credere che con altrettanto rigore contenga la ricostruzione storica di modi di dire e vocaboli del nostro dialetto, comprensibilmente vicino al bolognese. Prendo commiato con questa espressione, che vale come esempio e che ben si addice al mangiar leggero consigliabile in mezzo ai tanti mangiari delle feste. “L’è trést cume al buié”: cibi così dovete mangiare per tenere leggero lo stomaco. Buon Natale a tutti.

Le immagini nel testo e in copertina sono opera dell’autrice

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Parole e figure / Avere grandi sogni – Strenne natalizie

I sogni, si sa, più grandi sono meglio è. Luca Tortolini e Anna Forlati, ne “Il grande sogno”, edito da Kite ce lo raccontano. E Natale vale ancora di più.

“I sogni sono desideri, sepolti in fondo al cuor”, cantava Cenerentola. Una delle mie canzoncine preferite, canticchiata nei momenti più diversi e spesso complessi.

Anche il suo illuminato patron, Walt Disney, d’altronde, ricordava che “se puoi sognarlo, puoi farlo”. Altro mantra guida delle mie giornate. Che bello sognare! Che libertà!

Chi vive nella dimensione del sogno e in esso crede da sempre, nulla di più adatto di questo albo che a Natale sarà un piacere regalare o ricevere (chiedetelo, se non sanno cosa mettere sotto l’albero…!). Quanto ci piace essere acchiappasogni!

“Una volta mi hanno raccontato che nell’aria, se guardi bene, ci sono milioni di sogni che volano in ogni direzione. Alcuni vanno veloci e sono difficili da acchiappare. Altri sono lenti, tanto da cadere giù, e frantumarsi in mille piccoli pezzi. Certi sogni sono giusti per te”.

Dicevamo: i sogni, si sa, più grandi sono meglio è. Qualunque essi siano. E il sogno del bambino di questo albo è davvero grandissimo, perché è un elefante. Lui ci pensa, pensa solo all’elefante, vede elefanti ovunque e più ci pensa, più è felice.

Finché una notte fa un bel sogno, pieno di elefanti… ln fondo, le cose sono impossibili solo fino a quando non accadono. E Banvard arriva. Per farlo sentire il benvenuto gli si costruisce una bella casetta in giardino, illuminata solo dalla luce magica delle stelle.

E poi si è felici quando si vorrebbe, semplicemente, che il tempo non passasse mai. Il tempo, questo regalo spesso conosciuto, dal valore inestimabile.

Ma si sa, crescendo è difficile tener vivi questi sogni, ci si mette la realtà per farceli accantonare. E così è per la maggior parte di noi. Se non fosse che senza i sogni noi tutti siamo poca cosa. Il bambino di questo albo se ne accorge e vuole recuperare il suo.

Una delicata e bellissima storia di altri tempi sull’amicizia tra un bambino e un elefante, e una metafora importante su realtà e sogno. Dove conta solo il tempo. Da non perdere.

“Il grande sogno è più vicino di quanto immagini”.

Luca Tortolini, Anna Forlati (illustratrice), Il grande sogno, Kite edizioni, Padova, 2021, 32 p.

Il brand washing di Autostrade passa attraverso uno spot seducente ed osceno

Il brand washing di Autostrade passa attraverso uno spot seducente ed osceno

 

I bravi pubblicitari sono dei geni del male. Sono gli artefici della proiezione del mondo di armonia, moralità, libertà, potenza e bellezza associato ai brand delle principali aziende multinazionali. Sono i grandi ripulitori dell’immagine del capitale. E’ così da almeno quarant’anni, cioè da quando al dolo commerciale connaturato allo strumento pubblicitario, i committenti hanno preteso di aggiungere una visione del mondo da associare al proprio marchio.  In presenza di una concorrenza planetaria, pubblicizzare la caratteristica peculiare di un prodotto può non bastare, specie se questa caratteristica peculiare non esiste. Occorre veicolare e far passare la potenza di un mondo immaginario, del quale puoi (anche inconsciamente) immaginare di fare parte detenendo, più che quel prodotto, quel marchio.

Una delle prime pubblicità che utilizzò il racconto di un mondo anziché quello di una qualità, riguarda le sigarette Marlboro.  La Philip Morris doveva cominciare a vendere sigarette con filtro, fino ad allora considerate tipicamente femminili, anche agli uomini. Per raggiungere l’obiettivo non puntò sulla riduzione del danno alla salute teoricamente derivante dal fumare con un filtro: puntò tutto su un immaginario virile e mascolino, associato in origine ad un cowboy chiamato Marlboro Man, la cui evoluzione trasformò la figura in un mondo – Marlboro Country – fatto di paesaggi innevati, passeggiate a cavallo, vita all’aria aperta. Nulla a che fare con una sigaretta, ma l’associazione con un immaginario virile e salutare fece decollare le vendite presso i maschi.

 

 

 

Alcune volte l’immaginario evocato c’entra poco con il prodotto, ma risulta efficace nell’aumentarne le vendite. In altri casi, il mondo proiettato rappresenta un autentico rovesciamento di senso: come nelle pubblicità delle compagnie assicurative che mostrano esempi di altruismo e disinteresse, con un totale azzeramento del concetto centrale dell’impresa in questione, cioè erogare delle coperture purché siano largamente inferiori ai premi incassati – che non è scandaloso, ovviamente, ma non ha niente a che fare con il disinteresse.

 

Nonostante le operazioni di ” brand washing” siano innumerevoli, ci sono esempi in cui un vettore collegato ad un immaginario è piegato a pubblicizzarne uno completamente opposto. Questi casi sono particolarmente sgradevoli: anche nel pervertire il senso di un messaggio ci dovrebbe essere un limite.  E’ il caso della nuova, per un verso seducente, pubblicità di Autostrade per l’Italia, ideata dall’agenzia di Luca Josi. Capisco la necessità di rilanciare l’immagine di un’azienda demolita dallo scandalo del crollo del Ponte Morandi, ora che è tornata prevalentemente in mano pubblica – la Atlantia dei Benetton ha infatti venduto la quota di maggioranza ad una cordata guidata da Cassa Depositi e Prestiti. Tuttavia, utilizzare come trailer sonoro di questa ripulitura “La libertà” di Giorgio Gaber non è un’operazione audace o spregiudicata, è un’operazione oscena.

Si tratta di una canzone pubblicata nel 1972, nata dentro un clima già repressivo delle istanze di progresso sociale. Un pezzo ad un tempo perfettamente inserito nel suo tempo e premonitore di una deriva del concetto di libertà, deriva che i visionari Gaber e Luporini già intravedevano:  la libertà come spazio apparentemente libero (l’esercizio di una scelta da consumatore, o di una delega politica, l’uomo che “nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà”) dentro una società che ingabbiava questo concetto dentro confini molto rigidi, fuori dai quali arrivava la repressione (vi ricorda qualcosa, a proposito del DDL che stringe il cappio attorno alle manifestazioni di piazza?). E la rivendicazione della libertà come “partecipazione”, proprio quella partecipazione che sempre più spesso manca e latita addirittura nelle sue forme mediate, come appunto la delega politica. E quando sopravvive, la si vuole reprimere.

Cosa ha a che fare una rete autostradale, malmessa e costosa, con questo? Per quale ragione usare immagini di bambini e di maestranze al lavoro (sempre eroica la manodopera quando si tratta di captare la benevolenza mediatica, ricordiamoci degli infermieri al tempo del Covid) mentre Gaber canta di una libertà che non c’entra nulla con una infrastruttura spesso scassata, posseduta fino a poco fa da una concessionaria sotto la cui gestione gli azionisti hanno incassato profitti enormi e i cittadini pagato prezzi variabili, in alcuni casi tragici? Lo so che la proprietà è passata di mano, ma se io fossi il parente di una delle vittime del crollo del Ponte, che effetto mi farebbe questa roba?

Mi meraviglio della Fondazione Giorgio Gaber che ha dato il permesso di utilizzare la canzone per uno scopo così dozzinale, ma immagino che il denaro non puzzi. Quella canzone appartiene ad una memoria collettiva che viene scippata di senso in cambio di soldi. Non era impossibile concepire una propaganda di maggiore sobrietà per rilanciare l’immagine di questa azienda.

 

La Comune di Ferrara: approvato dalla maggioranza un PUG senza confronto, carente e contraddittorio

La Comune di Ferrara: approvato dalla maggioranza un PUG senza confronto, carente e contraddittorio.

In Consiglio Comunale, come gruppo consiliare La Comune di Ferrara abbiamo espresso un parere contrario all’adozione del nuovo Piano Urbanistico Generale (PUG), sia per questioni di contenuto che di metodo.

Lo riteniamo insufficiente rispetto alle gravi sfide ambientali ed urbanistiche che la mutazione climatica che già stiamo vivendo ci pone e ci porrà, come emerge dal documento sull’Analisi Climatica presente nel Piano, in cui si evidenzia che la Strategia per la qualità urbana ed ecologico ambientale del PUG si deve confrontare con un profilo climatico locale in rapido mutamento, e probabilmente peggioramento. È come se le nostra città stesse cambiano più velocemente di quanto i modelli climatici possano prevedere. La temperatura media continua a salire, con conseguenti periodi di siccità che ben conosce l’agricoltura, ondate di calore e notti tropicali, oltre a rischi crescenti di eventi metereologici estremi, come le recenti e vicine alluvioni dimostrano. Quello che serviva erano chiare e stringenti linee di indirizzo, anche più stringenti di quanto consenta la legge urbanistica regionale. Serviva più decisione e coraggio e interventi sistemici, con regole e prescrizioni. Perché è bene ricordare che la mutazione climatica dipende da un complesso di fattori causati dal sistema economico produttivo e di consumo.

Nonostante gli obiettivi strategici siano complessivamente condivisibili, trovano una non sufficiente rispondenza nelle linee di indirizzo e a volte addirittura una assenza, giustificata come esigenza di “flessibilità” e rimando a successivi Accordi Operativi, svuotando di fatto il PUG della sua funzione di orientamento ed indirizzo.

Progetti come il parcheggio sull’area dell’ex zuccherificio a Pontelagoscuro che vedrà un Parcheggio di 10/12.000 automobili o l’uso del Parco Bassani per eventi di massa senza aver preso in considerazione un’alternativa nel Parco sud per gli eventi temporanei, dimostrano una visione incoerente con gli obiettivi di sostenibilità dichiarati.

Nel PUG manca un Piano del Verde e della biodiversità Ferrara, che ponga la valutazione dei servizi ecosistemici come azione fondamentale per sviluppare scenari di pianificazione del territorio e misurare gli effetti di sostenibilità delle scelte. La biodiversità non è più solo una questione ambientale e paesaggistica, ma una vera e propria questione di salute pubblica, fondamentale per la protezione della salute della nostra comunità, in particolare di quella più fragile, visto i livelli di inquinamento da polveri sottili, le temperature elevate e il rischio idrogeologico, tutte questioni che possono essere mitigate se si favorisce una seria tutela e promozione del verde.

Per essere coerenti con gli obiettivi di stop al consumo di suolo, l’espansione urbanistica deve essere limitata, senza più cedere alla logica di nuove espansioni e speculazioni edilizie o accordi discutibili come per l’area rinominata Feris 2 che per fortuna è decaduta dal PUG ma che avrebbe consentito l’edificazione di un’area inedificabile. E’ necessario privilegiare una rigenerazione urbana con una chiara regia pubblica, recupero e riqualificazione del patrimonio esistente sia in ambito abitativo che per le aree produttive dismesse.

La mobilità sostenibile è un altro tema insufficiente. Il rapporto tra il Piano Urbanistico Generale (PUG) e il Piano Urbano della Mobilità Sostenibile (PUMS) dovrebbe infatti essere sinergico. Non abbiamo rilevato, nella concretezza, linee di indirizzo in questa direzione, neppure per abbozzare proposte di mitigazione di aree congestionate dal traffico, come evidenziano le numerose osservazioni giunte dai cittadini e dai comitati ritenute non accoglibili.

Pare un tabù parlare di ridurre l’uso dell’auto, ma solo interventi in questa direzione possono migliorare sia i livelli di inquinamento che la sicurezza stradale, nella città che le statistiche segnalano essere 104esima su 107 (dati Istat). Per convincere le persone a lasciare a casa l’auto e prendere il mezzo pubblico o la bicicletta serve una rete diffusa e integrata di mobilità pubblica e le piste ciclabili devono essere continue e definire circuiti integrati, associati a parcheggi scambiatori alle porte della città, alla predisposizione di sensi unici di marcia, oltre che di zone 30.
È più che mai necessario un cambio di paradigma ed è proprio questo che non si intravvede nel PUG adottato a maggioranza.

Il Piano manca anche di progetti simbolici e sperimentali da avviare subito in alcuni quartieri, invece di potenziare i parcheggi già esistenti in città, come avverrà nel caso di Piazza Travaglio che verrà desigillata e piantumata, quindi resa bella e resiliente, ma prevedendo un parcheggio limitrofo alla piazza che passerà da 70 a 100 posti auto.
Con alcuni emendamenti abbiano provato al rischio di edificare palazzi di multipiano nelle strade prospicenti le Mura, come via Bacchelli, Via Gramicia e Via Caldirolo o a sopperire a mancanze e ritardi nella programmazione urbanistica di Ferrara, come sul problema delle antenne per la telefonia, con il nuovo Piano antenne che non viene applicato e che non limita le installazioni su terreni privati. Anche la grave mancanza di un Piano del rumore incide a livello urbanistico sulle decisioni da prendere, in tema di  viabilità e traffico automobilistico, ma anche su che luoghi destinare in città a concerti e grandi eventi.

Il colmo lo abbiamo visto in Consiglio comunale quando la maggioranza ha bocciato tutti gli emendamenti presentati dalla minoranza, compreso, incomprensibilmente e in totale incoerenza con se stessa, un emendamento de La Comune che chiedeva di inserire le distanze minime tra centrali di biometano/biogas e luoghi sensibili, contraddicendo di fatto e incomprensibilmente quanto di fatto votato in consiglio comunale all’unanimità dieci giorni fa, quando  si è detto “no” al permesso di costruire in deroga alle distanze minime, per la centrale di Gaibanella.

Per quanto riguarda la carenza metodologica con cui è stato condotto un processo di lavoro durato più di due anni, riteniamo che “partecipazione e trasparenza”, cardini della Legge Regionale 24/201, siano state gestite in modo superficiale rispetto alla complessità degli obiettivi dichiarati. Appena due incontri pubblici aperti alla cittadinanza a novembre 2023 e la scarsa inclusione dei gruppi più vulnerabili non possono definirsi un vero percorso partecipativo. È mancata chiarezza sugli obiettivi della partecipazione: gli scopi del processo andavano meglio definiti e comunicati in modo trasparente, così che i cittadini comprendessero quali aspetti della decisione pubblica erano aperti al contributo e quale sarebbe stato il peso delle loro osservazioni e suggerimenti.  Nonostante la Giunta avesse deliberato di attivare forme di contraddittorio tra chi presentava osservazioni e l’Amministrazione, a molti degli osservanti non è stato garantito l’accesso alle valutazioni tecniche, comportando di conseguenza un impegno della minoranza a svolgere una funzione di intermediazione in Commissione consiliare.
Tutto questo va in direzione contraria a una visione partecipata della nostra città.

Il PUG è il Piano più importante degli ultimi decenni e più importante per i prossimi decenni, per il futuro della città e delle giovani generazioni e sarebbe stato fondamentale fosse condiviso quanto più possibile. Incredibilmente abbiamo assistito invece anche ad una grave bocciatura, quella di un emendamento in cui si chiedeva la possibilità come minoranza di partecipare agli incontri di monitoraggio del Piano, per esercitare la funzione di vigilanza e controllo che il nostro mandato prevede.

La Comune di Ferrara

“Sorella io ti credo” perché nessun altro lo farà

“Sorella io ti credo” perché nessun altro lo farà.

di Giulia Blasi 
Articolo originale su Valigia Blu del 10 Dicembre 2024
I movimenti sono cerchi nell’acqua. La goccia che li ha generati si è già dissolta, ma l’acqua continua a vibrare e ogni onda genera la successiva. I femminismi non fanno eccezione: quando ho cercato di ricostruire quale sia stato il punto esatto della storia in cui lo slogan “Sorella, io ti credo” si è affermato nel linguaggio e nelle politiche dei movimenti femministi, sono risalita fino a un caso ormai dimenticato dall’opinione pubblica: la goccia.

Nel luglio del 2016 una donna viene aggredita da un gruppo di uomini durante le Sanfermines di Pamplona: sono in cinque, la stordiscono con farmaci sciolti nel bicchiere, la stuprano a turno e filmano le violenze. Si scoprirà che facevano parte di un gruppo organizzatodetto “La Manada (il branco), che si scambiava consigli su come attuare una violenza sessuale.

Lo stupro arriva a processo a novembre 2017, quando in tutto il mondo #metoo e le altre campagne contro le molestie occupano il dibattito pubblico, in tutto l’Occidente a seguito delle rivelazioni su Harvey Weinstein: l’altra goccia. Dalla sentenza per quel processo – solo 9 anni per “abuso”, a fronte delle richieste tra i 22 e i 25 anni fatte dall’accusa  – nasce il grido delle donne spagnole, “Hermana, yo sí te creo”. Sorella, io ti credo.

Da quei cerchi incrociati, in Spagna, è nata la legge che ridefinisce lo stupro come assenza di consenso al rapporto sessuale, e che se applicata oggi allo stesso caso porterebbe a condanne ben più severe nei confronti dei cinque aggressori di Pamplona. Ma la frase è rimasta, e si è diffusa in tutto il mondo, arrivando anche da noi, nel paese che ama dire che “le donne sono le peggiori nemiche le une delle altre”. Sorella, io ti credo: c’è una tenerezza, una solidarietà, in questa frase, che ne rende ancora più evidente e sovversivo il sottotesto politico. Io ti credo, perché altri non lo faranno.

Non è possibile comprendere la potenza o l’importanza di questa frase scollegandola dal contesto che la genera. Per moltissimo tempo, e in parte ancora oggi, la parola delle donne ha avuto un peso molto inferiore rispetto a quella degli uomini. Dalle microaggressioni sul lavoro (il capo che si impossessa delle tue idee, il collega maschio che ripete una cosa che hai appena detto e viene preso sul serio, mentre tu no) alla delegittimazione delle accuse anche molto circostanziate di stupro o violenza domestica (in cui la donna che denuncia viene fatta passare per “poco di buono” o mitomane pazza, oppure viene accusata di essersela cercata), la parola femminile ha un peso specifico diverso, più basso.

Del resto, in Italia fino al 1996 una donna non poteva cercare giustizia per una violenza sessuale subita se non accettando di diventare, simbolicamente, proprietà pubblica: fino a quell’anno, lo stupro era reato contro la morale e non contro la persona. Era la comunità a essere offesa, non la donna, il cui corpo diventava un terreno violato, un oggetto rovinato da una violenza che fino a quindici anni prima poteva essere cancellata con il matrimonio. Perché una donna stuprata non ha più valore, è una cosa rotta che nessuno vuole più.

Que la honte change de camp”, ha detto Gisèle Pélicot durante il processo che la vede protagonista, non come vittima ma come sopravvissuta alla violenza maschile: la vergogna deve cambiare lato. Un’altra frase che si accosta a “Hermana, yo sí te creo” nella creazione di una cultura di ribellione alle norme patriarcali, che vorrebbero scaricare l’onere della violenza su chi l’ha subita e che rifiutano di prendere sul serio le denunce, anche quelle che le donne tentano di portare di fronte a un tribunale.

Non è semplice: fra circa un mese, Donald Trump assumerà per la seconda volta la presidenza degli Stati Uniti d’America, e nel frattempo una causa civile ha stabilito che sì, senza dubbio, il presidente entrante è colpevole di aver stuprato E. Jean Carroll in un camerino di prova di Bergdorf Goodman a metà degli anni ’90. Tra le scelte di Trump per le cariche principali della sua amministrazione ci sono Matt Gaetz, che ha rinunciato sotto minaccia di un’inchiesta perché accusato in maniera credibile di aver pagato per fare sesso con minorenni in festini a base di droghe; Pete Hegseth, anche lui oggetto di accuse di violenza sessuale e di maltrattamenti ai danni dell’ex moglie; Linda McMahon, che insieme al marito Vince è accusata di aver coperto gli abusi su minorenni compiuti da un ex dipendente della WWE (World Wrestling Entertainment). Se nessuna di queste circostanze è sufficiente a rendere questi personaggi ineleggibili, è perché alle donne – e in generale alle vittime di violenza sessuale – nessuno crede.

Viviamo in un clima feroce: un riflusso mefitico che ha come innesco proprio #metoo, i femminismi e i movimenti per i diritti civili. Ogni volta che un gruppo marginalizzato alza la testa, e nello specifico ogni volta che lo fanno le donne o le persone LGBTQ+, prendendo o creando uno spazio nella vita politica, ecco che quasi in automatico arriva il contraccolpo reazionario, volto a rintuzzare ogni rivendicazione con la violenza verbale, fisica o istituzionale.
Gli uomini, come gruppo sociale, tendono da sempre a respingere le rivendicazioni delle donne quando queste si fanno più rumorose e minacciano quello che viene percepito come l’ordine naturale delle cose. I flussi elettorali negli Stati Uniti (e non solo) mostrano un orientamento dei giovani maschi, soprattutto bianchi, in favore di figure che fanno di misoginia, transfobia e razzismo una bandiera ideologica sventolata apertamente. Gli incel, che fino a pochi anni fa erano tristi figuri confinati negli anfratti di internet da cui emergevano solo per compiere omicidi o stragi, sono ora una vera e propria forza politica. Non hanno smesso di piangersi addosso, ma ora hanno interi governi dalla loro parte.

“Sorella, io ti credo” non è una richiesta di sbilanciamento giudiziario in favore delle donne, è una risposta alla distorsione cognitiva e culturale che vede le donne come bugiarde e manipolatrici, creature di cui non è il caso di fidarsi, capaci di ogni cosa pur di rovinare bravi ragazzi. È una richiesta di attribuzione di valore alla parola di chi non viene creduto simile a quella insita nello slogan “Black Lives Matter”: certo, tutte le vite valgono, ma per la società le vite delle persone razzializzate valgono un po’ meno. Ramy Elgaml è morto pochi giorni fa in un incidente ancora da chiarire, ma che coinvolge l’arma dei Carabinieri. Se fosse avvenuto il contrario, se a morire fosse stato un membro delle forze dell’ordine, avremmo tutto il governo sugli scudi contro gli immigrati cattivi, appelli a inasprimenti delle pene e nuovi reati inventati sul momento. Invece è morta una persona razzializzata, e sembra che gli unici a protestare per quella morte siano gli abitanti del quartiere Corvetto, in cui Ramy viveva.

Nessuno verrà mandato in carcere senza passare per un processo solo perché le femministe credono alla denuncia di una donna. Lo Stato di diritto esiste, pure se viziato da pregiudizi o inefficienze: i pochi casi che vanno a processo hanno spesso esiti discutibili, si può essere assolti da un’accusa di stupro se una donna lascia la porta del bagno aperta per chiedere dei fazzoletti, da una di molestie se il contatto dura sotto i dieci secondi, o non andare mai a processo se sono trascorsi oltre dodici mesi dal fatto.

“Sorella, io ti credo” nasce anche da qui, da sentenze ridicole e inadeguate, che tutto fanno meno che garantire la persona, da una legislazione che tutela l’aggressore, che non lascia alle sopravvissute il tempo di elaborare il trauma, che assume il consenso anche dove non è stato espresso e non dispone protezioni adeguate per chi è vittima di violenza. Anche la scomparsa di Giulia Cecchettin era stata trattata come un allontanamento volontario dai Carabinieri di Vigonovo: “non in pericolo di vita”, era scritto. Al momento della denuncia, era già morta.

“Sorella, io ti credo” perché le nostre vite e la nostra libertà valgono, e solo chi è in profonda malafede può far finta che la disparità di trattamento non esista. Le tracce di quel dislivello sono tutte intorno a noi, e non basta certo una donna alla Presidenza del Consiglio a farle sparire, soprattutto se quella donna investe così tanto del suo tempo a scagliare frecciate infantili verso chi da sempre lavora per sconfiggere i pregiudizi.

“Sorella, io ti credo” perché nessun altro lo farà, e ogni denuncia che arriva a processo è una nuova goccia nel mare troppo calmo, troppo piatto, dell’acquiescenza a un sistema di oppressione.

Il 1522 è il numero gratuito da tutti i telefoni, attivo 24 ore su 24, che accoglie con operatrici specializzate le richieste di aiuto e sostegno delle vittime di violenza e stalking. Per avere aiuto o anche solo un consiglio chiama il 1522 oppure apri la chat da qui.

Immagine anteprima: frame via YouTube)

Atlante Appennino, di Elisa Veronesi

Atlante Appennino, di Elisa Veronesi

Immaginiamo di entrare in un libro attraverso una soglia, una sola e non altre. E che questa soglia sia la copertina con un’immagine, il titolo del libro e il nome di chi lo ha scritto; e che sia le immagini contenute nel libro, e null’altro. Immaginiamo di ignorare alette, bandelle, quarta di copertina, recensioni e commenti, qualunque elemento paratestuale ed extratestuale.

Solo un nome, un titolo, le figure.

(Così entravo nei libri da piccola).

Qui abbiamo un disegno al tratto, con colori tra oliva e nocciola e noce: rilievi montuosi, valli e dorsali, crinali e boschi, né case sparse né paesi. Nel cielo vuoto, sopra le cime, appare il nome dell’autrice, Elisa Veronesi, e il titolo Atlante Appennino. Un’ecobiografia. Dentro il libro, tre piccole fotografie in bianco e nero; all’interno di entrambi i piatti della coperta, curve concentriche disegnate: curve di livello, ma prive dei valori di quota.

Immaginiamo di portare il libro nello zaino, nell’andare dei giorni, di guardarlo talvolta anche senza leggerlo, anche in carenza di tempo. Vedremo lettere in copertina, in nero e in rilievo, e all’interno dei piatti di copertina vedremo al centro di ogni isoipsa il segno +: mirino, messa a fuoco, segnale.

Chi guarda il paesaggio in copertina si trova in un punto di osservazione elevato, ma non aereo: così che il suo sguardo va sempre al centro, verso una punta montuosa.

Nelle foto interne vediamo una spiaggia, un muro, una finestra e un prato.

Un libro è testo, paratesto e presenza.

Atlante Appennino è uscito da quasi un anno, grazie all’editore indipendente Piano B (1), e ha avuto da subito ottime recensioni: io, però, le ho lette molto dopo aver letto il libro.

Ho iniziato la lettura senza soffermarmi su bandelle e quarta, senza approfondire l’ecobiografia come genere, senza documentarmi, senza informarmi: ho deciso di entrare per quella soglia – titolo autore copertina immagini – e basta. Così ho letto le pagine come frasi; ho letto immagini come sguardi e, solo dopo, parole.

“Atlante oggi è un luogo di rovine”, scrive Elisa Veronesi: “l’Appennino oggi è un luogo di rovine, e la necessità di dirne i resti ne conferma la sparizione”.

Oggi è tardo capitalismo, riscaldamento globale, è il divenire della sesta estinzione; Atlante, fin dal suo nascere in quanto titolo, fin da Gerardus Mercator insomma, è simbolo e strumento del capitalismo, di colonizzazione e spartizione della terra; Appennino è il dorso della penisola italiana – è il mutato antropologicamente, botanicamente e socialmente, è l’inafferrabile, è il refrattario a oggettificarsi in qualcosa di ben definibile.

È l’Appennino del grande spopolamento, è gente e memoria e vuoto, è l’Iperoggetto Appennino.

Ho conosciuto l’Appennino settentrionale – cui questo libro è dedicato – durante la grande fuga degli anni Sessanta, ed è da allora che cammino a volte in Appennino e di questo lungo camminare ho ricordi come di capsule del tempo, di epicedi, di constatate desolazioni, di celebrazioni laiche di frammenti.

Per questo motivo stavo lontana da presentazioni e recensioni, da post e giudizi su questo libro: dovevo entrarci con cautela, e adagio con paratesto ed epitesto. Perché avevo dieci anni quando ho conosciuto l’ecoansia (grazie al racconto delle imprese spaziali) e il pessimismo cosmico (grazie alla Ginestra di Leopardi) ed è dalla soglia delle immagini, del libro nello zaino, del leggere come leggevo a dieci anni, che ora dovevo passare.

Elisa Veronesi sceglie il nome di Atlante non per volontà di potenza, ma al contrario per sconforto e bellezza, e sceglie di cartografare l’Appennino mediante l’ecobiografia, che integra vite e ambiente nel legame tra i viventi e il mondo che abitiamo: sono dunque scritture composite e diverse, dal racconto al frammento filosofico al pezzo biografico alla scrittura di paesaggio, i testi che formano questo libro.

Sono centocinquanta pagine di osservazione e rimemorazione, di sconforto e di inafferrabile bellezza.

E’ un libro che racconta anche di isole – si apre infatti con il mare e la costa, il passaggio tra luoghi e confini, e il migrare – come di vite montanare e di paesi spopolati, come di Nietzsche che passò cinque inverni consecutivi a Nizza, “abbagliato dalla luce che ancora riverbera in questi luoghi”. Racconta di quando una sera di agosto sul fiume “ci sentiamo montagne, siamo montagne”. Di paesaggi ricordati e perduti, di luoghi che scompaiono.

E raccoglie assieme le voci di chi dell’Appennino ha scritto, in un’interessante diffrazione tra un immaginario ligure potente e duraturo – innestato sulla scrittura di Sbarbaro e Calvino, fino a Biamonti e al recente Peninsulario di Marino Magliani (2) – e le tracce della sparizione, dello svuotamento, che popolano le scritture di Raffaele Crovi, di Silvio d’Arzo, di Guido Cavani, fino all’Appennino sinestetico de L’ora del mondo di Matteo Meschiari (3).

E Veronesi dedica a queste voci, a quelle delle persone conosciute nei paesi, alle voci che popolano i suoi racconti e alle voci del Maggio Drammatico – che risale ad antichi culti di rinascita e poi alle canzoni di Maggio, religiose e profane, e tuttora si svolge ogni anno in una valle appenninica reggiana – una scrittura davvero preziosa per vitale e sinestetica pienezza, mostrandoci che si può trasformare il ricordo di un luogo in una mappa celibe, ridisegnarlo, “allentare la presa, alleggerire il passo, imparare a disabitarlo”.

Questo libro è un atlante, ma non contiene mappe disegnate; e io lo ho letto ricordando il modo in cui leggevo da bambina, quando mi meravigliavo della bellezza delle frasi dopo aver cercato le figure. Quando le immagini erano figure, e subito dopo – e assieme – frasi.

In particolare, i testi più aderenti alla forma-racconto presenti in Atlante Appennino mi rammentano il saggio Disegnare sulla carta (4), in cui John Berger descrive tre diversi modi in cui funzionano i disegni: “Ci sono quelli che studiano e interrogano il visibile, quelli che annotano e comunicano idee, e quelli fatti a memoria”.

Mentre nel primo tipo “il tempo è obliterato da un eterno presente. Presente indicativo”, i disegni del secondo tipo sono visioni di “cosa succederebbe se…” e per lo più “registrano visioni del passato ormai a noi precluse”, ma “quando c’è abbastanza spazio, la visione rimane aperta e noi entriamo. Condizionale”.

Il disegno fatto a memoria, spesso per un dolore da esorcizzare o da trasformare, è invece quello che non allestisce alcuna scena, né interroga il visibile, ma “si limita a dichiarare: ho visto questo. Passato prossimo”.

Ma poi ci sono anche altri disegni, in cui tutto sembra esistere nello spazio e ci si trova come alle soglie della creazione del mondo. E “poiché impiegano il futuro, simili disegni prevedono”.

Atlante Appennino è un libro di grande bellezza sinestetica, che trasforma e sviluppa l’energia del pensiero ecopessimista (5): la sua visione – il punto di osservazione di cui dicevo poc’anzi – supera le usuali polarizzazioni tra passato e presente, e tra presente e futuro, illuminando assieme punti perduti del passato, così come molti futuri e molti presenti.

E contiene racconti – mi riferisco a Pietra Makis e a Moho – che narrano un futuro dopo crolli e catastrofi, eppure appaiono così prossimi alla creazione del mondo. Così lucidamente presenti.

Così, invece di una recensione o una presentazione, ho provato a scrivere di questo libro come testo, paratesto e presenza.

Note

(1) Elisa Veronesi, Atlante Appennino. Un’ecobiografia, Prato, Piano B Edizioni, 2024.

(2) Marino Magliani, Peninsulario, prefazione di Filippo Tuena, Trieste – Roma, Italo Svevo, 2022.

(3) Matteo Meschiari, L’ora del mondo, Matelica, Hacca, 2019.

(4) in John Berger, Sul disegnare, a cura di Maria Nadotti, Milano, Scheiwiller, 2007, poi Milano, Il Saggiatore, 2017 (Berger on Drawing, Cork (Ireland), Occasional Press, 2005).

(5) tra i molti libri sul pensiero ecopessimista ricordo qui il recente, e bellissimo, saggio di Claudio Kulesko Ecopessimismo. Sentieri nell’antropocene futuro (Prato, Piano B Edizioni, 2023).

Per leggere i contributi di Silvia Tebaldi su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

“La cospirazione del Bene” di Luca Casarini e Gianfranco Bettin.
Incontro con gli autori: Ferrara, 20 dicembre, ore 21

La cospirazione del Bene

Da oggi disponibile in tutte le librerie del globo terracqueo. O della nazione, come preferite. O nelle librerie che stanno dentro i sacri confini. E potete ordinarlo per deportazione anche. Si dice ne girino già copie clandestine. (Luca Casarini)

Cosa succede se la politica specula sulla cosiddetta “emergenza immigrazione”? Se l’antica legge del mare – le vite si salvano, e poi si discute –, recepita dalle convenzioni internazionali, viene messa in discussione da leggi interne spesso ispirate a principi disumani? Succede che il mare nostrum, da luogo di comunicazione fra popoli e civiltà, diventa il cimitero di chi è scappato dalla povertà, dalle guerre, dalle torture alla ricerca di una vita migliore. E la vita, invece, l’ha persa tra le acque.

Nasce così Mediterranea Saving Humans, l’unica Ong della flotta civile che opera nel Mediterraneo a battere bandiera italiana. Un gruppo di attivisti dei movimenti collettivi di questo scorcio di millennio si incontra con una rete di sostenitori che consente l’acquisto di una nave. Dal 2018 la Mare Jonio ha salvato centinaia di persone, quando erano già in balìa delle onde o sul punto di cadere o di tornare in mano agli aguzzini che le avrebbero riportate in Libia, nei lager, a subire violenze, stupri, torture, schiavitù.

In questo lavoro di monitoraggio e soccorso, Mediterranea ha incontrato molte realtà affini e, in particolare, la Chiesa di Francesco, schierata a tutela dei diritti dei migranti come nessun’altra istituzione del pianeta. Ciò rende più forti di fronte alle continue intimidazioni e ingerenze subite da chi ha deciso di disobbedire concretamente, in nome della legge più alta dell’umanità: la persona viene prima di tutto. Su questa rotta si muove Mediterranea: il libro, con la voce del fondatore Luca Casarini raccolta da Gianfranco Bettin, ne racconta la nascita in segreto, le avventurose missioni tra le onde, la resistenza agli attacchi, che siano le raffiche di mitra della guardia costiera libica o gli atti giudiziari e le leggi ad hoc, contra navem, volute da chi sta al governo.

Dopo la cospirazione, la navigazione continua, in piena luce e in mare aperto.

Che tempi sono quelli in cui per fare il bene – salvare la vita di chi la sta perdendo – bisogna agire di nascosto, cospirando?
Sotto un potere che ignora il prossimo in pericolo, si può diventare fuorilegge, cospiratori del bene.

Un racconto avventuroso e necessario, che porta alla luce il dramma di chi sfida il mare e la scelta di chi non vuole chiudere gli occhi.

Con un testo di Papa Francesco.

Luca Casarini
Luca Casarini, nato a Mestre, attivista, è stato uno dei più noti leader del movimento di critica della globalizzazione neoliberista. Ha pubblicato il romanzo La parte della fortuna (Mondadori, 2008) …

 

 

LA MIA SCOZIA

La mia Scozia

è
Un maglione
Di Inverness
Il grigio
D’angora
I turisti
La gente
Al mercatino
Oltre
Balena l’artico
Il grigio
Verde
Di Lochness
Il suo mistero
La pioggia
Emotiva
Di novembre
Seppure estiva
Bandelle di sabbia
Beige
Oro nero
Di una pinta
Di Guinnes
spuma
Sul pane
Nei pub
Dove si fuma
Ava
Le strane olimpiadi
Degli scozzesi
Accoglienti
E una striscia
Di luce
Le casette piccole
Sul mare
Amico
A Edimbara (Edimburgo)
Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

I custodi della lingua

I custodi della lingua

Nell’età della disattenzione si delega alla tecnica tutta quell’attitudine prettamente animale di concentrarsi su qualcuno o su qualcosa, attitudine – se non vera e propria responsabilità – che, in un tipico e onnipresente circolo vizioso, per colpa proprio della tecnica, stiamo perdendo inesorabilmente e sempre di più velocemente.

Vedere Elon Musk entrare nel suo taxi a guida autonoma potrebbe richiamare alla memoria alcune famose pagine di Charles Dickens che raccontano le sensazioni di coloro che salivano per la prima volta su un treno. Ricordate? Il Circolo Pickwick , così ben raccontato da Alessandro Baricco nella sua omonima trasmissione del 1994?

Solo che questa volta ad avere paura non è il passeggero ma quelli che camminano (ancora) per strada, i semplici “viandanti” come noi. Ad avere paura sono solo coloro che avvertono quella stessa strana insofferenza dei viaggiatori dickensiani che, per vincere la paura di entrare nella pancia di mostri metallici e rumorosi, si riparavano dietro a un libro.

Ahinoi, anche i viandanti di oggi si riparano dietro a uno schermo di cellulare, anche se probabilmente lo fanno per vincere un altro tipo di emozione.

Forse la paura che potrebbe smuoverci da questo stupido torpore digitale che ottunde a poco a poco la nostra capacità di attenzione ( e responsabilità), dovrebbe essere questa: perdere la nostra peculiarità che chiamiamo “umanità”. A patto, beninteso, di saperla ancora individuare e definire la «umanità»: spesso dimentichiamo che, tra una transizione e l’altra,  anch’essa, probabilmente, è in transito.

Avanzo allora una proposta, proviamo a pensare all’umano come a chiunque sia in grado di riconoscere il CAOS e il FALSO; chiunque cioè sia in grado di offrire, come direbbe il poeta americano Robert Frost, “un soggiorno momentaneo contro la confusione”.

In un’epoca come la nostra che cerca con ogni mezzo di confondere e falsificare il significato delle parole, questa sensibilità al riconoscimento della confusione ha ovviamente a che fare con la lingua e con le parole.

Se oggi, ad esempio, ci imbattiamo in un testo scritto da chat GPT,  riconoscere il caos e il falso diventa un compito ancora più difficile dato che al di là del messaggio scritto conta di più l’intenzione di “chi” ha voluto generare quel messaggio e capire chi sia quel “chi” e “come” lo voglia utilizzare.

Oggi tutti con le parole possono fare potenzialmente quello che vogliono, compreso stravolgere il significato stesso delle medesime: lo strumento della comunicazione (la parola) diventa il fine della comunicazione ( se non proprio la fine).

Una parola dunque sterile e priva di significato oppure liquida e senza la possibilità di cristallizzare in un concetto, meno che meno in un oggetto, in una verità (seppur relativa). Per non parlare dell’incapacità tanto diffusa nel nostro Paese di comprendere un testo complesso, come certificato dal recente rapporto Piaac (Programme for the international assessment of adult competencies)

Come ci ricorda Giorgio Agamben la verità dimora nella lingua  e chi non avesse cura di questa dimora  sarebbe un cattivo amante della verità.

Essere custodi della lingua (come capita di fare ai filosofi e ai poeti) è dunque un compito importante per salvaguardare quella capacità (peculiare, umana) di riconoscere il CAOS e il FALSO; ed è inoltre compito eminentemente politico, allorché i nostri stessi comportamenti vengono per così dire donati o condonati per decreto (parole); allorché la nostra stessa immunità può essere decretata o sanzionata a seconda del valore che verrebbe (arbitrariamente) attribuito a un dato scientifico e allorché il nostro futuro su questo pianeta potrebbe addirittura dipendere da chi usa il termine accomodante di cambiamento climatico al posto di quello più incisivo e verificabile di riscaldamento globale.

Nell’Età della Disattenzione forse bisognerebbe prestare un po’ più di ….attenzione a coloro che ci offrono questi rari e momentanei soggiorni contro la confusione; “ascoltare” coloro che  sanno di cosa parlano perché conoscono le parole delle cose:

Era la sua voce a rendere il cielo
più acuto nel suo scomparire.
Lei misurava puntualmente la sua solitudine.
Era l’unica artefice del mondo
in cui cantava. E quando cantava il mare,
qualunque cosa fosse, diventava
la sua canzone, perché lei lo creava.
Noi, guardandola camminare sola,
sapevamo che per lei non c’era mondo
tranne quello che cantava e, cantando, creava.
[Da L’idea di ordine a Key West di Wallace Stevens]

L’idea di ordine a Key West è una poesia scritta nel 1934 dal poeta americano Wallace Stevens (Premio Pulitzer 1955). È una delle tante poesie incluse nella sua raccolta Idee di ordine.
Il motivo principale della poesia è il giudizio ripetuto della superiorità della comprensione di qualcosa rispetto alla cosa stessa ed è un inno allo spirito creativo, la musa che mette ordine nel caos del vento e del mare.

Per leggere gli articoli di Giuseppe Ferrara su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Babbo Natale e i suoi fratelli

Babbo Natale e i suoi fratelli

Pochissimi sono a conoscenza di un fatto tanto segreto quanto straordinario: BABBO NATALE non è figlio unico, ha infatti cinque fratelli.
Nessuno lo ha mai saputo perché la notizia è stata tenuta “innevata”.

I cinque fratelli sono molto ma molto diversi da lui e sarebbe davvero imbarazzante se nel mondo qualcuno venisse a scoprirlo.
La cosa è talmente importante che persino le giovani renne ed i nuovi elfi sono obbligati al segreto di apprendiStato.
Fonti ben informate dicono che dietro l’organizzazione che protegge questo segreto ci sia Tale Nababbo, un personaggio misterioso, che nessuno ha mai visto in pubblico.
Io però ne sono venuto a conoscenza casualmente grazie all’ascolto attento dei discorsi che faceva una talpa delle nevi ad un amico.

Ecco la loro storia.

Il primo fratello: BACCO NATALE, sopportava la solitudine delle rigide notti polari soltanto ingurgitando quantità industriali di vodka. Aveva un tasso così alcolico che riusciva a sciogliere la neve alitando.
A Natale era talmente ubriaco che non riusciva a portare i regali perché ne vedeva il doppio e non prendeva mai quelli giusti.

Suo fratello Babbo Natale, dopo diversi tentativi finiti male, lo licenziò.

Il secondo fratello: BAFFO NATALE, si teneva i baffi così lunghi ma così lunghi che gli arrivavano alle caviglie; tutti lo chiamavano Baffone.
Era un po’ strano e i genitori della Lapponia lo nominavano per minacciare i bambini quando facevano i capricci, gridando: “Ha da venì Baffone!”.
Lui, disponibile ed ingenuo, era sempre in giro anche se tutti lo prendevano in giro.
A Natale però non riusciva a portare i regali perché inciampava nei suoi stessi baffi e tutti i pacchetti gli cadevano per terra.

Babbo Natale, dopo molti pacchi rotti, fu costretto a lasciarlo a casa.

Il terzo fratello: BALLO NATALE, era un tipo mondano, non mancava mai alle feste danzanti ed era sempre in pista, scatenatissimo, a dimenarsi e a saltare; stava sempre in movimento, continuamente.
Sudava come una renna e poi si ammalava e gli veniva la febbre, soprattutto il sabato sera.
A Natale non riusciva a portare i regali perché, con tutte le piroette che faceva di continuo, i pacchi gli volavano per aria.

Babbo Natale, ormai stanco, licenziò anche lui.

BATTO NATALE era il quarto fratello; si travestiva pure lui come Babbo ma… non proprio allo stesso modo.
Lui preferiva i vestiti da donna perché era in cerca della sua identità di genere e sentiva il bisogno di comportarsi al femminile.
A volte si sentiva costretto a passeggiare di notte sui marciapiedi ghiacciati per cercare disperatamente compagnia.
Quando arrivava Natale non riusciva a portare i regali giusti perché sceglieva soltanto i cosmetici.

Quindi Babbo Natale lo emarginò, lo discriminò  ed infine lo licenziò.

Infine c’era lui: BASSO NATALE, il più piccolo di tutti. Era davvero piccolissimo, tanto che Babbo Natale non riusciva a trovargli una collocazione: prima gli aveva chiesto di portare i regali minuscoli ma lui, con le gambe così corte, inciampava nei nastri e faceva cadere tutto; poi gli aveva chiesto di sistemare le letterine dei bambini nell’archivio ma lui, così piccino, rimaneva sommerso dalle buste.
L’ultimo tentativo lo aveva fatto proponendogli di incartare i dolciumi ma lui rimaneva appiccicato allo zucchero con la barba.

Fu così che Babbo Natale, ormai infuriato, lo cacciò come aveva fatto con tutti gli altri suoi fratelli perché non gli servivano a niente.

I fratelli Natale, rimasti senza Babbo, si sentivano senza famiglia.
Ognuno di loro era solo ed emarginato. Quando si ritrovarono insieme, non sapevano dove andare e allora cominciarono a vagare senza meta.

Ma più vagavano, meno si svagavano.
Meno si svagavano, più girovagavano.
Più girovagavano e meno divagavano.

Stavano proprio male perché pensavano sempre al loro sentirsi soli.
Sembrava proprio che tutto andasse storto e si sentirono ancora più tristi.

Una mattina però, dopo aver camminato tutta la notte in cerca di non si sa cosa, ormai sfiniti si trovarono di fronte ad un vecchio muro diroccato su cui qualcuno aveva scritto con la vernice spray:
“Ancora Umili, Garantendo Unità, Riusciremo Indipendentemente Dall’Indifferenza.
Bisogna Udire Ogni Nuova Energia.
Forza! Esprimiamo Segnali Testardamente Educativi”.

All’inizio non capivano; allora lessero e rilessero.

Basso Natale, che era il più arguto, scoprì che se si leggevano solo le iniziali di quelle parole esse formavano un augurio ma se si leggevano tutte le lettere di tutte le parole, formavano una frase che diventava una speranza.
Lui capì allora che le lettere sono come le persone; da sole sono tutte importanti ma, messe insieme in un certo modo, possono diventare una meravigliosa scoperta.

Lo stesso cominciò a pensare di lui e dei suoi fratelli.
Lo spiegò agli altri; anche loro capirono e si sentirono bene.

I cinque fratelli cominciarono a parlare come non avevano mai fatto prima: parlavano meno del prima e più del dopo, meno del passato e più del futuro.

Immaginarono insieme un domani diverso e fecero proposte concrete per il cambiamento: proposte minime come la statura di Basso e proposte importanti come i mustacchi di Baffo, proposte dinamiche come i movimenti di Ballo e proposte forti come la vodka di Bacco, proposte nuove come l’identità di Batto e proposte coraggiose come la voglia di cambiare che avevano tutti loro.

Ne fecero talmente tante che io non me le ricordo tutte; quello che ricordo è che questa storia non ha un vero e proprio finale ma tanti inizi, tanti quanti se ne riescono ad immaginare e poi a costruire.
Comunque pensiate che quel Tale Nababbo, oltre all’anagramma di Babbo Natale, sia un personaggio di altri tempi…. auguri.

Per leggere gli articoli di Mauro Presini su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Il diritto d’asilo è a rischio in Italia e in Europa.
Il Report 2024 della Fondazione Migrantes

Il diritto d’asilo è a rischio in Italia e in Europa. L’VIII Rapporto della Fondazione Migrantes.

Nel mondo, a metà del 2024, c’erano 122,6 milioni di persone colpite da “sradicamento forzato globale” (rifugiati, richiedenti asilo, sfollati interni). E la previsione è che saranno 130 milioni entro la fine dell’anno. Al 1° gennaio 2024 vivevano, invece, in Italia poco meno di 414 mila cittadini non comunitari con permesso di soggiorno per motivi di protezione e asilo, lo 0,7% di tutta la popolazione.

Sono questi alcuni dei dati presenti nel Report “Diritto d’Asilo 2024” della Fondazione Migrantes (Tau Editrice), curato da Cristina Molfetta e Chiara Marchetti e giunto all’ottava edizione, che quest’anno porta il titolo “Popoli in cammino… senza diritto d’asilo”.

Fondazione Migrantes,  Il Diritto d’asilo, report 2024, Tau editrice, Todi (PG)

Il Report, come ogni anno, legge e interpreta dati, norme e politiche e raccoglie anche storie che raccontano come nell’Unione europea e nel nostro Paese sia sempre più a rischio il diritto d’asilo (è stato approvato il “nuovo” Patto europeo sulla migrazione e l’asilo: un compromesso al ribasso che prelude a un ulteriore impoverimento dei diritti di richiedenti asilo e rifugiati), proprio mentre guerre e conflitti si allargano e anche situazioni estreme legate al cambiamento climatico contribuiscono a far crescere il numero delle persone costrette ad abbandonare la propria terra. Proprio in questi giorni, ad esempio, è purtroppo tornata di attualità la situazione siriana e il Report ci ricorda che già da anni la Siria (circa 183 mila richiedenti nel 2023) è il principale Paese d’origine delle persone che cercano rifugio nell’Unione europea. In Italia, sono la seconda nazionalità di provenienza di chi arriva, in particolare, dalla rotta Mediterranea.

Per quanto riguarda l’Italiail Report, che ha analizzato i decreti approvati nel 2023, definisce come “frammentato, grossolano e iniquo” l’attuale sistema di accoglienza. Dopo l’entrata in vigore della legge n. 50/2023, la rete di società civile del Forum per cambiare l’ordine delle cose  ha condotto un monitoraggio in diversi territori su quattro macro‐tematiche: le procedure accelerate in zone di frontiera o transito; i tempi e le prassi di convocazione per le audizioni e i tempi di decisione delle Commissioni territoriali; i criteri di riconoscimento della protezione speciale fondata sul rispetto dell’articolo 8 CEDU; i tempi e le prassi nei casi di rinnovo e conversione della protezione speciale.

Il monitoraggio ha rilevato in varie Questure una serie di pratiche di esclusione e di cattiva informazione, con circolari che hanno indotto in errore migliaia di persone già in possesso del permesso di soggiorno per protezione speciale che avrebbero voluto rinnovarlo o convertirlo, oppure con ritardi nella concessione degli appuntamenti, con gravi ripercussioni sulla possibilità di svolgere un’attività lavorativa regolare e con conseguenze che si sono estese ai familiari degli interessati. “Le norme adottate dal legislatore italiano nel 2023 (quattro decreti legge con altrettante leggi di conversione) in materia di protezione internazionale hanno suscitato, si legge nel Report, molti dubbi di costituzionalità negli operatori legali e negli studiosi della materia.”

E a proposito del protocollo Italia‐Albania, nel Rapporto si legge: “Il protocollo migratorio firmato il 6 novembre 2023 tra Italia e Albania mira a combattere l’immigrazione illegale attraverso la costruzione di centri di accoglienza e identificazione in Albania finanziati dall’Italia. Questi centri hanno il compito di ospitare migranti soccorsi nel Mediterraneo per determinare la loro idoneità alla protezione internazionale o, in caso contrario, per il rimpatrio. Presentato come una “soluzione innovativa”, l’accordo, che ha una chiara funzione deterrente, ha tuttavia sollevato dubbi tra i giuristi e le organizzazioni per i diritti umani: malgrado i significativi costi economici, il protocollo potrebbe risultare inefficace rispetto ai suoi stessi obiettivi e dannoso per i diritti fondamentali dei migranti, creando di fatto un sistema di “esternalizzazione” che isola i migranti dal territorio e dalla società italiana.” 

Per quanto riguarda invece i Minori Stranieri Non Accompagnati (MSNA), il Report nette in luce il fatto che, nonostante il divieto di  trattenimento per i MSNA previsto dalla legge italiana, molti minori sono trattenuti in centri inadeguati, quali hotspot e centri governativi di accoglienza, spesso in condizioni critiche e promiscue con adulti. Questi centri non garantiscono un’adeguata tutela legale, né la possibilità di chiedere asilo o permessi di soggiorno, lasciando i minori in uno stato di isolamento e incertezza. La recente legge 176/2023 ha legalizzato il collocamento dei MSNA sopra i 16 anni in strutture per adulti, una misura che contrasta con il superiore interesse del minore sancito dalla Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia.

Le ripetute violazioni dei diritti fondamentali sono state confermate da sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), che ha condannato l’Italia per trattamenti inumani e degradanti nei confronti di minori collocati proprio in strutture per adulti. Nonostante le condanne, tuttavia, le prassi non sono state modificate e la gestione emergenziale continua a prevalere.

Qui la sintesi del Diritto d’AsiloReport 2024 della Fondazione Migrantes. 

In copertina: Migranti, immagine da AGENPRESS.it

Per leggere tutti gli articoli di Giovanni Caprio su Periscopio, clicca sul nome dell’autore

Parole e figure /
“Il Rigiocattolo” di Letizia Palmisano – Strenne natalizie

Esce in libreria “Il Rigiocattolo” di Letizia Palmisano, edito da Città Nuova: la sostenibilità in una fiaba per tutte le età.

Il 13 dicembre esce nelle librerie ‘Il Rigiocattolo’ di Letizia Palmisano, giornalista ambientale, saggista e divulgatrice TV, edito da Città Nuova e illustrato sapientemente dall’illustratrice Anna Curti. Il libro è una fiaba ecologista – ispirata a principi di economia circolare – che ha come protagonisti dei giocattoli un po’ malandati ai quali il destino riserva un futuro diverso da quello di molti altri balocchi, spesso destinati ad essere buttati una volta rotti. Perché tutto può avere una nuova vita.

 

Di che cosa parla “Il Rigiocattolo”

“Il Rigiocattolo” narra le vicende di tre giochi un po’ malconci ovvero l’orsetto di peluche Bruno, la pianola giocattolo color arcobaleno Nola e il coraggioso Tuffolino. Guidati dal robot Milo, un veterano del luogo, i tre protagonisti scopriranno che l’arrivo al laboratorio di Rigiocattolo non sarà per loro la fine, ma l’inizio di una nuova avventura.  Questo luogo speciale, animato da un gruppo di volontari, diventa infatti teatro di una rinascita per i giocattoli, simboleggiando i principi del riuso e della riparazione, propri dell’economia circolare. Una storia di amicizia, di speranza e di ecosostenibilità che ci ricorda come nessuno sia mai troppo piccolo o troppo grande per fare la propria parte affinché il mondo sia più verde. L’economia circolare, il diritto alla riparazione… anche dei giochi e l’educazione ambientale per tutte le età

Perché è comune trovare chi ripara scarpe, automobili o computer, ma così raro trovare qualcuno che si occupi di aggiustare un giocattolo rotto? Eppure, i giochi sono milioni sparpagliati nelle case degli italiani e quando si rompono o semplicemente non servono più spesso vengono semplicemente cestinati perché è difficile trovare chi gli possa dare una nuova casa, per non parlare di chi provi a ripararli. Ma in Italia c’è un luogo che fa tutto questo da 10 anni: si chiama Rigiocattolo, è a Campobasso e qui i volontari recuperano i balocchi e danno loro una seconda vita. Dall’incontro tra Letizia Palmisano con Daniele Leo, coordinatore di Rigiocattolo e gli altri volontari, nasce quindi l’idea della fiaba. Letizia ha voluto trasformare la storia vera del laboratorio di Rigiocattolo in una fiaba che potesse ispirare e educare.

“Nel corso della mia carriera giornalistica”, dice, “l’incontro con il progetto Rigiocattolo è stato illuminante, tanto da diventare uno dei racconti per me centrali nel mio saggio ‘Sette vite come i gatti, ridare valore agli oggetti. Storie di economia circolare’, edito da Città Nuova nel 2023. Dopo aver descritto il processo di rinascita dei giocattoli attraverso le parole di chi li ripara e dei bambini che ne beneficiano, mi sono chiesta quale sarebbe stata la prospettiva dei giocattoli stessi. Convinta che avrebbero parlato dell’importanza di prendersi cura dell’ambiente ai bambini che li hanno amati, ho creato ‘Il Rigiocattolo’, una fiaba che fonde il divertimento con un profondo messaggio ecologico”.

“Il Rigiocattolo” è un invito a guardare oltre l’abbandono, vedendo nelle cose vecchie e dimenticate un potenziale per una nuova vita, un messaggio vitale in un’era di consumo eccessivo. Non è solo un libro per bambini, ma una storia per tutti, dai 5 ai 199 anni, una lettura che consente di comprendere come ogni azione intorno a noi possa essere indirizzata per realizzare davvero un futuro più sostenibile. Proprio perché vuol essere una lettura per tutti, sono stati adottati criteri grafici specifici per agevolare la lettura.

Letizia Palmisano è giornalista ambientale, saggista e divulgatrice TV. È nel comitato organizzatore del Green Drop Award, premio assegnato dal 2012 da Green Cross Italia al film più eco-sostenibile della Mostra del Cinema di Venezia. Nel 2018 ha vinto il prestigioso Macchianera Internet Awards per l’impegno nella divulgazione dei temi legati all’economia circolare, ha inoltre ottenuto, per la categoria cittadini, il riconoscimento del premio Settimana Europea Riduzione dei Rifiuti (Italia) 2020 e 2021. È vincitrice del premio giornalistico Montale fuori di Casa sezione Ambiente 2022. Esperta di comunicazione, economia circolare ed efficienza energetica, è consulente di diverse aziende ed enti pubblici su tali temi.

Anna Curti, da oltre 30 anni, disegna libri e spesso li inventa. Adopera matite e pennelli, collage e china, senza interventi tecnologici. Collabora con molte case editrici italiane e straniere (Mondadori, Notes, Panini, Lapis, ecc.), spesso anche come autrice, ed espone in mostre personali e collettive in Italia e all’estero.

Parole a Capo
Matteo Pazzi: un piccolo viaggio tra tempo e poesia

Matteo Pazzi: un piccolo viaggio tra tempo e poesia

Rivedendo le tante uscite della rubrica [Parole a capo] ho notato una caratteristica dominante, ma non cercata. La presenza di autrici ed autori che vivono in piccoli paesi o in piccole città della provincia italiana. D’altronde, anche Ferrara e i paesi, le comunità che ne compongono il territorio contribuiscono a comporre questo “humus provinciale”. L’autore di cui vogliamo parlare oggi e di cui abbiamo già pubblicato alcune poesie in “Parole a capo” nel 2020 [Vedi qui] è Matteo Pazzi, un provinciale doc. Nato ad Este, in provincia di Padova e residente da tanti anni a Voghiera (FE). Senza assolutizzare il mio pensiero, ritengo che la provincia possa offrire lo sfondo migliore per “leggere” la società, il mondo, partendo dalle dinamiche che ci stanno a fianco.

Qualche tempo fa, Fabrizio Nelli l’autore di “Blues di provincia” rispondeva, in un’intervista che “in provincia i ritmi sono più lenti, le azioni sfocate, i contrasti attenuati. La provincia è un luogo universale che si contrappone alla città, un microcosmo con caratteristiche comuni simili in molte zone geografiche”. Anche Luciano Bianciardi, in un piccolo libro del 1957 “Il lavoro culturale”, pur fortemente ironico ma portatore di alcune tipizzazioni e caratteristiche prettamente provinciali, scriveva che “uno scrittore dovrebbe vivere in provincia perché è più facile lavorare, perché c’è più calma e più tempo, ma anche perché la provincia è un campo di osservazione di prim’ordine. I fenomeni sociali, umani e di costume, che altrove sono dispersi, lontani, spesso alterati, indecifrabili, qui li hai sottomano, compatti, vicini, esatti, reali”. 

In un’intervista apparsa su Periscopio alcuni anni fa[Qui] , Eleonora Rossi, insegnante e poetessa, chiedeva a Matteo delle informazioni di approfondimento su un’opera dalle sembianze enciclopediche. Stiamo parlando di “Contro” (Ed. Amazon, Progetto “Sconfinamento John Doe”), un progetto tuttora in corso, un’impresa “ai confini della realtà”. Matteo ne parlava così. “Contro” è un insieme di eteronomi, cioè personalità poetiche autentiche e complete, ispirate all’arte del maestro Fernando Pessoa che era solito scrivere lettere a se stesso. Creava intorno a sé un mondo fittizio, si circondava di amici e conoscenti che non erano mai esistiti. Gli eteronomi di Matteo (che al momento dell’intervista erano una sessantina e formavano un gruppo di volumi di oltre 1400 pagine) sono tutti CONTRO e hanno un’attualità che va oltre i confini del tempo, entra nei luoghi/non luoghi del quotidiano e prova a smuoverci, interrogarci…
Sono contro chi dice che tutto è finito. Sono contro chi per decenni ci e mi ha fatto sentire una nullità. Sono contro chi sostiene che sia stato già detto e scritto tutto. Sono contro chi spara giudizi solo per il gusto di ricondurre la complessità del mondo a una bacheca virtuale. Sono contro chi apre la bocca solo per dare aria. Sono contro chi umilia le altre persone, magari sfruttando la miserabile piccola posizione di potere più o meno meritatamente acquisita. Sono contro chi non permette all’altro da sé di crescere per paura che il discepolo superi il maestro. Sono contro chi ha paura della diversità perché non capisce che è quella sua paura ad essere l’unica vera diversità. Sono contro chi non ha immaginazione e odia chi ce l’ha”.

Negli anni, Matteo Pazzi ha fatto molte tappe di un lungo viaggio poetico e narrativo. Qualche tempo fa, ho ritrovato una delle sue “soste” editoriali “Compendio del cacciatore disarmato“, Ed. Simple, 2008.
A conclusione di questa riflessione a distanza con Matteo, ecco alcuni testi tratti da questo libro.

Il cacciatore senza memoria

Io ricordo;
la campagna e l’inverno,
compassi di nebbia
fra le magre stelle polari
dei nudi alberi da frutto –

arrivo – ancora una volta
è un piccolo paese

un gruppetto di case
simili a pezzetti di pane
sulla schiena
di operose formiche

m’incammino verso
l’unico bar del luogo,

una persona anziana e sconosciuta
appena mi vede entrare
getta a terra il cappello
e si tappa la bocca con le mani

“Il mio bar si chiama Dio”
dice il proprietario
da dietro il bancone

“dove stai andando?” mi chiede

“Vivere spesso
ha il sapore di un partire oggi
e arrivare ieri” gli rispondo

la persona anziana e sconosciuta
raccoglie il cappello
e me lo porge.

 

Alberi, navi cariche di tempo

Alberi, navi cariche di tempo,
ramo dopo ramo come spiragli
di un altrove incapace,
il cielo è una ruota
che corre sopra le labbra di una lama

e le nuvole simili a un orlo piatto,
i lampioni si spengono,
chiodi luccicanti cadono
dentro il polso del nuovo giorno.

 

Il viaggio del cacciatore disarmato

 

La campagna svestita
spianata come un fucile,
scendo,
una piccola stazione…

La nebbia a riccioli
imbavagliava le zolle
di terra

il mattino ancora basso
come un pendolo
che non oscilla
fra le lamiere contorte
della lunga notte invernale;

il treno riparte
e mi lascia.

Non dovevo arrivare qui,
ne sono certo…

il viaggio è sempre
qualcun altro

estranea lotteria
e prigione consanguinea.

In lontananza
le quattro case del paese,
isolati specchi abbandonati
nel cuore di una carezza innocente.

Ora mi appare chiaramente
la superstizione di quel mondo:

ascolto
proprio dove
non sapevo arrivare.

 

Quando la luna è in alto

Quando la luna in alto
un bianco foro di proiettile,
strada polverosa di ferite in catene
o macerie di tempo
che ogni povera mano edifica
o nasconde.

 

L’ombra del campanile

 

L’ombra del campanile
getta radici di banche rapinate
sul viso dei passanti, la piazza
si sta svuotando (sono seduto al tavolino
di un bar) – chiudo gli occhi:
il frullio d’ali (due libertà
che s’incontrano) di un piccione
rincorso da un bambino.
Ho freddo, l’inverno è un ago bianco
in un pagliaio
ricoperto di neve…
…è come se io
non esistessi più…
la piazza ora è vuota
e la chiave di violino del campanile
spiega alla sera incipiente
la stolida indifferenza di un treno
che non dobbiamo prendere…

 

la piazza si svuota, Ferrara

 

la piazza si svuota, Ferrara
e la camicia di forza delle mura
e la parodia affaticata
di secoli e secoli
mascherati da marionette
senza fili,
qui solo la diserzione
ha senso – sì, cercare con lo sguardo
non l’ordine del capitano
bensì i tuoi occhi
eredità simile al cielo
non una condanna impietosa
ma lo spartito per un violinista
pazzo di musica

 

Matteo Pazzi, 47 anni, residente a Voghiera (Fe). Ha pubblicato diversi volumi poetici. Ne citiamo alcuni: Il ponte randagio & altre poesie (2015); “Ventiquattro poesie”, casa editrice Montedit ,“Il Pasto”, Este Ediction,  “Compendio del cacciatore disarmato” Ed.Simple, “Bestiario dell’ Estate” Kolibris, una breve raccolta di micro-racconti intitolata “Il magazziniere fenomenologico”, “Chiuso per Lotta” (Prospettiva editrice), Contro (2015). Molti suoi lavori sono apparsi in riviste (Poesia, Soglie, Ellin Silae, Il vascello di carta, Il Segnale, Un Po di versi, ecc…). Nel 2015 è uscito per la casa editrice Antipodes di Palermo il romanzo ironico Angeli in culo alla balena bianca.

NOTA REDAZIONALE: “Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”. Per rafforzare il sostegno al progetto invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica. 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 262° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

 

Parma: un esempio da seguire

Parma: un esempio da seguire

In uno dei suoi “raccontini” (così era solito chiamarli), il grande ispanista e comparatista Oreste Macrí alludeva al clima di ospitalità che l’aveva accolto al suo arrivo a Parma nel 1942 e che l’aveva accompagnato durante i dieci anni che aveva trascorso in questa città come professore di Lettere alla scuola media Salimbene.

Parma – Duomo

A questa caratteristica si aggiungeva certamente la bellezza dei monumenti e delle opere d’arte: la cattedrale con lo splendido bassorilievo di Antelami e con la sorprendente Assunzione della Vergine del Correggio, le perfette geometrie del battistero, i chiostri e l’antica farmacia del monastero di San Giovanni, gli affreschi del Correggio della Camera di San Paolo, il Parmigianino di Santa Maria della Steccata, per non parlare dell’imperdibile Teatro farnese e della Galleria Nazionale valorizzata da qualche anno da un nuovo e riuscito allestimento.

Tutti questi luoghi, nei quasi venti anni (1996-2014) che ho trascorso a Parma, come docente di Letteratura spagnola, mi sono divenuti familiari: immagini stratificate nella memoria nella loro dimensione diurna o notturna quando, uscendo di Facoltà dopo un’intensa giornata di lavoro, non di rado in compagnia della cara amica francesista Mariolina Bertini, andavo nella città ormai silenziosa contemplando le belle architetture del centro storico.

Parma – Via Duomo

Il mio percorso prevedeva un’immancabile sosta in piazza del Duomo passando dall’omonima strada (magari con una sosta nella storica libreria Fiaccadori) per non perdere la vista panoramica: il longilineo ottagono del battistero, la facciata romanica della cattedrale e, sullo sfondo, il campanile del monastero di San Giovanni.

Ormai a Parma torno solo di tanto in tanto. Oltre a rivedere il ridotto e affabile gruppo ispanico con il quale ho convissuto per anni, mi piace ripetere gli abituali itinerari del centro e spingermi oltretorrente attraversando il ponte di Mezzo per imboccare Via d’Azeglio e dare un’occhiata all’interno della manierista Santissima Annunziata, una chiesa dalla singolare pianta ellittica completata da molteplici absidi, o percorrere Via Bixio dove negozi e pizzicherie con salumi, formaggi e specialità parmigiane si alternano a più modesti punti di vendita di kebab e falafel.

È stato camminando proprio per questa strada che ho pensato che all’ospitalità già un tempo elogiata da Macrí e alla bellezza dei monumenti che ogni visitatore può comprovare, si aggiunge ora l’intelligenza di un’iniziativa pubblica che invita ogni passante alla partecipazione civile.

Sul lato destro di Via Bixio, oltre la prima metà della sua lunghezza, è stato affisso sul muro di confine di un giardino un pannello metallico lungo quasi una decina di metri. Su questo pannello, inaugurato dal sindaco di Parma lo scorso 18 ottobre, è riprodotto nella sua interezza, con i suoi 139 articoli e le 18 disposizioni transitorie, il testo della nostra Costituzione.

Parma – Via Bixio

Senza imporsi, insomma, ogni cittadino italiano o straniero è invitato a leggere, conoscere e assimilare quanto di più importante regola il paese: i “principi fondamentali” di uguaglianza e solidarietà, di tutela e rispetto, di sviluppo della cultura e di conservazione dell’ambiente; ma anche (e non è un caso che corrispondano alla “Parte I”) i diritti e i doveri dei cittadini nei loro rapporti civili, sociali, economici e politici, e poi – come parte II – l’ordinamento della Repubblica, con i suoi organi: il parlamento, il presidente, il governo, la magistratura, le regioni, le province e i comuni.

Non so se altri comuni italiani (diventa irrilevante il loro colore politico) abbiano preso iniziative analoghe, ma certo un pro-memoria di questo tipo è sicuramente opportuno in un mondo come il nostro sempre più distratto e poco desideroso di conoscere, sommerso da chiacchere inutili o prevedibili, teso a una consumistica pubblicità e al personale profitto.

Per leggere gli articoli di Laura Dolfi su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

UnitedHealthcare, il CEO, il vendicatore solitario:
l’eterna lotta tra il bene e il male (ma dov’è il bene e dov’è il male?)

UnitedHealthcare, il CEO, il vendicatore solitario: l’eterna lotta tra il bene e il male(ma dov’è il bene e dov’è il male?)

 

Premessa, perché di questi tempi non si sa mai: questo articolo non intende giustificare un omicidio a sangue freddo, perché a tutti gli effetti tecnicamente di questo si tratta. Detto questo, un conto è giustificare un omicidio, un altro è porsi la domanda sul perché accade. Soprattutto, quando il “perché” è certamente legato alle prassi seguite da UnitedHealthcare, colosso americano delle assicurazioni sanitarie private, di cui Brian Thompson, la persona ammazzata per strada a New York, era il CEO in carica.

 


 

UnitedHealthcare è la compagnia con il più alto tasso di rifiuti di rimborso (Deny) a fronte delle richieste di copertura: circa tre su dieci. A questi si aggiungono le tecniche dilatorie (Delay) che allungano i tempi dei rimborsi, e la resistenza (Defend) in giudizio quando viene denunciata per illegittimo rifiuto di pagare il sinistro. Secondo le prime indiscrezioni sulle indagini, le parole deny, delay, depose(invece di defend) erano scritte, con inchiostro indelebile, ciascuna sopra uno dei bossoli trovati vicino all’ucciso.

Delay, Deny, Defend: Why Insurance Companies Don’t Pay Claim and What You Can Do About It, è anche il titolo di un libro uscito nel 2010 ad opera del giurista Jay M. Feinman. Negli Stati Uniti, non avere un rimborso di prestazioni sanitarie non genera semplicemente disappunto, rabbia, indignazione, come può accadere da noi, ma può distruggere la vita di una famiglia. Non esiste infatti, se non per gli ultra sesssantacinquenni o per persone più giovani ma affette da patologie molto gravi, un sistema di protezione sanitaria pubblica universale (quello che c’è si chiama Medicare, ed è stato introdotto nel 1965). Durante il suo primo mandato presidenziale, Barack Obama ha ampliato la platea di beneficiari di una forma di assistenza “obbligatoria”, ma milioni di americani sono ancora privi di una copertura garantita. Nonostante questo sistema eminentemente privato, l’incidenza della spesa sanitaria sul PIL nordamericano è la più alta del mondo. Questo dà l’idea del potere contrattuale acquisito dalle strutture private anche nei confronti dello Stato Federale.

UnitedHealth Group aveva appena annunciato un dividendo di 2,10 dollari per azione per dicembre. I ricavi del terzo trimestre 2024 hanno raggiunto i 101 miliardi di dollari, segnando un aumento del 9%, con oltre 2,4 milioni di clienti in più. Ma non c’è solo questo. Qualche settimana fa è stata presentata una class action contro UnitedHealth Group, con l’accusa di utilizzo illegale di un algoritmo per negare l’assistenza riabilitativa a pazienti gravemente malati, nonostante l’algoritmo presenti un elevato tasso di errore. La class action, intentata per conto di pazienti deceduti che avevano un piano Medicare Advantage UnitedHealthcare , cita un’indagine secondo la quale UnitedHealth ha fatto pressione sui dipendenti medici affinché seguissero un algoritmo, che prevede la durata del ricovero di un paziente, per emettere dinieghi di pagamento alle persone con piani Medicare Advantage. Documenti interni hanno rivelato che i manager all’interno dell’azienda hanno fissato un obiettivo per i dipendenti clinici di mantenere i ricoveri riabilitativi dei pazienti entro l’1% dei giorni previsti dall’algoritmo. Si tratta di una causa lunga e costosa, che i legali della compagnia tendono a prolungare con eccezioni cavillose, che rendono i processi spesso incapaci di ristabilire una giustizia in nome dello Stato, data la enorme sproporzione di mezzi a disposizione tra denuncianti e compagnie.

Brian Thompson è diventato amministratore delegato della compagnia nel 2021. Le denunce sui tassi crescenti di diniego all’ autorizzazione preventiva hanno spinto il  Senato degli Stati Uniti ad avviare un indagine, sfociata in un rapporto concentrato in particolare sui dinieghi per i piani Medicare Advantage al servizio di anziani e disabili.  L’indagine ha rivelato che nel 2019 il tasso di dinieghi di autorizzazione preventiva di UHC era dell’8%. Da quando Thompson è diventato CEO il tasso di dinieghi è aumentato al 22,7% (anno 2022). Sia per i reclami Medicare che per quelli non Medicare, UHC rifiuta i reclami a un tasso che è il doppio della media del settore.

Naturalmente quest’ impostazione, vista dalla prospettiva cinica degli azionisti, ha fruttato agli stessi dividendi in continua crescita. Questa è la serie storica dei dividendi su base annua dal 2019 al 2023:

4,14‬
‪4,83‬
‪5,60‬
‪6,40‬
‪7,29
Il dividendo trimestrale pagabile a dicembre 2024, come scritto sopra, è annunciato a 2,10 dollari (8,18 sull’anno intero).
La retribuzione totale di Thompson è stata di 9,6 milioni di dollari nel 2021, 9,8 milioni di dollari nel 2022 e 10,2 milioni di dollari nel 2023. Sotto la sua guida, i profitti di UnitedHealthcare sono aumentati da 12 miliardi di dollari nel 2021 a 16 miliardi di dollari nel 2023.
La peculiarità di questa vicenda non sta nella divaricazione tra cattivi risultati aziendali e elevati dividendi, come nell’eclatante caso Stellantis. I risultati aziendali di UnitedHealth Group in effetti sono buoni. In questo caso non sono aumentati solo i profitti, ma i ricavi e i clienti. La peculiarità di questa vicenda non sta nemmeno nel cinismo del business verso i propri clienti: la cosiddetta “customer care” è ormai da tempo una delle voci su cui le multinazionali risparmiano di più. Nella fattispecie, gli effetti sono più gravi perché il core business è appunto costituito dalla salute delle persone, non da una connessione telefonica o da un servizio finanziario. Ma sappiamo tutti per viverlo quotidianamente che, una volta che ti hanno agganciato come cliente, dei problemi operativi, dei disservizi, dei ritardi non gli frega molto – quando non fanno apposta a crearli, come sembrerebbe in questo caso.
La vera novità di questa vicenda sta nel fatto che un CEO strapagato e strapotente – al punto da ritenere di non aver bisogno di alcuna protezione  – viene ucciso per strada, in pieno centro. Come se un vendicatore solitario sbucato dal nulla avesse fatto quello che molti si auguravano, tanto da confessarlo sguaiatamente insieme al solito branco di leoni da tastiera.  Pare che sia già stato arrestato: un certo Luigi Mangione, un ragazzo con eccellente curriculum di studi. Sarà interessante anche scoprire quali sono le motivazioni del gesto. Ideali? Personali?
Questa trasformazione delle persone in simboli (in questo caso, della malvagità del capitalismo: allora, della violenza del potere) l’abbiamo già conosciuta, noi italiani, al tempo dei cosiddetti anni di piombo. Il fatto interessante è che il capitalismo multinazionale degli ultimi trent’anni si è smaterializzato e simbolizzato esso stesso fino a diventare un logo, un brand. Tanto seduttivo nell’impatto commerciale e di immagine, quanto impalpabile quando si tratta di fargli corrispondere dei responsabili in carne ed ossa: dei disservizi, dei malfunzionamenti, dei licenziamenti, dei comportamenti cinici e crudeli, perpetrati con indifferenza.
Nulla di personale, sembra essere il motto della corporation e del suo CEO che obliterano la tua esistenza economica o sociale (che tu sia cliente o dipendente) in nome di un interesse di valore superiore alla vita umana: il profitto. Nulla di personale, sembra dire il giovane killer al CEO mentre gli spara in nome di un interesse superiore alla vita umana: una giustizia da ristabilire privatamente, essendo impossibile ottenerla dallo Stato. Nella lotta tra il bene e il male, il salto di qualità tra un uomo pipistrello che ristabilisce il bene a Gotham City e un Luigi Mangione, è che nella fantasia il criminale ha un profilo da criminale; nella realtà, il cattivo è il capo dell’azienda del bene.
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