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DIARIO IN PUBBLICO
Il ritorno

Les adieux beethoveniani naturalmente suonati da Pollini concludono, tra finestre che si chiudono e materassi coperti dalle fodere la stagione lidesca. Mi soffermo sui piccoli e spesso inutili objets de vertu che popolano il mio studio; accarezzo con lo sguardo le stampe e i manifesti canoviani, che con un laborioso tragitto da Bassano a Firenze sono approdati al Lido; mi riguardo i limoni in ceramica, dono dell’amico Fernando Rigon e sento lo scadere del tempo. Forse sarà l’ultima volta che dialogherò con quelle mura, quei libri, quei quadri. E il Lido degli Estensi, forse non più Laido, rimarrà un ricordo di altre stagioni, di altri pensieri.

Accompagnati dagli scudieri, che si prenderanno cura dei fiori e delle piante, riapprodo a casa, quasi estranea dopo mesi di assenza. Giochiamo a ricordarci le posizioni consuete degli oggetti e riguardiamo compiaciuti i letti che obbediscono ai filocomandi. Poi cominciano gli appuntamenti medici e, fiduciosi, ci rechiamo al ferrarese Sant’Anna. Qui schiere di dolenti si sottopongono alla pistolettata per misurare la temperatura e inconsciamente si aggregano come pecore al pascolo, ignorando le protezioni anticovid, quando vengono chiamati per il prelievo del sangue. La voce severa degli infermieri produce poca disciplina, mentre trionfalmente la chiamata produce passo svelto, movimenti sciolti e finalmente il distanziamento.

Poi l’inferno. Per lavori in corso è totalmente smantellato il consueto percorso che ci scodellava presso la nostra unità di riferimento dei medici di base e tra strisciar di scarpe, domande sempre più affannate a coloro che ci dovrebbero indicare la via della salvezza ci aggiriamo nei corridoi. Invano. Cominciamo a dubitare che ci fossimo sognati quel luogo, quell’ambulatorio, quegli ambienti. Il vecchio stizzoso, ovvero chi scrive queste note dopo 36 minuti di false speranze, comincia a sbraitare guardato con sufficienza dagli indicatori umani, che come un mantra recitano la strada da farsi e che non si trova. Infine, da una porticina nascosta sbuchiamo al nostro reparto, accolti dai sorrisi ironici degli stessi medici che avevano provato la stessa esperienza. Ma ci consoliamo col perfetto funzionamento di una clinica privata e… la luce rossa, che dopo essersi lavate le mani e prima di cogliere il biglietto d’accettazione dovrebbe misurare la temperatura s’incanta e se.. se dà il via libera del verde, continua ossessivamente a ripetere il suo rosario finché qualcuno dal ricevimento viene a spegnerlo.

Tra un esame e una risonanza s’affaccia il mio amico oculista, fortunato compagno umano di due bellissimi pelosi, a cui rivelo d’essere ormai in dirittura d’arrivo per diventare lo zio di Benny; anzi! Sapientino, il pronipote a cui viene dato il cane, con fare sbrigativo m’informa che faremo una video conferenza (non so cosa sia) per registrare l’arrivo di Benny a casa.

La conferenza parigina su Cesare Pavese per ora sembra essere confermata edi allora il cuore mi si scioglie a pensare a tre giorni parigini tra i ricordi e una rabbia sorda m’invade al solo pensare che potesse venire rimandata. Così è per le celebrazioni pavesiane a Torino. E domani arriverà il Taccuino segreto di Cesarito.

La città è strana. Si parla e si sparla sulle mostre, sui Buskers, sui concerti; ma ogni cosa sembra lontana, priva di senso, come ha saputo ben esprimere il bravo Carofiglio nel suo romanzo A occhi chiusi.
Leggo con grande interesse i commenti che escono sulla ‘fenice’ di Mario Zamorani e spero in un risorgimento delle idee e delle possibilità di chi un tempo si proclamava, e tuttora si proclama, di sinistra.

Ci avviciniamo allora all’autunno, un tempo triste ma che può diventare occasione di riscatto.
Una ultima nota. Ho lavorato talvolta con Philippe Daverio e mi ha colpito la sua morte; tuttavia, pur riconoscendogli effervescenza d’eloquio e capacità d’intrattenimento, non potrò riconoscergli, ma quello forse lui stesso non lo pretendeva, la qualità che dovrebbe distinguere un vero storico dell’arte. Ma la mia generazione era lontanissima nella preparazione al mestiere dalla sua e di altri.

PER CERTI VERSI
Era caldo (in memoria di Alexander Langer)

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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ERA CALDO

era caldo
sul letto di casa
dopo la chemio
arriva una telefonata
fuori orario
infatti è una sassata
Matteo di là della cornetta
mi dice alterato
è morto Langer

si è impiccato

MANCAVA IL PIANISTA

mancava il pianista
ho suonato io
pelato come un bimbo
appena nato
ricordavamo Nagasaki
cinquant’anni dopo
quel buco nero
che segnò per sempre
un solco col passato

LA MIA VITA

la mia vita
ha conosciuto lo zero
il fossato che solca
il dopo dal prima
non ne vado fiero
è stato così
come si cammina

PRESTO DI MATTINA
Chi sono io per te

Chi sono io? Questa domanda, del tutto inattesa, risalita da non so quali profondità dell’inconscio amareggiato, si era dilagata irruente nella coscienza mentre scendevo le scale di un condominio nei pressi della parrocchia, tanto tempo fa. Una domanda scandita come un ritornello, a ogni gradino, dopo la visita a una persona inferma costretta a letto. Ero stato rimproverato per la lunga assenza dall’ultimo incontro, e avevo sentito tutta l’impotenza e l’inutilità di un ministero che ti vuole tutto a tutti. Salire e scendere le scale per incontri brevi, apparentemente insignificanti e vuoti. Mi sentivo come un pane che si disperde in tante briciole senza capacità di sfamare alcuno.

Chi sono io? Attesi un momento lunghissimo per rispondermi. Scartai subito “sono un parroco” – e i suoi equivalenti: “sono un pastore”, “un prete” – quasi a voler lucidare l’armatura ammaccata. Mi accorsi così, scendendo quelle scale, che avevo continuato, come avevo fatto salendo e arrivando in bicicletta, a pregare la preghiera del cuore. Non avevo smesso nemmeno durante l’incontro, a invocare, dentro, il nome di Gesù su quelle interminabili afflizioni di una vecchiaia esausta.
Sentii allora salire la risposta da dentro avvinta ad un sospiro lento e consolante: “sono un uomo di preghiera”. Sì. Sì mi dissi: questo sono io. Qui staziona e da qui parte e ritorna sempre di nuovo, accrescendosi come un albero dalle sue radici, il mio “io” più autentico; quello non ripiegato su sé stesso, ma aperto e disteso al futuro. Avevo ritrovato la coscienza dell’io nella preghiera come essenza e pienezza dell’umano, in quello che chiamerei un sussulto mistico, risonanza del mistero di Dio nella banalità del quotidiano, in fare pregando.

Un “io” orante è “un io sempre in relazione”. Un io che si perde e si ritrova nell’amore per l’altro, pur incontrato nei luoghi del disamore e del non umano o dell’umano finire. Un io orante è un io “in progress; diviene un “io” credente, che si fa affidandosi nella relazione, e rimane irremovibile nel luogo della dignità e nella responsabilità dell’altro, come Tommaso Moro, un credente per tutte le stagioni perché orante. Un adagio liturgico dice lex orandi è lex credendi: la forma della preghiera dà forma alla stessa fede, è legge del suo agire come amore.

Romano Guardini sottolinea un altro aspetto: “Credere con riferimento alla propria vita significa vedere sempre il tutto” (Diario, Brescia, 1983). La preghiera è allora da comprendersi come un atto totale che investe e coinvolge l’interezza dell’esistere. Non sono solo le labbra a muoversi. Le tue cellule pregano, così il tuo corpo, le tue mani, i tuoi piedi, gli occhi e le orecchie. E lo stesso vale per i tuoi gesti, sia che tu stia fermo o cammini. Ma anche il tuo muto e smarrito silenzio prega. La tua preghiera si riveste così della forma, delle parole e delle loro assenze. È nei colori, dai più cupi ai più luminosi. E dimora nei sentimenti, da quelli più tristi a quelli che illuminano il volto: arcobaleno cangiante dell’esistenza, del tuo stesso vivere in relazione o in solitudine, quando abbracci e quando ti astieni dal farlo. La preghiera, come la comprensione dell’essere in Aristotele, “si dice in molti modi”, perché non ha una essenza ma comprende tutte le essenze, e quindi tutte le forme. Essa è nascosta in ogni piega del tempo; occupa ogni spazio; sta nell’intermezzo dell’aurora e del tramonto, tra il buio e la luce ed è di casa in entrambi, di giorno come di notte. È in ogni pausa e sospiro tra le parole, nell’attimo del battito delle ciglia come del cuore, quando si recita nell’arco del giorno per tre volte l’Angelus Domini, o nelle fragilissime ali raccolte di una farfalla come mani giunte in preghiera. Essa è già tutta nel primo vagito della vita nascente ed è ancora lì nell’ultimo rantolo di un morente.

Come la sapienza di Dio la preghiera costruisce pietra dopo pietra nel mondo e in noi la sua casa (Pr 9,1). Le lacrime e i sorrisi sono le sue sette colonne, il dolore del mondo le sue fondamenta. La sua tavola imbandita è la gioia del figlio perduto e ritrovato, dello sposo del Cantico per la sposa; la gioia che scopre la perla preziosa e il tesoro del Regno. Ogni preghiera, gemito inesprimibile dello spirito, converge misteriosamente nel gemito dell’intera creazione: quello delle cerve partorienti, dell’animale preso nella rete, braccato e ferito a morte dai bracconieri, nel silenzio di una stella che si spegne, nel cammino di una cometa. Immancabilmente si fonde con la preghiera eucaristica di Gesù e della Chiesa ogni domenica, preghiera dell’Agnello condotto al macello (Is 53,7; Ger 11,19), Agnello pasquale, immolato ma vivente.

Pregare in situazione di passività è certamente esserci nello sprofondo dell’afflizione che dà angoscia. Si prega allora con “labbra chiuse” come nella preghiera di Paolo VI per la morte di Aldo Moro: “Ed ora le nostre labbra, chiuse come da un enorme ostacolo, simile alla grossa pietra rotolata all’ingresso del sepolcro di Cristo, vogliono aprirsi per esprimere il «De profundis», il grido cioè ed il pianto dell’ineffabile dolore con cui la tragedia presente soffoca la nostra voce. E chi può ascoltare il nostro lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro, di questo Uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico; ma Tu, o Signore, non hai abbandonato il suo spirito immortale, segnato dalla Fede nel Cristo, che è la risurrezione e la vita. Per lui, per lui”.

Pregare in ascolto del silenzio di Dio, in compagnia di questo Dio incomprensibile e silenzioso, trovando sempre di continuo il coraggio di parlargli, di parlare entro l’oscurità con fede, confidenza e calma, sebbene apparentemente non venga alcuna risposta se non la vuota eco della propria voce (Cf. K. Rahner), genera un’esperienza di unione che trasforma la solitudine in gioia. È l’esperienza dei poeti e dei mistici, e di coloro che amano perdutamente e nel perdersi incontrano la gioia dell’incontro. Lo scolpisce con un solo verso Mariangela Gualtieri: “Forse la gioia è la preghiera più alta”.
Chi prega accede alla conoscenza di sé e attende la conoscenza dell’altro, anche quella di Colui – direbbe ancora Guardini – “che ha assunto la nostra nella sua esistenza. Così l’eco di questo mistero è che egli ci concede di accogliere la sua nella nostra esistenza” (Ivi, 168-169).

Piuttosto che in lunghe preghiere, Teresa d’Avila scopre sé stessa e si conosce misurandosi nella pratica del vivere e in rapporto al fare, all’azione; e in questo metteva in pratica il detto di Gesù: “Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate. Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli” (Mt 6, 7-9).
Così l’esperienza mistica per lei non è fine a sé stessa, ma deve attuarsi in una prassi, in un servizio alla vita; il culmine della preghiera non consiste nei rapimenti estatici, ma nella risposta all’altro. Così Teresa ha compreso se stessa attraverso questa esperienza di amicizia che è l’orazione aderendo alla volontà di Dio al modo di Gesù che diceva: “mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato” (Gv 4,34).
Ora, tutta la storia della sua vita, la sua autobiografia è stata riletta proprio attraverso quella stessa domanda che era affiorata in me: Chi sono io? Lo ha fatto in un saggio Emanuele Riu Chi sono io? Santa Teresa nel Libro della vita (in “La dimora interiore. Mistica e letteratura nel V centenario della nascita di Teresa de Avila“, rivista online, La Torre del Virrey, 2018). Scrive Riu: “La grandezza della Vida di santa Teresa sta dunque nell’illustrare al lettore la quotidianità della propria vita e nell’aprirgli la propria anima, consentendogli di partecipare ai suoi travagli più interiori e rendendolo in qualche modo partecipe di una ricerca del proprio “io”, condotta sul crinale fra l’oggettività patristica e medievale e l’inquietudine interiore tipica del soggetto moderno, acquisendo in vari modi tutti quegli spunti che dalla spiritualità medievale potessero condurla ad un rapporto con Dio in cui la propria interiorità fosse completamente in gioco” (ivi).

L’esperienza di Dio che si incontra nell’orazione è per la mistica d’Avila, non solo possibile a tutti, ma necessaria affinché ogni persona possa giungere alla coscienza autentica della propria identità, alla radice del proprio io che si sperimenta nell’alterità. Noi raggiungiamo l’autenticità della nostra umanità quando giungiamo al suo fondamento ultimo di ciò che realmente l’io è. Un io in relazione in vista dell’unione. E la preghiera è la forma dialogica e generativa di quel vincolo che tiene tutti perfettamente uniti: l’amore.

Una domanda tira l’altra. Non solo Chi sono io? ma pure Chi sono io per me? Come l’autobiografia teresiana, così Le confessioni di Agostino di Ippona costituiscono un percorso mistico, un’uscita dell’“io” da sé, alla ricerca della propria identità che è amore. Amanti e al contempo amati, fonte e destinazione di un sentimento di amore che generiamo e ci viene incontro dandoci una forma.
Si cerca nell’altro ulteriorità di senso e di vita. Ecco allora l’invocazione che cerca il volto dell’altro all’inizio delle Confessioni in forma di domande: Chi sono io per te? e Chi sei tu per me? fanno del testo di Agostino il suo itinerario mistico: la preghiera della sua vita:
“Ma chi mi farà riposare in te, chi ti farà venire nel mio cuore a inebriarlo? Allora dimenticherei i miei mali e il mio unico bene abbraccerei: te. Cosa sei per me? Abbi misericordia, affinché io parli. E cosa sono io stesso per te, sì che tu mi comandi di amarti. Oh, dimmi per la tua misericordia, Signore Dio mio, cosa sei per me. Di’ all’anima mia: “La salvezza tua io sono!” (Agostino, Le Confessioni, 1,1.5).

Non si può, su queste ultime note, non ricordare un episodio della vita di S. Teresa raffigurato anche in un dipinto della chiesa delle sorelle Carmelitane di via Borgovado. Un giorno la santa Madre nel monastero dell’Incarnazione di Avila stava scendendo le scale e quasi inciampò in un bel bambino che le sorrideva. Suor Teresa, sorpresa nel vedere un bambino all’interno del convento, gli si rivolse chiedendogli sorridendo: “E tu chi sei?”, allora il bambino rispose con un’altra domanda: “E chi sei tu?”. La Madre disse: “Io sono Teresa di Gesù”. Il bambino, sorridendo, le disse; “Io sono Gesù di Teresa”.

Dedico questo testo all’amico Gian Franco che ha attraversato la soglia del mistero di Dio, sua nuova dimora; egli mi ha accompagnato nel ministero pastorale, spalla a spalla, dal 1983 a S. Francesca prendendosi cura della comunità nello stile silenzioso e orante di Maria e in quello schietto, familiare e laborioso di Marta.

Occhi

Quella mattina, mentre faceva colazione, Miriam guardava rapita un telefilm. Uno di quelli americani, una serie dipanatasi nel tempo contando chissà quante puntate. Un telefilm “leggero”, ma con interpreti di valore, come fanno negli Stati Uniti dove, anche nelle pellicole più commerciali, sono impegnati attori di grande carisma ed esperienza.
Di tutto l’intrigo della sceneggiatura, l’aveva colpita una sequenza. L’anziano proprietario di un cavallo, dopo vari tentativi di curare l’animale vecchio e artritico, ormai con liquido nei polmoni, si era deciso ad abbatterlo. Alla sua maniera, naturalmente, in perfetto stile western, anche se moderno: con la carabina, puntando alla testa. Era il suo animale, il suo amico, era giunto il momento di alleviare le sue sofferenze.
Nelle sequenze in cui prendeva la mira, le ottime inquadrature del cameraman avevano immortalato la recitazione da oscar dell’attore. La decisione, l’occhio sbarrato sul mirino, il prendere la mira, l’indugio nel premere il grilletto, un battere di ciglia, l’occhio che si appanna, le emozioni che hanno il sopravvento, i ricordi, i muscoli del viso che si rilassano, lo scoramento, l’incapacità di proseguire sino al desistere, affidando il compito al veterinario. L’attore aveva fornito un’interpretazione così veritiera e umana, senza parole, perfetta nei tempi e nell’intensità, che a Miriam si era contratto lo stomaco e aveva emesso un singulto.
Quando le succedeva, la donna aveva un gesto di stizza e insieme di affetto verso se stessa, borbottando che era diventata troppo sensibile. Commuoversi davanti ad un telefilm!
Il fatto era che, al di là dell’eccellente performance dell’attore, Miriam era stata assalita dalla compassione. E dai ricordi.
Anche lei aveva avuto diversi animali. Cani e gatti che aveva amato come si potevano amare gli animali. Mantenendo cioè un distinguo con gli esseri umani. Ma solo perché appartenevano a specie diverse, non per un diverso codice comportamentale che esigeva prima di tutto — prima di tutto — il rispetto. Il rispetto per la loro condizione di cane, di gatto, di animale con marcate caratteristiche. Li aveva amati, quindi, non solo accudendoli e dando loro affetto, ma rispettando la loro natura, senza farli diventare la parodia di un essere umano.
Aveva pianto quando aveva raccolto due suoi gatti spiaccicati sulla strada, quasi un tutt’uno con l’asfalto, da doverlo grattare — il tributo pagato alla libertà che, su consiglio del veterinario, non aveva sottratto loro, rinchiudendoli a vita in casa. Aveva pianto quando aveva dovuto far sopprimere gatti e cani ormai talmente sofferenti incurabili o in agonia che, a non dar loro una morte rapida e indolore, sarebbe stato egoismo, l’ostinazione a tenerli in vita anche a costo del loro strazio.
Il telefilm terminava con una citazione di Konrad Lorenz, riferita al cane ma che, per l’occasione, la nipote del vecchio cambiò rapportandola al cavallo e donandola al nonno: La fedeltà di un cavallo è un dono prezioso, che impone obblighi morali non meno impegnativi dell’amicizia con un essere umano. Il legame con un cavallo fedele è altrettanto “eterno”, quanto possono esserlo, in genere, i vincoli tra esseri viventi su questa terra.
“Ecco” pensava Miriam. “Penso di aver avuto questa fortuna. Che anche i miei animali l’abbiano avuta”.
E le tornavano in mente gli occhi delle sue bestiole — gli occhi. Quelli che le avevano parlato con sentimento puro, con gioia e disperazione, con pena e felicità, con libertà e dedizione. Era sicura che anch’essi avessero visto le stesse espressioni nei suoi occhi. E poiché gli animali erano capaci di interpretare la mimica facciale — gli atavici segni comuni ad ogni essere vivente — anch’essi avevano capito quello che lei provava nei loro confronti. Il rispetto. L’affetto.
E le sovvennero tutti i dibattiti e i discorsi sull’eutanasia, sul testamento biologico, sull’accanimento terapeutico e sulla terapia del dolore o sulla sedazione completa, non sempre applicata, quando la situazione era irrecuperabile… — Parlo per me, — iniziava così, durante le discussioni, infervorandosi. — Io non ho paura della morte, ma del dolore, e credo di essere solo di passaggio sulla terra, perché destinata ad una vita dopo. Ed è inumano e un oltraggio alla mia dignità tenermi a forza qui, a costo di ulteriori sofferenze e di trattamenti sproporzionati ai risultati, invece di sedarmi completamente e lasciarmi andare, quando non c’è più nulla da fare. Perché solo chi patisce sa quanto è lungo un secondo di dolore.
E poi pensava ai morti per coronavirus in terapia intensiva — a quelli nel periodo più nefasto e a quelli attuali, che morivano nello stesso modo ma che, essendo in numero minore, suscitavano meno scalpore, meno riflessioni, meno interesse — e agli infermieri che avevano avuto la pietà e la compassione dell’assistenza, di tenere loro la mano, anche se guantata, sino al momento del passaggio. Pensava ai loro occhi — gli occhi — al muto linguaggio che li aveva uniti, attraverso gli strati di protezione, oltre le parole. E pensava che l’essere umano era capace di cose bellissime.

(Carla Sautto Malfatto – tutti i diritti riservati)

SCHEI
Ferrara, idea di città: a voi indré i mié baioc (ridatemi i miei soldi)

In una celebre scena di “Un americano a Roma”, Alberto Sordi aggredisce un piatto di pasta al grido di “m’hai provocato, e mo’ me te magno”. Tiziano Tagliani, sindaco di Ferrara per dieci anni fino al 2019, a un certo punto non ce l’ha più fatta a digiunare sul profluvio di analisi della sconfitta del centro-sinistra locale, e si è buttato sul piatto di maccheroni, avendo tutti i titoli per farlo. Io, che ho meno titoli di tutti gli intervenuti, partecipo all’abbuffata per una ragione: sono un cittadino che ha vissuto dall’interno la crisi Carife, da dipendente e da sindacalista, e la ritengo una delle principali ragioni della sconfitta. Lì mi sento di parlare con cognizione di causa. Sul resto mi esercito da libero pensatore, improvvisandomi “commissario tecnico” come quei sessanta milioni di italiani che parlano dello scibile umano essendosi laureati alla Scuola Radio Elettra o su Google.

Le ragioni della sconfitta? Ne seleziono tre, una (parzialmente) esterna e due interne alla città. La ragione esterna risiede nel vento sovranista che soffia nel mondo, in Europa, in Italia e che non poteva lasciare indenne Ferrara, nonostante il suo essere situata in una buca la preservi dalle folate più violente – ma non dai miasmi mefitici del suo petrolchimico. Questo vento si è mescolato con una voglia, generica quanto prepotente, di “novità” e di “cambiamento”, qualunque esso fosse, che fa anche sorridere se pensiamo che questo afflato rivoluzionario è stato concretizzato, nell’urna, da elettori la cui età media è di cinquant’anni circa. C’è una frase che dice “rivoluzionari da ragazzini, riformatori da  adulti, conservatori da maturi, reazionari da vecchi.”  Il prototipo del ferrarese dovrebbe già essere, per ragioni di anagrafe, nella fase della conservazione, ma in maggioranza ha deciso che bisognava “cambiare”. Cambiare cosa? Le facce, intanto. Un blocco di “potere”, o un sistema di relazioni che durava da circa settant’anni può, in effetti, suscitare una legittima e anche naturale voglia di alternanza. Avvicendare il personale al potere è una regola di buon senso, soprattutto se sono quattro generazioni che questo non avviene. A questo si potrebbe tuttavia obiettare che avrebbe potuto accadere anche prima, e prima non è accaduto; inoltre, che in altre roccaforti rosse o rosa l’elettorato non ci ha proprio pensato di affidare la stanza dei bottoni ad un’allegra quanto sconclusionata armata Brancaleone di “alternativi”, oppure, nella migliore delle ipotesi, di esponenti dell’imprenditoria locale stanchi della dittatura delle cooperative (la dico in maniera grossolana). Allora perchè stavolta a Ferrara, la conformista Ferrara, è successo?

Per provare a rispondere a questa domanda occorre passare alle ragioni endogene della sconfitta. La prima è il caso Carife. La Coop Costruttori, circa dieci anni prima, aveva dato un bello squasso: quasi undicimila creditori, duemila e rotti dipendenti, trecento soci, un fallimento per il quale peraltro, al termine dell’iter giudiziario, i tribunali non hanno riconosciuto la responsabilità degli amministratori per bancarotta, per carenza dell’elemento soggettivo del reato – ad eccezione della “bancarotta per dissipazione” relativa al denaro investito nella Spal. Ecco: se la Coop Costruttori è stata un settimo grado della scala Richter, Carife è stata “The Big One”, il termine con il quale si definisce il terremoto che prima o poi dovrebbe devastare Los Angeles e San Francisco. La responsabilità amministrativa di questo crac è dei dirigenti apicali, a partire da Murolo, e degli amministratori (molti dei quali esperti di banca come io lo sono di astrofisica). Lo ripeto affinchè sia chiaro: la responsabilità amministrativa del crac Carife è anzitutto dei suoi dirigenti apicali, a partire dal mirandolese volante con i suoi tirapiedi, che ha pervertito le regole minime di prudenza fatte raccontare, come un mantra, dai formatori (me compreso) a tutti i seminari sui crediti: frazionare il rischio e prestare sul proprio territorio. Infatti, sotto la sua brillante gestione, la banca ha “prestato” l’equivalente di circa un terzo del suo patrimonio disponibile a due soli debitori: un gruppo di Milano (Siano) per una iniziativa immobiliare mastodontica quanto spericolata, finanziata nel momento in cui il resto del mondo creditizio usciva dal mercato immobiliare; e una compagnia di navigazione di Torre del Greco (Deiulemar)per finanziare l’acquisto di una nave – Deiulemar per inciso soprannominata “la Parmalat del mare” per le caratteristiche del suo fallimento. In due mosse da geniale scacchista, ha messo a repentaglio il patrimonio della banca erogando credito a centinaia e centinaia di chilometri di distanza dal proprio territorio. Se un qualunque direttorino di filiale avesse fatto in piccolo quello che lui ha fatto in grande, sarebbe giustamente stato rimosso dall’incarico e forse sanzionato. Lui, che era il capo, è uscito da Carife con qualche milione di euro e giudizialmente (quasi) immacolato sulla base dell’assunto “tanti colpevoli, nessun colpevole”. In quelle operazioni lì stanno i germi della dissipazione e della malagestio, aggravate dal fatto che già la Cassa stava attutendo la botta dei soldi prestati (e non rientrati) alla Coop Costruttori. Il resto è venuto di conseguenza, ma non è stato ininfluente, è stato anch’esso determinante.

Infatti, la responsabilità politica della “risoluzione” di Carife è tutta ascrivibile ad un governo Renzi a trazione piddina, con Franceschini, ministro teoricamente espressione del suo territorio, a fare la scimmietta (non vedo, non sento, non parlo), e tutti i parlamentari e piddini regionali e provinciali zitti e allineati sulla posizione del capo: di nuovo, Renzi. La banca va disciolta. Decisione condivisa tra Bankitalia (altro manipolo di inguaiati) e Ministero dell’Economia, ossia il Governo e il Premier di allora(sempre Renzi). Carife non era fallita, ma anche se lo fosse stata, sarebbe fallita per la gestione commissariale di Bankitalia, che in due anni e rotti (dal maggio 2013) ha dilapidato i 150 milioni di aumento di capitale del 2011/2012. Già commissariare una banca dopo aver fatto acquistare le azioni dai propri clienti è stato un tiro mancino di Bankitalia, una vera bastardata, perchè significava scientemente azzerare, in sostanza, il valore di quell’investimento per cui tutta la Rete commerciale aveva agganciato tutta la clientela; una usurpazione di fiducia per conto terzi che ha pochi precedenti. Ma non gli è bastato. Dopo aver fatto lentamente cuocere (decuocere) a fuoco lentissimo la banca senza una sola iniziativa di rilancio, facendo quindi uscire una liquidità superiore alla fresca capitalizzazione, e dopo aver fatto deliberare ai soci un aumento di capitale di 300 milioni finanziato dal Fondo di Tutela dei Depositi, Bankit e il Governo hanno iniziato una melina travestita da contrasto con la Commissaria europea alla Concorrenza. Dico “travestita”, perchè nessuno è in grado di mostrare un documento formale nel quale la signora Vestager abbia scritto “è vietato finanziare la Carife con il Fondo di Tutela dei Depositi”(ente completamente privato, finanziato dalle banche). Si accettano scommesse: questo documento non esiste. E’ esistita invece una sudditanza all’Unione Europea, che non si è voluto “irritare” per avere la possibilità di sforare sul tetto al deficit di bilancio. Questa appare come una ricostruzione decisamente più credibile di quella ufficiale, propagandata senza il supporto di alcun documento scritto – tanto è vero che poche settimane dopo la stessa soluzione ha “salvato” Caricesena. Nel frattempo, è appena il caso di ricordarlo, nell’unica reale controversia sollevata dallo Stato italiano contro la Commissione Europea, che aveva ritenuto illegittimo l’intervento del Fondo interbancario su Tercas, il Tribunale ha dato torto all’Europa. A Ferrara invece, la piccola, imbucata, insignificante, indifesa Ferrara il Governo renziano ha deciso di far saltare la banca il 22 novembre del 2015. Il nostro undici settembre.

Sto annoiando qualcuno? Non credo, però, di aver fatto perdere il filo a quei 31.000 risparmiatori che, per effetto della “risoluzione”(adoro il tono asettico che viene introdotto nel linguaggio giuridico per mascherare le atrocità), hanno visto azzerato in una notte risparmi per decine o centinaia di migliaia di euro, persino con le obbligazioni sottoscritte dieci anni prima: una manovra folle e meschina, raccontata come un “atterraggio soffice”. Parlo di pensionati, lavoratori, artigiani, dipendenti della stessa banca. Parlo di un tessuto sociale ed economico raso al suolo peggio di quanto avesse fatto il terremoto fisico di tre anni prima – evento della cui concomitanza sui nostri territori, evidentemente, non è fregato nulla a nessuno, men che meno ai Franceschini e catena alimentare discendente. Spiace la durezza, ma questo è quanto. Last but not least, il “consigliere economico del premier”, Luigi Marattin, ormai star televisiva ora Italia Viva, continua a difendere la scelta dopo aver dichiarato che se “speculi” sulle azioni devi accettare che puoi perdere i soldi. Siccome è un professore di economia (macro), mi permetto di dargli un voto per l’esame di (micro) economia dal titolo “conoscenza dei meccanismi di finanziamento e capitalizzazione delle banche locali”: voto zero.

Questi sono gli eredi, ferraresi e non, del PCI di Berlinguer, tra l’altro. Secondo voi non basta a spiegare l”alternanza”? Basta e avanza. Poi c’è la terza ragione, la seconda interna alla città, che è la sottovalutazione, oggettiva e comunicativa, del problema della sicurezza. Non è la diatriba tra l’ipotesi della mafia nigeriana o la riduzione del fenomeno a microdelinquenza sparsa e (anche) locale, ad avere fatto la differenza. La differenza l’ha fatta il progressivo degrado di alcuni quartieri, tra cui uno signorile anche nel nome (Giardino). Se mi minacciano con un coltello, se mi rubano in casa, se non mi sento sicura a girare da sola, se il prezzo della mia casa crolla questo è un problema di sinistra. E se anche questi problemi fossero esagerati da una “percezione” alterata e gonfiata ad arte, dovrei trarre le conseguenze di questa affermazione (corretta), e “gestire” da sinistra questa percezione; non fregarmene. Se un cittadino che vive in Don Zanardi (zona est lontana dal GAD) a domanda vi risponde che non si sente sicuro in città, non credo che dovreste limitarvi a dargli del visionario, ma chiedervi perchè la pensa così, e porvi il problema sia concreto sia comunicativo. Lasciare l’offensiva mediatica alla destra di naomo su questo tema è stato un errore molto grave.

In tutto questo le responsabilità del Sindaco Tagliani sono, sembra un paradosso, più oggettive che soggettive. Intanto sul caso Carife è stato il solo a criticare con durezza l’inanità del suo partito (dal quale in più di un’occasione credo si sia sentito fregato), e a convocare spesso adunanze di tutta la cittadinanza e associazioni, comprese quelle più incazzate con lui. Sul vento sovranista poteva poco: gli ha scompigliato i capelli come a tutti coloro che ancora ne hanno. Peraltro bene ha fatto a ricordare le cose buone della sua amministrazione, che ci sono state, una fra tante la riqualificazione delle Corti di Medoro (ex Palaspecchi). E ha fatto bene anche a togliersi qualche sassolino a proposito del candidato “indipendente” e fuori dalle vecchie logiche di partito. Sono persuaso che la “colpa” non sia solo sua, e che certo settarismo abbia contribuito a non trovare una soluzione alternativa, anche se la scelta di candidare sindaco proprio l’assessore alla Sicurezza della giunta uscente non è stata la più felice se si voleva comunicare una “discontinuità”. E parlo con il massimo rispetto della persona, la cui attività non può certo essere ridotta ad un luogo comune da chiacchiera al bar.

Ferrara in questi ultimi anni è stata sbeffeggiata, descritta come una nuova Scampia, ridicolizzata, esemplificata come anomalia intollerante, una sorta di enclave nerastra. Non riconosco in queste ricostruzioni la mia città, che è anche molto altro. Prendere sul serio non tanto i propri avversari, quanto le emergenze che hanno peggiorato la vita dei propri concittadini ricoprendo di una patina grigia anche il buono fatto, è il solo modo per diventare a propria volta un’alternativa alla destra.

CONTRO VERSO
Filastrocca della coscienza sporca

Sì questa volta ero proprio arrabbiata. Una bimba prostituita riempe di sdegno e di pena, e se il datore di lavoro, diciamo così, sono papà e mamma viene spontaneo scoccare maledizioni.

Filastrocca della coscienza sporca

Immersa nel Dixan
la mamma maman
e il marito pappone
dentro al Last al limone.
Il cliente porcino
in un litro di Coccolino.
Sua moglie, senza sospetto,
nella bottiglia di Svelto.

Adulti indecenti?
Tonnellate di ammorbidenti!
Adulti trafficanti?
Quintali di sbiancanti!

Per chi vende ragazzine
in strada o in appartamento
proprio non abbia fine
l’orrore e il tormento
d’usar olio di gomito e
vedere quanto è dura
ripulirsi la coscienza
dalla propria lordura.

Vorremmo tutti credere il contrario ma i perversi esistono. Questa filastrocca nasce dall’incontro con una ragazzina che era stata costretta alla prostituzione dai propri genitori, prevalentemente dalla madre, abile a formare la propria bambina, a metterla sul mercato e a riscuotere i compensi. La signora è stata poi condannata a parecchi anni di carcere. La ragazzina si è ricostruita poco a poco. 

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia tutti i venerdì.

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Test volontario gratuito Covid personale scolastico
aumenta la disponibilità

Da: USL Ferrara

L’Azienda USL di Ferrara ha reso disponibili nuovi posti per i test sierologici all’Ambulatorio 1 del Punto Prelievi-Settore 3 Cittadella S. Rocco Ferrara dalle 14 alle 18  di Lunedì 7, Martedì 8 e Mercoledì 9 Settembre, prorogabili in caso di ulteriori necessità, per meglio rispondere alle necessità di tutto il personale delle scuole di ogni ordine e grado, pubbliche, private, paritarie e degli istituti di formazione professionale caratterizzato da un contatto diretto con giovani e minori: docenti, dirigenti, educatori, ausiliari, collaboratori operanti nei servizi educativi per l’infanzia pubblici e privati; educatori di sostegno, tutor, conduttori di esperienze laboratoriali operanti nei servizi educativi per l’infanzia, insegnanti, ausiliari, collaboratori, personale operante nei servizi di “pre” e “post” nido/scuola, trasporto scolastico e refezio
La Prenotazione è possibile dalle ore 12 di Giovedì 3 Settembre  al link
https://www.ausl.fe.it/gli-ambulatori-riservati-al-personale-scolastico-per-il-test-sierologico-rapido-covid-19
L’esecuzione del test sierologico rapido per la ricerca di anticorpi del virus SARS-CoV-2 per il personale di tutte le scuole pubbliche, statali e non statali, paritarie e private è gratuito e su base volontaria.
Il Numero  Verde 800 277 433 è attivo dalle 11 alle 13 dal Lunedì al Venerdì per ulteriori informazioni.
L’accesso al test è effettuato negli ambulatori contattando direttamente i medici di medicina generale oppure  con la prenotazione on line al link https://www.ausl.fe.it/gli-ambulatori-riservati-al-personale-scolastico-per-il-test-sierologico-rapido-covid-19  nelle strutture aziendali indicate.
In caso di positività al test, entro 24/48 ore, il Dipartimento di Sanità Pubblica provvede ad effettuare il test molecolare (tampone) e attiva le procedure conseguenti sulla base dell’esito.
Il personale scolastico, docente e non docente, assente dal lavoro nel periodo di tempo intercorrente tra l’esito positivo al test sierologico e l’esito del tampone è formalmente assente per quarantena.
I test sono effettuati sino alla settimana prima dell’inizio delle attività didattiche, comunque prima dell’effettiva entrata in servizio nel caso in cui la persona prenda servizio successivamente all’avvio delle attività didattiche.  L’iniziativa -di cui è evidente la rilevante complessità delle procedure- ha la finalità di tutelare la salute dell’intera popolazione scolastica e di sviluppare un importante screening di salute pubblica.

Tiziano Tagliani: una idea di città

di Tiziano Tagliani
(Sindaco di Ferrara 2009-2019)

Mi sono volontariamente sottratto fino ad ora al dibattito sulla ”crisi della sinistra” ferrarese sia perché la difesa d’ufficio non mi appassiona, sia perché essendo divenuta giorno dopo giorno una sequela di rilievi al PD talvolta utile, talaltra meno, penso che esponenti del partito più qualificati di me, alcuni con ruoli di rilievo, altri, assenti anche nella fase delle elezioni, avrebbero dovuto e potuto dire la loro. Io ho detto la mia per diversi anni.

Mi scuote oggi l’intervento di Federico Varese che stimo molto. I suoi rilievi sono due: il mancato coraggio nella scelta di un candidato civico e la assenza di una idea di città. Non sono d’accordo.

Il PD dopo la batosta alle politiche ha verificato se vi fosse un candidato di partito con chance di vittoria, e non lo ha trovato, qualche rifiuto e tanta paura. Pertanto dall’autunno 2018 a gennaio 2019 il PD aveva individuato e lavorato con il candidato Fulvio Bernabei, una scelta coraggiosa in linea con la necessità palese di “allargare” la platea del consenso.

Una scelta all’ultimo tramontata ma non per volontà del PD, o per lo meno non solo del PD, appare quanto meno originale che proprio dalla sinistra, la meno convinta di quella candidatura, venga oggi il richiamo alla mancanza di coraggio. Poi ci furono i “civici”, ma questa è già un ‘altra storia: quella della generosa disponibilità a mettersi in gioco degli esponenti della giunta uscente Aldo e Roberta, per i quali era difficile interpretare il “nuovo”.

Per dire che è mancata una idea di città bisogna scendere dal platonico mondo delle idee e confrontarsi con le “cose”.

Le cause della sconfitta sarebbero da ricondursi al nuovo ospedale o al Palaspecchi ? strano a dirsi, di fronte ad una idea di città che quei problemi ha obiettivamente risolto e non senza fatica spesso nel silenzio di tanti nostri commentatori.

Le cause sarebbero da ricondurre al fallimento di CARIFE ?

Assai probabile, ma avventuroso ricondurne le responsabilità politiche a chi in città, per mesi isolato, si è preso la “ briga e di certo non il gusto” di dire al Governo che fu un errore fare di 4 banche un male comune, certo non un mezzo gaudio.

E’ certo invece che, per chi come il sottoscritto, non ha mai smesso di incontrare i cittadini (non ci sono solo i bar, ci sono anche tribunali, negozi di alimentari, palestre, cinema, librerie…) risultava palese che l’immigrazione massiccia e priva di politiche di integrazione stava creando, anche dentro la sinistra, l’associazionismo ed il sindacato stesso un disagio forte, esteso.

Questo problema reale, magistralmente amplificato dalla stampa locale e dalla comunicazione professionale messa in campo per tempo dalla Lega ne ha fatto “il tema”. Chi oggi lamenta l’assenza di una politica coerente e decisa del PD, i cui sindaci avevano opinioni a volte opposte, dimentica che questo partito è l’unico con un base popolare e che, proprio perché si “percepiva” l’ampiezza di quel problema fra la gente , è risultato complesso allineare le posizioni.

Non è bastata né l’animazione culturale in Gad, voluta a sinistra, né l’esercito osteggiato a sinistra.

Sarebbe il caso, in un dibattito sulla sinistra, dirci chiaramente se chi scrive ha perso o guadagnato voti andando a recuperare 6 donne col pulmino dell’ASP, abbandonate sulla Romea dai Carabinieri, dal Prefetto e da Naomo. Anche questa è idea di città si può certo obiettare in merito , ma non dire che non c’era.

Così come la riqualificazione delle piazze periferiche (Ponte, Revedin) , la realizzazione, dopo anni, dei parcheggi in centro, 140 alloggi di Edilizia residenziale pubblica senza consumo di suolo, la nuova missione affidata a tutti i contenitori culturali cittadini con investimenti per centinaia di milioni sono una idea di città, spesso una parte della sinistra l’ha legittimamente osteggiata, ma questa è cosa diversa dal dire che non c’era.

In passato si è esternalizzato e non poco dopo innumerevoli infuocati incontri con il personale, i genitori, le rappresentanze sindacali, si sono spiegate le ragioni e raccolti i suggerimenti a difesa del sistema pubblico; oggi si esternalizza “a freddo” il lunedì e poi si fa dietro front il martedì. E dite che ha vinto chi ha una idea di città?

Si può sostenere poi che il “porta a porta” fosse meglio della “calotta” o che una società in house fosse meglio di Hera, come anche qui una parte della sinistra ha sostenuto pervicacemente, io non lo penso e nessuno mi ha mai convinto sul punto ( Forlì per prima), ma portare i ferraresi alle vette della raccolta differenziata riducendo le tariffe per l’85% dei cittadini è una idea di città.

Chi ha vinto comunque non ha cambiato neanche una virgola dopo aver suonato la tromba del “paciugo” per anni.

Con Merola e Muzzarelli la città ha proposto alle categorie economiche una forte alleanza territoriale, il Ministro ci ha messo 80 milioni per un progetto “Ducato Estense”, ognuno invece è andato per suo conto ed oggi Ferrara non conta nulla: né a Ravenna, né a Bologna. Ci fu in proposito una idea di città differente ? me la sono persa, non so se ci fosse a sinistra, certamente oggi non la vedo ed il momento tragico che ci aspetta presupporrebbe invece idee ben chiare.

Non siamo stati capaci di valorizzare abbastanza il nostro lavoro?

Il Meis, le tangenziali, i progetti del bando periferie e la riqualificazione del MOF, le politiche trasporto pubblico con l’abbonamento gratis ai ragazzi e l’estensione della tariffa urbana, gli interventi per la sostenibilità e l’accessibilità della città (prima in Italia), gli studentati al palaspecchi:

è certamente vero.

Avevamo strumenti inadeguati e nessun sostegno esterno da un PD che ha scoperto la comunicazione con Bonaccini, ma non direi che non ci fosse un’ idea di città.

PAROLE A CAPO
Cleopatra Scoglio: “In una gabbia” e altre poesie

“Sdegno il verso che suona e che non crea.”
(Ugo Foscolo)

 

In una gabbia

Dentro una gabbia toracica,
non si custodisce un cuore.
Pensieri soavi, come voli di gabbiani,
rasserenano l’animo.
Accendono barlumi di speranza,
acquistano motivi per vivere.
Vivono i più grandi sogni,
chiusi dentro quella stessa gabbia.
Fai volare quel cuore,
utilizzando le chiavi
delle tue capacità.

 

Sana caparbietà

Aspetto un “Sì” da una ridicola vita,
che ignara e sorda,
non guarda in faccia nulla.
Lei, forse non capisce,
non distingue il bianco dal nero,
non nasconde la crudeltà.
Non si ferma di fronte a niente,
la vita mente.
Lei schiaccia i sentimenti,
percuote il cuore,
morde le caviglie,
stringe il collo.
Non perdona,
non demorde, anzi,ossessiona e calibra il colpo
(ma solo quello che si può sopportare).
Se la vita “dura”sembra il peggior male,
allora, ecco che interviene la forza
che credevi di non avere.
Si ribella e cerca coraggio per combattere.
Diventa una battaglia estenuante,
in cui la miglior arma è
questa sana caparbietà insita in noi.


Linfa vitale

Scrivi quando il viso è bagnato,
quando le lacrime partono dallo stomaco.
Dopo aver scritto,
tutto diventa leggero.
Solca il foglio d’inchiostro, ogni volta che,
non senti nessuna musica arrivare all’orecchio del cuore.
Non gettare la penna,
quando l’inchiostro sembra finito.
Continua a cercare parole nuove.
che ti fanno star bene,
nuova linfa vitale dentro te.

 

Cleopatra Scoglio (Reggio Calabria, 1976). Ha conseguito la Laurea in Storia e Conservazione dei Beni Architettonici e Ambientali, presso la Facoltà di Architettura della propria città. Ha scritto on-line, sul sito ilmiolibro.it, una raccolta di poesie dal titolo: Come fil di ferro e un romanzo di narrativa  Inseguendo una premonizione.

La rubrica di poesia Parole a capo esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia.
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Salvare Roma ricominciando dall’acqua?

 

Ferraraitalia è un giornale glocal, quindi: Ferrara ma non solo Ferrara. Molti lettori e collaboratori ci leggono e ci scrivono da tutta la Penisola. Da Roma ad esempio.

‘Ricominciamo dall’acqua!’ è lo slogan con cui  Vinicio Capossela presenta l’ottava edizione del suo Sponz Fest che si svolge in Irpinia alla foce del Sele, tra I fiumi Sele e Ofanto. L’evento viene presentato con una fila di piccole barche che scorrono tra quelle acque fluviali, celebrate da una mitologia secolare ma anche bisognose di essere purificate. Tra musica, letteratura e cinema vengono tenuti una serie di eventi decentrati, al massimo 200 spettatori ben distanziati. Ma Capossela non è il solo ad affidarsi in questo periodo tormentato al potere magico-salvifico dell’acqua.

Anche quest’anno si è svolto il Trasimeno blues, una serie di concerti  in cui vengono utilizzate come palcoscenico le barche dei pescatori del lago Trasimeno. Galleggiando e muovendosi lentamente lungo le coste di Castiglione del lago i  musicisti suonano musica blues, tradizionale o sperimentale, dalla mattina fino al tramonto, ognuno dalla sua barchetta. Il pubblico assiste in ordine sparso e a piccoli gruppi seguendoli lungo la riva.

Oliver Stone ha presentato il suo progetto ‘Floatingtheatre dopo aver collocato un grande schermo su una zattera galleggiante tra le dolci onde del laghetto dell’EUR per proiettare ogni sera film da lui accuratamente scelti. Dal 24 agosto al 24 settembre. Capienza massima 150 spettatori all’aperto, ben distanziati e ascolto con cuffie. 30 serate, 2 film a serata e perfino il dibattito con il pubblico.  Quest’ultima iniziativa ha come location un quartiere periferico di Roma che gode di ampi spazi, dotato anche del più grande laghetto artificiale di tutta la città. Ma Roma è una città circondata da acqua, seconda forse solo a Venezia.

Passeggiando per le strade di Roma, alcune deserte, altre affollate di un’umanità variegata come non mai, psicologicamente provata, lacerata tra paure e rimozioni, in preda a una vitalità accaldata e irrazionale, dove l’imprudenza e l’incoscienza si mescolano con una rabbia sorda pronta a scaricarsi sul primo presunto colpevole, con i cervelli intasati da informazioni contraddittorie e propagande politiche avvelenate, alla fine di una lunga estate torrida non può non venire alla mente la meraviglia concreta e simbolica dell’acqua. Assetati come siamo tutti di normalità perduta e di acqua fresca, simbolo di vita e di rinascita, di limpidezza e trasparenza, di mutamento continuo che rinnova e purifica i residui stagnanti. Dopo la tremenda esperienza del lockdown e di un’epidemia che sembra non volerci abbandonare, tutti, ognuno a modo suo, cercano di recuperare una parvenza di una normalità che non esiste più, se mai è esistita, con comportamenti confusi, a volte disperati, sognando di tornare a una libertà perduta. Ma in fondo, anche i più sprovveduti, sanno che tutto è definitivamente cambiato rispetto a un prima che, a ben vedere, era carico di problemi irrisolti e disastri sociali e economici che incombevano sottotraccia. E si è capito che questa volta l’elemento catalizzatore ha preso la forma di un virus particolarmente subdolo.

La vita culturale della città della grande bellezza, della grande storia, della grande architettura da molti anni, anzi decenni, era in costante declino. Al di là dei soliti grandi eventi presieduti da grandi nomi (in questa città l’aggettivo grande viene usato e abusato fino alla nausea) il sostrato sociale che vedeva la partecipazione di migliaia di persone, giovani in particolare, alla vita culturale e artistica della città è andata sempre più scemando. Ed è progressivamente svanita quella tensione utopistica che, al netto di risultati politici non sempre felici, ha comunque in passato favorito  la partecipazione e la condivisione dell’esperienza collettiva della  musica, delle arti visive, della letteratura, la creatività collettiva di masse di persone fino a quel momento escluse dalla vita culturale e artistica. Troppa di quella tensione giovanile si riversa oggi nell’esperienza estetico-estatica del ballo di massa nelle discoteche, storditi e inebriati da droghe varie, o in raduni più o meno clandestini. Momenti di partecipazione collettiva che sotto il nome seducente di ‘movida’ si consumano nell’arco della serata/nottata senza lasciare nulla, se non aumento di malessere sociale e dipendenze varie.

Tolti il Parco della musica e Santa Cecilia, il Teatro dell’Opera, le Scuderie del Quirinale, la Festa del Cinema, le serate letterario-filosofiche alla basilica di Massenzio, le mostre al Campidoglio e a palazzo Venezia, la Fiera autunnale della piccola e media editoria, è rimasto davvero ben poco. La solita alta cultura per grandi nomi applauditi da un pubblico sempre più anziano, sempre più di élite, sempre più chiuso in se stesso e malato di uno snobismo vagamente provinciale. Consorterie, narcisismi estenuanti, radical/chic di destra e di sinistra. E dopo il lockdown e le misure di distanziamento sociale anche quel poco di tensione residua si è drammaticamente ridotto. Mentre la iperattiva instancabile frenetica vita culturale ridotta a frasi a effetto, insulti e polemiche che domina il web, tranne poche, troppo poche eccezioni, non può sostituire la voglia di partecipare, approfondire e trasformare che caratterizza una vita culturale degna di questo nome. Ecco perché  l’ultima grandezza di Roma che ancora non è stata elencata è la grandezza dello spreco. 

E se fosse allora proprio l’acqua l’elemento fisico e simbolico di una possibile rinascita? Roma è una città dove scorrono il Tevere e l’Aniene, un crocevia di acquedotti dove scorre l’acqua dalle tante sorgenti che sgorgano dai monti intorno. Nella mitologia la stessa fondazione di Roma nasce dalle peregrinazioni di Enea per il Mediterraneo e ancora dalla leggenda di Romolo e Remo abbandonati dentro una cesta sulle acque dell’Aniene e poi miracolosamente salvati dal fiume e ritrovati ai piedi del colle Palatino. E’ una città circondata da laghi, a nord come a sud. Si trova in prossimità del mare. Noi inquiniamo, sprechiamo l’acqua in grandi quantità, ma non sfruttiamo quella che abbiamo. E i buchi negli acquedotti sembrano  la rappresentazione simbolica delle tante risorse culturali e artistiche, soprattutto giovanili, che non trovano ascolto nè spazio e che non vengono valorizzate. Giovani che arrancano e sgomitano tentando di emanciparsi dalla tutela finanziaria dei genitori – almeno quando questa tutela esiste – fino a dover rinunciare.

Roma è anche una città in cui abbondano parchi delle più svariate dimensioni, e spesso, da Villa Borghese fino a Villa Pamphili o Villa Savoia, questi parchi ospitano laghetti o altri piccoli corsi d’acqua. Se davvero l’acqua è un simbolo di purificazione e rinascita, questi luoghi, dai più grandi fino ai più modesti giardini di periferia, si potrebbero utilizzare per organizzare eventi decentrati in cui musica, letteratura, mostre di pittura, proiezioni di corti, si alternano dando spazio non tanto ai soliti grandi nomi ma ad alcuni artisti, poeti, pittori, musicisti che conoscono e possibilmente fanno parte del territorio in cui l’evento si svolge. Possibilmente giovani. E  un ruolo centrale nell’organizzare questa rinascita della vita culturale dal basso potrebbe essere affidato al circuito delle biblioteche comunali, fino a questo momento sempre più sacrificate dal punto di vista finanziario e occupazionale. Con l’aiuto delle scuole di zona in grado di partecipare, una volta capito e deciso se, come e quando potranno rientrare veramente in funzione. Ma anche dando vita a eventi pensati più in grande, come il mese di proiezioni sull’acqua organizzato all’EUR da Oliver Stone, o altri eventi che si potrebbero svolgere per esempio alla confluenza del Tevere con l’Aniene a Ponte Salario, o ancora una versione itinerante del Tevere Expo solo per fare alcuni dei tanti possibili esempi. Senza contare i concerti e le letture di poesie e racconti che si possono organizzare sul lago di Bracciano, di Vico, di Nemi, di Martignano sull’esempio del Trasimeno blues. E infine anche molti luoghi di mare, verso nord come verso sud, possono rappresentare splendidi scenari per iniziative simili.

Per concludere con un salto nella musica classica, non potrebbe una nuova politica culturale come questa essere annunciata dalla splendida Water Music di G. F. Handel? Con un grande concerto tenuto sulle rive del Tevere, magari ai piedi di Castel Sant’Angelo?
Ma, come dice il poeta J. Keats alla fine di Ode a un usignolo : “Fu una visione o un sogno ad occhi aperti? Terminata è quella musica: son desto o sono nel sonno?”

Nel frattempo cerchiamo di mantenerci vivi e di poter continuare a sognare.

Comacchio: manufactory – spinafestival – dal 4 al 6 settembre

Da: Ufficio Stampa Comune di Comacchio

E’ ai nastri di partenza la kermesse fra arte e linguaggi musicali, performance, street art: Forza d’attrazione che si svolgerà a Comacchio da venerdì 4 a domenica 6 settembre. Si tratta del connubio di due realtà ormai consolidate sostenute nel corso degli anni dal Comune d Comacchio.

Manutactory e SpinaFestival  in un abbraccio creativo presenteranno le loro creazioni in divenire.

Manufactory sarà attiva nell’area dello stadio comunale (Cittadella dello sport, Raibosola, da venerdì 4 settembre) per dare colore all’ultimo tratto di muro che circonda la struttura. Già dal 2018 Riccardo Buonafede, insieme ad un manipolo di artisti, ha dato vita ad un’esposizione permanente intorno allo stadio. Un’esposizione a cielo aperto fra paesaggio e strutture urbane che accompagna lo sguardo e presenta opere di grande suggestione: 50 importanti firme internazionali per un progetto creativo dedicato all’Urban Art (inaugurazione domenica 6 settembre, ore17).

Anche quest’anno, Manufactory si riserva la presenza di ospiti speciali: Ericailcane, Bastardilla, Luogo Comune e Dissenso Cognitivo dipingeranno i lati delle gradinate all’interno dello stadio. Con la direzione artistica di Pierluigi Mangherini, writer con esperienza ventennale che dirigerà una graffiti jam sul perimetro esterno dello stadio, vedremo all’opera artisti come OrionBlatta, Moe, Pupo Bibbito, Tomoz, Mask, Cause, s404y, Inch, Don Bro, Zest, Tail, Beis, Capo, Enko04, H3mO, Rusty, Stc Crew, Sharko

Videoinsallazioni, arte e contaminazioni per Spinafestival 2020 che ha trovato casa presso il Museo Remo Brindisi (Via Nicolò Pisano 51, Lido di Spina), con la direzione artistica affidata a Silvano Voltolina.

Spinafestival presenterà spettacoli, installazioni, proiezioni di film, concerti e performance: un programma di 3 giorni che permetterà d’incontrare il lavoro di Yuri Ancarani, Francesco Bocchini, Riccardo Buonafede, Romeo Castellucci, CineVillon, DEM, Materia Films, NicoNote, Teatro Medico Ipnotico e ancora Greg Gilg, Frida Split e Peppe Leone (Spina Resident Orchestra).

I visitatori potranno cimentarsi anche in forme d’arte: sabato 5, nel giardino della Casa Museo, anche ISTINTO SCREENPRINTING, che terrà un laboratorio di serigrafia.

Forza d’attrazione si concluderà sempre alla Casa Museo Remo Brindisi, domenica 6 settembre (dalle ore 20) con la proiezione del film di Romeo Castellucci ORPHÉE ET EURYDICE e la musica per piano di Frida Split e per concludere, i Suoni finali della Spina Resident Orchestra.

Forza d’Attrazione 2020 è stata realizzata in collaborazione con l’Associazione di Promozione sociale Spazio Marconi

Partner: Vol. FA, Civica Scuola di Musica, Bh Audio, Belli coffee and drink, Giovani Musicisti Comacchiesi, Holiday Camping Florenz, Istinto Screenprinting, Work & Service, Po Delta Tourism.

PROGRAMMA: FORZA D’ATTRAZIONE

VENERDÌ 04 SETTEMBRE

Lido di Spina / Casa Museo Remo Brindisi

ore 15:00 APERTURA MOSTRA

Yuri Ancarani “Ricordi per moderni” (video, 60’).

Francesco Bocchini “Agave Meconia” (2017, scultura in lamiera di ferro)

Riccardo Buonafede “Come gli Alberi” (2020, scultura in ferrocemento)

CineVillon “Santa Cecilia Pagana“ (video, 20′)

DEM “Creature” (installazione)

MateriaFilms “Automata” (video, 15′)

Giardino di Casa Brindisi

ore 19:30 – LIVE ON AIR (NicoNote / live-set per voce, laptop, dischi, 50′)

ore 20:30 – MOMO, il dio della burla (Teatro Medico Ipnotico / Teatro di Burattini e Visioni, 45’)

ore 21:20 – (Greg Gilg / esperimento di musica e poesia radicalmente romantica, 30’)

ore 22:00 – RICORDI PER MODERNI (Yuri Ancarani, film 60’)

a seguire – SUONI FINALI (Spina Resident Orchestra)

SABATO 05 SETTEMBRE

Prosegue la programmazione delle installazioni e delle videoproiezioni per l’intera durata del Festival.

All’interno del Giardino di Casa Brindisi troverete anche ISTINTO SCREENPRINTING, che terrà un laboratorio di serigrafia.

Avrete l’opportunità di scoprire la tecnica di stampa serigrafica e produrre il vostro stesso gadget.

Oltre ai gadget e al merchandising del Festival saranno disponibili le stampe edizione limitata e numerata degli artisti: ERICAILCANE, LUOGO COMUNE, RICCARDO BUONAFEDE e DISSENSO COGNITIVO.

Giardino di Casa Brindisi

ore 20:00 – IL MESTIERE DEL BURATTINAIO (incontro con Patrizio Dall’Argine e presentazione del suo libro, 30’)

ore 20:45 – OUTSIDERS – A(T)TRATTI GRAVITAZIONALI (una passeggiata nello spazio, 45’)

ore 21:30 – MAGIC TAMBOURINE (Peppe Leone / concerto per voce e tamburi magici, 50′)

ore 22:30 – SUPRA NATURA (DEM+Seth Morley / film 70’)

a seguire – SUONI FINALI (Spina Resident Orchestra)

DOMENICA 06 SETTEMBRE

Lido di Spina / Casa Museo Remo Brindisi

ore 15:00 APERTURA MOSTRA

Prosegue la programmazione delle installazioni e delle videoproiezioni per l’intera durata del Festival.

Ore 17:00 Stadio Comunale

50 importanti firme internazionali per un progetto creativo dedicato alla street art

Vite di carta /
Senza mai arrivare in cima

Vite di carta. Senza mai arrivare in cima

Eccolo un altro scrittore di qualità, anche lui come Marco Balzano nato a Milano nel 1978. Si tratta di Paolo Cognetti, giovane e dalla scrittura intensa, che ora vive per lo più in montagna in una baita a 2000 metri di quota.

L’amore per la montagna lo ha portato a compiere una scelta di vita; lo ha portato a vincere il premio Strega nel 2017 con il romanzo Le otto montagne e poco dopo lo ha spinto ad andare in Himalaya, in un lungo e faticoso viaggio di 300 chilometri nel Dolpo, un distretto del Nepal al confine con il Tibet. Il reportage di quest’ultima impresa ha dato origine a un bel libro uscito nel 2018, dal titolo Senza mai arrivare in cima.

L’ho scelto tra le novità esposte nella biblioteca comunale di Poggio Renatico, quando sono andata su appuntamento lo scorso mercoledì. E l’ho già letto. Perché è un libro piccolo di appena 100 pagine, ma soprattutto perché mi ha appassionata e condotta nelle atmosfere della montagna. Quest’anno non vado come al mio solito in Alta Badia e allora ci pensano le parole di Cognetti a portarmici.

Precisiamo, io sono un’escursionista come tanti, che amano i sentieri tra i boschi e si arrampicano raramente tra le rocce oltre i duemila. Tuttavia certe solitudini in mezzo alla natura le cerco da almeno trent’anni, ogni anno riducendo i percorsi, ma volendo mantenere la fatica delle salite e col senso di rigenerarmi, avendo negli occhi le cime e le valli delle Dolomiti.

Il punto di vista di Cognetti mi offre uno sguardo inusitato sulle mie montagne: Senza mai arrivare in cima è stato scritto da chi conosce meglio di me le Alpi e ormai le considera “abbandonate e urbanizzate”. Per questo è andato alla ricerca di un ambiente incontaminato: “Volevo vedere se da qualche parte nel mondo esiste ancora una montagna integra, vederla coi miei occhi, prima che scompaia”. L’antica cultura tibetana sopravvive solo in una piccola area del Nepal; il viaggio per raggiungerla è arduo, ma il premio che si consegue è straordinario ed è la purezza di pensiero.

Sui sentieri senza fine, che si abbassano dentro le vallate e poi risalgono su altopiani deserti e privi di nuvole, il pensiero si fa essenziale, si nutre dei ritmi della natura e della loro circolarità atavica, si libera del peso della cultura occidentale, incontrando la preghiera e la spiritualità semplice di monaci, uomini e donne e bambini del luogo.

Credo di poter dire che per Cognetti essa costituisca uno stato di grazia, incontaminato ma fragile. Basta poco per smarrirlo, basta avvicinarsi ai confini con la Cina scendendo a 3.900 metri per trovare Saldang, una cittadina adagiata nel fondovalle tra campi coltivati e pascoli, dove già si riconoscono i segni della aggressione del progresso: “le parabole e i pannelli solari, i rifiuti di plastica gettati ovunque, la bandiera nazionale su un tetto”.

La purezza è perduta, quella adesione totale agli elementi che il viaggiatore ha provato lassù, oltre i 5.000 metri.
Se questo è il tenore delle riflessioni del nostro viaggiatore-scrittore, risulta chiaro come il lettore possa esserne affascinato. In certe pagine ho potuto quasi sentire la forza del vento e il rumore che fa il ghiaccio nello screpolarsi all’arrivo del sole.

Ma non è solo questo ad avermi trascinato mentre procedevo nella lettura. È stato il rapporto tra il viaggiatore e il suo libro-guida, il doppio binario su cui è dipanato il suo viaggio, tra cammino e rilettura di un testo magnetico di Peter Matthiessen, Il leopardo delle nevi, uscito nel 1978 che è anche l’anno di nascita di Cognetti. Da questa rilettura dei pensieri di Peter, dall’incanto delle sue pagine il nuovo viaggiatore riceve conferme e suggestioni che danno spessore alle sue faticose giornate sui sentieri del Dolpo.

Egli vede per la prima volta gli scenari delle montagne che si aprono davanti a lui, in realtà ri-vede gli spazi dove Peter è passato quarant’anni prima e non può fare a meno di consultare le pagine del suo libro, di sentire la sintonia profonda con l’ansia di autenticità che si sprigiona da frasi come: “Il segreto delle montagne è che esistono, semplicemente, ed esistono con semplicità, non come me. Le montagne non hanno significato, esse sono significato; le montagne sono. Io risuono di vita e così le montagne e quando riesco a sentirlo c’è un suono che condividiamo”.

A Peter non è toccato in sorte di incontrare il leopardo delle nevi, “senza dubbio il più misterioso delle grandi fiere”, che pochi hanno avvistato sui versanti di queste valli. Ma poco importa. Alcune orme, che potrebbero essere le sue, vengono avvistate dalle guide che accompagnano Cognetti, ma niente di più. Questo viaggio continua a insegnare quanto sia più importante il cammino che si fa, passo dopo passo, rispetto alla conquista del traguardo. La visione del Dhaulagiri con i suoi ghiacciai e le sue creste, il calore del fuoco e i compagni di viaggio con le loro voci e la loro tenacia, i saluti a impresa finita sono il valore che appaga. Insieme al fumo odoroso del ginepro del Dolpo.

Della lettura come viatico, dei pensieri di Remigio che è l’amico di Cognetti venuto con lui dalle Alpi a conoscere queste montagne. Della polifonia delle voci di chi è vivo e condivide lo stesso tempo e di quella di Peter che non c’è più, ma vive nelle parole che ha scritto. Della forza della letteratura, che scavalca il tempo e il significato biologico della morte per riunire tutti intorno allo stesso fuoco. Di tutto questo può nutrirsi il lettore, se il libro è di questo tenore.

Nella lettera scritta all’amico Francesco Vettori* per descrivergli le giornate dell’esilio da Firenze nel suo poderetto di campagna, Niccolò Machiavelli dice che il momento più bello è indubbiamente la sera, quando può lasciare le incombenze pratiche della giornata.

Dopo che ha cenato ed è tornato  all’osteria per giocare “a triche-tach” con l’oste, il macellaio, il mugnaio e due fornai, finalmente si rifugia nel suo “scrittoio”. Stavolta da solo? Nient’affatto, la compagnia è delle migliori. Sono i libri “degli antiqui uomini” per i quali si è spogliato della “veste cotidiana, piena di fango et di loto” e dai quali riceve il cibo della lettura “che solum è mio, et che io nacqui per lui”: poco prima nella lettera ha nominato Dante e Petrarca, Tibullo e Ovidio come se fossero vivi.

Nella tenda di Cognetti, cinquecento anni dopo, quando il sonno tarda a venire il libro di Peter è “un vecchio amico” che tiene compagnia, il viatico custodito nel tepore del sacco a pelo, perché le pagine non si sciupino. Così pone fine alla sua giornata il nostro giovane viaggiatore: “Riuscivo a sentire le voci dei portatori nella tenda cucina. Chissà cosa si dicono, pensai… Con queste voci che non capivo, il mio amico a un palmo di distanza, le poche cose a cui tenevo strette a me dentro il sacco a pelo, sapevo già come sarebbe stata la nostalgia del Dolpo. Ultimi cinquemila, pensai. Poi mi dissi di smetterla con tutti quei pensieri, altrimenti non sarei più riuscito a dormire”.

*Niccolò Machiavelli a Francesco Vettori. Firenze, 10 dicembre 1513

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

BUFALE & BUGIE Fake news di Trump, o fake news su Trump?

Non è mai terminata la campagna denigratoria contro Donald Trump iniziata oramai in vista delle elezioni statunitensi del 2016, è anzi sempre più accesa e mistificatoria in questi ultimi mesi. Per evitare di assistere a una riconferma del presidente concentrato sulla federazione che governa, si arriva spesso a negare la stessa evidenza dei fatti.

Sul carrozzone della disinformazione si vedono salire anche testate pronte a evadere dal proprio campo di attività pur di sposare un ideale più alto. E’ il caso de Il Sole 24 Ore, specializzato in economia, che il 6 agosto scorso si è avventurato in considerazioni scientifiche: “Facebook rimuove e Twitter blocca video di Trump con false informazioni sul virus”. La notizia, in questo caso, è l’azione portata avanti dai due colossi della comunicazione, ma il giornalista Riccardo Barlaam – i cui argomenti di interesse sono l’economia, la finanza e la politica internazionale, e gli Stati Uniti – ha deciso autonomamente che i materiali incriminati contenessero informazioni errate sull’agente microbico. Di più, perché la teoria del corrispondente è illustrata nel sommario, secondo il quale “il fatto che i bambini sarebbero immuni dal coronavirus” è una “tesi senza fondamento scientifico”. Non si sta parlando, tuttavia, né di una tesi personale né di una posizione controversa, ma dei risultati raccolti nei numerosi mesi toccati dalla diffusione del SarsCov-2: secondo la letteratura scientifica attuale [vedi qui], gli individui con età inferiore ai diciotto anni, in condizioni di normalità, sono praticamente incolumi rispetto alla Covid-19, e pertanto non contribuiscono quasi in alcun modo al contagio, non possedendo abbastanza carica virale. La chiusura dell’articolo, inoltre, marca l’accento sui mancati interventi del passato rispetto a due affermazioni false che avrebbero visto il presidente americano come protagonista. Si tira in ballo il presunto suggerimento alla popolazione di ingerire candeggina contro la malattia, ma ciò non è mai avvenuto, nonostante l’avvenimento sia presentato senza alcuna ombra di dubbio. Per di più, si aggiunge la dichiarazione secondo cui l’esposizione alle luci ultraviolette sia in grado di contrastare il virus in questione; ebbene, anche stavolta non si tratta di una strana convinzione appartenente a una minoranza, ma di una scoperta scientifica nota e acclarata da diverso tempo.

Se anche le linee editoriali condotte dalla maggior parte dei media non combaciano esattamente con le politiche di un esponente al governo, l’inganno e la falsificazione dei dati scientifici condivisi a livello internazionale non dovrebbero in alcun caso essere consentite. Donald Trump si appropria di evidenze scientifiche utili alla propria agenda? Libero di farlo, ma questo non comporta la libertà che si arrogano i mezzi di informazione nel confondere le carte in tavola e comunicare visioni prive di fondamenta al pubblico lettore.

BUFALE & BUGIE, la rubrica di controinformazione di Ivan Fiorillo esce ogni mercoledì su Ferraraitalia. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui]

Albertino Canali e le ortensie di Costanza

Io mi chiamo Albertino Canali, abito in via Santoni Rosa di fronte alla casa dei Del Re.
I Del Re sono molto conosciuti a Pontalba per vari motivi. La signora Anna faceva la maestra e ha avuto a scuola intere generazioni di Pontalbesi che la ricordano con piacere perché era brava e creativa. Inventava per i bambini problemi da risolvere di varia natura e li portava spesso al museo per consultare  documenti e reperti storici. Il professore, suo marito, era un’autorità del paese e le loro tre figlie: Costanza, Rachele e Cecilia sono davvero “in gamba”. E’ l’unica famiglia di Pontalba in cui ci sono tre sorelle  così particolari. Io le conosco da sempre. Rachele se ne è andata da molti anni perché ha trovato lavoro a Torino, ma Costanza e Cecilia vivono ancora nella vecchia casa di via Santoni, dove sono nate, e io le vedo spesso.
Quando erano piccole la loro casa bruciò, i miei genitori che avevano gli estintori perché facevano i trebbiatori, provarono a spegnere l’incendio, ma le fiamme causate dalla nafta in combustione erano così alte che non ci fu nulla da fare. Si dovettero aspettare i pompieri. Le autobotti rosse ci misero molto tempo ad arrivare. Si erano perse tra i campi della pianura Lombarda in una tremenda sera di nebbia. Poi finalmente arrivarono e spensero quel maledetto fuoco.  Fu un grande spavento per tutti coloro che lo videro quella notte e  anche per tutti coloro che sentirono raccontare l’accaduto il giorno dopo. Fa paura ancora adesso, a ripensarci.

Cecilia è la mia sorella Del Re preferita, Costanza è bella e intelligente, ma troppo strana. Ogni tanto tenta di istruirmi e di spiegarmi cose che lei ritiene fondamentali. Il problema è che io non riesco a capire perché lei le ritenga tali. Non avrei mai potuto innamorarmi di lei, nemmeno quando aveva vent’anni e piaceva a tutti. Ad esempio: per quale motivo Costanza dice con molta convinzione che bisogna coltivare i cespugli di ortensie? E’ forse che le ortensie allungano la vita? Producono semi o frutti salutari? Sono commestibili? Sono profumate? Si possono utilizzare per produrre pigmenti, tessuti, legno, materiali decorativi? No, niente di tutto ciò. Costanza dice che bisogna coltivare le ortensie semplicemente perché sono belle. A me però non sembrano belle, mi piacciono molto di più le rose e le margherite.

Una donna testarda la signora Costanza.  Cosa centro io con questa storia delle ortensie? A me non piacciono. Una volta mi sono azzardato a dirglielo e lei mi ha guardato di traverso con gli occhi ridotti a due fessure e ha anche sussurrato qualcosa fra i denti. Secondo me ha detto tra sé e sé “che tristezza” … ma non ne sono sicuro.
A casa mia non ci sono questi fiori, ma nel cortile dei Del Re ce ne sono due grandi cespugli. Uno fa enormi fiori color celeste  e uno li fa rosa. Costanza mi ha detto che le due piante sono distanziate perché altrimenti si ibridano e i colori cambiano.Mi ha anche detto che una delle cose che rovina maggiormente lo scolorimento di una ortensia “macrophilla blu” è il passaggio intermedio al porpora, prima di giungere al lilla/rosa. Secondo lei è una cosa bruttissima e quasi scandalosa.

A me non importa nulla del colore delle ortensie, ma non glielo posso dire.
Una mattina mi ha interrogato: “ Ma perché i petali di un ortensia cambiano colore?”
“E io che ne so” le ho risposto.
“Beh intanto non sono petali! Sono sepali, questi cambiando colore sostituiscono la funzione dei petali!”
“E allora?” dico io “che differenza fa?”
“Spesso le piante che non riescono a produrre petali li sostituiscono con sepali o foglie colorate (bratee), ma il processo di colorazione di queste parti è diverso da quello necessario per i petali, ed ogni specie ne ha sviluppato uno suo.”
“Davvero interessante” dico. Ma in realtà quasi mi vien da piangere. Adesso ci mancavano solo i sepali.
Poi prosegue: “Una delle cause più frequenti di alterazione del ph avviene durante l’irrigazione”.
“Come no” dico (“signore liberami da questa Del Re”, penso)
“Per esempio:  nel nostro cortile se irrighiamo con l’acqua presa dal pozzo, le piante stanno benissimo, se irrighiamo con l’acqua potabile il ph si alza e tende a diventare più neutro. Capito?”
“Che informazione utile”
E lei imperterrita: “Le ortensie piccole, in vasi con poca terra, sentono prima il cambiamento ed ecco che i coloro cambiano.”
“Wow!” dico (“Siamo arrivati alla fine della storia” penso).
Tiro un sospiro di sollievo ma sto attento a non farmi scorgere perché gli occhi di Costanza sono come periscopi che individuano i microbi sui fondali marini. Trova e vede tutto.
Questa storia delle ortensie è un esempio della stranezza di Costanza. Considera importanti cose inutili, che non interessano a nessuno, che non sa nessuno.

In questo nostro modo di discorrere c’è sicuramente qualche problema. E’ come se fossimo in due mondi paralleli. Io sto davanti a lei, seduto sul muretto di casa mia perché mi piace quel posto e l’aria fresca della mattina. Lei sta sulla porta di casa sua e lascia il cancello semiaperto in modo che io veda tutta la bellezza dei suoi cespugli. Non si è mai  rassegnata al fatto che io non colga la poesia delle ortensie.
Regna l’incomunicabilità. Io le voglio bene comunque e penso valga anche viceversa. Ma noi non ci diciamo quasi nulla pur parlando. Parliamo perché siamo vicini di casa. Se mai mi troverò una fidanzata devo stare molto attento a che non assomigli a Costanza Del Re. Sarebbe la mia fine. O meglio, fisicamente può andare, non è affatto brutta, ma non può andare quel che dice. Come potrei mai stare con una donna che parla della bellezza delle ortensie come se fosse un argomento di vitale importanza? Io non trovo nulla di essenziale nel colore dei fiori di ortensia.

E’ forse che le ortensie fanno qualche sport? Si interessano di politica? Sanno quanti soldi ha speso il parroco per restaurare le campane? Ma nemmeno per sogno.  Le ortensie sono ortensie e se vuoi parlare di loro devi parlare delle sfumature di colore, della luce, dell’aria, del vento, dell’ acqua e di questo ph che io non so esattamente cosa sia. Non mi fido a chiederglielo perché lei potrebbe inorridire e decidere seduta stante che mi deve spiegare tutta la storia di questo ph.  Così, oltre alle ortensie,  mi imbatto in un altro argomento di cui non mi interessa nulla. Io una moglie come Costanza non la vorrei.  Non si sa cosa desideri, come veda la vita, cosa pensi della malattia  e della morte, nemmeno esattamente cosa pensi di Dora,  la nostra vicina che è morta di Covid-19 quest’inverno. Dice solo che bisogna portare dei fiori sulla sua tomba. E’ andata al cimitero con sua nipote Rebecca, le ho viste uscire insieme. Non mi sono azzardato a chiedere che fiori bisognerebbe portare sulla tomba di Dora, tanto lo so che mi avrebbe risposto di portare le ortensie (forse blu o forse rosa oppure anche quelle bianche).
E pensare che Costanza scrive, balla, fa pilates, guida come un pilota di Formula Uno. Ma lei non vuole parlare di quello che fa … lei vuole spiegarmi tutto di ‘ste maledette ortensie.
Povero me. Alla fine mi viene sempre da pensare la stessa cosa. Che la signora Anna doveva chiamare Costanza Ortensia. Un nome, una storia, una vita, un destino. Io non so nulla di ortensie, ma ho una certezza: era meglio che Costanza si chiamasse Ortensia.

Io mi chiamo Albertino Canali sono il vicino di casa Di Costanza-Ortensia, le voglio bene ma non la potrei mai sposare e comunque lei non vorrebbe sposare me perché non si può stare insieme senza poter parlare di cose che piacciono a entrambi. E lei vuole parlare di ortensie.

FERRARA. UNA NUOVA IDEA DI CITTA’:
puntare su Cultura e Conoscenza per una Cittadinanza Attiva

Il direttore di ferraraitalia mi chiama in causa per aver fatto da megafono a un’idea tanto elementare quanto difficile da fare intendere. Sulla ‘Città della Conoscenza’ si è accumulata a livello mondiale una vasta letteratura a disposizione di chi, dagli amministratori ai politici, avesse voluto, come è accaduto in tante parti del mondo, affrontare più preparato le conseguenze di una crisi che nel passaggio epocale ha scardinato modelli economici e riferimenti  sociali senza risparmiare nessuno.

Europa 2000: un appuntamento mancato con la storia

Occorreva apprestarsi al cambiamento attrezzati con nuovi strumenti culturali, ma le agenzie a cui abbiamo fatto riferimento per decenni e le prassi  consolidate non hanno retto all’urto con la storia.
Non a caso l’Europa nel 2000 a Lisbona proclama il nuovo millennio come il millennio della Conoscenza. Una conoscenza da ricercare, costruire, valutare e rigenerare in modo diffuso, continuativo e permanente.

Fare della conoscenza e del capitale umano, non un modo per accrescere lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ma la risorsa più importante per fornire a ciascuno, nessuno escluso, gli strumenti necessari ad affrontare la complessità, le contraddizioni e i conflitti che ogni turning point della storia comporta. Dall’autonomia personale in una società sempre più prevaricante alla difesa delle conquiste democratiche, dal combattere le crescenti diseguaglianze fino alle ingiustizie sociali e allo stravolgimento ambientale.

Alle forze democratiche e progressiste spettava il compito di mettersi a capo della sfida del nuovo millennio, facendosi portatrici di un nuovo umanesimo che ricollocasse ogni donna e ogni uomo al centro della storia, come risorsa da coltivare e far crescere per il bene comune, per sottrarci alle nuove forme assunte dallo  sfruttamento e dalla manipolazione dei poteri forti, per essere padroni di noi stessi e delle nostre vite.
La conseguenza di questo mancato appuntamento con la storia ha portato all’immiserimento delle democrazie liberali fino alla loro crisi, l’ignorantocrazia, l’incompetenza, il movimentismo e il populismo. Non si è compreso che  la difesa delle conquiste democratiche, la lotta contro le ingiustizie, contro i muri da abbattere non si giocano solo nei parlamenti e nelle cabine elettorali, ma anche nei neuroni e nelle sinapsi del cervello delle persone.
Non c’era più spazio per le identità statiche del passato, ormai era giunto il  tempo delle identità dinamiche. E invece le identità di ieri hanno continuato a resistere come amebe incapaci di afferrare il timone del cambiamento. Per cui non poteva che accadere che mentre a Roma si discuteva prima o poi Sagunto fosse espugnata.

Ferrara: il fallimento della sinistra 

Ferrara non è che una didascalia della storia, come tante altre città, basti pensare a Pisa che dopo anni di una più o meno gloriosa amministrazione ha visto i suoi cittadini voltare le spalle a quella esperienza.
Possiamo esercitarci nelle analisi sociopolitiche sul presente e il passato, fino ai passati più lontani, ma il nodo è uno solo: è mancata una sinistra capace di essere portatrice di una nuova cultura e senza cultura non c’è identità, non ci può essere  riconoscimento e, dunque, non c’è neppure futuro.

Al feuilleton di pancia della Destra e della Lega occorreva contrapporre una narrazione capace di parlare alla testa dei singoli, era necessario ritornare ad essere popolari, proporre soluzioni ai bisogni delle persone, anziché rintanarsi negli angusti confini del proprio cortile, prefigurare un nuovo protagonismo per costruire un progetto di futuro comune.

Ora è indispensabile che Sinistra e forze democratiche della città pongano fine ai loro particolarismi, alla frantumazione dei propri orti, come è accaduto in occasione della tornata elettorale, per prospettare alla città un futuro più forte e convincente del presente. Questa è la carne della politica: la lotta tra culture opposte. La cultura della Destra è fin troppo chiara, perché la destra da sempre ha dalla sua il passato. A non essere altrettanto chiara è quella della Sinistra, attualmente è come la Primula rossa, la cercan qua la cercan là ma dove sia nessun lo sa.

Si mettano a lavorare insieme, da subito, accogliendo la proposta intelligente della Fenice di Mario Zamorani, incominciando col mutare i paradigmi finora usati, facendo della città non una comunità di amministrati, ma una comunità di cittadini.

Con La Città della Conoscenza e il suo manifesto, non pensavamo certo di risolvere i problemi della città, ma abbiamo tentato in questi anni di stimolare una idea nuova di città a partire dalla “conoscenza” come linfa vitale di ogni abitare e senza la quale nessuno può essere autore della propria esistenza. E siccome si è cittadini del mondo a partire dai luoghi che si abitano, sono questi luoghi che devono divenire il cuore pulsante della conoscenza e dell’apprendimento permanente: ‘città che apprendono’ è la rete mondiale che ha costituito l’Unesco.

Il governo della città richiede uno sguardo nuovo. Un occhio che si sforzi di vedere lontano e di proporre ai cittadini un’idea rinnovata di cittadinanza. Una nuova agorà, in cui ciascuno è accolto come attore ricercato per il governo della città, perché la città è dei cittadini e per i cittadini.  Con nuove forme di partecipazione pubblica in grado di andare oltre a quelle fin qui sperimentate, organizzate attraverso il sistema dei partiti.  Dando visibilità e un forte impulso al sistema dei forum, in altre parti del mondo sperimentato con successo, a luoghi in cui i cittadini possano prendere parte “in carne e voce”, come direbbe Bauman, al processo decisionale.

Una città capace di mobilitare creativamente tutte le sue risorse per sviluppare il potenziale umano dei suoi cittadini, una città che riconosce e comprende il ruolo chiave dell’apprendimento e delle conoscenze nell’affrontare le nuove sfide di un mondo che si fa sempre più liquido, nello sviluppo della prosperità, della stabilità e della realizzazione personale.
Un luogo di coinvolgimento e di partecipazione, di risorse da valorizzare a partire dai suoi giovani, dalla loro responsabilizzazione nella gestione della cittadinanza, chiedendo il protagonismo dell’università, delle scuole, delle istituzioni culturali. Occorre che i cittadini anziché essere gli uni contro agli altri, come sta operando questa amministrazione a partire dal suo vicesindaco divisivo, tornino a stare l’uno a fianco dell’altro nei quartieri per  dialogare,  confrontarsi e rispondere ai nuovi bisogni.

C’è una scuola di cittadinanza da aprire, come impegno di tutti, dove apprendere ad esercitare la cittadinanza attiva, per imparare a pensare in termini condivisi la politica della città, la sua abitabilità, l’economia, la demografia, l’ecologia, la salvaguardia dei suoi tesori di natura e di cultura.

La gara elettorale alla poltrona di sindaco da questo punto di vista ha denunciato tutta la sua angustia e afasia, lo sguardo corto e miope di una partita a scacchi per occupare la casella del re.
La città è la nostra comunità di destini, parte di quella più complessa che lega insieme le sorti dell’intera comunità umana del pianeta. Questo è il significato del vivere oggi, quello che dovremmo far apprendere a partire dai nostri giovani, uscendo dagli spazi angusti delle nostre visioni e dei nostri particolarismi.

Ultima fermata: la felicità

Le parole sono solo parole.
Questo  è sicuramente il loro limite ma è anche la loro forza.
Se è vero, secondo il noto proverbio, che terminato il ‘dire’ c’è un ancora mare da attraversare, è ancor più vero che è con le parole che comunichiamo il pensiero, e quindi è sempre attraverso le parole che possiamo modificarlo.

Dice un proverbio indiano: L’uomo si mette in ordine i capelli ogni giorno, perché non lo fa anche con i pensieri?
Questa mattina mi sono già pettinato, adesso tocca ai pensieri.

Uno dei doni dell’età che avanza è l’aumentata possibilità di poter fare attenzione. Ciò è dovuto al fatto che di norma i traguardi consueti della vita ordinaria sono stati raggiunti. Si procede più lentamente anche letteralmente a causa dell’usura fisiologica e quindi si ha la possibilità di osservare il tutto da un punto di vista particolare.
Quello che quindi è possibile osservare come dato comune della nostra condizione attuale è la mancanza nella vita quotidiana della felicità. Questo fatto, se da sempre ha interpellato filosofi, scrittori, poeti e uomini qualunque, oggi acquisisce una valenza particolare in quanto oltre al successo, al danaro e alla fama, l’essere felici è il vero brand della nostra società post moderna.
La Vita che rimane – avendo espulso tutto ciò che richiama sofferenza, dolore e la morte – non può che essere la vita felice, come sembrano mostrare i visi raggianti di uomini e donne della pubblicità alla tv e sui giornali.

La società del consumo compulsivo è una società che  fonda il suo essere su dei paradossi, uno di questi, forse il fondamentale, è “Sii felice!”. La società dell’iperconsumo ha riempito di oggetti la vita dei suoi figli sin dalla più tenera età, trasformando in oggetto anche la vita dei soggetti. Tutto ha un prezzo, come un  novello re Mida il Mercato trasforma in oro tutto ciò che tocca. I consumatori sono soddisfatti in tutti i loro desideri, ma in cambio il consumatore non deve criticare, contestare, deve essere cosciente di vivere nel migliore dei mondi possibile. In poche parole il consumatore DEVE essere felice! Al contrario, invece, il limite che naturalmente caratterizza la natura umana, la sofferenza, malattia, morte, ma anche povertà e diversità, devono avere poca visibilità, meglio se relegate in spazi ben delimitati e circoscritti.

Come nel film di Peter Weir, The Truman Show, la nostra società post capitalistica  non rappresenta la Vita ma l’illusione della vita!

Ed ecco che quel Sii felice da augurio diventa comando imperativo, denunciando così la  sua natura di paradosso: perché essere spontaneamente felici ubbidendo ad un ordine è impossibile. O si agisce spontaneamente, quindi di propria iniziativa, oppure si esegue un ordine, e in questo caso non c’è nessuna spontaneità. Si rivela allora la vera natura di quel comando, cioè quella di  mantenere il soggetto in una situazione di dipendenza, depressiva, caratterizzata dal senso di colpa, insomma in una situazione di eterna mancanza, di sete e fame mai saziabili.

“Ma come? La Società ti offre tutto e tu non sei felice? In altre parti del mondo non hanno la tua stessa fortuna!”.
Così il soggetto si trova costretto a cercare la colpa della propria insoddisfazione in se stesso, attenuandola col consumo ulteriore di altri beni che ovviamente non spengono il desiderio, poiché il desiderio dell’uomo non è desiderio di oggetti ma di relazioni autentiche e nessun oggetto potrà mai sostituire un rapporto.
la Felicità non può essere comprata al mercato, non può essere imposta ai figli, non può essere programmata dal sistema sociale, come aveva ben compreso il movimento studentesco del ’77 nel prendere, tra i suoi slogan anti sistema, i versi della canzone di musica leggera sul gatto Maramao, inspiegabilmente morto, nonostante avesse a disposizione da mangiare, da bere e una casa dove stare.

Bisogna quindi cercare in un’altra direzione.
La direttrice, già tracciata da tempo in verità , è quella del trovare o dare un Senso agli eventi che ci colpiscono. Quello che invece si può oggi sostenere è che anche nell’impossibilità di  sapere se esista o meno un senso per tutti,  quel che conta in chiave esistenziale è giungere ad attribuirne uno che amplifichi la nostra vita.

Il valore della vita dell’uomo, di una vita al cui centro non ci sia solo il bisogno ma anche il desiderio: questo impedisce di diventare burattini manovrati dall’esterno e apre alla ricerca ad una felicità non narcisistica, ma intesa come dare libertà a sé e agli altri.

Non esistono ovviamente manuali di istruzioni in merito, ma è possibile fare alcune considerazioni suggerite dagli studi della pragmatica della comunicazione e dall’esperienza delle buone pratiche della comunicazione non violenta.

Cominciando con un principio il più generale possibile, possiamo delimitare il nostro reale raggio di azione accettando che l’universo con le sue leggi, non si piega ai nostri desideri, ma fa quello che deve.
Quindi quello che riusciamo a compiere è confinato nello spazio concesso da quello che possiamo, e quello che possiamo è condizionato dallo statuto delle conoscenze attualmente riconosciuto.
Il resto lo dobbiamo sopportare!

Da ciò discende che dovremmo distinguere tra ciò che da noi è controllabile, da ciò che invece non lo è. L’impegno  quindi dovrebbe concentrarsi sul primo aspetto, lasciando il secondo alla ricerca di una nostra risposta sul Senso.

Come terzo elemento possiamo verificare poi che nessun fattore esterno in sé è positivo o negativo, ma è interpretabile secondo le nostre convinzioni  e i nostri giudizi in merito.
E su questo terzo elemento la possibilità di azione soggettiva è massima. Ad esempio siamo abituati a leggere le offese che ci vengono portate come elementi oggettivamente negativi, giudicando chi le ha proferite come una persona di nessun valore e a cui dover ribattere per le rime.
E’ possibile invece domandarsi a quale bisogno inespresso risponda, per quella persona, l’avermi apostrofato in quel modo. Pensiamo per esempio ad un figlio molto arrabbiato nei nostri confronti. Solo se ci poniamo nella dimensione dell’ascolto del suo bisogno profondo, mascherato da quelle parole così offensive , riusciremo a comprendere e così organizzare una strategia di risposta che sia in grado di salvare la relazione.

E’ possibile quindi proseguire nel cammino appena sommariamente tracciato, o costruirne altri,comunque cercando di mettere assieme altre tappe di riflessione all’interno di un percorso personale che ci porti a dialogare responsabilmente con quello che chiamiamo la nostra Vita.
In questo cammino non siamo mai soli, siamo accompagnati infatti da tutte le persone che per noi sono o sono state significative e che hanno orientato le nostre scelte in una direzione o in un’altra.
E’ all’interno di queste relazioni  che è possibile arrivare all’ultima fermata, quella in cui potremmo  riconoscere negli affetti lasciate da quelle relazioni il vero volto della Felicità.

DIARIO IN PUBBLICO
Il Lido: terra di polpacci e vecchi stizzosi

Il lento e inesausto raschiare di scope e ramazze preannuncia l’imminente chiusura della stagione estiva ai Lidi ferraresi. Attentamente i diversamente giovani s’applicano alla rimozione degli aghi di pino, che inesorabilmente riempiono ogni luogo, anfratto, via piazza, tende e giardini, fino a spingersi, trascinati dal vento, sulla passerella che porta al mare lontano.

In città, quasi un risveglio da un lungo torpore s’aprono fronti di dissenso coordinati da Mario Zamorani, a cui hanno dato rilievo scritti  di alto valore quali – solo per citarne quelli a me più vicini – quelli di Fiorenzo Baratelli,  di Federico Varese e di Alessandra Chiappini. Un vento nuovo che promette finalmente un serio ripensamento sul perché della sconfitta politica.

Frattanto con mossa astuta il festival del Buskers s’apre con la partecipazione di Gianna Nannini, a sorpresa, che raduna folla compatta senza alcuna protezione e rispetto per la distanza. Ma si sa così accade tra musica live, discoteche, movide, come insegna la vicenda del locale del primo Naomo, che come ora è stato rilevato non è il vicesindaco di Ferrara, bensì Flavio Briatore proprietario del Billionaire e accanito negazionista della pericolosità del coronavirus.

Sulla spiaggia intanto l’affollamento si fa sempre più critico, con un’inesauribile passaggio di bagnanti e racchettanti. Dal mio punto di osservazione noto che dagli onnipresenti calzoncini a mezza gamba nella specie maschile escono polpacci mostruosi, che confermano l’assoluta prevalenza di un popolo di sportivi che ciabattano, strisciano le infradito, s’avanzano indolenti a raggiungere il tavolo pronto, dove s’avventeranno sulle delizie mangerecce.

Ma quest’ultima ondata a giudizio del vecchio stizzoso (la categoria a cui  appartengo) produce un allentamento, non tanto delle misure anti covid, ma della dignità vestimentaria. Così delle famigliole che s’aggruppano festanti, ignobilmente vestite, chi si salva sono solo i pelosi che li accompagnano. I loro compagni umani traversano, strade, viali, e luoghi di mercato semisvestiti, quasi nudi coperti dal solito zaino lasciando scie di profumo scadente, di olio da sole, di sudore.

Allora il vecchio stizzoso apre la tv per confrontare se il modello esce da quella fonte. E viene sommerso da orde di pseudo-cantanti vestiti in modo assurdo, accompagnati da schiere di chellerine (ah! Finalmente l’uso di una parola esatta), che servono loro la possibilità di un’esibizione ‘moderna’. Non parliamo poi dei gesti e delle pose dei calciatori con tutto il rituale di cui mi occupai qualche puntata fa.

Quindi la giustificazione dei ‘vestimenta laideschi‘ ha la sua origine e giustificazione dal modello televisivo, che impone come riferimento assoluto la volgarità. Non è dunque scontato che rifacendomi ad antichi studi e ad amatissimi poeti mi torni in mente il celebre incipit di Eusebio-Montale che così suona:
“Felicità raggiunta si cammina per te sul fil di lama” che potrebbe tramutarsi in “Volgarità raggiunta si cammina/per te ormai desnudo/e quindi non si vesta chi più t’ama”.

Chissà se il Laido mi rivedrà ancora negli anni futuri. Frattanto trasloco i libri nella casa-madre e, mentre raggiungo finalmente in ascensore, non più arrancando per scale sempre più difficili per raggiungere il luogo di studio, m’immalinconisco pensando cosa è e cosa avrebbe potuto essere il Laido degli Estensi.

PER CERTI VERSI
La chemioterapia

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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LA CHEMIOTERAPIA

ma la debbo fare
La chemioterapia?
Chiedevo al dottore
Con la confidenza
Delle ore spese
Tra visite chiacchiere
E diagnosi a ventre aperto

Se non vuoi andare a Lourdes
Fu la sua risposta

IN UNA NOTTE

In una notte
Di rapido vento
Che soffia via
Tutte le foglie
I capelli cadono a flotte
Perfino i peli ruvidi
I peli più tenaci
Se ne vanno
Come Avari
In una notte

LA CHEMIO II

quando vomiti la fogna
Dell’essere
La chemio ti ha invaso
Il midollo della volontà
Ti esplode nel bacino
Un baratro orizzontale
Con te hai solo
Il paracadute della cecità

PRESTO DI MATTINA
Credo, l’aurora…

Credo l’aurora: la veniente dalle tenebre, l’avvolta dal silenzio, sentiero che porta alla luce e ridona spazio e chiarore alle cose, luminosità al volto dell’uomo.

Credo l’aurora: soffio perenne e spirazione del vento di Dio sull’oscurità di caotiche acque, che apre una via tracciando orme invisibili nella notte, ampio respiro dopo l’indescrivibile affanno che serrava la gola.

Credo l’aurora: nata dal cuore di Dio e, per questo, luogo di cominciamento; momento di risveglio e plasmazione, che rialza e fa ripartire di nuovo ogni giorno finché non sia compiuta l’opera dei giorni. È come una madre che rimette in piedi il figlio caduto dopo i primi passi. Come il vasaio di Geremia che ricomincia da capo quando l’opera non prende la forma voluta: «Questa parola fu rivolta a Geremia da parte del Signore: “Prendi e scendi nella bottega del vasaio; là ti farò udire la mia parola”… ed ecco, egli stava lavorando al tornio. Ora, se si guastava il vaso che egli stava modellando, come capita con la creta in mano al vasaio, egli rifaceva con essa un altro vaso, come ai suoi occhi pareva giusto» (Ger 18, 1-4).

Credo l’aurora: risveglio della creazione nel quotidiano; annuncio della nuova creazione nel mattino di Pasqua, fenditura sempre aperta da cui transitò e continua a irradiarsi la luce del Risorto. «Allora – dice Isaia – la tua luce sorgerà come l’aurora» (Is 58, 8)

Tensione verso la luce è, dunque, l’aurora, perché attesa e al contempo rivelazione della parola per cui tutte le cose sono fatte e ricreate in un processo generativo continuo. È sosta e scoperta pure del Verbo venuto ad abitare la nostra storia legando il suo destino al nostro, per sempre. Verbo che muta le sorti; che fa risorgere dall’oscurità e ripartire verso un cammino sconosciuto qual è, all’aurora, l’aprirsi di un nuovo giorno. È lei che dice all’homo viator con le parole di un poeta: «Viandante, sono le tue impronte/ il cammino, e niente più,/ viandante, non c’è cammino,/ il cammino si fa andando./ Andando si fa il cammino,/ e nel rivolger lo sguardo/ ecco il sentiero che mai/ si tornerà a rifare./ Viandante, non c’è cammino,/ soltanto scie sul mare» (Antonio Machado).

Crede all’aurora anche il poeta del salmo 129 e pure quello del salmo 63. Il primo, nell’oscurità della notte, attende l’aurora più delle sentinelle di guardia alla città: «Sono rivolto al Signore e attendo la sua parola più che le sentinelle all’aurora». Il mistico del secondo salmo, cercatore di Dio, la brama dopo una notte di turbolenta attesa: «O Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco, ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne in terra arida, assetata, senz’acqua. Sul mio giaciglio penso a te nelle veglie notturne…  A te si stringe l’anima mia: la tua destra mi sostiene». E come non pensare alla notte nella quale Giacobbe lottò con l’angelo di Dio sino al sorgere dell’aurora, in cui lo scontro si mutò in benedizione: alba di un nome nuovo.

Credo nell’aurora: e non sembri eccessivo e indelicato dirlo, pensando al ‘credo’ proclamato nella messa, al termine dell’omelia, quale sintesi e conferma della fede degli apostoli, simbolo, trasmissione di una comune attesa che diviene risposta orante dell’assemblea dopo la proclamazione della Parola di Dio.

Si dichiara di fronte a tutti ciò in cui crediamo, ciò che ci fa vivere, per aderire con l’intero vissuto della nostra testimonianza alla fede apostolica passata di generazione in generazione, di chiesa in chiesa, sino a noi. È lo stesso sì, il credo confessato con il martirio dagli apostoli e poi trasmesso ai loro successori. Una risposta custodita con fedeltà e creatività al Cristo proclamato nel vangelo appena udito. Il credo è l’adesione alla Parola ri-pronunciata anche oggi, vincolo sostanziale tra i credenti, abitato dallo Spirito che attualizza la Tradizione antica, trasmessa dai, Padri nella professione dell’unica fede con una rinnovata epiclesi, una nuova ‘invocazione dello spirito’ nell’atto della celebrazione e nella storia che ricompagina la compagnia della fede di oggi con quella delle origini.

La professione della fede non è appena un pronunciamento dottrinale: è un credere a quello che crede Dio, la famiglia umana, la sua famiglia e noi figli nel Figlio. Risveglia così la coscienza a una responsabilità e prassi interna ed esterna all’ekklesia: l’impegno a una conversione totale del vivere cristiano nel servizio dell’uomo e del vangelo.

Una volta, distraendomi nella recita del credo, mi sorprese un pensiero impertinente, e mi domandai: «Ma Dio crede? Che cosa crede?». Rimasi senza risposta quella volta. Ma una fredda mattina d’inverno, era domenica dopo una nevicata, andai a vedere il sorgere del sole dalle parti di Cona, sulla via della Ginestra. È bello, sapete, vedere rinascere gli alberi, le case, la strada; il loro passare lentamente dall’oscurità alla luce, dalla morte alla vita. Raggiunsi così un piccolo lago nei pressi che era tutto gelato, come del reso lo era anche la strada, e lì attesi l’aurora. Quella volta vidi il sole sorgere per ben tre volte all’orizzonte: tra gli alberi spogli sulle sponde del laghetto, riflesso sulla superfice ghiacciata dell’acqua e infine, facendo alcuni passi indietro, lo vidi di nuovo specchiarsi, e risorgere, dalla strada gelata. Fu allora che arrivò la risposta a quella domanda che si era perduta.

Dio crede l’aurora! Perché egli viene a noi come l’aurora, e come l’aurora la sua venuta è sicura (Os 6,3). Ma non è forse vero che le sue storie e quelle del figlio, iniziano all’aurora? “Uscì il seminatore a seminare…; il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna… Dopo il sabato, all’alba del primo giorno della settimana, Maria di Màgdala e l’altra Maria andarono a visitare la tomba… E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!”

Dio crede nell’aurora perché crede nel Figlio, l’amato, è detto nel salmo 110, 3: «dal seno dell’aurora, come rugiada, io ti ho generato». Ma il suo credo l’aurora, Dio lo dice pure con le parole del Cantico dei Canti: «chi è costei che sorge come l’aurora, bella come la luna, fulgida come il sole,/ terribile come schiere a vessilli spiegati?». Non è forse costei l’umanità in cammino verso il suo compimento in Dio? Per Gregorio Magno è la stessa assemblea dei credenti, l’ekklesia, che come sposa va incontro al suo sposo: «Il primo albore o aurora fa passare dalle tenebre alla luce; per questo non senza ragione con il nome di alba o aurora è designata tutta la Chiesa degli eletti» (Commento a Giobbe).

Credo nell’aurora – dice Dio – questa mia figlia dello stato nascente, che attraversa la soglia del nulla e fa passare dal buio alla luce, dalla morte alla vita. Essa precede sempre, cammina innanzi a me e ai miei figli e il pensiero di lei risveglia a entrambi il cuore come è detto nel salmo: «svégliati, mio cuore, svegliatevi, arpa e cetra, voglio svegliare l’aurora» (Sal 57,9).

In questi giorni, ascoltando per caso una canzone di Marco Mengoni dal titolo Essere umani, mi è tornata alla mente la domanda: «Dio crede?». E la risposta è stata quasi immediata, ricalcata dalle strofe di quella canzone («Credo negli esseri umani,/ Che hanno coraggio/ Coraggio di essere umani»). Sì, Dio crede negli uomini resi fratelli da suo figlio; egli si affida così nelle mani di coloro che spezzano il pane con l’affamato, accolgono in casa i senzatetto e vestono coloro che sono spogliati della loro dignità. Così mi piace pensare che quando Dio creò la donna, dopo aver addormentato l’uomo, le consegnò le parole da sussurrare al cuore di ogni uomo che viene in questo mondo al sorgere dell’aurora, parole simili a questa canzone: «Ma che splendore che sei/ Nella tua fragilità/ E ti ricordo che non siamo soli/ A combattere questa realtà». Allo stesso modo, il mattino di Pasqua, il Risorto parlò al cuore impaurito delle donne, parole da riferire poi ai discepoli e penso assomigliassero a queste: «Prendi la mano e rialzati/ Tu puoi fidarti di me/ Io sono uno qualunque. Uno dei tanti, uguale a te».

La Lettera agli Ebrei ci chiede di tenere ferma la professione della nostra fede in colui che ha attraversato i cieli, Gesù Cristo, il figlio di Dio. Colui che, salvo nel peccato, ha saputo prendere parte alle nostre debolezze, condividere ogni prova, incluso la sofferenza più atroce e la morte, che attende l’uomo. L’invito è allora quello di avvicinarci con piena fiducia a questa «notte calma molto vicina al sorgere dell’aurora», come canta Giovanni della Croce pensando all’umanità di Dio nascosta in Gesù: «Dove ti nascondi? … L’amato è le montagne, le valli solitarie e ricche d’ombra, le isole remote, le acque rumorose, il sibilo dell’ aure amorose. È come notte calma molto vicina al sorger dell’aurora, musica silenziosa, solitudine sonora, è cena che ristora e che innamora», (CA 13-14). Il Concilio Vaticano IItantum aurora est, “è appena l’aurora” disse papa Giovanni XXIII – ha recepito questa mystica lectio in dialogo con il mondo di oggi quando afferma che «con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo. [Egli] ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria Vergine, egli si è fatto veramente uno di noi… ci ha anche aperta la strada: se la seguiamo, la vita e la morte acquistano nuovo significato… perché anche noi, diventando figli col Figlio, possiamo pregare esclamando nello Spirito: Abba, Padre!», (Gaudium et spes, 22).

Al cantón fraréś
Francesco Benazzi: “Un ciclamin”

Un piccolo fiore spuntato sull’asfalto è l’occasione, per Francesco Benazzi, di esprimere temi del suo mondo poetico: la diversità, la sensibilità per l’ambiente, la meraviglia improvvisa. Il profumo di un ciclamino si contrappone ai fumi della città.L’autore si è cimentato anche in traduzioni dialettali, ad esempio dal canto XVIII dell’Orlando furioso l’episodio di “Cloridano e Medoro”, oltre ad altri brani sempre di Ludvìg (l’Ariosto).

 

Uη ciclamìη

Propia iηcòst a cal mur c’l’è dur e fred,
ad co d’uη marciapié quaś sempr a l’òra,
vśin a l’asfàlt, a fiaηc ad un tumbìn,
d’impruvìś l’àltar dì è spuntà fóra
uη fior ad ciclamìη.
– Vdiv, agh son aηca mi -, a par c’al diga,
– Lasèm indùv a sóη, briśa strapàram
a stal filìn ad vita che i m’a dà;
cuηfrónt ai mié fradié più furtunà,
piantà dentr int uη vaś o int uη źardìn,
am sent uη bastardìη.
Lasèm filtràr cal poc d’aria spuzlénta
c’a pósa vivr almen aηch sól pr un dì;
a sarò uη bastardìη, ma aηch mis acsì,
da tut chi altr èsar
la mié sort l’an è briśa difarénta. –
Ben, da cal dì, quand am tróv iηcastrà
int uη ruglòt ad màchin, o iηvlà
dai tub ad scapamént e iη meź ai fum,
am par sempr ad santìr al so profum.

 

Un ciclamino (traduzione dell’autore)

Contro quel muro che è duro e freddo, / in fondo a un marciapiede quasi sempre in ombra, / vicino all’asfalto, a lato di un tombino, / d’improvviso l’altro ieri è nato / un fiore di ciclamino. / – Vedete, ci sono anch’io – sembra che dica, / – Lasciatemi dove sono, non strappatemi / a quel tenue filo di vita che mi hanno dato; / rispetto ai miei fratelli più fortunati, / piantati dentro un vaso o in un giardino, / io mi sento un bastardino. / Lasciatemi respirare a fatica quel po’ d’aria puzzolente, / che possa vivere almeno solo un giorno; / sarò sì un bastardino, ma anche nella mia / condizione, la mia sorte non è differente da / quella di tutti gli altri esseri. – / Ben, da quel giorno, quando mi trovo incastrato / fra le macchine o sotto il tiro dei tubi di / scappamento e in mezzo ai fumi, / mi sembra sempre di sentire il suo profumo.

Tratto da: Francesco Benazzi, Mi, Frara e Ludvìg, Ferrara, La Carmelina, 2010.

Francesco Benazzi (Ferrara 1923 – 2019)
Insegnante di lettere negli istituti superiori cittadini, ha partecipato a numerosi concorsi letterari dialettali conseguendo premi e segnalazioni. Appassionato di musica classica ha tenuto corsi di cultura musicale e guida all’ascolto. Collaboratore della rivista L’Ippogrifo del Gruppo Sscrittori Ferraresi e membro de Al Tréb dal Tridèl – Cenacolo Dialettale Ferrarese. Ha pubblicato fra l’altro Come scrivere 180 lettere al direttore senza mai ricevere risposta : lettere alla “Nuova Ferrara” e al “Resto del Carlino” & scritti vari (2015) stigmatizzando con versatilità, senso civico e ironia aspetti della vita cittadina.

Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce al venerdì mattina.
Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui] 

Cover: foto di Marco Chiarini

Sulla Sinistra a Ferrara

Ho seguito con interesse Il dibattito proposto da Mario Zamorani su cause e concause della storica sconfitta del Centro Sinistra alle ultime elezioni comunali di Ferrara. Le ragioni (parecchie e non ancora tutte) vengono citate anche nel contributo di Federico Varese che di seguito pubblichiamo. Capire gli errori dovrebbe servire a non commetterli nuovamente, ma forse – dopo un anno abbondante di legislatura leghista – è venuto il momento di guardare al presente e provare a immaginare un futuro diverso per Ferrara. Partendo da due nodi fondamentali, due passaggi necessari se non vogliamo rassegnarci alla decadenza di Ferrara: una decadenza culturale, civile, economica, sociale: e una decadenza che non inizia con Naomo ma che data almeno un decennio. Due punti di attenzione, due necessità che Federico Varese mi pare individui molto bene e che provo a riassumere a modo mio. Punto uno: occorre un diverso, inedito e coraggioso progetto sociale e culturale per Ferrara, una nuova idea di Città. Punto due: occorre un nuovo ceto, una nuova classe politica, e più in generale: un modo diverso di fare politica, di agire la democrazia, di ascoltare e interpretare i bisogni e le attese dei cittadini ferraresi.
Il cammino da compiere è lungo. Alla Sinistra non basterà voltare pagina, ma dovrà ‘cambiare pelle’. Insomma, non sarà sufficiente far le pulci (leggi: far opposizione) alle stupidaggini e alle malefatte dell’attuale deprimente amministrazione leghista. Dovrà riuscire a parlare a tutta la città (dentro e fuori le mura), a tutti i ferraresi, non solo agli amici e conoscenti. Dovrà proporre una idea di città (ad esempio “la città della conoscenza” che Giovanni Fioravanti continua a indicarci) che ridia speranza e protagonismo all’ex elettore di Modonesi quanto all’ex elettore di Fabbri. O dobbiamo rassegnarci a questa Ferrara divisa a metà tra guelfi e ghibellini?
Dunque, errori a parte, dove ripartire? Da quali parole, valori, idee, progetti, da quali nuovi volti e comportamenti? Ecco, sarebbe bello che il dibattito riprendesse da qua
.  Ferraraitalia è solo uno strano quotidiano on line, completamente autofinanziato, ma sta cercando di fare la sua piccola parte. E apre le porte a chiunque a Ferrara sogna, desidera, lavora per “La Città Futura”.
(Francesco Monini)

Ho letto che il PD ferrarese ha preso posizione contro l’accorpamento delle Camere di Commercio di Ferrara e Ravenna.
Mi sono chiesto: chi è il PD a Ferrara oggi?
Armato di buona volontà, ho cercato sul web la pagina ufficiale del partito. Ho scoperto che il sito www.pdferrara.it non viene aggiornato dal 20 maggio del 2019. L’ultima notizia è una iniziativa elettorale a favore di Aldo Modonesi sindaco. La pagina fotografa una età dell’oro in cui Tagliani è sindaco, Modonesi assessore, Marattin deputato del PD e Baraldi segretaria comunale. Questa è l’ultima classe dirigente non di destra che ha governato la città.
Perché il PD ha perso le elezioni e rischiamo almeno dieci anni di governo leghista? Il bello di intervenire tardi in questo dibattito promosso da Mario Zamorani è di non dover ripetere le analisi di chi mi ha preceduto. Una per tutti: Alessandra Chiappini, la studiosa che ha diretto per tanti anni la Biblioteca Ariostea, ex assessore alla pubblica istruzione e alla famiglia. Nel suo testo sono snocciolate molte ragioni della sconfitta: scandalo Coopcostruttori, Cassa di Risparmio (“una ferita ancora sanguinante”), sanità (mancano trecento posti letto), gestione del post-terremoto… Vi consiglio di leggerlo. Aggiungo: Palazzo Specchi, politica museale inadeguata, fino alla crisi del ‘pattume’. La lista purtroppo è lunga.

L’errore tattico maggiore è stato non aprire a forze nuove. Sono state le liste civiche di sinistra a mobilitare cittadine/i che volevano cambiare la città senza consegnarla alle destre. Fa impressione vedere docenti di fama internazionale come Guido Barbujani e Piero Stefani, architetti come Beatrice Querzoli, giovani studenti e artisti come Arianna Poli e Adam Atik, attivisti come Marianna Alberghini, medici come Lina Pavanelli e tanti altri, disposti a mettersi in gioco per scongiurare la vittoria della destra. La disponibilità di Fulvio Bernabei è stata sprecata. Va detto che diversi esponenti del Pd, come Ilaria Baraldi e Massimo Maisto, avevano capito che bisognava cambiare, ma purtroppo non sono riusciti a produrre una candidatura condivisa e portatrice di novità. Da alcune conversazioni avute durante la campagna elettorale ho tratto l’impressione che il PD preferisse perdere con un candidato organico piuttosto che vincere con un candidato indipendente. Allora non sorprende che l’esito sia stata la sconfitta elettorale. Fa ancora più impressione che il PD ferrarese non abbia promosso una discussione sul risultato elettorale. Il consigliere Dem Bertolasi sul Carlino ha detto che, in assenza di un dibattito, non ha più senso iscriversi a quel partito. Su estense.com Ilaria Baraldi, la quale con grande coerenza si è dimessa da segretaria cittadina dopo la sconfitta, ha descritto “l’inconsistenza identitaria e la confusione organizzativa” del suo partito.

L’errore strategico è stato non avere una idea di città. Dopo la visione, sviluppata negli anni settanta, di “Ferrara città d’arte e di cultura”, bisognava innovare. Quel progetto benemerito nasceva da un dialogo forte tra Italia Nostra, guidata dall’avvocato Paolo Ravenna, l’amministrazione comunale e i dirigenti dei musei e delle istituzioni culturali ferraresi. Il restauro delle mura resta una pietra miliare nella storia della conservazione dei monumenti in Italia. Ma alla lunga quel modello ha prodotto una attenzione esclusiva al centro storico, ad un turismo di giornata, attratto dalle mostre di Palazzo dei Diamanti. Quella stagione, che si è protratta fino al 2019, ha prodotto risultati straordinari–da ultima la mostra su Ariosto curata dalla Direttrice Pacelli—, ma dopo quarant’anni serviva una nuova visione. Toccava alla politica capire che quel modello andava esteso alla città fuori dalle mura, alla cultura materiale e agricola, legando il comune al parco del Delta, un tema sollevato solo dalla candidata civica Roberta Fusari.

Andare oltre le mura (per ribaltare il titolo di una sezione de Il Romanzo di Ferrara di Giorgio Bassani) sarebbe servito anche a mettere al centro della nuova visione di città il *disagio* delle periferie, incluso il quartiere Giardino, la povertà, lo sfruttamento e le diseguaglianze, questioni cruciali per la sinistra, che invece sono state lasciate alla destra. Come documentato dall’Annuario Statistico Ferrarese, la povertà è cresciuta negli anni di amministrazione del centro-sinistra. Il tema delle aree interne (posto in Italia da Fabrizio Barca) doveva essere centrale anche nella visione della sinistra ferrarese. Nulla. In campagna elettorale ho proposto di tagliare i costi dei biglietti autobus per i residenti nelle periferie. Mi sono sentito dire che i ferraresi vanno in bicicletta! Le conversazioni che ho avuto con gli esponenti della giunta prima delle elezioni erano sempre improntate all’atteggiamento ‘non disturbare il manovratore’. Nessuna curiosità per idee nuove.

Il PD non aveva un progetto serio per il Quartiere Giardino: ricordo la proposta del candidato sindaco di tagliare le tasse comunali agli esercenti che aprivano attività in Gad. Credere che tagliare le tasse sia una soluzione a complessi problemi economici e sociali è particolarmente miope. Fior di economisti hanno dimostrato che gli imprenditori vogliono servizi sociali che funzionino e un ambiente urbano attraente, che invogli i clienti a frequentare un certo luogo. A quel punto sono disposti a pagare le tasse (chi vuole approfondire il tema consiglio il recente libro The Finance Curse di Nicholas Shaxson).

Bisognava prendere di petto la paura (fondata o meno) di molti cittadini/e sulla sicurezza. Bisognava “invadere” il quartiere Giardino con iniziative, riunire il consiglio comunale lì ogni mese, come poi ha fatto una volta sola la nuova giunta. Ricordo la stucchevole diatriba sulla criminalità cosiddetta nigeriana a Ferrara: “E’ mafia sì o no?” Quello che importava ai cittadini era recuperare gli spazi pubblici. Serviva un patto per la sicurezza e l’integrazione, sottoscritto da città, forze dell’ordine e comunità immigrate. Ignorare il problema è servito a lasciare che altri lo declinassero in maniera incivile.

Cosa fare in futuro? Quello che non si è fatto nel 2019: aprire a forze nuove e costruire una idea di città che parli a chi vive dentro e fuori dalle mura. Aggiornare la pagina web sarebbe comunque un primo passo.

Cover: elaborazione grafica di Carlo Tassi

“Fellini degli Spiriti” all’Apollo per le celebrazioni del centenario

Da: Ufficio Stampa Apollo Cinepark

 

Con la riapertura dell’Apollo riprendono gli appuntamenti con gli eventi speciali e, in occasione delle celebrazioni dei 100 anni della nascita di Federico Fellini, arriva al cinema di via del Carbone “FELLINI DEGLI SPIRITI”, in sala lunedì 31 agosto e martedì 1 settembre alle ore 21.15.

Profondamente innamorato della vita, Fellini ha attraversato la sua esistenza cercandone sempre il senso attraverso il suo percorso cinematografico e il documentario Fellini degli Spiriti, diretto da Anselma Dell’Olio, indaga in profondità la sua passione per quello che lui definiva, in breve, il mistero, l’esoterico, il “mondo non visto” in una ricerca incessante di altre possibilità, altre dimensioni, altri viaggi e di tutto quello che può far volare lo spirito e la mente.

 

Questi gli alti titoli in programmazione questa settimana:  TENET tutti i giorni alle 21.00;

VOLEVO NASCONDERMI, tutti i giorni ore 21.30, SIBERIA fino a domenica 30 agosto alle ore 21.15. 

 

Storia di un lockdown fuori dagli schemi

E mentre oscilliamo tra il credere e sperare che un nuovo lockdown non avvenga e il timore che il prezzo di un’estate all’insegna dell’affollamento potrebbe risultare salato, viene in mente la storia di un lockdown anomalo, completamente fuori dagli schemi, uno sbalorditivo fatto di cronaca appartenente ad un’altra epoca. Un lockdown volontario della durata di 24 anni, quello in cui si ritira Ida Mayfield Wood (1838-1932) assieme alla figlia Emma e alla sorella Mary.
Ida, approdata a New York dal Sud degli Stati Uniti – Louisiana – nel 1857, all’età di 19 anni, diventò l’amante di Benjamin Wood, proprietario ed editore del quotidiano New York Daily News nonché fratello di Fernando, celebre politico dell’epoca e sindaco della città per due mandati. Mise gli occhi su quell’uomo di 37 anni, entrando così nel jet set più esclusivo, e lo fece con una lettera indirizzata a lui personalmente: “Signore, ho sentito parlare spesso di Voi da una delle Vostre amanti, la quale mi ha detto che state cercando un ‘volto nuovo’. Io sono nuova in città e in ‘affari di cuore’ e vorrei propormi per un accordo di intimità con Voi […]”.
Ebbero una figlia, Emma, tenuta lontana dai riflettori della cronaca e quando nel 1867 l’uomo rimase vedovo, Ida diventò la terza signora Wood. La ‘Bella di New Orleans”, come veniva chiamata dai reporter e giornalisti, manifestò subito grandi capacità di relazione in quel mondo altisonante, dove venne ripresa mentre ballava col principe di Galles in visita a New York e mentre intratteneva il futuro presidente degli Usa, Abram Lincoln. E, mentre Benjamin Wood dilapidava somme ingenti al gioco d’azzardo e scommesse, da incallito giocatore, lei vigilava sul patrimonio familiare con grande abilità, si faceva intestare gli averi e condivideva le vincite al gioco per preservare i beni, lasciando le perdite al marito.
Alla morte dell’uomo, lei era già intestataria di quasi tutti i possedimenti e, come ultima grande operazione finanziaria, nel 1901 vendette il giornale ricavandone più di 250.000 dollari, all’epoca somma vertiginosa. Qualche anno più tardi, a quel punto della sua vita, Ida decise che era arrivato il momento di lasciare quel mondo dorato, dopo aver ritirato dalle banche tutta la sua liquidità, affittò con la figlia e la sorella la suite con due stanze numero 552, presso l’Herald Square Hotel, dalla quale nessuna delle tre uscì mai più, vivendo decenni di rigida autoreclusione.

In quegli anni di isolamento totale, ebbero pochissimi contatti con i dipendenti e nessuno fu mai ammesso all’interno delle camere se non in due sole occasioni, convinte da una cameriera ai piani.  Aprivano la loro porta per ritirare quanto ordinato, sempre le stesse cose: latte condensato, caffè, crackers, pancetta, uova e occasionalmente pesce, sigari cubani e tabacco da fiuto di Copenhagen. Ida pagava sempre e puntualmente in contanti, anche l’affitto della suite.
La figlia Emma morì dopo il ricovero in ospedale nel 1928, all’età di 71 anni, mentre Mary, la sorella, si ammalò nel 1931 e, dovendo chiedere aiuto, si presentò per la prima volta l’occasione di violare quel lockdown durato un’eternità. Accorse l’ignaro direttore dell’hotel che, in sette anni di lavoro, non si era mai accorto di quelle strane ospiti, accompagnato da un medico legale, un becchino e due avvocati dello studio O’Brien, Boardman & Early.
Lo scenario che si parò davanti era incredibile: il corpo della povera Mary coperto da un telo, pacchi di giornali ingialliti disseminati un po’ ovunque, scatole di biscotti, rotoli di corda, carta da pacchi, una cucinetta nel bagno (si scoprì che le donne non si erano mai fatte il bagno). Si aprì improvvisamente uno squarcio sullo squallore in cui Ida e le altre erano vissute e tutto venne a galla. Vennero trovati centinaia di migliaia di dollari in contanti, oggetti di grande valore e opere d’arte conservate nella suite e in un deposito nel seminterrato dell’hotel, gioielli di pregio come quello donato dal presidente Monroe alla famiglia e perfino una rara lettera firmata Charles Dickens inviata dallo scrittore a Benjamin Wood.

In una scatola di creckers fu rinvenuto un diamante del valore di $ 40.000.  Vennero trovati anche vasetti vuoti di vaselina, con la quale Ida si massaggiava il viso più volte al giorno per molte ore, mantenendo un incarnato da cameo, di colorazione avorio, nessun segno del tempo, nessuna ruga.
Ida Mayfield Wood fu trasferita in una nuova suite al piano inferiore e al momento del suo trasferimento nel nuovo alloggio, ben 1013 richiedenti, presunti parenti, litigavano per reclamare l’eredità, arrivando anche a dichiararla non idonea a gestire la propria ricchezza. Il 12 marzo 1932, Ida morì all’età di 93 anni. Alla sua scomparsa emerse in tutta la sua drammaticità una verità nascosta: Ida Mayfield Wood non era figlia di un piantatore di canna da zucchero della Louisiana, come lei dichiarava, ma di Thomas Walsh, un povero immigrato irlandese che si era stabilito a Malden, Massachusetts. Sua madre aveva vissuto, prima dell’ingresso negli Usa, negli slums di Dublino, ben lontana dal poter vantare ascendenti di piccola nobiltà.
In realtà, Ida Mayfield non era nemmeno il suo vero nome, che era Ellen Walsh.
E per finire, sembra che Emma non fosse nemmeno sua figlia bensì una sorella minore, segretamente protetta con la connivenza del marito Benjamin. La storia di Ida e le sorelle, vissuta gran parte in un assurdo lockdown,  sembra uscita da un romanzo d’appendice dai contorni nebulosi e tutto cominciò, come Ida raccontava nei rari momenti di  loquacità a una cameriera, quando da povera ragazzina incontrò una zingara che le pronosticò un futuro di fortuna e grande ricchezza a cui aveva sempre creduto fino alla fine.

SCHEI
Naomo (l’originale) e la Nemesi

 

In origine, Naomo non aveva nulla a che fare con l’attuale vicesindaco di Ferrara, usurpatore di nomignoli oltre che di case popolari. Naomo era la caricatura pressochè calligrafica di Flavio Briatore, creata dal comico Giorgio Panariello. Un capellone attempato che girava in pareo, ostentando la sua ricchezza e sfottendo la povertà degli altri (chiamato Naomo perchè, al tempo, Briatore se la intendeva con Naomi Campbell).

A parte Berlusconi, non esiste in Italia un personaggio che incarni l’arroganza della ricchezza meglio di Flavio Briatore. Infatti i due sono grandi amici, e condividono le medesime frequentazioni eccellenti, tra cui quella con il professor Alberto Zangrillo, primario di Anestesia e Rianimazione dell’ospedale San Raffaele di Milano. Zangrillo è il medico che affermava già un mese fa che il Covid era “clinicamente morto”, supportando l’affermazione coi dati della unità da lui diretta, come se non avere in quel momento contagiati da Covid in rianimazione al San Raffaele fosse più importante, dal punto di vista epidemiologico, delle evidenze mondiali sulla diffusione della malattia; come se la malattia dovesse essere derubricata a raffreddore dal momento che più nessuno finiva intubato da lui. Infatti Briatore qualche giorno fa in tv diceva di avere avuto la febbre, ma che Zangrillo gli aveva detto che era un raffreddore. E giù a prendere per il culo e nello stesso tempo indignarsi per la dittatura del Covid, che legittimava il sindaco di Arzachena a prendere l’illiberale e tirannico provvedimento di chiusura delle discoteche, tra cui il suo Billionaire.

Deve essere stata l’autorevolezza di Zangrillo, imparagonabile alla spilorcia ottusità del sindaco Ragnedda, a convincere Briatore non solo a tenere aperto il Billionaire, ma ad ospitarvi decine di Very Important Persons, da Bonolis a Mihaijlovic, da Della Valle ai calciatori Laqualunque arricchiti da ingaggi faraonici e insensati, e via di calcetto, aperitivi al Sottovento (altro locale per parrucchieri catodici, troniste e ospiti di Barbara D’Urso) e foto di gruppo in rigorosa assenza di mascherina e distanziamento.

In inglese e in altre lingue non esiste la traduzione della nostra espressione “bella figura”. Fare bella figura è una intraducibile esclusiva italiana, il sintomo lessicale della nostra attitudine al magheggio, alla rappresentazione fasulla e brillante di una sostanza misera o truffaldina. Per converso, il microdrama  gallurese può essere inquadrato nella categoria mitologica della nemesi, oppure in quella più prosaica delle figure di merda. Una sessantina di positivi (in aumento) nello staff del Billionaire, Mihaijlovic (reduce dalle terapie per la leucemia e da un trapianto di midollo) positivo, il gestore del Sottovento e Briatore non solo positivi, ma ricoverati in ospedale – il primo a Sassari, il secondo al San Raffaele dall’amico  luminare nonchè vate Zangrillo – in condizioni serie. Un bel cazzo di raffreddore, già denominato infatti “Focolaio Billionaire”. Mi vengono in mente le ironiche e profetiche parole del sindaco di Arzachena, il pezzente Ragnedda, quando disse una settimana fa che la sua ordinanza sulla chiusura dei locali serviva anzitutto a tutelare “gli anziani come Briatore”. (NdA: adesso Naomo l’originale sostiene di avere solo un’infiammazione alla prostata, anche perchè il Covid lo ha già fatto mesi fa, glielo ha detto sempre Zangrillo. Dal Covid al Prostamol.)

Una volta Andy Warhol disse che nessuna somma di denaro, per quanto grande, poteva consentire al ricco di bere una Coca Cola più buona di quella che beveva lo squattrinato all’angolo di strada. Nessuna somma di denaro può consentire al ricco di beccarsi un Coronavirus migliore del povero, ma Briatore anche nella malattia sceglie gli schei. Infatti non lo stanno curando in un reparto Covid, ma in un cosiddetto reparto “solventi”, che non è un reparto di intossicati dalle colle, ma di persone dall’Isee preverificato, come in banca, che consentirà loro di pagare di tasca propria un trattamento Vip (intuberanno con sonde in acciaio cromato?). C’è maggiore giustizia sociale in una bottiglietta di Coca Cola che in un ospedale pubblico.

Avete presente quei serial televisivi ambientati in megalopoli americane, in cui i personaggi si ritrovano puntualmente tutti a bere nello stesso locale, come se invece di essere a Los Angeles fossero a Cocomaro di Focomorto? Ecco. La cafonaggine imperante ha trasfigurato l’immagine della Sardegna, riducendola e identificandola con la sineddoche buzzurra e infetta della posticcia Porto Cervo, due chilometri quadrati brulicanti di calciatori, nani e ballerine che postano stronzate su instagram, più intruppati di un pullman di giapponesi in vacanza aziendale. Uno sciame di vespe contagiose.

La fortuna degli umani, questa strana razza capace di vette e abissi speculari, è che i medici e gli infermieri (molti dei quali senza un contratto dignitoso da 14 anni) cureranno tutti allo stesso modo. Che siano mafiosi, premi Nobel, critici d’arte, operai, casalinghe, serial killer, stupratori o coglioni arricchiti. I quali, fidatevi, appena avranno tirato un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo, riprenderanno a berciare con la consueta boria contro la privazione della libertà di fare schei. E intanto i suoi dipendenti in Costa Smeralda si stanno contagiando, molti lo sono già. Un Ispettorato del Lavoro e una Asl indipendenti e degne potrebbero approfittare della situazione per verificare le condizioni di lavoro di queste maestranze. Mentre Naomo (l’originale) fa convalescenza, sarebbe bello fare un bel giro di verifiche sul rispetto delle regole, sanitarie e di lavoro, nei suoi possedimenti.

Vite di carta /
La misura della maturità

Vite di carta. La misura della maturità

Proprio ieri ho fatto visita a una signora più grande di me di qualche anno che vive sola in una grande casa dalle finestre perennemente chiuse. La sua giornata trascorre così, tra studio, lettura e tanto computer. Ha un indubbio carisma e una sofferta maturità.

Mi ha parlato a lungo di questi suoi ultimi anni pieni di dure prove, dei lutti di tutti i suoi famigliari. Ha detto di essersi smarrita in un lungo cammino buio, ma ora si sente di nuovo libera nello stare con se stessa e sul suo volto ancora bello ed espressivo ho letto in effetti un messaggio sereno.

Poi, prima di addormentarmi alla fine della giornata ho voluto aprire il mio nuovo libro. L’ho fatto con delicatezza perché non è mio, ma è il prestito di un amica. L’ho fatto perché molti libri hanno le ali e non vanno spezzate.

Che inizio. Ho ritrovato immediatamente lo stile dell’autore che leggo da anni, le frasi ben scandite  che seguono i pensieri del protagonista e li fissano con precisione semplice. L’autore è Gianrico Carofiglio, il protagonista è l’avvocato Guido Guerrieri, il romanzo ha per titolo La misura del tempo ed è arrivato secondo alla edizione più recente del Premio Strega.

Ci sono giornate in cui i fatti che accadono e le sensazioni che si provano sono tra loro in armonia. Ieri è stato così: la lettura serale mi ha portato di nuovo a riflettere sulla nostra maturità di uomini e donne della seconda età.
Ho letto solo le prime ventidue pagine, per cui mi accingo a scrivere eccezionalmente di un romanzo che non ho ancora letto. Però l’esperienza di vita dell’avvocato Guerrieri si è già accampata nel libro e mi ha dato spunti preziosi per misurarmi con lui.

La nuova cliente, che egli riceve alla fine di una lunga giornata di lavoro, non è una persona qualsiasi, ma una donna con la quale molti anni prima ha avuto una relazione piuttosto intensa, anche se è durata solo alcuni mesi. Quando lei entra nello studio c’è l’impaccio del ritrovarsi dopo un così lungo intervallo e dopo tante esperienze di vita.

Se accadesse a noi che leggiamo, non potremmo che dare conferma di ciò che accade a Guido e Lorenza: lui riconosce lei a fatica, lei lo trova molto simile al Guido giovane, ma si salutano entrambi con un gesto goffo. Lei gli dice sinceramente che non lo trova cambiato, lui sa evitare di dirle la stessa frase che risulterebbe formale se non addirittura insincera. Perché lei porta male i suoi 57 anni ed è lì per un problema serio che riguarda il figlio e che aggiunge altri anni alla pelle del suo volto.

Nel corso della giornata, prima di questo appuntamento delle 19, Guido ha incontrato per caso un amico, Enrico, e l’ha trovato estremamente provato dalla morte della madre. Anche un mio amico ha perso la madre nel mese di giugno e ora sta faticando a riprendersi.

Quanto a me, ho perso madre e padre da molti anni ormai, come Guido Guerrieri. Bene, siamo tutti dalla stessa parte: narratore, personaggio, lettrice (e lettori). Leggo il resoconto che Enrico fa a Guido della scomparsa della madre e sento che mi emoziono e mi scompongo; Guido dice di avere avvertito “come un pugno alla bocca dello stomaco” e credo usi le parole giuste anche per me.

Perché sono parte in causa e anch’io mi libero, sentendo dire da Enrico che è una prova durissima quella di assistere un genitore nei suoi ultimi mesi e giorni, quella che a volte ci ha fatto esasperare e talvolta abbiamo risposto con asprezza o con insofferenza a una delle  persone più care. Enrico dice che questo comportamento ci toglie la “dignità”, io non lo penso: nei brevi momenti in cui è toccato a me ho sentito di smarrire semmai la mia identità, sperduta in uno spazio senza confini e senza leggi.

L’ho chiamata “la terra di nessuno”, anche perché non si lascia governare da alcun principio razionale ed è lei a impadronirsi del nostro smarrimento e di noi, a tratti. Ci rende insensibili, quasi dovessimo metterci in salvo dalla spirale della malattia e della fragilità.

Guido ha invitato Enrico a prendere un caffè e ha ascoltato il suo sfogo. E’ un atteggiamento che mi pare misurato, che soccorre nel modo più naturale l’amico. Enrico ha bisogno di buttare fuori dolore, sgomento e delusione di se stesso. Non servono donchisciottismi, basta esserci nell’istante giusto, prima di tornare ognuno alla propria vita e alla propria identità.

Da ultimo, ma per ventidue pagine può bastare, l’inventario. Spinto dai discorsi di Enrico, Guido ripensa a sua volta ai propri genitori e in sole tredici righe fa un bilancio preciso di quello che gli hanno lasciato. Anche qui mi sono scomposta.

So bene cosa hanno lasciato a me i miei genitori, non so se saprei esprimerli in così poche parole, con nettezza. Tento di occupare le righe del libro con il mio elenco, come se provassi a sovrapporre la mia mano a quella del narratore. L’operazione mi sta riuscendo abbastanza bene: nelle due liste sono compresenti “onestà” e “rispetto per gli altri”.

Nella lista di Guerrieri segue l’”amore per le idee”, nella mia metto l’amore per la creatività e per la sana adesione a se stessi. Quanto al “bisogna sempre sbrigarsela da soli” mi discosto un po’: se Guido fatica ad accettare aiuto dagli altri, credo di essere diventata meno rigida di lui nel tempo, con tutta la collaborazione di cui ho goduto nella mia professione di docente e nei rapporti dentro la mia nuova famiglia.

E’ finita una giornata vissuta in armonia. Mi sento bene, anche se il dialogo con la signora mi ha sbattuto in faccia che il dolore può farci così male e le pagine del nuovo libro mi hanno riportata alle mie manchevolezze. Mi sento al mio posto, anche se stare qui comporta avere paura e prendere la misura ai miei limiti.

Non so quali tra le infinite variabili della narrazione compariranno da pagina 23 in poi; non so intuire gli ostacoli che l’avvocato Guerrieri dovrà superare per condurre a termine il processo al figlio di Lorenza, che si presenta piuttosto difficile. Confido nella sua professionalità e nell’esperienza che ha maturato in ormai molti anni di attività come avvocato penalista.

Conosce i propri punti di forza e le fragilità, sa valutare i rischi e le risorse di cui dispone; saprà ricostruire pazientemente una verità, forse dovrà scegliere tra verità processuale e verità vera, credo che come altre volte cercherà di trovare la loro migliore intersezione. E poi il finale della storia potrebbe piacermi oppure no, spesso i finali sono scontati o poco plausibili o troppo espliciti. Insomma deludono.

Tuttavia non ho scelta, sono o non sono da sempre una lettrice? E allora non posso che accettare il rischio e procurarmi il piacere di continuare a leggere.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

BUFALE & BUGIE
Non servono prove, se accusi Putin e la Russia

L’onere della prova spetta a chi intenda dimostrare una tesi, eccetto quando il bersaglio corrisponde al “diverso” da noi.

A maggior ragione se si tratta della Russia, in mano a uno zar, l’onere probatorio lascia il posto all’accusa gratuita. Secondo un articolo de La Repubblica, pubblicato il 2 agosto, “Romania, la disinformazione russa dietro alle teorie negazioniste del coronavirus”. Un titolo sbadatamente privo di punto interrogativo – necessario poiché riporta le interpretazioni di un sito Internet informativo che nulla dimostra in via definitiva nel proprio scritto – , e che mostra un uso improprio dell’aggettivo “negazionista[vedi qui]. Quella che viene presentata nel sommario come inchiesta del sito riportato, Politico Europe, è in verità una notizia lanciata il 29 luglio dal New York Times Post per dare eco alle parole di Corina Rebegea, sostenitrice della tesi in questione. Ma Andrea Tarquini, che ricordiamo per le informazioni errate sulla Svezia [vedi qui], scivola anche citando il sito Sputnik nella versione romena: secondo il giornalista, dall’inchiesta emerge la sua centralità nel sostenimento di “campagne anti-mascherine rivolte soprattutto ai giovani”; eppure, leggendo l’articolo preso a modello dal giornale italiano, si nota come a parlare di tale argomento sia Raed Arafat, membro del governo, mentre l’agenzia di stampa internazionale è tirata in ballo solo più avanti, parlando in generale di “disinformazione”. L’accusa lanciata dalla dirigente del Center for European Policy Analysis sostiene il ruolo attivo della piattaforma Sputnik nella promozione di “teorie cospirative” sul virus, ma basta visitare l’edizione presente in Romania per verificare che la sua colpa è semmai quella di dare spazio anche a notizie che pongono dubbi. Pura invenzione dell’articolo italiano sono poi i “troll di Putin”, a cui si associa il lancio di “bombe sporche”; non solo, perché apprendiamo anche che la tesi da questi appoggiata prevederebbe “una cospirazione dei servizi d’intelligence occidentali”. Inutile dire che nulla di ciò è documentato, né tra le righe dell’articolo originale, né tra quelle del sito citato. E quando invece l’articolista trascrive un dato che ha sì una fonte, oltre ai due testi, aggiunge però un tocco di immaginazione: secondo il sondaggio nominato, il 41% delle persone intervistate crede che il SarsCov-2 sia un’arma biologica statunitense creata per dominare il mondo, e non “una macchinazione dei servizi segreti occidentali piuttosto che una minaccia reale”. L’ipotesi che il virus sia ingegnerizzato non comporta la sua non pericolosità.

E come mai non troviamo scritto che Politico Europe non è altro che la versione europea del quotidiano americano Politico? O che il Cepa è un istituto americano dichiaratamente atlantista? O che il sondaggio menzionato è stato portato avanti da un centro legato all’Unione Europea? Ma la propaganda è solo quella degli altri.

BUFALE & BUGIE, la rubrica di controinformazione di Ivan Fiorillo esce ogni mercoledì su Ferraraitalia. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui]

RITORNO A SETTEMBRE:
scuola: dallo spazio che “insegna” allo spazio che “consegna”.

Quando c’era Profumo. Chi lo ricorda? Sono nove anni, poco meno di due lustri, eppure sembra un’epoca lontana, ancora appartenere al secolo scorso. Profumo è stato ministro della pubblica istruzione nel governo Monti. Nel 2012 si è intestato un convegno, tenuto a Roma, molto importante, con una sineddoche per tema: “Quando lo spazio insegna”, nuove architetture per la scuola del nuovo millennio.

La scuola open space, senza aule, né corridoi. Dove studenti e insegnanti lavorano in modo collaborativo, sfruttando le possibilità offerte da internet e dalle tecnologie della comunicazione. Una scuola aperta tutto il giorno, disponibile alle contaminazioni con il territorio: scuola vera e propria al mattino, centro sportivo e di aggregazione al pomeriggio, centro di formazione per gli adulti alla sera. Queste, nelle parole del ministro di allora, le conclusioni del convegno, perché la scuola della società della conoscenza richiede spazi modulari e polifunzionali, facilmente configurabili ed in grado di rispondere a contesti educativi sempre in evoluzione.

Il suggerimento uscito dal convegno era quello di alzare lo sguardo sulle esperienza delle  scuole europee che avevano intrapreso un percorso di ripensamento dell’ambiente di apprendimento. Siamo al dunque, e la legge sull’edilizia scolastica è ancora quella dal 1975, con le aule come unità didattica. Ora che si studiano gli spazi il principio è sempre lo stesso.

Quando si deve mettere in sicurezza un luogo o lo si chiude o, se si tiene aperto, occorre considerare attentamente l’uso a cui è destinato quel luogo e quali attività in esso si svolgono.
Non so chi abbia coniato la pessima espressione “classi pollaio”, so però che la promessa di eliminarle contiene un inganno, perché anche quando si riducesse il numero dei polli il pollaio resterebbe sempre un pollaio. La scuola magazzino, la scuola silos di generazioni non funziona più, non da oggi, ma da tempo. Un tempo nutrito di riflessioni pedagogiche e di esperienze, ma sempre un tempo che la scuola ha tenuto distante da sé.
E, dunque, si continua ad ignorare la necessità di aprire il pollaio, di abbattere le mura del magazzino, di demolire i silos. Ci si comporta come se fosse scoppiata l’aftaepizootica e la soluzione consistesse nel distribuire gli animali in più stalle a ruminare come prima.

Con “andare a scuola” noi intendiamo l’impegno ad apprendere e a studiare, che però non vuol dire per forza di cose stare tutti insieme in una aula ogni giorno per duecento giorni all’anno, come non significa che giunge un momento nella vita di ciascuno di noi in cui si smette di “andare a scuola”, nel senso che si cessa di studiare.

Un aspetto su cui è opportuno fare chiarezza è che ‘cultura’ ed ‘educazione’ sono due cose distinte che non vanno mischiate tra loro come spesso invece ci accade di fare.
La questione se la poneva Lev Tolstoj intorno agli anni Sessanta del diciannovesimo secolo. Tolstoj risolve il problema sostituendo al concetto di educazione quello di ‘cultura’, sostenendo che si deve operare una netta distinzione tra le nozioni di cultura, educazione, istruzione e insegnamento.
La cultura è la somma di tutte le esperienze che formano il nostro carattere, mentre l’educazione è il prodotto della volontà di plasmare la personalità e il comportamento delle persone. Ciò che differenzia l’educazione dalla cultura è, dunque, ‘il carattere coercitivo’, l’educazione è cultura obbligatoria; la cultura è libertà.

Sto sostenendo che volendo riaprire le scuole a settembre, prima sarebbe stato necessario decidere cosa farci dentro a quegli edifici: organizzare il pollaio in funzione della  sicurezza o organizzare la sicurezza in funzione del riprendere a fare cultura?

L’edificio scolastico è un luogo di studio dove i processi di apprendimento sono individualizzati, né più ne meno delle cure mediche, dove si promuove l’autonomia, vale a dire il camminare da soli con le proprie gambe nei territori della cultura, avendo grande attenzione alla qualità dei compiti a ciascuno richiesti. La scuola non può che essere il luogo della flessibilità, della scomposizione e della ricomposizione di spazi, gruppi, esperienze e relazioni. Alla scuola non servono piani d’appoggio, ma tavoli da lavoro, le sedute con il piano ribaltabile vanno bene per l’aula magna, per la sala delle conferenze, non certo per spazi laboratorio, intendendo per laboratorio ‘i saperi operosi’, l’operosità del sapere. L’apprendimento come processo culturale, mai statico ma sempre dinamico. Allora la sfida mancata è quella di riaprire a settembre degli ambienti di apprendimento, degli spazi dove si svolge la cultura, anziché i silos e i magazzini che continuano a contenere generazioni dopo generazioni.

Il tempo ci sarebbe stato già prima, ma volendo, anziché usare la demagogia delle ‘classi pollaio’ come specchietto per le allodole, sempre che si avessero delle idee e delle riflessioni in testa, si sarebbe potuto lavorare fin da marzo per predisporre nuove scenografie, nuove regie degli apprendimenti, della cultura e dei saperi.
Invece si è nominato un commissario al grande Moloch, senza considerare che in un luogo in cui si fa cultura l’uso dello spazio oltre ad essere dinamico è dialettico. Varia dai progetti, dai percorsi didattici, dalle proposte di lavoro, dai conflitti, dalle strumentazioni di cui si dispone, insomma da quello che si intende fare che non sempre è identico a se stesso e da quello che avviene che non sempre è anticipabile.
Gruppi che possono essere anche numerosi, con le necessarie misure di sicurezza, se si tratta di un video o di una conferenza, gruppi più piccoli, monadi che necessitano di spazi in cui gli arredi siano fruibili in modo da permettere sia il lavoro singolo che cooperativo e agli insegnanti di muoversi da un’isola all’altra, di avere un rapporto uno a uno quando necessario.  Aule atelier in cui si può essere anche in diversi e mantenere le distanze, aule di musica dove l’apprendimento dello strumento musicale avviene con la presenza di poche unità di alunni per volta. Se si suona il flauto e la chitarra in forma orchestrale lo si può fare in spazi ampi. E poi c’è il territorio con le strutture e le istituzioni culturali che offre, dunque, una distribuzione degli spazi che va ben oltre l’aula. In questa prospettiva ci sta anche l’ibrido con la didattica a distanza che può funzionare da tutoraggio di ciò che è già stato predisposto a lezione negli spazi scolastici o fuori sul territorio.

Infine la variabile tempo entro cui la cultura non può essere sacrificata come avviene a scuola, un tempo che va dilatato in funzione degli apprendimenti e dell’uso degli spazi. Le scuole sono gli edifici del nostro sistema culturale, pertanto non possono essere adibite alle sole necessità della didattica, come per lo più è accaduto finora, ma devono soddisfare anche quelle del territorio. Per cui non ci sarebbe nulla di scandaloso se si facessero turni di fruizione diversi in edifici predisposti con ambienti di apprendimento anziché di insegnamento, lo stesso vale per l’uso delle strutture messe a disposizione dal contesto urbano.

Da marzo il discorso sulla scuola ha conosciuto solo banchi, piani di riapertura sfornati dai comitati tecnico-scientifici e linee guida riviste e corrette. Tutto è stato enfatizzato come se la scuola fosse una vita a parte, diversa, come se le norme da rispettare non fossero quelle di tutti i giorni, distanziamento, mascherine, igienizzazione.
Siamo transitati dallo spazio che “insegna” vagheggiato dal ministro Profumo allo spazio che “consegna”, alle bambine e ai bambini, alle ragazze e  ai ragazzi che, in tempo di Covid, sono consegnati nelle aule e nei banchi, semmai nuovi, ma sempre in fila gli uni dietro agli altri come plotoncini alla conquista della loro educazione.

Al racconto di idee, proposte e soluzioni sono mancati i professionisti della cultura, gli insegnanti, a cui neppure si è pensato di dare voce o che non hanno avuto la  necessaria autorevolezza professionale per farsi ascoltare. Epidemiologi e virologi sono saliti alla ribalta delle interviste e degli studi televisivi,  gli insegnanti hanno lavorato a distanza, verrebbe da dire in ombra, sopravanzati da una catasta di banchi che non ha mancato di riempire i palinsesti televisivi.

LA STUPIDITA’ NON E’ NECESSARIA
la Scuola della Conoscenza rimane l’unico argine

La frase “La stupidità non è necessaria”  la troviamo scritta in un testo di Gregory Bateson dal titolo Mente e Natura  la trovo straordinaria! Riassume in modo emblematico lo spirito del tempo che ci troviamo a vivere oggi.
Quel verbo impersonale usato in modo così sarcastico!
Quale uomo dotato di un minimo di ragionevolezza infatti potrebbe ritenere sensato utilizzare la stupidità nelle manifestazioni del suo essere! Tutti di regola desiderano distinguersi per l’acume del ragionamento, per la brillantezza delle  idee esposte…non certo per l’ottusità del pensiero.

Paradossalmente, invece, basta leggere i commenti fatti da moltissimi utenti sui social, per esempio in materia di immigrazione, o sui provvedimenti per  contrastare il contagio da covid-19, e risulta lampante che non solo in tali interventi si rinuncia volentieri ad ogni riferimento al buon senso comune, ma si condividono ragionamenti del tutto contrari alla dignità umana semplicemente copiando/incollando documenti aberranti.

Come è potuto capitare che ad ogni livello, cominciando dai leaders politici fino al cosiddetto uomo della strada, sia stato abbandonato l’uso di ogni filtro democratico, ogni principio etico, e circolino sui media impunemente messaggi razzisti, argomentazioni in forme neppure troppo mascherate di  natura fascista  o di comportamenti intolleranti verso ogni tipo di diversità?

Provo a ricostruire un ragionamento che possa giustificare tale cambiamento.

Abbiamo assistito dalla fine degli anni Ottanta fino ad oggi non solo ad una crisi della Politica ma ad una sua radicale delegittimazione; non solo alla perdita di centralità della Cultura ma alla perdita di credibilità della sua agenzia di trasmissione principale che è la Scuola.
Tutto ciò ha portato ad una lenta e pericolosa erosione delle strutture democratiche attraverso cui fino ad oggi si è sviluppata la formazione dell’opinione pubblica, consegnandola alle interazioni tipiche del mercato, alle agenzie di marketing e ai sondaggi di opinione.Insomma non solo abbiamo assistito al passaggio di status da cittadini a consumatori, ma a quello da cittadini consapevoli a consumatori ignoranti e fieri di esserlo.

Questo mi sembra essere oggi il dato più preoccupante, il poter in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo ascoltare e  dire tutto e il contrario di tutto, l’essere felici di aver azzerato  ogni debito col passato sia a livello politico che a livello culturale, per cui in assenza di punti di vista riconosciuti come autorevoli  ne diventa valido uno qualsiasi.
Non interessano più di tanto credenziali, titoli, o requisiti specifici della fonte dell’informazione.
Vengono fatte le affermazioni che più contrastano con quelle dell’avversario non in nome di una faticosa e comune ricerca di una Verità, di cui da tempo si è perduto il tracciato epistemologico, ma al solo scopo di negare la verità dell’avversario.
Ed ecco che il negazionismo conosciuto a livello dello studio del fenomeno storico si sta allargando a quello dei fenomeni scientifici in genere.

Quello che più quindi disorienta è la mancanza di certezze, di attendibilità, di affidabilità.  La confusione regna sovrana e nel rumore generale è una gara a chi grida più forte.
Il 1989 rappresentò l’anno di una nuova era televisiva caratterizzata da violenti scontri verbali. Fu nel programma di Arnaldo Bagnasco, Mixer cultura, che si celebrò infatti l’inaugurazione della stagione delle risse in TV nella contesa tra i critici d’arte Vittorio Sgarbi e Achille Bonito Oliva.
Seguirono poi altri palcoscenici televisivi che offrirono la possibilità di continuare ad altri attori la spettacolarizzazione dell’ingiuria e della lite a livello mediatico ampiamente ripagata dai picchi di ascolto altissimi.

A livello politico poi  il grande primo cambiamento dello scenario tradizionale, della cosiddetta Prima Repubblica, avviene con la discesa in campo di Silvio Berlusconi.
Con il primo governo Berlusconi, nel 1994, abbiamo una narrazione della politica mai vista prima.
Un imprenditore al governo e un contratto con gli italiani sostituiscono le ragioni dell’economia e dell’interesse a quelle del Bene Comune della politica., contrapposte  alla ragione dei  governi dei professori dei vari Dini, Prodi e, col senno di poi, Monti.

In modo speculare alla Scuola delle tre ‘I’ (inglese, impresa, informatica) venne affidato il compito di condurre al lento declino la Scuola delle conoscenze sostituita da quella delle competenze, richiesta da una Europa portavoce di un mercato a cui necessitava sempre più una forza lavoro caratterizzata da mobilità e flessibilità professionali.

Assistiamo da qui in avanti alla ridicolizzazione di quell’avversario politico la cui profondità di ragionamento intellettuale viene messa alla berlina, da telegenici personaggi politici senza passato che ben padroneggiano la velocità dei tempi televisivi, arena che ben presto costituisce la principale sede del confronto politico.

Tutto il resto è una conseguenza di tali premesse: la crisi della forma partito e la sostituzione con movimenti di opinione o di gruppi validi per una sola stagione, la volgarizzazione del confronto democratico, la sostituzione dell’interesse economico alla tutela dei diritti, la schizofrenia delle leggi di riforma della scuola, la precarizzazione progressiva della condizione giovanile.

In conclusione mi pare  però che non possa esistere alternativa a tale deriva se non nel tentativo, a volte quasi eroico,del proteggere la salute della Democrazia, delle sue istituzioni fondamentali, e, specularmente, nel riportare al centro di ogni interesse la Scuola della conoscenza che da sempre è il più grande ostacolo che si frappone alla barbarie della manipolazione dell’uomo da parte di chicchessia .