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I BAMBINI SENZA CORONA

C’erano una volta, in un piccolo paese vicino ad una piccola città, dei bambini ed una scuola.
I bambini erano come tutti gli altri bambini: diversi gli uni dagli altri perciò unici.
Anche la scuola era come tutte le altre scuole ma anche lei era unica.
Certi bambini avevano un po’ paura della scuola ma ciò succedeva perché lei era grande, loro erano piccoli e ancora non si conoscevano.
Del resto succede così anche agli adulti, pure loro hanno un po’ paura delle cose che non conoscono, anche se non lo dicono. Tutti abbiamo paura di qualcosa e perfino il buio, che di solito spaventa, ha un po’ paura della luce e addirittura il rumore ha paura del silenzio.
Una volta che i bambini avevano imparato a conoscere la scuola, la paura scappava via e lasciava il posto alla voglia di andarci tutti i giorni.
Dentro la scuola i bambini facevano e pensavano tante cose, ne imparavano e ne insegnavano molte e si divertivano insieme ai loro compagni e ai loro maestri.
Dentro la scuola si facevano lezioni, collezioni e, ogni tanto, anche elezioni.
Vicino alla scuola, i bambini imparavano a saltare i fòssi perché questo li aiutava ad affrontare i rischi, a sconfiggere le paure e a conoscersi meglio.
Dentro la scuola i bambini imparavano a non saltare i fóssi perché le maestre e i maestri gli insegnavano a vedere le cose anche da altri punti di vista e, ad esempio dopo un litigio, chiedevano: “Cosa avresti fatto tu se fóssi stato nei panni del tuo compagno?”
Un giorno come gli altri, in quella scuola e in quel paese successe una cosa brutta.
Le notizie scritte sui giornali e dette alla televisione dicevano che stava arrivando una piccola creatura invisibile con una corona stregata in testa che aveva il vizio di volerla mettere addosso a tutti quelli che incontrava per farli diventare più deboli.
Anche se nessuno l’aveva mai vista, tutti si chiedevano perché facesse questa cosa brutta.
Qualcuno diceva che voleva dominare il mondo perché tutti quelli che hanno la corona in testa vogliono comandare.
Qualcuno diceva che era il suo modo di fare amicizia perché quelli che hanno la corona in testa non hanno amici veri.
Qualcuno diceva che quella creatura non contava niente perché oramai quelli con la corona in testa contano meno di quelli che hanno il pelo sullo stomaco, il cuore di pietra e i soldi in tasca.
C’era addirittura anche qualcuno che diceva che quella creatura non esisteva perché nessuno l’aveva mai vista coi suoi occhi.
Per sicurezza, il ministro della scuola di quel paese decise di chiudere le scuole per proteggere tutti e non far ammalare nessuno.
I bambini, come pure i loro maestri e le loro maestre, furono costretti a rimanere chiusi in casa ed erano tristi perché si sentivano soli senza i loro amici e le loro amiche.
La scuola fu costretta a rimanere chiusa ed era triste perché, senza bambini, si sentiva un vuoto dentro.
Tutte le sere, la televisione diceva quante persone erano già state “incoronate” da quella creatura e tutti quei numeri facevano venire ancora più paura a tutti.
Con il passare del tempo però degli studiosi coraggiosi, a forza di fare delle prove dentro laboratori super protetti, scoprirono che quella creatura non era invincibile: ci si poteva difendere e, forse, la si poteva anche sconfiggere.
Infatti loro pensavano che anche lei avesse paura di qualcosa.
Quando quegli studiosi spiegarono in televisione e sui giornali come ci si poteva proteggere da quella magia, dissero:
Regola numero 1. Questo incantesimo è come la puzza di calzini che ti entra dentro nella testa: bisogna coprirsi bene il naso e la bocca con una mascherina.
Regola numero 2. Questo sortilegio è come il fango sporcaccioso che rimane fra le dita e sotto le unghie: bisogna lavarsi le mani molto bene col sapone.

Regola numero 3. Questa stregoneria è come le puzzette che si fanno col sedere quando si è troppo vicini agli altri e poi tutti dicono: “Bleah! Che schifo! Ma chi ha fatto una scoreggia?”: bisogna stare ad una certa distanza dagli altri”.

Quegli studiosi coraggiosi dissero anche che presto si poteva scacciare quella creatura perché stavano preparando una medicina che toglieva la corona dalla testa di tutti quelli che volevano comandare sugli altri.
In questo modo la gente di quel paese e anche i bambini cominciarono ad indossare la mascherina, a lavarsi spesso le mani e a stare un pochino più lontani gli uni dagli altri. Così tutti quanti iniziarono ad avere meno paura perché avevano cominciato a conoscere questa creatura invisibile ma soprattutto perché vedevano che quelle regole funzionavano e gli “incoronati”, per fortuna, erano sempre di meno.
Non era facile rispettare quelle tre regole ma quei bambini capirono, anche grazie ai loro genitori, che solo così si sarebbero potuti ritrovare ancora insieme ai loro amici.
Quei bambini capirono che certe cose, anche se non si vedono, ci sono lo stesso: è il caso della creatura misteriosa con la corona in testa ma anche del desiderio e della paura di andare a scuola che c’è anche se non si vede, come pure della tristezza, della felicità, della rabbia, dell’allegria, della voglia di abbracciarsi e di tante altre cose.
Scoprirono anche che le cose che non si vedono ma ci sono si devono raccontare facendo sentire che sono dentro di noi, se si vuole che gli altri capiscano che ci sono davvero.
Anche la scuola capì che senza bambini non serviva più a niente.
In quei giorni in cui era sola, era talmente triste che aveva pensato addirittura di diventare una discoteca.
Non lo fece perché tutte le volte che guardava i cartelloni con i disegni dei bambini ed i loro autoritratti, appesi sulle pareti delle aule, si emozionava così tanto che le sue finestre piangevano lacrime di nostalgia.
Non lo fece anche perché cominciò a vedere un viavai di insegnanti che misuravano, che spostavano, che appiccicavano, che sistemavano e questo le fece pensare che qualcosa stesse per succedere.
La scuola aveva ragione: qualcosa stava per succedere. Lo sentiva la scuola, lo sentivano i bambini, lo sentivano i genitori e lo sentivano anche i maestri.
Stava per succedere qualcosa di importante, di meraviglioso, di incredibile: i bambini sarebbero tornati a scuola!!!
Finalmente, quel giorno arrivò ed assomigliava proprio ad una bella giornata come quella di oggi…

Come finisce questa storia io non lo so… anche perché questa storia non ha un vero e proprio finale; potrebbe averlo, se lo volesse, ma non ce l’ha.
Potrebbe finire con un “…e vissero tutti felici e contenti senza la corona in testa” ma non ci crederebbero nessuno, neanche i bambini.
Potrebbe finire con la creatura invisibile con la corona in testa che scivola su una buccia di banana, cade su una cacca di cane, si sporca, diventa riconoscibile così le mosche la vedono, la catturano e la portano nella loro prigione di cacca puzzolente.
Potrebbe finire con una bella creatura con le ali che si innamora della creatura con la corona e insieme volano via lontano e la scuola diventa un supermercato dove i bambini ci vanno a fare la spesa con i loro genitori per comprare il formaggio col sapere, il minestrone scientifico, la macedonia di congiuntivi e congiunzioni e le frottole fritte.
Potrebbe finire con la scuola che si riempie di bambini di legno che stanno sempre fermi, zitti, non si ammalano mai e i maestri non sanno più cosa e a chi insegnare.
Potrebbe finire con un super eroe che arriva su un astronave a forma di bombolone, sconfigge l’essere invisibile sparandogli con il suo cannoncino alla crema e tutto torna come prima.
Oppure questa storia potrebbe finire con quei bambini che ritornano finalmente a scuola… ma allora non sarebbe una fine ma l’inizio di un’altra storia che è tutta da inventare e da costruire insieme.
È proprio così: questa storia, in verità, sta solo cominciando e come continuerà dipenderà da tutti quelli che vogliono farla proseguire bene: dai bambini ai genitori, dai maestri al ministro della scuola, dalla creatura invisibile agli studiosi coraggiosi.
A tutti quelli che vogliono continuare questo viaggio, deve essere chiara una cosa: non si incontreranno super eroi, streghe, maghi o fattucchiere ma soltanto bambini e adulti che insieme vorranno imparare, vorranno conoscere, vorranno divertirsi e, soprattutto, vorranno imparare a conoscere divertendosi.

In questa scuola che va a cominciare
non ci sono supereroi a cui telefonare.
Ci sono insegnanti, genitori e bambini
che desiderano un futuro senza confini.
Ci sono lezioni che si possono imparare
altre invece che si sceglie di insegnare.
Ci sono desideri e speranze a volontà
che vogliono migliorare questa realtà.
In questa scuola che va a cominciare
c’è un mondo nuovo: è tutto da fare.
Se anche tu, con noi, lo vuoi costruire
non devi far altro che unirti e partire.
Non serve il biglietto, vieni anche tu,
partiamo insieme, coraggio, salta su!

PER CERTI VERSI
I ghiacciai se ne vanno

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
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* Dedicato allo scioglimento del ghiacciaio del mandrone sull’Adamello

I GHIACCIAI SE NE VANNO *

I ghiacciai se ne vanno
Non salutano
Urlano
Il loro rauco
Spaventoso addio
Collassano
Gli enormi
Liquefatti compagni di vita
Sbarcano nel caldo che li ha uccisi
Annegano
Nella loro acqua
Sono sempre meno
Sempre più piccoli
Quanto più grande
La nostra inerzia
La nostra cecità

Gli struzzi
Gli struzzi

PRESTO DI MATTINA
Il segreto del tempo

Il segreto del tempo l’ho imparato in montagna, soprattutto al Passo della Passo della Mendola dove ci recavamo quand’ero in seminario. Ogni giovedì c’era l’appuntamento con la gita lunga; si dormiva anche in rifugio. Civetta, Catinaccio, Brenta, il Sentiero Orsi e la Ferrata Tridentina e le sue sorelle sul Sella, la Grande Fermeda nel gruppo delle Odle. Ma un’analoga esperienza l’ho sperimentata anche con i campi estivi della parrocchia; percorsi meno impegnativi, ma pur sempre su sentieri impervi, ripidissimi, a Dobbiaco e nella zona del Ortles.

Salire per incontri, mi dicevo ogni volta alla partenza. Si va a scuola dalle montagne a imparare il segreto del tempo. Un momento ti libera, e poco dopo ti imprigiona, ti rallegra e ti impaura, t’avvicina e t’allontana; sei legato e sciolto, sotto sopra, come in una lotta. Come Giacobbe ferito, rimani nello scontro e impari così la pazienza, il segreto del tempo: una ferita d’anca, ma più ancora il dono di una presenza, uno scambio: nel volto dell’altro il tuo, dalla sua libertà la tua.

Salire per incontri che non si dànno mai che per un istante lunghissimo. Che fanno la coscienza profonda di una profondità finissima, sigillo messo sul cuore, sigillo di un abbraccio (Ct 8, 6).

Salire per incontri, e subito non sai che entrando in ogni passo crei la distanza, misura del tempo con l’altro. Come attraversando il Polo, l’ago nella bussola si volge indietro e tu invece di seguirlo ti allontani. Eppure, salendo più in alto, il vento tra le rocce ti sussurra piano: è il tempo del disgelo degli affetti, del dono di un incontro che trasforma. E una volta giunto, è il tempo di sottomettergli il cuore, perché il tempo, non diversamente dall’amore, dischiude in modo promettente le potenzialità della libertà. «Dammi il tuo cuore e i tuoi occhi prendano piacere nelle mie vie» (Pr 23,26); si dice ancora nel Cantico: «Un ricordo è l’inverno e, caduti i piovaschi, torna la terra coi fiori a sorridere. Alzati, amica mia, mia bella, e vieni. O mia colomba, che stai nelle fenditure delle rocce, nei nascondigli dei dirupi, fammi vedere il tuo viso, fammi udire la tua voce, perché la tua voce è piacevole, e il tuo viso è leggiadro» (2, 11; 14).

Ecco: il segreto del tempo va riconosciuto come il ‘poter essere dello scambio’, come poter essere ‘della relazione e della stessa libertà’. Lo coglie con icastica efficacia il monaco Ghislain Lafont secondo cui «Il tempo fa emergere la simbolica dello scambio e quella dell’altro». In ogni tempo infatti ci è data la possibilità di far nascere e avviare relazioni in cui la libertà si rischia nell’incontro, come dono di sé, come amore appunto. È il darsi del tempo ‘qualificato’, ‘di qualità’, che riscatta il ‘tempo qualunque’. Kronos è salvato dalle acque dell’oblio, dell’inutile e dell’evanescente, da Kairos, il tempo opportuno, propizio per un evento: «sorpresa dopo tanto di un amore»; incontro che trasforma; passaggio di soglia, dimora provvisoria, ma necessaria per realizzare passi di comunione.

Questa economia del tempo, dell’avanzare e del ritrarsi, segnata dalla discontinuità e dalla ripresa, ci rassicura che anche nei momenti di rottura, nelle fasi di perdita, che rendono la vita stanca, insignificante e vuota si nasconde novità, l’apparire di qualcosa simile ad un nuovo inizio, una «rottura instauratrice» ‒ direbbe Michel de Certeau ‒ che mette di nuovo tutto in movimento.

E come non pensare, parlando di “rotture instauratrici”, al Concilio Vaticano II: una “discontinuità nella continuità” per l’officina bolognese della Storia del concilio in cinque volumi; per Benedetto XVI una continuità nella riforma. Che Papa Francesco ha voluto riprendere con l’Evangelii gaudium, esortando le comunità cristiane ad essere chiese in uscita, con stile sinodale per una riforma missionaria. Egli ci invita a «prendere l’iniziativa, coinvolgersi, accompagnare, fruttificare e festeggiare….Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordinaria in tutte le sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di “uscita” e favorisca così la risposta positiva di tutti coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia» (n. 27).

Per realizzare questa conversione Francesco indica quattro principi generativi di prassi pastorali, in contesti di tensioni bipolari proprie di ogni realtà ecclesiale e sociale (EG 221). Tra di essi, vi è l’affermazione, sulle prime oscura ma in realtà pregna di implicazioni, secondo cui il tempo è superiore allo spazio. «Vi è una tensione bipolare tra la pienezza e il limite. La pienezza provoca la volontà di possedere tutto e il limite è la parete che ci si pone davanti. Il ‘tempo’, considerato in senso ampio, fa riferimento alla pienezza come espressione dell’orizzonte che ci si apre dinanzi e il momento è espressione del limite che si vive in uno spazio circoscritto. … Questo principio permette di lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati. Aiuta a sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà impone. È un invito ad assumere la tensione tra pienezza e limite, assegnando priorità al tempo».

Se anche nella Chiesa si privilegiano gli spazi di potere, invece che la pazienza dei tempi necessari al divenire dei processi, si cade nella corsa all’autoaffermazione, si dimentica il bene comune in favore di quello individuale. Quando è lo spazio a prevalere sul tempo, si finisce per arraffare il più possibile, rincorrendo l’attimo fuggente per escludere ogni concorrenza. In questo modo, tutto si congela, dalle riforme ai processi di trasformazione, scadendo nel tradizionalismo del ‘si è sempre fatto così’, che mortifica sul nascere ogni spinta innovatrice. Così ci si ripiega sull’assistenzialismo che genera dipendenza spirituale, liturgica, sacramentale, invece di attivare processi di lungo periodo, di favorire una conversione dello sguardo: dalle strutture alle relazioni e ai volti delle persone e alle loro storie. «Dare priorità al tempo – dice Francesco ‒ significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci».

C’è un passaggio nel documento della Congregazione del Clero uscito un mese fa sulla “conversione pastorale della comunità parrocchiale”, che si riferisce a un territorio esistenziale in cui devono ripensarsi e ricollocarsi le parrocchie, anche quelle riunite in “unità pastorale”. Ciò mi ha richiamato alla mente il pensiero di Padre Yves Congar, uno dei padri dell’ecclesiologia conciliare, il quale parlava, oltre che del vangelo della gioia, di una “Chiesa della soglia“, dai confini più fluidi, abitata anche da persone con una fede in ricerca di speranza.

Un’immagine, quella di una Chiesa in uscita e in ascolto, che ben ritrovo in due haiku giapponesi, che suscitarono il benevolo sorriso dei miei confratelli quando glieli riportai durante un incontro: «La campana del tempio tace,/ ma il suono continua/ad uscire dai fiori». Matsuo Basho (1644 – 1694); «Spuntano i germogli/ al tronco di un grande albero/ Poggio l’orecchio». Ozaki Hosai (1885-1926). Con queste immagini, allora come adesso, vorrei sottolineare l’importanza di ripartire dalle relazioni, sia a breve come ad ampio raggio, e la necessità dello stare insieme, di perdere tempo con le persone, creando narrazioni vitali e reti di comunicazione sensibili ad un territorio divenuto prevalentemente esistenziale.

«Nelle trasformazioni in atto ‒ così l’istruzione della Congregazione ‒ nonostante il generoso impegno, la parrocchia talora non riesce a corrispondere adeguatamente alle tante aspettative dei fedeli, specialmente considerando le molteplici tipologie di comunità. È vero che una caratteristica della parrocchia è il suo radicarsi là dove ognuno vive quotidianamente. Però, specialmente oggi, il territorio non è più solo uno spazio geografico delimitato, ma il contesto dove ognuno esprime la propria vita fatta di relazioni, di servizio reciproco e di tradizioni antiche. È in questo “territorio esistenziale” che si gioca tutta la sfida della Chiesa in mezzo alla comunità. Sembra superata quindi una pastorale che mantiene il campo d’azione esclusivamente all’interno dei limiti territoriali della parrocchia, [pastorale] che appare segnata dalla nostalgia del passato, più che ispirata dall’audacia per il futuro».

CONTRO VERSO
Filastrocca delle occasioni perdute

I bambini hanno pazienza con i loro genitori. Tanta, tantissima. Ma non infinita. E le chance che gli adulti lasciano cadere finché i figli sono bambini, non è detto restino aperte per sempre.

Occasioni perdute

Papà, papà, dove è andato il mio papà?
Gli voglio bene anche se non è qua.
Lui fa barchette con gli stuzzicadenti,
fende i marosi, affronta i delinquenti,
esploratore per mare o nel deserto.
Chiamo il suo nome, lo cerco a cuore aperto.

Il mio papà, l’aspetto tutto il giorno.
È super forte, attendo il suo ritorno.
Quando verrà ve la farà vedere,
voi siete scemi e non potete capire.
Lui mi ha promesso un pc, la bicicletta
e io gli credo, il mio cuore l’aspetta.

Mio padre, mah… Qualcuno l’ha veduto?
L’ho visto un giorno e non l’ho riconosciuto.
È ancora lì, in cima ai desideri
e l’ho aspettato, giudice, anche ieri.
C’era la recita, quella di Natale.
Io l’ho invitato ma… Forse stava male.

Quel signore, quello a cui assomiglio?
Sì e no che sappia d’avermi come figlio.
Lui non mi cerca, dice che ha paura,
“sono i servizi”, “è tutta una congiura…”.
Passano gli anni i mesi e anche i minuti,
passano i giorni e noi figli siam cresciuti.
Passano gli anni e il conflitto si è risolto:
per me mio padre è come fosse morto.

Ci sono tante unità di misura del tempo. Quella della crescita di un bambino è particolare, ha il passo svelto, più di quanto occorre ai genitori per assestarsi, vincere una dipendenza, riscoprire le proprie priorità.
Ho incontrato in anni diversi bambini che alla prima udienza venivano pieni di desiderio, speranza, mancanza per i genitori lontani ad affrontare i loro problemi, e in seguito imparavano a convivere con quel vuoto, o lo riempivano altrimenti, e si disinteressavano di quel padre o di quella madre che erano tali solo per un legame di sangue.

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia  il venerdì.
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

PANDEMIA: CHI CI GUADAGNA
Riparte l’economia, salgono i profitti e cresce la diseguaglianza

E’ stato detto praticamente da tutti. “Niente sarà più come prima”, da questa crisi sanitaria, economica e sociale usciremo diversi da come ne siamo entrati, in meglio o in peggio.
Penso allora sia sensato vedere ora, a qualche mese di distanza dall’emersione della pandemia Covid, qual è la direzione che si sta intraprendendo, quali sono le intenzioni in campo, sapendo che, peraltro, nessuna tendenza è già consolidata e che, da qui al prossimo anno-anno e mezzo molto può succedere. Però, per l’intanto, diverse cose si possono già dire. Ci si è molto soffermati sia sul tema del crollo della produzione, del deficit/debito pubblico in forte crescita e sulle sostanziose risorse che ci arriveranno dall’Europa, alimentando, da ultimo, anche un certo ottimismo, di un “rimbalzo” maggiormente positivo del previsto degli indicatori economici.
A me interessa, però, provare a prendere le questioni da un altro punto di vista, e cioè quello della crescita delle disuguaglianze e della perdita di reddito e lavoro.
Già il Governatore della Banca d’Italia Visco, nella sua relazione annuale di fine maggio, avvertiva che “per le famiglie che prima dell’emergenza sanitaria erano nel quinto più basso della distribuzione (del reddito), la riduzione del reddito sarebbe stata due volte più ampia di quella subita dalle famiglie appartenente al quinto più elevato”.
Se poi allarghiamo lo sguardo, sono di particolare interesse gli studi dell’Ong Oxfam sulle conseguenze della pandemia: quello uscito ad aprile stimava in circa 500 milioni le persone nel mondo che, a causa di essa, avevano incrementato il numero di quelle collocate sotto la soglia di povertà, mentre quello, uscito qualche giorno fa, segnala l’impennata dei profitti previsti nel 2020 di 32 aziende multinazionali più grandi nel mondo, in particolare i colossi tecnologici, farmaceutici e del commercio online. Si parla di circa 109 miliardi di $ in più rispetto alla media degli ultimi 4 anni, destinati per l’88% alla distribuzione tra gli azionisti. Sempre Oxfam stima una perdita di 400 milioni di posti di lavoro nel mondo nell’ultimo semestre. Per tornare all’Italia, l’Istat ha da poco diffuso i dati sull’occupazione del secondo trimestre del 2020. Rispetto allo stesso periodo del 2019, il numero di occupati scende di 841 mila unità (-3,6% in un anno): calano soprattutto i dipendenti con contratti a termine (-677 mila, -21,6%) e continuano a diminuire gli indipendenti (-219 mila, -4,1%) e quasi la metà di questa diminuzione riguarda la fascia d’età sotto i 35 anni.

Insomma, tutto lascia pensare che ci si stia avviando in un mondo ancora più diseguale di quanto lo era già prima del Coronavirus e dove il lavoro ( e il reddito) si riduce, diventa sempre più precario e povero.
Il punto, però, è che queste non sono tendenze naturali o spontanee. C’è chi lavora per questi obiettivi, chi, come peraltro è avvenuto anche per altre grandi crisi del passato, pensa che questa sia una ricetta, se non proprio giusta, perlomeno necessaria.
Poteri economici e finanziari potenti
, multinazionali e anche nostrani, che, per riprendere un celebre aforisma del noto magnate della finanza Warren Buffett, pensano che  “la lotta di classe esiste eccome, e la stiamo vincendo noi”. Di fronte ad una crisi reale del meccanismo di accumulazione capitalistico e anche della sua versione finanziarizzata, si ragiona, da una parte, sul fatto di creare nuovi prodotti/mercati ( da un salto potente verso la digitalizzazione e infomatizzazione del mondo all’estensione del mercato nei beni ambientali) e, dall’altra, ad una conseguente e ridefinita sottomissione del lavoro e della cittadinanza a quest’imperativo.
Prendiamo, per ragionare in piccolo, la Confindustria di Carlo Bonomi. Dopo aver sparso contumelie a destra e manca su un presunto spirito antindustriale che aleggerebbe nel Paese, ora scopre le proprie carte: “rivoluzionare” i contratti di lavoro e “riformare” il sistema degli ammortizzatori sociali. Dove il primo proposito significa riconoscere aumenti salariali irrisori ai 10 milioni di lavoratori dell’industria con contratti nazionali scaduti ( e 3 milioni del settore pubblico), però ricompensati da tanti buoni pasto e risorse per la sanità e previdenza integrativa detassata e privatizzata. Ancor più, per questa via, di fatto ridurre il contratto nazionale ad un simulacro e lasciar spazio alla contrattazione aziendale come leva principale per il riconoscimento salariale e professionale. Il secondo obiettivo, la “ riforma” della cassa integrazione, poi, consisterebbe fondamentalmente nel lasciare ancor più mano libera alle aziende di espellere i lavoratori “esuberanti”, a cui corrispondere una qualche indennità e incentivo per la loro futura ricollocazione (?).
Non  si fa fatica a vedere in quest’impostazioni un’idea per cui il lavoro deve essere sempre più subordinato alle logiche aziendali, di volta in volta fidelizzato o ricattato, in una situazione di sempre più estesa precarietà, che, questa sì, diventa progressivamente la condizione normale del lavoro. Facendo della “solitudine competitiva” delle persone rispetto agli imperscrutabili andamenti di mercato la cifra della dimensione sociale e del lavoro in questi e negli anni a venire. Peraltro, a fronte di ciò, stupisce leggere nelle “Linee guida per la definizione del Piano nazionale di ripresa e resilienza ( quello per accedere al Recovery fund, per intenderci) predisposto dal governo che occorre “incentivare la produttività del lavoro con il rafforzamento degli incentivi fiscali al welfare contrattuale e la promozione della contrattazione decentrata”.

Per fortuna, la prospettiva delineata sopra non è né ineluttabile, né così forte. Anche durante la vicenda della pandemia, è potenzialmente emerso un altro punto di vista, quello che parla di una “società della cura” anziché di una “società del profitto”. C’è una percezione diffusa del fatto che l’obiettivo del massimo profitto e la crescita del PIL non possono essere assunti come regolatori di fondo degli assetti sociali e produttivi, soprattutto quando parliamo di beni comuni.
E un’altrettanta domanda diffusa di sanità pubblica, Welfare universalistico, sviluppo orientato da finalità sociali, creazione e redistribuzione di buona occupazione. Per tramutare tutto questo in un processo che possa concretamente realizzarsi serve, però, uno scatto in avanti: del movimento sindacale, che dovrebbe rinnovare la propria rappresentanza e essere capace di unificare le varie figure del lavoro, a partire da quelle più deboli e precarie, dei movimenti sociali, che sono chiamati a superare frammentazione e settorialismi, più in generale, della sinistra politica che dovrebbe avvertire la necessità di delineare anch’essa un progetto alternativo di società. Penso che bisogna almeno provarci.

GLI SPARI SOPRA
La dittatura dell’ignoranza

Hanno ragione loro.

Smettiamola di nasconderci dietro a un dito, i falsi buonisti, i radical chic, i prototauristi, i polifosfati, gli etnocentristi. Diciamolo chiaro e forte, viviamo in una dittatura, che ci chiude in gabbia, che ci incatena, che limita la nostra libertà. E’ ora di dire basta! (clicca se sei indignato)

Viviamo nella dittatura, sì, ma dell’ignoranza.

La forza fisica e la sopraffazione come valori fondanti di un branco di vacui palestrati, che con quella merda di testosterone che si ritrovano al posto del cervello uccidono un ragazzo, indifeso, magro, mille volte più uomo di loro. Non una rissa tra pari, ma una esecuzione, una fascista spedizione punitiva.

Dice ma perché ci metti sempre di mezzo la politica?

A parte che il fascismo non è un opinione ma un crimine, e poi le esecuzioni di tanti contro i pochi hanno lo stile e il marchio delle camice nere del ventennio. Tutto qui.

I muscoli dei mariti che picchiano le mogli, i muscoli cerebrali dei finti intellettuali che offendono e denigrano la dignità umana con frasi di una violenza pari alle botte, ma pure i timorati di Dio che sputano sentenze e giudizi estetici e fetidi nella fogna dei social network.

Sì, viviamo in una dittatura, dove la forza fisica fa la differenza, dove masse di pecore senza testa si agglomerano in piazze, nella convinzione di essere antisistema, quando loro stessi sono il sistema, l’appecoramento di una vuota umanità senza rispetto per gli altri.

Portare o meno una mascherina non è una scelta personale, perché chi non la porta sceglie anche per gli altri.

Il muscolo più atrofizzato, in questa fetente dittatura, è quello del cuore. Masse informi di vendicatori, pronti a difendere l’orgoglio italiano bruciando immagini e uccidendo l’umanità.

Come rispondere a tutta questa violenza, fisica e psicologica? Come può reagire quella parte di umanità schiacciata dai soprusi di un’ oligarchia dell’atrofia celebrale?

Io di mio non ho una gran capacità di porgere l’altra guancia, ma veramente mi sento a disagio nel commentare questo mondo, sempre più lontano e sempre più cattivo.

E badate bene: l’ignoranza che ci schiaccia, nulla c’entra con la cultura. Esiste gente ignorante con fior di lauree.

Certo lo studio, la lettura aiutano a combattere la dittatura, ma non sono sufficienti. Occorre debellare l’arroganza, la prepotenza, il sopruso, la convinzione di onnipotenza, data dai muscoli, dai titoli o da una tastiera nascosta nell’ombra.

Non è possibile un confronto con esseri di siffatta risma. L’ignorante non ha dubbi, naviga in un mare di certezze. Le regole che valgono per gli altri non valgono per il forzuto dall’intelletto monocellulare.

Dove ha sbagliato Darwin? Dove si è fermata l’evoluzione della specie ed è cominciata l’involuzione, perchè la democrazia non riesce a tutelare le persone più deboli? A quando una rivoluzione che spazzi via i miasmi della violenza e dell’odio? Forse mai. Siamo troppo occupati a vivere le nostre vite difficili, cercando di stare a galla, come dice Vasco, sopra a questa merda.

La famiglia, la scuola, l’esempio, forse non sono più sufficienti. Spero un giorno di poter vedere questi mezzi uomini e mezze donne incriminati per reati contro l’umanità. Quell’umanità ammazzata su una strada di periferia. Il suo nome era Willy ed era un uomo.

I suoi carnefici, degli infami topi di fogna.

PAROLE A CAPO
Lucia Trimarchi: “Il buio dentro non sparirà” e altre poesie

“La poesia non è stata scritta per essere analizzata. Deve ispirarci al di là della ragione, deve commuoverci al di là della comprensione.”
(Nicholas Sparks)

 

L’amore inventa favole 

L’amore segue le ombre
e non può ripetersi.

Mutando forma
e soffiando bolle,
crede alla magia
e inventa favole.

Accarezza la notte
più della luna.

L’amore non può essere,
perché è divenire.

Si crede fiume
e diventa mare
e ti lascia naufragare.

L’amore accoglie e abbandona.

E il domani può
vacillare,
tra un “ti penso”
e un “ti avrò”.

Cosa sento proprio ora?
Vorrei giocare
ma non so amare.

 

Il buio dentro non sparirà

Amare.
Possedere.
Imprigionare.
Disperare.
Non voglio più pensare.

Sei lava.
Il mio cuore piange fuoco.

Sei spada.
Squarcia
ogni stabilità.

Un cielo di stelle,
precipiti.

Senza recupero,
alcuna rete per me
che attutisca le cadute.

Non ti cerco più.
Non cercarmi tu.

Crederti.
Amarti.

Hai un gioco fra
tutti questi astri e
rubi la mia luce.

Anche la tua.
Il buio dentro non sparirà.

 

Non ho che me stessa

Non ho il cielo in una mano.
Né il mare o i suoi gabbiani.
E neppure te.
Con la tua creatività.
Non ho vento fra le mie nuvole.
Né la neve bianca.
E neppure noi.
Non ho gemme da indossare.
Né un sorriso per nutrirmi.
E neppure
questo unico motivo per sollevare
Il mondo.

Non ho che me stessa.

 

 

Lucia Trimarchi, Venezia (1972), studia Lettere e Filosofia e restauro dei Beni Culturali nella città di Udine.Si dedica alla poesia dal 2010, pubblicando alcuni versi con Aletti Editore. L’autrice scrive favole fantasy, stampando una raccolta di racconti nel 2017 con il titolo L’Alfabeto di Bu. Si dedica al mondo dell’infanzia, ideando nuove storie e attualizzando favole medioevali in un contesto scolastico attraverso il teatrino dei burattini. Di prossima uscita il nuovo libro L’Oceano dei silenzi.
Lavora ad un progetto per la realizzazione di audio storie, per raggiungere con i propri racconti anche coloro che non possono leggere.
www.alfabetodibu.it

 

La rubrica di poesia Parole a capo esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia.
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BUFALE & BUGIE
Chi è il nuovo untore?

L’ansiogena rincorsa all’ultima novità sull’argomento dell’anno non dà segni di allentamento, e chi non si è mosso sin da gennaio a studiarlo e approfondirlo non può sperare proprio ora di recuperare con semplicità il bandolo della matassa.

La caccia all’untore prosegue, tocca adesso alle giovani generazioni. Ce ne dava notizia l’Ansa, il 20 agosto, con un titolo e un articolo certi del contenuto: “Coronavirus, i bambini sono diffusori silenziosi”. L’agenzia di stampa ha tuttavia ignorato il contesto in cui si inserisce lo studio scientifico, dimenticando di segnalare diversi elementi imprescindibili per la sua corretta comprensione. Per cominciare, si tratta di un articolo in attesa di pubblicazione e ancora suscettibile di modifiche prima della versione finale. Venendo alla ricerca condotta, essenziale risulta il campione stabilito e testato: 192 individui fino ai 22 anni di età, con sospetta infezione [vedi qui] da SarsCov-2, che si sono presentati al pronto soccorso, o che sono stati ricoverati per sospetta o confermata infezione da SarsCov-2, oppure per la presenza della MisC, la sindrome infiammatoria multisistemica pediatrica, al momento ritenuta associata e non causata dal germe menzionato. La metodologia principale usata per indagare la positività al virus è stata quella del tampone oro-nasofaringeo, analizzato tramite la tecnica della Real Time Polymerase Chain ReactionReal Time Pcr – , utilizzata per quantificare le espressioni geniche, esaminare le variazioni riscontrate e misurare la quantità di sequenze degli acidi nucleici in determinati campioni. L’inventore della Pcr, il Nobel Kary Mullis, sottolineava tuttavia come la propria creazione permettesse di scovare sequenze genetiche di virus, ma non i virus stessi. I limiti dei tamponi nelle analisi diagnostiche, tra falsi positivi e falsi negativi, sono ampiamente conosciuti, così come la possibilità che presentino contaminazioni e che non vengano effettuati correttamente [vedi qui], divenendo un rischio per la salute pubblica e individuale. I risultati dello studio, circoscritti dai paletti che abbiamo dovuto evidenziare, fanno emergere pertanto una ipotetica carica virale più alta, nelle vie respiratorie dei soggetti attenzionati, rispetto ai pazienti adulti ricoverati nelle terapie intensive. Il che non equivale a una maggiore contagiosità, nonostante la notizia italiana sia quasi interamente concentrata su questo aspetto. Per di più, dalla lettura si rischia di cadere nel tranello che assimila il microbo a una malattia: dire che le bambine e i bambini non sono immuni dal virus, nel senso che possono ospitarlo, non significa dire automaticamente che possano esserne attaccati tanto da veder insorgere una patologia.

Scoperta una nuova fonte di contagio? No. Il paper prossimo alla pubblicazione non aggiunge nulla alle conoscenze attuali sulla diffusione del SarsCov-2, tantomeno sulla vulnerabilità degli individui più giovani alla Covid-19.

BUFALE & BUGIE, la rubrica di controinformazione di Ivan Fiorillo esce ogni mercoledì su Ferraraitalia. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui]

Vite di carta /
I libri sono oggetti perfetti, scatole di storie

Vite di carta. I libri sono oggetti perfetti, scatole di storie

Di mercoledì una settimana fa a Mantova è cominciato il Festivaletteratura, giunto alla ventiquattresima edizione. Ho perlustrato il programma con avidità, prima di scegliere sabato 12 settembre come mio giorno mantovano. Ne scrivo quando questo giorno è appena passato, e che giorno. Marina è venuta con me e ha fatto la scoperta del Festival; che bella atmosfera abbiamo condiviso tra uno scrittore in presenza, anzi due (Fabio Geda e Sandro Veronesi) e un collegamento web con l’immenso Noam Chomsky.

L’aria che si respira a Mantova tra il mercoledì e la domenica del Festival è sempre stata questa: un concentrato di idee, di parole, di riflessioni che riempiono la città. I tanti luoghi deputati agli eventi sono come dei catalizzatori, attorno si può sentire passando il loro effetto alone, si sentono spezzoni di idee col loro richiamo.

Poi negli spazi tra un evento e l’altro vive la città con la sua leggerezza di fine estate, tutto è animato: bar, negozi, stand di gadget e pubblicità. Dimenticavo, ristorantini e gelaterie. Convivono che è un piacere la leggerezza di chi passeggia per godersi il centro, così bello, e il magnetismo che si sprigiona dagli incontri tra intellettuali e pubblico. Magari lì a due passi, sotto un tendone o nel cortile del Castello.

Marina sentiva con me la forza, dicevamo insieme ‘la catena delle idee’ che ci passava accanto e si poteva afferrare con presa sicura. Quasi un fatto fisico. Un bel passo avanti, dopo i lunghi mesi passati, in cui abbiamo caparbiamente insegnato da casa, lei Inglese e io Italiano, ai nostri studenti diventati dei pixel su uno schermo. Senza il contatto diretto, senza vedere cosa c’è sotto il piano della scrivania, mentre parli, o mentre ascolti, o scrivi appunti. E invece.

Nell’incontro di sabato si è vista bene la giovialità di Geda dai suoi gesti rassicuranti verso Enaiatollah, che gli sedeva accanto e pareva piuttosto emozionato prima di prendere la parola. Si è vista bene la nonchalance di Veronesi, giunto al suo secondo premio Strega, che simpaticamente ha manifestato la sua soddisfazione e ha evitato di apparire tronfio, trasformandola nella metafora del gioco del tennis. Pare che ora potrà chiedere ad Adriano Panatta di giocare con lui, non mi sembra poco….

Non ho un libro particolare a cui fare riferimento, stavolta si parla di ‘libri’. Non dico ‘parlo in prima persona’, perché ne hanno discusso i relatori sopra nominati a Mantova e io mi inserisco nello spazio delle loro sollecitazioni. Si parla dunque del libro come prodotto di una intenzione e del libro come oggetto.

Geda ed Ena hanno spiegato ampiamente come mai hanno deciso di scrivere Storia di un figlio, che continua la narrazione incominciata undici anni fa con Nel mare ci sono i coccodrilli, uscito nel 2010. Un bel libro, toccante e spontaneo, che mi ha conquistata e che è piaciuto anche agli studenti che ci hanno lavorato con me; nella loro spontaneità avrebbero voluto conoscere Ena di persona. Intanto Ena voleva smettere di incontrare il pubblico, smettere di ricostruire a ogni presentazione del libro la sua odissea durata quattro anni dall’Afghanistan all’Italia; sentiva il bisogno di concentrare le forze sul proprio presente, di costruirlo con nuove energie.

Poi il passato si è ripresentato a chiedergli il conto, lo ha spinto a guardare indietro, a saldare tra loro gli anni del viaggio e quelli di oggi, a ricostruire la vita difficile che la madre e la famiglia rimasti in Afghanistan hanno condotto nello stesso lasso di tempo.

A Mantova è stato lui a chiarire al pubblico la ragione che lo ha convinto a esporsi scrivendo, ancora una volta insieme a Fabio, un secondo racconto di sé, e la ragione è che si sente responsabile verso gli altri migranti meno fortunati di lui. Ena vive in Italia con lo status di prigioniero politico da ormai dieci anni, ha finito gli studi arrivando a laurearsi, lavora e ha una compagna. E’ ancora in attesa di risposta alla sua domanda per ottenere la cittadinanza italiana. Si interessa del suo paese, vorrebbe fare attività politica utile all’Afghanistan e alla etnia hazara di cui fa parte, ha contatti regolari con la famiglia.

Nel dibattito con Domenico Quirico, che faceva da sagace moderatore dell’evento ha evidenziato una conoscenza e un coinvolgimento totali nelle cose afghane. Dunque la responsabilità e l’impegno: su questo si regge il progetto del suo racconto numero due.

Quattro ore dopo nella stessa piazza Castello l’architetto e scrittore Sandro Veronesi, incalzato da Chiara Valerio, ha parlato, sia del suo ultimo libro, Il colibrì, vincitore del Premio Strega 2020, sia dei libri in generale come oggetti. Ha toccato anche altri temi per me avvincenti, come il rapporto tra narrazione e poesia, ma ora mi pare intrigante continuare a prendere in considerazione il libro. Ne ha scritti molti Veronesi, quando è uscito ho letto Caos calmo, vincitore dello Strega nel 2006, ora ho sul comodino Il colibrì e presto comincerò a leggerlo, col viatico privilegiato delle suggestioni che ha dato l’autore a Mantova.

“Che oggetti sono i libri? Sono oggetti perfetti” ho scritto nei miei appunti. Perfetti come il mattone, che per un architetto è un elemento fondamentale: i mattoni sono rimasti uguali a se stessi nei secoli, sono solo diminuite le dimensioni. Come del resto è accaduto ai libri che dopo Gutenberg e la diffusione dei volumi a stampa si sono fatti più piccoli e ora, nell’epoca della alfabetizzazione di massa, sono diventati tascabili. I libri sono uguali a se stessi e al tempo stesso estremamente versatili: hai tra le mani un parallelepipedo, lo stesso da almeno seicento anni, ma dentro puoi trovarci una infinità di contenuti diversi, di storie diverse.

I libri funzionano sempre, basta un po’ di luce che ne permetta la lettura. Per tutti questi motivi secondo Veronesi l’avranno sempre vinta sull’eBook. In più sono belli, si toccano con piacere e, aggiungo io, profumano, vanno annusati appena usciti dal cellophane. Da ultimo, in onore di Marina dirò last but not least, arredano. E giù con l’aneddoto di quando Veronesi lavorava presso una casa editrice (mi pare) ed elargiva copie di libri molto belli, ma rimasti invenduti a una platea di giovani ingegneri che stavano mettendo su casa e dovevamo allestire gli scaffali del soggiorno.

Sul libro come arredo ho le mie esperienze. Nel mio studio i libri sono identitari e occupano un posto molto pensato, ognuno per il contenuto che ha, ma anche per le dimensioni e il colore. Sono altrettanto convinta, però, di come arredino in modi diversi le case degli altri. Veronesi mi ha fatto proprio ridere con la storiella dei giovani ingegneri, ma avrei potuto aggiungere i libri che ho visto invecchiare sugli scaffali di certe sale da pranzo, tutti ancora nel loro cellophane e di altri volumi finti, fatti di legno e vuoti dentro che ho visto a casa di qualche compaesano. Facciamoci coraggio: una cosa in comune ce l’anno tutti quanti, ed è che vanno spolverati ogni tanto.

Ma torniamo alla lettura, per dire che raccolgo volentieri la sfida: vado al Festivaletteratura di Mantova dal 1999 e faccio incetta di stimoli a conoscere un mondo di libri. Questa volta i primi da leggere saranno i due di cui ho appena parlato. Anche il lettore, che è parte attiva nel circuito comunicativo instaurato dal testo, ha un suo progetto quando apre un libro e lo mette in relazione con quello dell’autore.

Leggerò Storia di un figlio, cercando di conoscere più a fondo la famiglia di Ena, la sua etnia e il suo paese; prenderò in mano Il colibrì e dentro il parallelepipedo scoprirò le esperienze di vita di Marco Carrera, uno capace di sbattere le ali per mantenersi uguale a se stesso, e conservare la propria energia vitale ed essere resiliente. In fondo, si dice che ogni scrittore è autore di un solo libro. Anche il lettore: in fondo, ognuno di noi legge per sentire parlare dell’ universo mondo e per riferire ogni cosa a se stesso.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

RITORNO A SCUOLA
È il tempo dell’accoglienza, della narrazione, della rimodulazione

Si torna a scuola. Ma che scuola è quella che sta riaprendo in queste settimane di settembre?
È la scuola che improvvisamente per mesi è venuta a mancare non si sa bene se più alle famiglie che ai ragazzi, è la scuola del compagno che ieri era di banco e che ora è da tenere a distanza sociale. La scuola della ricreazione monoposto, la scuola asettica delle mascherine, dei guanti e degli igienizzanti. La scuola delle prescrizioni, che si moltiplicano come non mai prima.
E perché dovremmo chiamare tutto questo ‘scuola’? Solo perché la scenografia è quella di sempre: l’aula, la cattedra, il banco, i compiti, le lezioni e le interrogazioni, gli orari, gli ingressi e le uscite.

Pareva cresciuta negli anni la domanda sociale di una scuola che, oltre ad istruire, recuperasse il suo ruolo di fucina dell’educazione. Nei suoi curricoli si sono andate moltiplicando le educazioni di ogni genere, addirittura spesso le è stato chiesto di svolgere una funzione di supplenza nei confronti delle famiglie e dei genitori in crisi di ruolo e di capacità educativa.

Ora che dell’educazione ce ne sarebbe bisogno come non mai, pare che l’emergenza sanitaria l’abbia cancellata dall’orizzonte. Ce lo ricorda Umberto Galimberti che ‘educare’ significa prendersi cura della dimensione emotivo-sentimentale dei nostri ragazzi, aiutarli a passare dalla pulsione all’emozione. La mente non si apre se prima non si è aperto il cuore, scrive il filosofo.
Non c’è solo, pertanto, l’attenzione sanitaria da allertare, c’è quella verso l’interiorità di ogni bambina e di ogni bambino, di ciascuna ragazza e di ciascun ragazzo. Come tanti mesi lontani dalla scuola li hanno cambiati. Quali segni ha lasciato la lunga convivenza in famiglia, quanto hanno appagato il loro bisogno di affetto le cure e le attenzioni ricevute, che significato ha assunto il condividere in modo più partecipato da genitori, fratelli e famigliari il frequentare la scuola sia pure a distanza. Tutti sappiamo che c’è anche il rovescio della medaglia e che per quanti la scuola era l’unico spazio di liberazione, il lockdown può aver costituito la condanna a vivere una dimensione famigliare frustrante, di privazione, quando non conflittuale, se non pericolosa. Ci sono, dunque, anche cicatrici da rimarginare, che hanno bisogno del balsamo della comunità ritrovata.

Ecco, la scuola come luogo in cui c’è sempre qualcuno che si prende cura di te, che ti accoglie in modo disinteressato e si pone a tua disposizione. La scuola del respiro ampio, la scuola dei tempi lunghi, la scuola dell’ascolto e della confidenza, la scuola della solidarietà degli insegnanti e dei compagni, il luogo dove condividere emozioni che sono uniche.
Ciò che andrebbe evitata è la fretta di sedersi alla cattedra e al banco, di riprendere a insegnare per recuperare il tempo perduto, lasciando le vite di prima, le vite del vuoto scolastico, fuori dalle aule.

Il progetto educativo della ripresa avrebbe bisogno di tre passaggi: accoglienza, narrazione, rimodulazione.

Accoglienza per tornare a riconoscersi, per scoprirsi mutati e quanto, per comunicarsi cosa si pensa di aver perduto e che aspettative si nutrono, per pronunciare promesse e rilanciare prospettive. Quali sono i bisogni a cui ciascuno vorrebbe che la ripresa scolastica rispondesse. Riprendere il filo interrotto, da dove ci eravamo lasciati e progettare i prossimi cammini. Parlare di noi e dell’effetto che fa ritrovarsi. Quanto ci sono mancati il gioco e l’aula. Quanto è mancato il calore della stare insieme, del condividere idee, saperi e anche conflitti.

Narrazione di come è stato vissuto il tempo forzato dell’extrascuola, le ansie, i timori, le relazioni, i pensieri maturati. La vita vissuta in famiglia, mesi lontani dai propri compagni, il desiderio di fuga e di ribellione. Esperienze di maggiore armonia o, al contrario, di maggiore attrito con i genitori e gli adulti in generale. La perdita di spazi di autonomia, le rinunce, i social come l’unica finestra aperta sugli altri, la compagnia dei propri device, divenuti gli amici preziosi con cui vincere la gravità del tempo sospeso. La scoperta del guscio con cui ci si è difesi dall’esterno, dalla presenza invadente degli altri in famiglia, il richiudersi in se stessi, la fuga nella lettura, nei film scaricati, negli auricolari che sparano la musica. Scoprire d’essere un’isola e di aver vissuto come in un’isola. La rivelazione a se stessi di se stessi, della compagnia che ci si può fare quando ci si ritrova soli a tu per tu con il proprio io. Maggiore o minore stima di sé, maggiore o minore fiducia nelle proprie risorse e potenzialità. Depressione o resilienza. La narrazione per trovare uno specchio negli altri, riflettersi nelle compagne e nei compagni, in testimoni a cui credere ed affidarsi come gli insegnanti che ti aiutano a parlare delle tue esperienze, a ripercorrerle, non per rimuoverle ma per comprenderle, comprenderle nella mappa della propria storia.

Infine la rimodulazione. Il rapporto con la scuola che non può essere più quello di prima. A scuola i bisogni non sono mai stati uguali e se la scuola di prima li uniformava ora non è più possibile, perché l’emergenza ha portato alla luce una scuola traumatizzata, una scuola ferita, di una ferita che per essere rimarginata ha bisogno della cura di studenti e insegnanti. Rimodulazione significa che la ripresa del cammino deve essere personalizzata, perché non si esce da mesi senza scuola tutti uguali, i pesi portati sono stati differenti, come diverse erano le forze per reggerli. C’è un lavoro di ricomposizione di ciò che per ciascuno si è indebolito o è andato in frantumi, con attenzioni e modalità che inevitabilmente variano per ognuno. Rimodulare il fare didattica tra presenza e distanza, cercando di annullare la lontananza prodotta dall’on-line. Rimodulare la classe in gruppi differenti, non per età ma per necessità educative, per bisogni e tempi di apprendimento sempre più personalizzati. Utilizzare gli incontri in presenza per organizzare il lavoro che si farà a distanza, per evitare la divaricazione tra il dentro e il fuori, per impedire che la distanza si traduca per qualcuno in un accumulo di svantaggi.
Rimodulazione significa flessibilità dei curricoli, degli spazi e degli orari, dell’uso delle figure professionali, docenti, educatori, insegnanti di sostegno, esperti, attori del territorio.
Rimodulazione suggerisce di ripensare il rapporto tra apprendimenti formali e apprendimenti non formali, come riconoscere competenze acquisite non direttamente a scuola, semmai nell’impegno e nello studio individuale. Riconoscere con un sistema di crediti i saperi acquisiti al di fuori della programmazione scolastica. Ibridare il sistema non solo con la didattica a distanza, ma con il riconoscimento delle competenze da ciascuno acquisite per altre vie, non necessariamente formali.

L’eccezionalità della situazione dovrebbe suggerire di predisporre per ogni bambina e bambino, per ogni ragazza e ragazzo un patto formativo, un contratto formativo tra scuola, studente e famiglia in cui definire l’impegno di ciascun soggetto, il percorso di studio, le sue modalità, le tappe e gli obiettivi da raggiungere, in funzione delle necessità individuali. Cosa si impegna a fare la scuola, cosa si impegna a fare la famiglia, cosa mi impegno a fare io. Predisporre il profilo di tutor a cui affidare gruppi di studenti, grandi e piccoli, incaricati di prendersi cura di loro, di seguirne i processi di apprendimento, sostenerli e indirizzarli, da incontrare a scuola nei pomeriggi o da visitare a casa.
Non resta che augurare ai nostri ragazzi e a noi stessi che i mesi di assenza forzata dalle aule non abbiano messo in quarantena anche i cervelli e che il ritorno a scuola offra loro la gradita sorpresa di beneficiare di qualche idea nuova in più, non solo per l’oggi ma anche per il futuro.

LA SFIGA DI ESSERE GIOVANI

E’ durissima essere giovani. Oggi sicuramente: disoccupazione, incertezza, il Pianeta in pericolo, e chi più ne ha più ne metta.
Oggi, ma anche ieri e l’altro ieri. Nel secolo presente, come nel precedente.
Quando sei giovane ti senti ripetere due cose, continuamente, sempre quelle due cose.
Una carezza: “I giovani sono il nostro futuro….dobbiamo puntare sulle giovani generazioni… dobbiamo consegnare ai giovani un mondo più decente di quello attuale…. “
E un cazzotto: “ I giovani se ne fregano, sono disinteressati e irresponsabili, sono edonisti ed egoisti, sono solo capaci di far casino, bevono, si drogano…”.
Della difficile, complessa, problematica, drammatica condizione giovanile, gli adulti sono anche disposti a prendersi la responsabilità. A parole, naturalmente. Segno che si tratta di un semplice esercizio retorico, una captatio benevolentiae, un ritornello lavacoscienza.
Il risultato è che, alternativamente “i giovani sono belli” oppure “I giovani sono brutti”. Secondo l’occasione, il fatto di cronaca, l’ennesima indagine Censis .
In realtà i giovani non sono né belli né brutti. E’ però in atto una strategia, conscia o inconscia, per tagliarli sempre più fuori dalla società. “Voi state fuori, che prima o poi risolveremo tutto”.
Ad esempio. C’era una volta – ma è passato solo un anno – un movimento nazionale impetuoso, tutto giovanile, che aveva mobilitato coscienze e riempito le piazze. Il movimento delle sardine, che aveva eccome mosso le acque, sembra oggi disperso. Si è scontrato con “il mondo della politica”, con i corteggiamenti di questo o quel partito, con la necessità di schierarsi, con l’urgenza di “prendere una posizione pubblica”.
L’eclissi (non sappiamo se permanente) del movimento delle sardine mette in piena luce la grande forza e la impermeabilità della politica italiana, l’ incapacità dei partiti – anche di quelli progressisti – di aprirsi a modalità, contenuti e linguaggi nuovi: quelli appunto portati avanti dai giovani. Se le Sardine rappresentavano un abbozzo di “Nuova Politica”, La Vecchia Politica è riuscita a disinnescare la minaccia e si è riproposta tale e quale.
Ecco quindi che agli italiani – anche ai giovani italiani – viene proposto un Referendum populista e mal congegnato, dove tutti i partiti (compreso il Partito Democratico che si era detto contrario) invitano a votare sì. Per un’unica “vergognosa” ragione: perché i Sì stravinceranno (secondo i sondaggi) e quindi occorre essere tra i vincitori. E salvare un governo eternamente traballante. Il resto non conta.
Parlo con i miei figli. Parlo con i giovani. Molti non andranno a votare. E faccio fatica a dargli torto. La politica, questa politica. Non c’entra nulla con loro. Loro sono fuori. Ai margini. Come sempre.
Anche Ferrara, mentre dura la nuova amministrazione leghista, i ragazzi, e anche i bambini, sono spinti sempre più ai margini. Mentre, seguendo il metodo Naomo, piazze e giardini devono essere messi in sicurezza contro i vandali della movida, il Comune di Ferrara avrebbe deciso di abolire uno storico e seguitissimo appuntamento per i bambini e per le famiglie. ‘Estate Bambini’ quest’anno non si farà.
Dare la colpa al Covid è l’ultima scusa per mettere i giovani ai margini. Del futuro. E del presente.

Si torna a scuola

Enrico ha ricominciato a frequentare la scuola materna.  Contento e curioso. Dice che finalmente può stare con i suoi amici. Mi chiedo per quanto tempo (ma non glielo dico).
La scuola materna di Pontalba è molto spaziosa, ha aule grandi e un bel cortile. Ha anche  la mensa interna e un grande refettorio dove si può pranzare e fare merenda. I bambini possono stare a scuola tutto il giorno rispettando tutte le norme igienico-sanitarie per la prevenzione da contagio Covid-19. Questo fino a quando qualcuno non si ammalerà. A quel punto dovranno stare a casa tutti due settimane. Ma noi facciamo gli scongiuri (‘vai via brutto Covid, vai via brutto Covid, vai viaaaaa, bum, bum, bum !!!) e speriamo che possano continuare le loro attività.

Il difficile momento della scuola è chiarissimo: dove non ci sono spazi sufficienti, banchi sufficienti, personale ATA sufficiente e insegnanti sufficienti si concretizza un problema. Dove le corse degli autobus non sono state come minimo raddoppiate, si verifica una criticità non da poco: alcuni ragazzi arrivano nei pressi della scuola ore prima e poi staranno in giro facendo “non si sa cosa”, altri arriveranno in ritardo.
Inoltre alcune scuole hanno un bacino d’utenza così ampio che non riescono a gestire tutte le ore “in presenza” per cui ci saranno classi che andranno a scuola una settimana sì e una no. A fasi alterne, seguendo un po’ di didattica on-line e un po’ in presenza, cercheranno di accumulare il sapere sufficiente per accedere all’anno successivo senza danni e corsi di recupero da fare a settembre.

Gli insegnanti sono preoccupati, i dirigenti scolastici hanno passato l’estate senza fare le ferie, organizzando i turni di frequenza e litigando con le aziende di trasporto per raddoppiare le corse degli autobus.
Il dirigente scolastico di mia sorella Cecilia dice che sta rischiando il divorzio. Fa il preside da poco più di un anno, si è sposato da poco più di un anno, aspetta un bambino che si augura di poter vedere nascere.
I genitori sono in preda a dei tormenti organizzativi: portare i figli a scuola in macchina, iscriverli a scuole periferiche meno affollate, acquistare tutte le attrezzature informatiche che saranno comunque necessarie e, per i bambini più piccoli, trovare il modo di garantire sempre la presenza di una persona adulta che possa portare il bambino a scuola e andare a riprenderlo, essere di supporto durante le lezioni on-line, accudirlo intanto che i genitori lavorano, fargli la doccia e metterlo a letto se si fa tardi e i genitori non sono ancora rincasati.
Chi ha un bambino in casa sa quanto fermento ci sia in questi giorni, senza contare il dramma di tante donne che facendo lavori poco qualificati ricevono stipendi bassi.  Molto tristemente, conviene loro lasciare il lavoro, perché tutto quello che guadagnerebbero finirebbe nelle tasche della baby-sitter prescelta. E’ vero che ora esiste il bonus baby-sitter. Vedremo come funzionerà.

Enrico è sicuramente consapevole che alcune cose sono cambiate, anche se oggi è tornato dall’asilo dicendo che era felice perché aveva mangiato la torta di Roberto, un bambino suo coetaneo che oggi ha compiuto gli anni. Me l’ha raccontato soddisfatto.
Certe volte non lo vediamo con sufficiente lucidità, ma i bambini sanno interiorizzare le regole più di quanto noi pensiamo: Enrico non si dimentica mai la mascherina, si mette in fila senza prendere per mano nessuno, entra all’asilo da solo perché così non è necessario misurare la febbre  anche all’accompagnatore, mette i guanti di lattice tutte le volte che sono necessari senza che nessuno glielo ricordi, si disinfetta le mani da solo. Ha imparato le regole anti-contagio e le applica con una sistematicità da certosino. Eppure è un bambino vivace di quattro anni e mezzo che non ama per nulla le convenzioni. In questo momento lui è un esempio da seguire, un comportamento da imitare, una riflessione da condividere.

Noi adulti pensiamo che i bambini siano quelli più difficili da assoggettare a questo nostro nuovo modo di relazionarci, di stare insieme senza pericolo, ma l’evidenza dei fatti dimostra che non è così.
Invece chi davvero sta creando problemi ed è completamente “fuori banda” è l’esercito dei “non credenti” (chiamiamoli pure “negazionisti” con un termine mutuato dalla seconda guerra mondiale), quelli che dicono che il Covid-19 non esiste, che le vaccinazioni non servono, che la terra è piatta, che Einstein in realtà non è mai nato, che la Shoah non è mai esistita, etc. Sono davvero interessanti i meccanismi psicologici che portano il  cervello umano a negare cose del genere. E’ sicuramente un fenomeno intrapsichico e sociale che meriterebbe di essere studiato a lungo e analizzato in tutte le sue sfaccettature e conseguenze. Sta di fatto che nella storia i negazionisti ci sono sempre stati.

Ad esempio c’è stato chi nel seicento ha negato l’esistenza della peste per poi ammalarsi e morire proprio di questa malattia. C’è stato chi ha negato l’esistenza della Spagnola agli inizi del ‘900 per poi ammalarsi e morire di Spagnola. C’è stato chi ha negato la mortalità dei carcinomi per poi finire sottoterra grazie proprio a uno di loro. Senza arrivare al negazionismo della deportazione Ebraica e della Shoah. Una negazione tanto drammatica quanto inaccettabile.  Il fenomeno è talmente grave e si è talmente diffuso che anche la Commissione Europea ha preso posizione sul dramma. La reviviscenza delle teorie negazionistiche  ha spinto nel 2006  i ministri della Giustizia dell’Unione Europea a introdurre in tutti gli Stati membri sanzioni fra uno e tre anni di carcere per “incitamento pubblico alla violenza o all’odio razziale” e per “apologia in pubblico o negazione, banalizzazione volgare del genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra”. Nel gennaio 2007 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato il testo presentato dagli Stati Uniti e sostenuto da 103 nazioni che invita tutti gli Stati membri a rifiutare senza riserve ogni negazione, totale o parziale, della Shoah come evento storico.

Ritornando alla scuola di Pontalba, qui non esiste nessun “negazionismo”, sappiamo tutti che questo maledetto virus per ora è ancora con noi e che dovremo conviverci fino all’arrivo del vaccino che non sembra per nulla prossimo.
Enrico con la sua mascherina azzurra sembra un bambino leucemico (solo i bambini immuno- depressi portavano la mascherina in Italia fino a pochi mesi fa), ma i suoi occhi sono vivaci e lucidissimi, non si è perso nulla di questo Covid-19 e ha imparato a comportarsi di conseguenza.
“Tu zia ha paura del Covid?”
“Solo un po’ Enrico, qui a Pontalba si sono ammalate pochissime persone”.
“Ma zia devi avere paura! Questa malattia uccide i nonni! E io voglio molto bene alla nonna Anna. La nonna gioca con me a tombola, a oca e a dama cinese, fa con me i disegni e anche le torte e la frittata il venerdì”.
In quello che Enrico ha appena detto c’è davvero una grande saggezza. E’ la saggezza semplice ma diretta e lucida dei bambini, è la loro capacità di cogliere nel profondo,  senza mediazioni.
Negli occhi dei bambini brilla la verità.  Per questo sono belli.

Fra poco tutti torneranno a scuola, ognuno cercherà di proteggersi come può e speriamo che ci riesca. Ma negare l’evidenza e pensare che sia tutto frutto di una mente malata che vuole farci credere in una specie di immunità già acquisita (non si capisce né come né quando) è davvero impressionante e pericoloso. I bambini ne sanno più di noi e soprattutto sanno guardare le cose con maggiore trasparenza.

Chiara Gamberale ospite al Microfestival delle storie

Un quaderno delle settimane in cui ciascuno ha dovuto iniziare a stare a casa e comprendere che gli altri erano troppo lontani o troppo vicini tra le mura domestiche. Come il mare in un bicchiere (Feltrinelli, 2020) è l’ultimo libro di Chiara Gamberale che la scrittrice presenterà in diretta streaming al Microfestival delle storie di Polesella venerdì 18 settembre alle 21 dalla sala Agostiniani. A dialogare con l’autrice, la giornalista Riccarda Dalbuoni.

Come il mare in un bicchiere racchiude le riflessioni nate quando nuove regole e la distanza dal mondo là fuori, dalle persone, dagli amici, dagli impegni hanno iniziato a modificare la percezione di quel mondo così fagocitante, pieno di urgenze e veloce. Ma l’allontanamento dagli altri, annota la scrittrice, può diventare una misura di “autodifesa psicologica ed emotiva”, un nuovo modo per difendersi e difendere gli altri. Da dove cominciare allora quando il mondo guarirà? “Da chi abbiamo vicino e da quello che sappiamo fare”.

La diretta con Chiara Gamberale potrà essere seguita dalla pagina facebook del Microfestival delle storie e del quotidiano Ferraraitalia, media partner. Non solo, è possibile prenotarsi per assistere alla presentazione in sala Agostiniani dove sarà allestito un maxischermo.

Prenotazioni:https://www.eventbrite.it/e/chiara-gamberale-microfestival-delle-storie-tickets-120623196227

Il programma completo degli eventi del Microfestival di settembre e ottobre su microfestival delle storie

Per informazioni: microfestivaldellestorie@gmail.com, messenger: microfestival delle storie.

SCHEI
Fratelli bianchi

Non nutro nessuna simpatia per i processi di piazza. I media scelgono i bersagli del ludibrio pubblico ben prima che il processo venga celebrato, e si guardano bene dal fare mea culpa quando (spesso) il processo vero sentenzia che quei mostri non sono mostri, o addirittura non sono colpevoli, per la legge. Magari per insufficienza di prove, ma in un paese democratico se non ci sono prove sufficienti devi essere assolto (per fortuna, aggiungo).

Per questo non ho nessuna intenzione di almanaccare su quanto abbiano effettivamente combinato quella notte i bulli di Colleferro, tra cui i famigerati fratelli Bianchi – scherzo dell’araldica, come volete che si chiamino tre fratelli uniti dal sangue proprio e degli altri, due dei quali (si dice) ammazzano di botte un ragazzo di colore? Fratelli Bianchi. E’ tuttavia molto interessante notare cosa si muove attorno a loro, comprese alcune reazioni indirettamente collegabili al fatto di Colleferro, ma definibili come onde concentriche generate dal sasso gettato nell’acqua. La prima onda, che esemplifica la classica reazione razzista “da copione”, è quel post, poi rimosso, proveniente da un profilo forse fasullo contenente riferimenti a Fratelli d’Italia e inneggiante all’eliminazione fisica di “quello scimpanzé”. Ma è la seconda onda ad essere decisamente più interessante: un utente Twitter, pensando forse di fare dell’ironia (o forse no, visto il commento di scuse postato in seguito), pubblica una foto che ritrae la cantante Emma Marrone ed il musicista americano di colore Kanye West, con la seguente didascalia: “Emma offre la cena a un ragazzo nero dopo che quest’ultimo non ha abbastanza soldi per permettersi da mangiare”. Come molti (ma non tutti) sanno, Kanye West è uno degli artisti più ricchi al mondo. Alcuni dei commenti al post sono i seguenti: “Di offrire il pranzo a un nonno italiano, in difficoltà economiche così come ce ne sono sempre di più, no eh. Solidarietà sempre e solo ai neri perché neri e ai clandestini? Vai a farti un giro ai cassonetti, vedrai cose da non smettere di piangere. Sinistronza di m…”. Oppure: “il bene si fa, ma non si ostenta. Impara capra!”, incluso citazionismo sgarbiano ad minchiam che aggiunge un tocco di grottesco. Interviene la Marrone, definisce “feccia” chi commenta, chiarisce che il nero è il signor West (o Kardashian, se preferite), appunto uno dei produttori più famosi e ricchi sfondati del pianeta, al punto che il profilo Twitter che ha postato la foto reagisce scusandosi: “non sapevamo fosse lui”, come se questo fosse ciò di cui occorreva scusarsi. Ecco, questa è la reazione più interessante. Ciò che provoca le scuse non è il fraintendimento sulla pigmentazione del musicista, che non è in discussione. Ciò che provoca le scuse è l’avere scambiato un ricco per un povero. Kanye West è ricco, il che lo pone immediatamente fuori dal mirino degli odiatori.

Credo che molti meridionali nutrano un particolare fastidio per la trasformazione truffaldina della Lega Nord in partito del riscatto meridionale. Il fastidio, immagino, è ugualmente ripartito tra il segretario attuale di questo partito e quei meridionali che hanno abboccato. Basta avere un minimo (ma davvero un minimo) di memoria, per ricordare e andare a ripescare Salvini che canta “senti che puzza, scappano anche i cani, stanno arrivando i napoletani”, il suo ostentato tifo per la Francia alla finale degli Europei di calcio del 2000, le magliette con la scritta “Padania is not Italy”, e confrontarle con il suo meridionalismo e nazionalismo di adesso. Eppure l’operazione intellettuale è meno rozza di quel che appare, e infatti su molti ha fatto presa. Si tratta di una sostituzione dell’oggetto dell’odio: dal terrone al negro, al clandestino. In questo modo è stato individuato un simbolo (l’immigrato clandestino) che unifica nel disprezzo tutti, da Palermo ad Aosta. Finalmente un nemico comune contro il quale sventolare il tricolore, col quale qualche anno fa Salvini si puliva il sedere.

Perchè questa digressione, e soprattutto: cosa c’entra tutto questo con gli schei, che sarebbe l’argomento della rubrica? La digressione non è una digressione, ed è direttamente funzionale a mostrare come stia prendendo piede un razzismo meno tradizionale e istintivo, che non si fonda sul colore della pelle o sulla etnia, ma sullo status di disperato, di povero, di reietto. Kanye West ha smesso di essere insultato da “negro”, con tante scuse, nel momento stesso in cui è stato chiarito ai pochi che non lo sapevano che si tratta di un cantante ricco e famoso. Salvini ha smesso di essere uno stronzo antimeridionalista nel momento in cui ha eletto e propagandato un nemico comune a nordisti e sudisti d’Italia, ovvero il clandestino. Questi fenomeni denotano un pericolosissimo tratto comune: il razzismo viene esercitato nei confronti di chi è povero, di chi è escluso, di chi scappa dalla miseria, dalla guerra, dalla fame. Di chi, semplicemente, cerca una possibilità in più per la sua vita. Questo tipo di razzismo della condizione sociale diventa ben presto, o è già diventato, il denominatore comune di questi nuovi fascistelli, che in effetti hanno apparentemente molto più in comune con un tronista che con Mussolini. Ma ciò dipende dal fatto che il loro razzismo non si nutre del disprezzo del negro o dell’ebreo, ma del povero, la loro esistenza è vissuta nella costante tensione verso una ricchezza da perseguire ad ogni costo e con ogni mezzo, per allontanarsi dalle proprie origini, anzi per cancellarle, per eliminare ogni traccia di ciò che si teme di essere, o della condizione nella quale si ha il terrore di precipitare. Questo razzismo si eserciterà nei confronti dei reietti sociali, e la maggior parte dei perseguitati nei prossimi anni potrebbero essere italiani.

PER CERTI VERSI
Il sonno è fatto

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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CARO CLAUDIO

Caro Claudio
Medico di famiglia
Amico e terapeuta
Non me lo cavo dalla testa
Che la cosa più dura
Se ne esci
Sia fare i conti
Con ciò che resta
La paura

IL SONNO È FATTO

Il sonno è fatto
Per chi sta bene
Quando ti crivellano la mente
I colpi del dolore
Non vorresti altro che sparire
Volere insieme
Vivere e morire

PERCHÉ

Perché
Me lo sono chiesto
Tante volte perché
Proprio a me

E mi rilasso

Seduta in spiaggia, ore undici e trenta, sto guardando il mare. E mi rilasso.
Davanti a me passa un ragazzo di colore sciancato, un ondeggiamento costante e immagino dolente. Lo ricordo, è lo stesso ambulante dello scorso anno. Raggiunge i suoi amici riuniti sotto l’ombrellone. Presso la riva è esposta la loro mercanzia, che ben pochi considerano.
Una signora indugia un’occhiata più lunga sulle borsette e subito un venditore le si fionda appresso. Lei fa per andarsene, ma lui la richiama “Signora! Signora!”. Lei nicchia, poi è costretta a fermarsi e inizia un dialogo a parole mozze e gesti. Lui è insistente, lei impiega almeno tre minuti per convincerlo che non ha bisogno di una borsetta, stava solo guardando, giusto perché ha gli occhi. È cortese, paziente, lui meno, si irrita e, quando lei riprende il cammino, le borbotta dietro nella propria lingua.
Il distanziamento tra le persone e gli ombrelloni è rispettato, anche qui in spiaggia libera, e c’è maggiore pulizia in generale. È piacevole. Peccato ci sia voluto il covid per ripristinare certe attenzioni.
È un venerdì poco affollato di luglio, come in un qualsiasi giorno della settimana che non sia sabato o domenica. Non so come sarà durante il week end.
Ci sono anziani, adulti, ragazzi, piccoli, tutti sparsi in un tempo dilatato e lento, scandito mollemente dalle onde del mare, in una giornata perfetta, né troppo calda né troppo ventilata.
Entro in acqua e vi cammino. Intorno, bambini alzano grida, si tuffano, sguazzano, a loro agio nell’elemento liquido. Tutti si divertono, pur mantenendo le distanze, si rasserenano, dialogando con altri, con se stessi. Un ragazzo e una ragazza amoreggiano, discreti: lui fa la voce grossa fingendosi geloso, lei sta al gioco. Sono bellissimi. Distolgo lo sguardo e mi allontano, accompagnata dalle loro voci, dai loro giochi. I ragazzi che si amano non ci sono per nessuno… loro sono altrove… nell’abbagliante splendore del loro primo amore. Quando l’acqua mi arriva ai fianchi, il fondale diventa un susseguirsi di rialzi e buche infide. Piuttosto che rischiare una storta, mi immergo, nuoto, faccio “il morto”: il mare mi culla, mi accarezza, mi sostiene, slava i pensieri. Il cielo — mentre l’acqua ottunde le orecchie e intona suoni alieni — è un’immensità invitante. Poi risalgo a riva, mi siedo sulla seggiolina e mi rilasso.
Il vento scompiglia appena le frange degli ombrelloni, disperde i silenzi, le parole — anche quelle di due coniugi che si rimbrottano dandosi la schiena, uno perso tra le righe del quotidiano, l’altra con la faccia immusonita al sole. Mi lascio avvolgere da un torpore distensivo, sonnolento.
A breve distanza, un ambulante avanza lentamente, quindi alza la mascherina sul viso e si avvicina a una coppia di villeggianti. — Ciao, — saluta. A quella voce, l’uomo strabuzza gli occhi, balza dal lettino e si precipita in acqua, mentre la moglie corre invasata dalla parte opposta urlando: — Vai via! Altrimenti chiamo la polizia! Vai via! — Il ragazzo è sorpreso, interdetto, risentito, dice che sta rispettando il distanziamento fisico, che indossa la mascherina… Deve andarsene. Si allontana mugugnando, poi mi vede, si approssima, appoggia la mercanzia sulla sabbia e si siede a due metri da me. — Ciao, bella, hai visto? Non si può fare così. Non sono un appestato, — si sfoga in perfetto italiano. — Non ho fatto niente di male. Ho paura anch’io del covid. Se non vuoi comprare, mi dici di no e io vado via —. E continua a brontolare “che razza di gente! Non sono un cane! Un po’ di rispetto” mentre scrolla la testa. Mi stupisce l’ottima padronanza della lingua italiana, chissà da quanto tempo è nel nostro Paese. Gli rispondo che ci sono persone strane, certo spaventate. Lui replica che conosce le regole, che sta lavorando… — Non ho soldi, — puntualizzo, mettendo le mani avanti. — Non importa, — mi dice, con gli occhi arrossati sul viso d’ebano, — basta anche solo scambiare due parole. Ciao, bella! — E se ne va.
Insomma, al mare ci si rilassa, ripeto. Qualcuno già serra gli ombrelloni, lasciandoli sul posto, i lettini addossati, per il dopo pranzo. Altri sgomberano la loro postazione. La spiaggia è sempre più deserta, il frangersi delle onde passa e ripassa sulla battigia, si protende e si ritira, sottraendo, riportando, avvoltolando granelli lucenti, ipnotico.
Nulla di eclatante, tutto tranquillo, lontano dai soliti pensieri. E io mi riservo momenti di serenità che la vita nasconde nelle piccole cose di tutti i giorni, senza attendere che me li porga, perché non lo farà mai, destinati a chi se li conquista con l’urgenza di goderli, perché non si sa quanto possano durare. Allora me li vado a cercare, me li ritaglio, me li trattengo, me li spalmo addosso come un unguento miracoloso, una coperta di Linus, una carezza amorevole. Come un tesoro da cui attingere. Come per farmi un regalo, una miriade di piccoli regali.
E mi rilasso.

(Carla Sautto Malfatto – tutti i diritti riservati)

I GIOVANI DI FERRARA
e la “fauna inselvatichita” del Resto del Carlino

Succede a Ferrara. Una signora scrive al Carlino per lamentare che la quarantena ha reso i giovani  più selvaggi e più maleducati e per salutare la ripresa delle scuole che porrà fine alle orde di giovani ammassati in alcuni punti particolari della città.

Il Carlino, non so se per la penna del suo direttore o di un altro redattore, risponde rincarando la dose, etichettando gli ‘under 18’ della nostra città come “fauna inselvatichita” e commiserando quei poveri insegnanti che con la ripresa delle scuole dovranno prendersi cura di loro. Studenti sfaticati, finora graziati dalla didattica a distanza e dai registri elettronici, esperti nell’arte dell’imbosco, dediti alla sciopero e alle autogestioni per questioni futili come le aule fredde, figurarsi cosa succederà ora che hanno pure una base scientifica a cui appigliarsi: il Covid-19.

Ci mancavano solo bullismo, sesso, alcol e droga per completare il quadro della fiera dei luoghi comuni.

Che dire? Non ci resta che fare i complimenti, anzi le congratulazioni al direttore e al suo giornale per l’alta considerazione che nutrono nei confronti dei giovani della nostra città. Non è dato di sapere se i destinatari degli ‘apprezzamenti’ siano solo le ragazze e i ragazzi ferraresi o se il giudizio del Carlino si debba considerare esteso a tutti i loro coetanei a prescindere dalla residenza.

Stiamo, dunque, allevando “una fauna inselvatichita”, non so se al Carlino abbiano figli e se pure loro siano compresi nella fauna inselvatichita.

Evito di fare l’elenco dei tanti giovani cresciuti e formati nella nostra città che in questo momento stanno facendo onore a se stessi e a noi tutti in tante parti dell’Europa e del mondo, nonostante la distrazione di una città che non ha saputo investire su di loro come risorse da non disperdere.

Ma per dire come le generalizzazioni rivelino uno sguardo miope, basta ricordare i giovani a cui il nostro presidente della Repubblica, la scorsa primavera, ha conferito gli attestati d’onore di “Alfiere della Repubblica” perché si sono distinti come costruttori di comunità, attraverso la loro testimonianza, il loro impegno, le loro azioni coraggiose e solidali. Sono giovani che rappresentano modelli positivi di cittadinanza e che sono esempi dei molti ragazzi meritevoli presenti nel nostro Paese.

Può darsi che al Carlino venga un attacco di orticaria a rammentargli che quella ‘fauna inselvatichita’ è la stessa che ha sfilato nei “friday for future” per scuotere una ‘fauna adulta’ sprofondata nell’indifferenza del proprio torpore.

I giovani ferraresi non sono da meno e non hanno certo bisogno della mia difesa d’ufficio. Sarebbe ora che anziché disprezzare pensassimo alla responsabilità che ognuno di noi porta verso quelle preziose risorse che cresciamo nelle nostre scuole e che lì investono il tempo migliore della loro vita.

Il buon senso dovrebbe suggerire di non dimenticare mai, specie se si fanno generalizzazioni, che quei giovani dal Carlino considerati irrecuperabili altro non sono che il riflesso di noi adulti. Ne sono testimonianza, in queste ore, i familiari dei killer di Willy con il loro osceno: “Era solo un immigrato”.

Se l’esito è una ‘fauna inselvatichita’, sarà bene che impariamo a guardarci allo specchio, innanzitutto noi che dovremmo essere già cresciuti, secondo l’etimologia della parola ‘adulto’ e che, dunque, dovremmo evitare di discolparci con troppo facili luoghi comuni.

Ci sarebbe da interrogare la città su cosa ha fatto e su cosa sta facendo per le sue bambine e i suoi bambini, le sue ragazze e i suoi ragazzi, che non appartengono solo alle loro famiglie, ma sono anche figlie e figli nostri di cui prendersi cura con amore, perché costituiscono le vite su cui contare per il futuro nostro e della città, tenendo ben presente che  di ogni distrazione nei loro confronti siamo tutti responsabili.

Quali spazi, quale ruolo ci si è mai preoccupati di assegnare ai nostri giovani, se non quello di cittadini di serie B sotto perenne tutela.

È difficile pretendere da loro di nutrire un sentimento di appartenenza alla città che abitano, se da parte della città non c’è innanzitutto il loro riconoscimento e la loro responsabilizzazione sociale. La formazione alla responsabilità muove a partire  da chi ha la responsabilità di coltivare un terreno fertile per il suo sviluppo. La prima condizione è che bambine e bambini, ragazze e ragazzi si sentano considerati dalla comunità a cui appartengono, che vedano negli adulti dei testimoni attendibili. Occorre che sentano di abitare una città che si stringe intorno a loro, perché interessata alla realizzazione del loro progetto di vita. Non percepirsi come un disturbo, come un affanno per gli adulti, ma come  forze vitali sulla cui crescita la città investe le sue risorse ed energie migliori.

Sono ormai anni che da queste pagine propongo alla città di coinvolgere i giovani, piccoli e grandi, per far sentire che la città crede in loro, che ha bisogno della loro intelligenza, del loro successo formativo, del loro progetto di vita, perché è dalla loro intelligenza e dalle loro competenze che dipende la possibilità, per loro e per noi, di coltivare il sogno di orizzonti nuovi. Credo che questo sia il modo più autentico di valorizzarli, di coinvolgerli e di responsabilizzarli.

L’idea è quella di celebrare ogni anno il Festival dell’Apprendimento per dimostrare l’attenzione e l’amore della città per le sue scuole, su quello che avviene al loro interno, sulla loro qualificazione. Soprattutto per rendere pubblico l’apprezzamento e la riconoscenza dell’intera città nei confronti del sacrificio e dell’impegno delle nostre bambine e bambini, ragazzi e ragazze per imparare, formarsi e crescere anno dopo anno.

Mettere a disposizione degli studenti una tribuna in cui essere loro i protagonisti, tenere loro le lezioni, esporre i prodotti del loro lavoro scolastico, mettere in pratica quanto appreso nei tanti giorni di scuola, illustrare le loro esperienze, sentirli motivare per quali ragioni imparano e raccontare come l’hanno appreso.

Un modo attraverso il quale la città celebra il loro ruolo, li aiuta a riconsiderare lo studio, a guardarlo con motivazioni e occhi nuovi.

Credo che la precedente amministrazione cittadina abbia compiuto un errore a sottovalutare l’importanza di questa iniziativa, con la quale ormai diverse città nel mondo fanno sentire la loro attenzione e vicinanza non solo alle nuove generazioni, ma anche agli adulti che sono impegnati nel campo dell’apprendimento, da chi studia a chi insegna.

Una città che non sa rendere protagonisti e non offre spazi di espressione e di riconoscimento ai suoi giovani, finisce per rinchiuderli nel ghetto degli stereotipi sociali,   offrendo il fianco ad amplificatori qualunquisti come le pagine del Carlino, abdicando alla propria intelligenza e sprecando quella delle sue figlie e dei suoi figli.

Al cantón fraréś
Luigi Vincenzi: “Setémbar fraréś”

Vincenzi comunica, con padronanza linguistica, la passione per la propria terra. Nel descrivere l’atmosfera autunnale, nel verso “tamplìη ch’ill viaźa” rievoca come nelle nostre campagne la fine di settembre, terminati gli ultimi raccolti, era il periodo dei traslochi: si diceva infatti far Saη Michiél (San Michele 29 settembre).

Setémbar fraréś

Al vérd dal bòsch al sa śmalvìs e al sfuma
in tant culór bruśà;
végar e siév j’è tut na graη fiamada
ad źai topinambùr;
iη ziél as vèrź ill strad dla migrazióη;
al prà l’è tut crivlà dai michilìη;
i ram di frut j’è cargh ad pum e pér
dai bei culùr ch’fa gnir la paladìna.
È źa finì l’istà!…
Marcà pin d’ źént…
caplàz ch’as cuóś…
tamplìη ch’ill viaźa.
Staśón incantadóra,
staśóη ch’ la mét adòs maliηcunìa
mo aηch uη seηs ad paś
iη chi s’è iηvià seréη vèrs la so sira!

Settembre ferrarese (traduzione dell’autore)
Il verde del bosco scolorisce e sfuma / in tanti colori bruciati; / incolto e siepi sono tutta una gran fiammata / di gialli topinambur; / in cielo si aprono le strade della migrazione; / il prato è tutto bucherellato dai còlchici; / i rami degli alberi da frutto sono carichi di mele e pere / dai bei colori che fanno venire l’acquolina. / È già finita l’estate!… / Mercati pieni di gente… / cappellacci che cuociono… / masserizie che viaggiano. / Stagione incantatrice, / stagione che mette addosso malinconia / ma anche un senso di pace / in chi s’è avviato sereno verso la propria sera!

Tratto da: Luigi Vincenzi (Tamba), Grépul, Ferrara, Arstudio, 2003.

Luigi Vincenzi (Bondeno 1926 – Ferrara 2011)
Altre notizie biografiche sull’autore nel Cantóη Fraréś su Ferraraitalia del 29 maggio 2020 [vedi qui]

 

Alcuni proverbi settembrini:

Par la Madòna d’i caηvàz, ciama al butàr pr’al tò tinàz.
Per la Madonna dei canapacci (8 settembre), chiama il bottaio per il tuo tino.

Dòp i sant Cosma e Damiàn int l’invèran andéη piaη piaη.
Dopo i santi Cosma e Damiano (26 settembre) nell’inverno andiam pian piano.

Setémbar o al porta via i pónt o al séca il fónt.
Settembre o porta via i ponti (con alluvioni, se piove) o secca le fonti (se c’è siccità).

Chi, par Saη Michiél, magna gnòch, par tut l’ann al gh’a baiòch.
Chi, per San Michele (29 settembre), mangia gnocchi, per tutto l’anno ha denaro.

Proverbi tratti da: Luigi Vincenzi, Alberto Ridolfi, Floriana Guidetti, Vocabolario italiano-ferrarese. In appendice proverbi tipici del dialetto ferrarese per ogni mese dell’anno, Ferrara, Cartografica, 2007.

Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui] 

Cover: Autunno sul Po. Foto di Marco Chiarini

Ferrara Film Festival: presentazione della 5° edizione

Da: Ufficio Stampa Ferrara Film Festival

Nel corso di una conferenza stampa tenutasi presso la Sala dell’Arengo del Comune di Ferrara è stata presentata, la quinta edizione del Ferrara Film Festival che inizierà il prossimo 17 settembre e si concluderà domenica 20, in forma ridotta e in totale sicurezza per via delle restrizioni da Covid-19. Il benvenuto lo dà l’assessore al Turismo di Ferrara Matteo Fornasini che parla di coraggio degli organizzatori “in quanto realizzare eventi nel corso delle restrizioni sanitarie comporta ancora più impegno. Malgrado questo a Ferrara, oltre a veder confermati appuntamenti in calendario gli anni scorsi, si aggiungono anche nuovi eventi. Per quanto riguarda il Ferrara Film Festival rivolgo i complimenti dell’Amministrazione perchè si inquadra all’interno di appuntamenti di spessore che creano indotto, dando modo alle attività commerciali di lavorare richiamando turismo in città”. Maximilian Law, nella veste di direttore del Festival, ha poi specificato i temi di rilievo, a cominciare dai grandi ospiti. “Consegneremo 3 premi alla carriera, tra cui due internazionali. Parlo di Nastassja Kinski, che non ha bisogno di presentazioni, Bille August, regista pluripremiato con film eccellenti, quali la Casa degli spiriti, Les Miserables, Il senso di Smilla per la neve, oltre ad Alessandro Haber che conosciamo tutti. Una delle novità di quest’anno – ha precisato il direttore – sta nella formula più ridotta, sulla base del weekend, con la proiezione dei 13 film premiati dalla giuria, sui 38 che avevano scelto di candidarsi. A questi si aggiunge la premier italiana del film “The poison rose”, un film uscito negli USA, con John Travolta e Morgan Freeman. Noi presenteremo l’anteprima nazionale nella versione director’s cut, con 20 minuti di scene totalmente inedite, con la partecipazione del regista e del cast italiano del film. Ricordo anche la partnership con RDS con cui abbiamo avviato un progetto interessantissimo teso all’organizzazione di un grande concerto in programma a Ferrara per il prossimo anno in occasione del giorno della Terra 2021. Se ne parlerà più approfonditamente insieme al direttore di RDS che sarà nostro ospite nel corso del Festival. Intanto possiamo anticipare che, grazie a delle partnership con UNICEF e Italo Treno siamo arrivati all’ideazione di due premi speciali per nuove categorie di film incentrati su argomenti di rilievo (“Young UNICEF”, sul tema umanitario, e “FFF Earth”, sul tema dell’Ambiente). Il Ferrara Film Festival non è solo cinema ma anche beneficienza, così come precisato dal vicedirettore Giorgio Ferroni: “Non lavoriamo solo per questo weekend lungo di cinema: il nostro è un impegno che si sviluppa durante tutto l’anno per creare appuntamenti anche in ottica di beneficienza e solidarietà. Il 17 abbiamo in programma una cena il cui ricavato verrà devoluto all’associazione A-Rose impegnata nella ricerca sul cancro”. Infine l’arte, con Palazzo della Racchetta (via Vaspergolo 6 a Ferrara) storica e confermata sede del FFF, diretta da Enrico Ravegnani, che ospiterà sia la mostra artistica di Alberto Andreis che la proiezione del docufilm “Art Backstage – la passione e lo sguardo” di Manuela Teatini in programma il 16 settembre alle 21.

LA SCIENTIFICA TRINITA’ DIGITALE E LA VITA NELL’AMBIENTE INTELLIGENTE:
Internet delle Cose, Megadati, Intelligenza Artificiale

Oggi, proprio adesso, ci troviamo tutti coinvolti in un cambiamento radicale; nulla di nuovo per certi versi poiché il cambiamento continuo è stato la cifra della modernità tanto quanto la distruzione creativa resta, oggi più che mai, la specifica cifra del capitalismo. Tutto nuovo invece se osserviamo spassionatamente l’ambiente entro cui conduciamo le nostre vite quotidiane, se lo confrontiamo con quello che potevano esperire in gioventù i nostri genitori e prima di loro i nostri nonni.
Gli sviluppi globali e locali di questo ambiente, sempre più tecnologicamente pervasivo, superano di gran lunga ogni precedente storico e rappresentano una diversità radicale nella misura in cui esso diventa e già ampiamente è un Ambiente Intelligente in grado di interagire con oggetti e persone.
Internet delle Cose, Big Data e Intelligenza Artificiale ne sono i pilastri che, a loro volta, si fondano su una gigantesca infrastruttura fisica indispensabile per rilevare, raccogliere, elaborare e trasmettere l’informazione digitale che contiene in potenza sapere, ricchezza, conoscenza, potere, bellezza e i loro contrari.
Una trinità tecnologico-scientifica che sta diventando ed in parte è già, il terreno (artificiale) e la base indispensabile non solo per il funzionamento della società ma per la vita stessa dei singoli umani sempre più incapaci di vivere al di fuori di essa.

Senza entrare nell’ambito delle applicazioni industriali e militari, l’Internet delle cose (IoT) può essere compreso dal profano (non addetto ai lavori) se solo si pensa alla possibilità (oggi quasi banale) di installare su ogni oggetto della vita quotidiana e su ogni corpo un chip, un sensore elettronico, di fatto un piccolissimo calcolatore, dotato di un indirizzo internet necessario per poter colloquiare con altri calcolatori vicini e lontani. Oggi, ognuno di noi è connesso solamente a pochi di questi dispositivi (uno per tutti: l’irrinunciabile smartphone che accompagna la vita delle persone) ma, nel breve volgere di un decennio, perdurando l’attuale tasso esponenziale di crescita, ognuno potrà (o forse dovrà) essere connesso a centinaia di oggetti intelligenti, a loro volta connessi tra di loro e collegati in una grande rete globale.
In questa prospettiva anche il corpo umano come fonte preziosissima di informazioni e di dati, è destinato ad essere integrato nella rete tramite dispositivi esterni (sensori) ed interni (microchip)  diventando esso stesso oggetto tra gli oggetti, intelligente non per sé e in sé, ma a causa della tecnologia che su di esso è installata e che consente l’interazione automatica con l’ambiente intelligente circostante di cui diventa parte. Le richieste di sicurezza e di salute rendono queste soluzioni molto appetibili ai cittadini a presindere da ogni elucubrazione complottista mentre – per inciso e sinteticamente – il tanto discusso 5G è semplicemente l’infrastruttura che si rende necessaria per trasmettere velocemente  l’enorme flusso di dati indispensabile a far funzionare l’internet delle cose.

L’assoluta centralità dell’informazione quale principale motore della società contemporanea è riconosciuta fin dai primi anni sessanta, quando fu coniata l’espressione Società dell’Informazione; l’avvento dei social e dell’internet delle cose, aumentando esponenzialmente la quantità di dati disponibili, riempie il concetto di un significato più concreto anche agli occhi dei cittadini non addetti ai lavori: essi però colgono solo il lato che riguarda le informazioni codificate in forma linguistica e simbolica, quelle che si possono leggere o guardare attraverso i media e i social, così numerose da aver causato una infodemia che rende quasi impossibile riconoscere la verità dalla finzione o dall’inganno. Esiste però un altro tipo di informazione generata da tutti i sensori installati nell’ambiente intelligente, partendo a titolo d’esempio dalla tastiera del PC, passando attraverso i navigatori dell’auto, per arrivare alle telecamere che ormai popolano ogni territorio.  Questa enorme disponibilità di dati e informazioni digitali in crescita esponenziale rappresenta un patrimonio dal valore incommensurabile quanto sbalorditivo: da esse si può estrarre di tutto. Già oggi sono disponibili raccolte di dati digitali, così estese in termini di quantità e varietà, da richiedere tecnologie e metodi analitici per spremere da questi archivi conoscenza utilizzabile. Questi grandi archivi digitali (Big Data) sono il terreno dove si sviluppa una vera e propria scienza volta ad estrapolare e mettere in relazione grandi quantità di dati eterogenei strutturati o non strutturati, allo scopo di scoprire tendenze, individuare legami causali e correlazioni, svelare scenari e prevedere sviluppi futuri, costruire profili personali sempre più precisi man mano che più informazioni vengono integrate. Al livello della vita quotidiana vediamo già adesso la potenza di questi sistemi nella precisione con cui ci vengono suggerite opzioni di consumo in funzione dei nostri comportamenti rilevati ed elaborati tramite algoritmi; e siamo solo all’inizio! 

Una così grande disponibilità di dati e di connessioni è una spinta potente anche per far fare un salto di qualità  all‘Intelligenza Artificiale disciplina dell’informatica che studia i fondamenti, le metodologie e le tecniche che consentono di progettare hardware e software capaci di garantire al calcolatore elettronico prestazioni che, all’osservatore comune, sembrano di pertinenza esclusiva dell’intelligenza umana quali, ad esempio, le percezioni visive, spazio-temporali e decisionali.  Non solo dunque macchine dalla straordinaria capacità di calcolo come è stato fino a poco tempo fa, ma anche e soprattutto macchine in grado di apprendere, dotate di abilità per risolvere i problemi in funzione del contesto, capaci di decisione non puramente logiche, capaci insomma di comportamenti intelligenti.
Questa replicazione tecnologica delle attività del cervello e delle forme del pensiero umano intelligente  pone delle sfide davvero drammatiche e – sia detto per inciso –  ha suscitato forti perplessità perfino in soggetti insospettabili come il fisico Stephen Hawking o l’imprenditore Elon Musk icona del progressismo tecnologico ottimista, che in questo tipo di sviluppo vedono pericoli superiori a quelli già gravi delle armi atomiche.

Questo tre ambiti tecno-scientifici in forte crescita, diventano  sempre più integrati e sempre più diffusi generando quello sviluppo inarrestabile sta alla base della costruzione del nuovo Ambiente Intelligente che rende e renderà il mondo esperito dalle persone nella vita quotidiana così originale e così diverso da come lo abbiamo vissuto fino a poco tempo fa.
Se l’evoluzione è questa, e tale sarà a meno di drammatiche catastrofi, viene da chiedersi da un lato se ci saranno esclusi dal “paradiso” tecnologico e, dall’altro se sarà possibile per chi è incluso, uscire dal sistema, ritirasi per così dire in qualche luogo libero dalla connessione. Certo è che ognuno dovrà fare i conti con questa realtà, inventarsi il modo per vivere in questo nuovo ambiente intelligente reso possibile dall’Internet delle cose, dai megadati e dall’intelligenza artificiale. Ma come?

Molte persone convinte che la tecnologia sia dominabile e gestibile ritengono che l’attuale fase di consumo sostanzialmente acritico possa continuare fornendo al consumatore sempre nuove opportunità e occasione per curiose esperienze; lo sviluppo dell’ambiente intelligente guardato con l’occhio del consumatore è semplicemente un progresso, un miglioramento rispetto al passato. Non si colgono in tale visione ottimista i rischi ambientali e sociali, né la cifra del cambiamento antropologico delle generazioni che nascono e crescono in un nuovo ambiente così diverso da quello delle generazioni precedenti.
Questo ottimismo superficiale nasconde appena il timore latente, la paura che dal godimento di queste tecnologie si possa essere esclusi, che vengano a mancare le risorse  economiche e finanziarie per poterne godere i frutti; o al contrario che queste tecnologie possano essere imposte dall’alto e diventare quindi manipolatorie e liberticide.

Altre persone, ancora poche per ora, vedono con estremo favore la possibilità dell’ibridazione cosciente, ovvero la scelta di potenziare corpi e menti attraverso la tecnologia: una strada ampiamente descritta nell’immaginario della fantascienza e riccamente articolata nelle riflessioni dei movimenti transumanisti che, nelle forme più radicali, predicono un’estensione indefinita della vita e ipotizzano perfino la possibilità di scaricare la mente (download) su supporti digitali e conquistare in questo modo una sorta di immortalità tecnologica. Già oggi ognuno di noi è un nodo  connesso alla rete digitale alla quale fornisce informazione e dalla quale informazione riceve tramite i dispositivi che sono per noi delle protesi tecnologiche che ampliano le nostre capacità; entro pochi anni è facile prevedere che dispositivi tecnologici saranno installati direttamente sui o nei corpi delle persone iniziando da innocenti applicazione biomediche peraltro già note. Ibridazione e potenziamento tecnologico possibile, proponendo la realizzazione concreta della mitica figura del cyborg, mezzo uomo e mezzo macchina, come ultimo e sviluppabile anello di un’evoluzione ormai assoggettata alla scienza, propongono la possibilità di un salto evolutivo decisamente sconvolgente che (per fortuna?) non sembra ancora così prossimo; ma già adesso pongono una domanda inquietante: chi potrà godere delle nuove tecnologie e chi ne sarà escluso?

Altre persone ancora, quelli che vedono in questi sviluppi i rischi oltre alle opportunità, quelli che non si sentono semplicemente consumatori passivi e temono l’ibridazione, quelli più attenti a vivere bene il presente piuttosto che attendere un futuro percepito come dubbio, possono guardare all’ambiente tecnologico intelligente come si guarda ad una sfida che rimanda innanzitutto verso l’interiorità, una sfida che può portare verso un’evoluzione spirituale. Evocare il concetto inneffabile di spirito può sembrare fuori luogo in un mondo dominato dalla tecnoscienza e dalla presunta razionalità; ma, a ben vedere è una soluzione non propriamente residuale visto l’attuale grande successo di sette, conventicole, religioni e pseudo religioni, comunità utopiche, discipline e tecniche occulte, misticismo e contattismo, pratiche sciamatiche, esoteriche e new age; risposte sociali attuali che attestano al di la di ogni dubbio la grande domanda di senso e di significato, di relazione e di amore, che sotto sotto agita uomini e donne che vivono in un ambiente sempre più intelligente, certo affascinante, ma incapace di rispondere alle domande ultime generando pace e felicità.
Anche in questo caso i confini tra ricerca seria e moda, tra autenticità e mercificazione sono assai sfumati e non di rado intrecciano antropologia e storia delle religioni, ricerca scientifica e ritualità tradizionale, ascesi ed uso di sostanze stupefacenti come sostenevano i profeti della psichedelia degli anni ’60 e ’70 (Timothy Leary e Aldous Huxley ad esempio) che praticarono l’uso di LSD come un vero e proprio sacramento laico.

Certo è che il nuovo ambiente tecnologico pone una sfida che investe non solo l’organizzazione della società ma anche e soprattutto la soggettività e l’interiorità di ogni persona: non prendere sul serio la sfida ci pone nella brutta situazione della rana che, immersa nella pentola d’acqua riscaldata poco a poco, non si rende conto del cambiamento ambientale in cui è immersa, e finisce con l’essere bollita viva.

Basta tacere, basta voltarsi dall’altra parte

La narrazione sulla tipologia di cambiamento (o piuttosto di non – cambiamento) della nostra condizione sociale e politica, ci porta a constatare che il mancato appuntamento con la storia, con ciò che è già stato e ha segnato elevati gradi di responsabilizzazione civile, sta immiserendo e mettendo in crisi tutte le democrazie liberali, a cominciare dalla nostra… Tanti e tali sono ormai gli esempi di arroganza, malaffare e violenza che viviamo ogni giorno, talora nell’indifferenza più completa della comunità, che viene spontaneo chiedersi cos’altro possa accadere.
Qualche riflessione su cosa sta succedendo a Ferrara, vorrei comunque farla, perché vivo con una certa sofferenza e indignazione questo clima, anche se non vorrei soffermarmi troppo su considerazioni e analisi sulla situazione sociale, politica e culturale della nostra città, già chiaramente espresse, per esempio, da Giovanni Fioravanti e Federico Varese in alcuni articoli pubblicati proprio su Ferraritalia qualche giorno fa .
Non posso fare a meno di riscontrare, infatti, l’assordante silenzio che ruota attorno alla politica di sinistra a Ferrara, che sembra aver disperso non solo la propria voce, ma anche la propria anima, la sua mission, in fondo, dello stare con la gente e fra la gente. La sensazione è un po’ quella di trovarsi ad un bivio dove la direzione precisa non si conosce: siamo soli e non c’è alcuna precisa indicazione per procedere. Come cittadina devo dire che questo clima sta diventando insopportabile e mi auguro che vi sia quanto prima una seria reazione della gente a questa mediocrità quotidiana, fatta di beghe di mercato, piuttosto che di gestione della vita e dei problemi di ogni giorno.
Per restare su situazioni concrete, forse l’ultima spinta a reagire mi è giunta quando ho letto notizie come quella della esternalizzazione di due scuole dell’infanzia comunali, già data per effettuata, senza che ne fossero al corrente le famiglie, il personale scolastico e i sindacati, fatto salvo che due giorni dopo il Sindaco ne smentiva la decisione per riparlarne più avanti.

Ebbene so cosa comportano queste decisioni, perché ho diretto i servizi educativi e scolastici Comune di Ferrara per anni, cercando di sostenerne il valore sul piano sociale, culturale e politico. E’ da tempo dimostrato anche sul piano scientifico, che una società che investe e agisce precocemente con programmi di intervento educativo sulla popolazione, promuovendo educazione e istruzione, ne ricavi benefici sia sul piano della crescita dei propri cittadini, che del sistema sociale e lavorativo generale, in termini di crescita della comunità intera. Non è un caso che i bambini che frequentano scuole e servizi educativi fin dai primissimi anni di vita, come statisticamente dimostrato, abbiano minore probabilità di insuccesso scolastico.
Nel corso di questi decenni, diverse amministrazioni succedutesi nel governo della città, hanno dimostrato grande lungimiranza, promuovendo importanti politiche di investimento delle risorse pubbliche nella realizzazione di servizi per l’infanzia destinati a tutta la cittadinanza. Fin dall’immediato dopoguerra, infatti, grazie anche allo straordinario supporto offerto da importanti associazioni femminili come l’Udi, l’attenzione al mondo educativo e scolastico è stato prioritario. Ho avuto modo recentemente di scrivere e documentare alcuni testi, in collaborazione con il Gruppo Nazionale Nidi e Infanzia e la Regione Emilia Romagna, la storia di questo lungo cammino che ha segnato la stessa qualità di vita della nostra città.

Non si tratta quindi solo di non esternalizzare le scuole comunali, né tantomeno di favorire il privato a danno del pubblico, perché abbiamo creato e sostenuto da anni la gestione integrata dei servizi e della formazione comune del personale pubblico e privato. Si tratta piuttosto della conservazione della qualità raggiunta in anni di duro lavoro e di grandi risultati peraltro riconosciuti anche a livello nazionale ed europeo. Grazie al sostegno di politiche regionali mirate e investimenti in questa direzione, si è consolidato anche a Ferrara un sistema di offerta educativo scolastica davvero eccellente, che per decenni ha prodotto una sorta di nuovo tessuto culturale, specchio di una città che cresceva insieme alle nuove generazioni.

Allora perché esternalizzare? L’ex Sindaco Tagliani in un suo recente intervento non si stupiva tanto della possibilità di esternalizzare qualche scuola o nido d’infanzia comunale, giacché proprio la sua giunta poco tempo fa aveva proceduto ad effettuare questa scelta affrontando però un confronto serrato con la gente … dopo innumerevoli infuocati incontri con il personale, i genitori, le rappresentanze sindacali, si sono spiegate le ragioni e raccolti i suggerimenti a difesa del sistema pubblico… e si stupisce che oggi si esternalizzi “a freddo” il lunedì e poi si faccia dietro front il martedì. E’ sicuramente discutibile la modalità di agire da parte della nuova giunta, ma devo purtroppo dissentire sul fatto che si possa difendere il sistema pubblico dei servizi, esternalizzandoli, sia pure nelle condizioni di maggiore accortezza possibile.
Tutto il lavoro fatto per qualificare la scuola sul territorio, e non solo quella rivolta all’infanzia, ha sortito anche forme di intervento istituzionale più vicine alle trasformazioni del tessuto sociale cittadino, accompagnandone il percorso diretto a tutto il sistema scolastico territoriale.

Perché allora procedere ad esternalizzare? Perché i servizi costano? Perché non si vuole assumere personale? Ma cosa ne pensano le famiglie di tutto questo? E il personale cosa ne pensa?
Mi chiedo dov’è la politica vera della città basata sul confronto? E i partiti dove sono?
Certo non c’è solo la scuola, ci sono anche le mille altre problematiche connesse al lavoro, al sistema economico, all’integrazione, ma non possono certo ridursi a ricette estemporanee come ci è capitato di assistere in questi mesi e non certo solo per l’emergenza Covid.

Credo sia giunto il momento di chiedere ai nostri concittadini, ai nostri giovani se intendono lasciarsi fagocitare da questa mediocrità, nella quale ognuno oggi pare sentirsi autorizzato a fare ciò che vuole e nessun altro può avere il diritto di obiettare in una sorta di isolazionismo padronale, costituito da stereotipi e massificazione di luoghi comuni, che trovano il loro sfogo esplosivo in insulti, provocazioni o violente invettive contro tutto e tutti, a cominciare dal dilagare su ogni tipo di social, di esempi di grossolana meschinità e vigliaccheria.

Ma dove si è nascosto quel modo di fare politico, quel coraggio di difendere le proprie idee in relazione e confronto diretto con i cittadini? E’ piuttosto ridicolo il modo con cui in consiglio comunale maggioranza e opposizione si confrontano. Osiamo chiamarlo vero confronto?
E’ pur vero che il sistema politico partitico così come si è evoluto negli ultimi anni, non è riuscito a fare alcun tentativo serio per arginare l’indifferenza della gente o per capire i sintomi della patologica trasformazione comunicativa fra la gente e la vita di ogni giorno, fra la gente e i propri amministratori. Non ha aiutato certo il dominio pressoché illimitato della rete e dei social, della tecnologia de’ noantri che, se mal utilizzata, può davvero minacciare la nostra stessa democrazia, soprattutto perché utilizzata come fine e non come strumento, laddove il virtuale diventa l’unica realtà. Sono convinta che a nulla valga la potenza di questi nuovi invasori della comunicazione, se vengono a mancare il senso del vivere, la tensione verso uno scopo e la conoscenza, infatti credo che la prima difesa della democrazia stia proprio nella difesa della conoscenza, dell’intelligenza che danno senso alla dignità umana in continuo confronto con gli altri. Mi son chiesta perché la gente non partecipa più, non si relaziona, non chiede di essere presente nelle decisioni se non per interessi prevalentemente di carattere individuale o di piccoli gruppi e non di carattere generale? Perché i partiti di sinistra in particolare quelli che hanno governato la città negli ultimi decenni non hanno saputo leggere fino in fondo queste trasformazioni sociali?
Stanti così le cose, con le ultime amministrative potevamo almeno aspettarci una capacità della destra di proporre un nuovo senso di cittadinanza, ma ai cittadini sono bastate una serie di manifestazioni più o meno estemporanee di qualche figura locale che, erigendosi a salvatore della patria, si è esibito in uno spettacolo che se non fosse stato (e sia ancora) deprimente, ricordava quantomeno uno spettacolo circense. A questo livello l’attenzione della gente è stata catturata su aspetti concreti come quelli dei neri sotto casa, dello spaccio nei giardini, della prostituzione (fenomeni tuttora nemmeno scalfiti e che hanno solo cambiato qualche postazione) come se l’emigrazione fosse l’unico problema dei ferraresi. Una vera e propria sequela di spettacolarizzazioni a livello di armata Brancaleone. Qualcosa di vero per fare opposizione alla staticità del governo cittadino di centro sinistra c’era e possiamo dire che non è stato cavalcato con metodologie di politica attiva, ma col metodo della provocazione continua da avanspettacolo e non certo con vere proposte di risoluzione dei problemi concreti che la gente in una situazione generale di crisi, stava realmente vivendo.
Qualche azione roboante e poi siamo ancora al «Bisogna cambiare tutto per non cambiare niente”, così scriveva Giuseppe Tomasi di Lampedusa ne ‘Il Gattopardo’ ed è ciò che sta esattamente avvenendo nel nostro contesto e non solo.

Ebbene, un tempo si diceva “ogni lasciato è perduto” e a distanza di poco più di un anno non si è ancora provato a recuperare né confronto, né ricerca di soluzioni alternative a questa mediocre stagione della politica locale. Nel corso di questi mesi ho conosciuto e seguito l’attività espressa da un buon numero di cittadini inseriti nelle diverse liste civiche, ma ancora una volta, nonostante la buona volontà dei tanti, la frammentarietà, la mancanza di una visione prospettica comune, seppur sostenuta finalmente anche da giovani che da tempo non si vedevano così impegnati, non ha saputo ancora produrre una vera alternativa, con un Pd che non ha tentato di unirsi alle altre forze laiche, né nel percorso elettorale, né ora, per un piano programmatico e organizzativo comune.
Se donne e uomini di questa città non riescono a capire che solo unendosi, relazionandosi, possono costruire e dare senso a quel futuro assai incerto che spetta in ogni caso alle nuove generazioni, evidentemente non hanno capito che vivere significa partecipare e non essere indifferenti a quello che succede, come diceva Antonio Gramsci. “Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. L’indifferenza è il peso morto della storia”
Dinnanzi alle grandi trasformazioni tecnologiche soprattutto a livello di comunicazione, la forza del mercato globale nel quale siamo immersi, ha sicuramente preso il sopravvento per allontanarci gli uni dagli altri, favorendo il distacco e l’indifferenza per la politica attiva, ma sono convinta che la difesa della conoscenza e dell’educazione possono ancora salvarci dalla miseria morale e intellettuale. Per non riferirmi solo al problema politico locale mi sovvengono pensieri che non riguardano solo la situazione locale o nazionale , ma un po’ tutte le società cosiddette democratiche. Ritengo siano vere le parole che un grande filosofo come Habermass sostiene a proposito delle nostre istituzioni democratiche. In effetti le trasformazioni cui stiamo assistendo dipendono da vere e proprie trasformazioni sociali dovute anche al potere dei mercati di una globalizzazione spinta e ormai potentemente irrinunciabile, che lascia spazio a problemi di mancata relazione e confronto fra individui, fra paesi e una loro autonoma gestione politica dei territori. In una siffatta società politicamente frammentata, ma altamente integrata sul piano economico, non disponiamo di organizzazioni che possono compensare questo divario e dunque combinare questo divario e la capacità di azione democratica e di controllo democratico.

Forse sarebbe proprio il caso di ricostruire tutti insieme, organizzando dal basso, le premesse minime per la formazione di una cultura politica protesa più al benessere comune e all’eliminazione delle disuguaglianze sociali.

BUFALE & BUGIE
Mascherine e ossigeno: il falso mistero

Fino a prima che scoppiasse il caso mediatico della diffusione globale del nuovo ceppo di coronavirus, era abbastanza raro trovare nei comuni sistemi di informazione notizie e approfondimenti dal mondo scientifico. Nell’ultimo periodo la tendenza sembra essersi invertita, se dovessi però scegliere tra poca ma buona, e tanta ma pessima divulgazione, credo che la preferenza ricadrebbe sulla prima possibilità.

Molte testate e persone si sono dovute reinventare per l’occasione. L’edizione italiana di un sito statunitense dedicato a economia e politica, Business Insider Italia, titolava il 10 agosto: “Un medico corre 35 km con una mascherina anti Covid per sfatare una convinzione sbagliata sui livelli di ossigeno”. La notizia dell’impresa compiuta dal dottor Tom Lawton – impegnato nel campo dell’anestesia e della rianimazione, con un particolare interesse per l’informatica – , finanziata dal basso [vedi qui] e raccontata in presa diretta da egli stesso su Twitter [vedi qui], meritava certamente una sua diffusione al grande pubblico, parimenti ad altre sperimentazioni similari con risultati opposti. Il problema condiviso da questi test è tuttavia uno: non avvenendo in una situazione controllata e non seguendo un protocollo approvato a monte e descritto nel dettaglio, per consentire la ripetizione della prova da persone terze sulla base di uno studio regolarmente refertato e pubblicato, non possono ambire a un loro pieno riconoscimento di validità scientifica. Ecco dunque emergere l’imprescindibile e disattesa necessità, da parte dell’articolista, di contestualizzare correttamente la notizia all’interno delle attuali conoscenze mediche. Malgrado si parli di “convinzione sbagliata sui livelli di ossigeno”, è già nutrita la bibliografia che evidenzia la possibilità di una riduzione dell’ossigeno disponibile e di un’alterazione dell’aria inspirata soprattutto durante lo svolgimento di un’attività fisica. Ciò non vuol dire che le condizioni appena descritte debbano sempre verificarsi, poiché sono da tenere in considerazione varianti quali il tipo di mascherina, la persona che la indossa, le azioni eseguite, l’ambiente circostante… Allo stesso modo, gli esperimenti che giungono a conclusioni diverse sono validi per gli individui e lo scenario analizzati, ma non sono estendibili in generale a tutta la popolazione e a tutte le situazioni possibili. Del resto, gli effetti collaterali che possono derivare da uno scorretto utilizzo di tali dispositivi sono già conosciuti, e riconosciuti anche da chi è più incline a ritenere maggiormente rilevanti i benefici, in una immaginaria pesatura dei pro e dei contro.

Tom Lawton ha fatto vedere come le misurazioni effettuate dal proprio strumento sull’aria trattenuta dalla propria mascherina rientrassero nei parametri definiti sicuri. Ma trasformare questo dato in un consiglio comportamentale indiscriminato può rivelarsi un pericolo per la salute.

BUFALE & BUGIE, la rubrica di controinformazione di Ivan Fiorillo esce ogni mercoledì su Ferraraitalia. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui]

Un referendum tutto sbagliato

Secondo i sondaggi i sì al Referendum del 20-21 settembre per la conferma della legge costituzionale sulla riduzione dei parlamentari, non dovrebbero avere problemi a vincere sui no.
Eppure.
Nel fronte della destra, ad esempio, non si capisce bene l’indicazione ufficiale della Lega per il sì. Faceva parte delle condizioni del contratto che avevano dato vita al governo giallo-verde, ma dal momento che quella maggioranza non c’è più non è chiaro perché non prevalga il “liberi tutti”.
Ci sarebbe una ragione in più, da quelle parti, per rimettere tutto in discussione.
Da destra, infatti, si attende con ansia l’esito delle concomitanti elezioni regionali e se il centrosinistra dovesse portare a casa la sola Campania (con la perdita di Puglia, Marche e Toscana e la conferma di Toti in Liguria e Zaia in Veneto), per il governo in carica non sarebbe un bel segnale.

Si dice che la prova regionale, da sola, non basterebbe a produrre la caduta del Conte bis (anche perché il presidente del Consiglio su questa partita non si è esposto in prima persona), ma se si dovesse aggiungere il risultato negativo del Referendum le cose potrebbero prendere un’altra piega. E a quel punto un semplice rimpasto di governo, dato per possibile in caso di sconfitta alle regionali, potrebbe non bastare più.

Se a destra i rebus non mancano, a sinistra la musica non cambia.
Nel Pd, ad esempio, pare tutto un ribollir di tini.
Accanto alla posizione ufficiale per il sì, si allarga giorno dopo giorno la schiera di quanti fanno pronunciare quella decisione sempre più a denti stretti.
Anche in questo caso, l’impegno risale al momento in cui si è formata la nuova maggioranza giallo-rossa che ha dato vita al governo Conte due. L’accordo è stato che il Pd, contrariamente a quanto fatto fino a quel momento in Parlamento, avrebbe votato favorevolmente in ultima lettura alla legge costituzionale per la riduzione dei Deputati da 630 a 400 e dei Senatori da 315 a 200.

Siccome era chiaro anche alla casalinga di Voghera che questa riforma, da sola, non stava in piedi, il partito di Nicola Zingaretti aveva strappato la promessa di ottenere il contrappeso di una nuova legge elettorale che però, a pochi giorni dalle urne, rimane una promessa.
Non ci voleva un oracolo per prevedere che, a questo punto, si sarebbero levate le voci di quanti hanno sottolineato la debolezza della linea del partito sul punto.
Comprese quelle, silenzi inclusi, che sono state in cabina di regia a tessere le ragioni della nuova alleanza, vincendo anche le iniziali resistenze del segretario nazionale, che non scartava l’ipotesi di andare a elezioni a costo di andare incontro a una sconfitta più che prevedibile.

Va bene che la politica non è uno sport per signorine, ma si fatica a non notare le singolari traiettorie di una strategia tutta celebrata, così pare lontano dai Palazzi, sull’altare della tattica. Anche perché i presupposti politici di non lasciare il Paese in mano ai populisti e di un’alleanza strutturale con i pentastellati, rimasta nel libro dei sogni nella preparazione delle prossime sfide regionali, stanno mostrando la corda.

Fin qui le mosse, almeno alcune, di una politica che, anche nel caso specifico, muove i pezzi su una scacchiera sempre più prossima allo stallo. Se poi si vuole dare un’occhiata ai contenuti della riforma, a fare acqua sono le ragioni dell’impostazione di partenza.

Molti ricorderanno l’esultanza in piazza Montecitorio dei 5 Stelle, a legge approvata, con Di Maio (un ministro della Repubblica) che con tanto di forbice simulava il taglio delle poltrone.

Prima ancora di qualsiasi tecnicismo costituzionale, una riforma di rango costituzionale si può basare sul risparmio dei costi?
Se si accetta la tesi che la democrazia sia un costo, prima o poi il problema sarà “il” Parlamento, non più solamente quello di adesso, certamente bisognoso di cambiamenti.
Dovrebbe preoccupare che le scorie di tante parole in libertà seminate negli anni si stanno sedimentando non solo nel dibattito politico, che è già un problema, ma anche nel quadro istituzionale, oltre che in tanta acquiescenza. E qui il danno diventa difficilmente calcolabile e dio solo sa se reversibile.

Se si prestasse attenzione allo stato di salute che gode la stessa cultura democratica sulla scena globale, oltre che nazionale, dovrebbe suonare come un allarme il fatto che con questa riforma, come fa notare anche l’Istituto De Gasperi di Bologna, il rapporto abitanti-deputati passerebbe dagli attuali 96.006 ai prossimi 151.210, vale a dire il numero più elevato tra tutti gli Stati membri dell’Unione Europea, Regno unito incluso. Con tutte le conseguenze sulla rappresentanza di interi territori e di collegi così ampi da richiedere campagne elettorali alimentate con spese che solo pochi possono permettersi.

Diversi fanno notare che così il potere rischia di concentrarsi nelle mani dei capi e la partitocrazia farebbe festa. L’opposto di ciò che il movimento lanciato da Beppe Grillo ha sempre urlato, sublimato nello strampalato slogan di aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno.

In letteratura si chiama eterogenesi dei fini: costruire inconsapevolmente (sic?) l’esatto contrario di ciò che si sbraita a parole.
Se non si comprende fino in fondo la posta in gioco, sarebbe bene che chi si è finora contraddistinto più per dire quello che pensa che per pensare a quello che dice, si astenesse nel mettere le mani a cose che vanno ben oltre le possibilità di certe teste inutili e dannose.

Il problema è che entrare in questo ordine d’idee richiederebbe una visione che, l’esperienza di anni ci racconta, pare fuori della portata di, almeno, buona parte di una classe dirigente che finora ha prodotto prevalentemente disastri.
Ma questo non fa che rendere più preoccupante la temperatura di un intero paese, pandemia a parte.

Sapersi interrogare apre la strada al futuro

Dopo la pubblicazione, in questa rubrica, dell’articolo Per un’ecologia della parola, Massimo Angelini mi ha onorato col mandarmi in dono un suo libretto di cento pagine sullo stesso tema, pubblicato dalla sua casa editrice Pentàgora di Savona. L’ho trovato prezioso e ne raccomando la lettura.

La sostanza è che ecologia ed etimologia della parola finiscono per combaciare. La parola come ambiente storico sociale che sovrintende allo sviluppo delle funzioni psichiche superiori secondo la lezione vygotskijana. Un ambiente, anche per questo, da tutelare e da riabilitare per ritornare, come scrive Angelini a ‘sguardare’, a rivolgere lo ‘sguardo’ in profondità.

Il sale è il capitolo in cui spiega la differenza tra ‘conoscere’ e ‘sapere’. “Voi siete il sale della terra” sono le parole che Matteo nel Vangelo attribuisce al Cristo, il sale che verrà gettato e calpestato dalla gente se dovesse perdere di sapore. Il sale che rende sterile il terreno, ma non la conoscenza. Sapere, ci ricorda Angelini, viene dal latino sàpere, che deriva da sale e, dunque, significa ‘avere sapore’, perché il sale conferisce sapore alle cose e ne esalta il gusto, mentre senza sale il cibo è insipido. Così la conoscenza che non si traduce in sapere isterilisce, allo stesso modo del sale della parabola evangelica.

Se la conoscenza chiede di apprendere con l’intelletto, la sapienza pretende di gustare in profondità, di ‘assaggiare’. Tutte parole tra loro etimologicamente imparentate. Da sapere non vengono solo parole come ‘assaggiare’ e ‘sapidità’, ma anche ‘sapienza’ e ‘saggezza’. Insomma o si conosce con tutto noi stessi o la conoscenza resta solo un orpello, al massimo fonte di erudizione. Della conoscenza occorre farne esperienza diretta, sensoriale, sapere qualcosa implica che va assaggiato, toccato, esperito, provato, sentito. Del resto ormai ce lo dicono anche le ricerche più recenti delle neuroscienze (è sufficiente leggere Lo strano ordine delle cose di Antonio Damasio), Angelini ci ricorda che si conosce con l’intelletto, ma si ‘sa’ attraverso  l’esperienza dei sensi.

La cosa è bella, perché ci induce a considerare che siamo ‘individui’, vale a dire ‘indivisibili’, che non possiamo essere scissi in spirito e carne, in anima e corpo, che non ci è permesso separare la mente dai sensi, che sono i canali attraverso i quali apprendiamo. Dobbiamo accettarci così, nell’interezza della nostra unità. Per essere noi stessi non abbiamo la necessità di rinunciare alla nostra ‘individualità’, di indossare la maschera che ci nobiliti come ‘persone’ sul palcoscenico della vita quotidiana, per dirla con Erving Goffman.
Può accadere di conoscere tanto, di essere imbevuti di conoscenza e non sapere nulla, perché se la conoscenza non si esperisce nella nostra carne, non si traduce in sapere.

È la questione della presenza fisica a scuola, che è assenza del corpo negli apprendimenti. Si possono passare anni a scuola a conoscere, a conoscere molte nozioni e a leggere molti libri e uscire dalla scuola vuoti di sapere, perché l’ascolto, lo studio, la lettura non sono passati attraverso l’esperienza diretta, non hanno percorso la nostra carne. La parola ‘conoscere’ contiene il greco nous, come l’inglese ‘to know’, conoscere e ‘knowledge’, conoscenza. In greco nous è la mente, l’intelletto: conoscere è apprendere con l’intelletto. Ma apprendere con l’intelletto non significa di per sé ‘sapere’ e, se la conoscenza non muta in saperi, la scuola fallisce il suo compito.

Nella conoscenza l’intelletto sopravanza il corpo che lo ospita, il mediatore della relazione tra la mente e l’ambiente, il luogo delle appercezioni nella molteplicità degli eventi che viviamo. Sapere è l’equilibrio raggiunto tra ciò che sta dentro e ciò che sta fuori di noi, per citare Jean Piaget, fondatore dell’epistemologia genetica, come tutti gli esseri viventi tendiamo all’omeostasi, ed è questa tensione all’equilibrio tra dentro e fuori che è all’origine del sapere.

Spesso si sente parlare in maniera sprovveduta di ‘competenze’. Spaventa il passaggio dalla scuola della conoscenza, quella delle nozioni, alla scuola delle competenze, come se le competenze fossero la traduzione utilitaristica della conoscenza, anticamera dello sfruttamento di uomini e donne. Eppure la ‘competenza’ è la chiave del percorso dalla ‘conoscenza’ al ‘sapere’, attraversando le praterie della ricerca, è dunque libertà.
‘Competenza’ discende dal latino petere, chiedere, domandare, preceduto dal prefisso cum. Chiedere insieme, interrogarsi insieme, per poter camminare uno accanto all’altro, per andare verso un medesimo punto.

Mai c’è stato un tempo in cui la ‘competenza’, il sapersi interrogare insieme, per procedere uniti fosse indispensabile come ora nel nostro. Invece è proprio la competenza che spaventa, che viene osteggiata, mentre l’ignoranza trionfa. Cum-petere significa saper chiedere, sapersi interrogare, essere capaci di formulare le domande giuste, ed è questa la sfida della nostra epoca, se vogliamo incamminarci alla ricerca delle ‘giuste’ risposte, che non è detto, popperianamente, che siano quelle vere.

Chi non è competente è ‘ignaro’, dal latino gnarus che significa esperto, pratico, preceduto dal prefisso privativo in. ‘Ignaro’ è chi non conosce e per questo non può che ‘ignorare’ le domande da formulare, non sa interrogarsi per poter procedere verso il sapere. Il nostro tempo brulica di risposte quanto è avaro di domande e la nostra scuola non è meno responsabile. Ma gnarus per i latini ha un’altra peculiarità, quella di essere affine a ‘narrare’. È gnarus  chi è consapevole in quanto ha fatto esperienza e di quella esperienza è divenuto ‘gnarus’ , è divenuto il narratore, perché se non c’è l’esperienza non c’è neppure la narrazione. Non possiamo narrare i saperi se quei saperi non appartengono alla nostra esperienza, se cioè di quei saperi non siamo esperti.

Sono le scuole i luoghi deputati ai saperi degli esperti, a narrare lo scibile umano, non per tramandarne la memoria e neppure per erudite citazioni, ma per divenire a nostra volta i protagonisti di questa narrazione.

Un ‘Repair Cafè’ per una Sinistra Nuova:
Pensieri da lontano dopo il crollo di una ‘Fortezza Rossa’

“Così lontano, così vicino”. Carl Wilhelm Macke, il nostro collaboratore,di Monaco di Baviera ma ferrarese d’elezione, interviene nel dibattito sulla Sinistra a  Ferrara.

Oggi in quasi tutte le grandi città della Germania si trovano i cosiddetti ‘Repair Cafè (Caffè per la riparazione). Posti, spesso un pò fuori dei centri urbani, aperti a tutti i cittadini che hanno problemi tecnici con le macchine elettroniche di base e cercano cose utili a buon mercato per sopravvivere. Li ci sono soprattutto giovani capaci di trovare soluzioni pragmatiche per non buttare via oggetti rotti o comprare subito qualcosa di nuovo che sarebbe altrimenti e quasi sempre molto costoso. Mi pare un bel modello per riflettere sulla città di Ferrara dopo il crollo della ‘Fortezza Rossa’ negli ultimi anni.
Ma devo fare all’inizio una premessa.
Da lontano non è facile intervenire nel dibattito locale in una città che è diventata quasi una seconda patria per me, ma che è ancora troppo complicata per capire tutta la grammatica della lingua e della cultura e per comprendere la ’vita intima’ della politica locale. Detto in lingua calcistica: sto fuori dal campo ma seguo la partita sempre con la passione di un fan con la propria bandiera.  

Ben prima delle elezioni locali, a Ferrara si poteva già sospettare che al terremoto del 2012 sarebbe seguito, prima o poi, un terremoto anche nella politica. La destra, debole da decenni in tutta l’Emilia, ha concentrato, nel periodo immediatamente precedente le elezioni comunali, la sua propaganda su pochi ma scottanti temi di attualità, sia in regione che in città.
Il crollo della Cassa di Risparmio di Ferrara ha colpito molti piccoli risparmiatori e clienti bancari della classe sociale, che un tempo appartenevano alla clientela abituale del PCI e successivamente a quella del PD. E poiché i membri o simpatizzanti del PD sedevano in quasi tutte le sedi bancarie e nei loro consigli di amministrazione, la rabbia del popolino della città si è riversata su di loro.
I rumorosi militanti della Lega, in particolare, sono riusciti a rendere argomento politico il crescente numero di immigrati in città con sempre nuove notizie di cronaca nera, nonostante il numero, statisticamente, non fosse davvero così allarmante.
Il parco intorno ai due grattacieli, veri e propri mostri architettonici nel quartiere della stazione ferroviaria, è stata dichiarato off limits dai ferraresi, da quando hanno cominciato a soggiornarvi giorno e notte molti immigrati, prevalentemente africani;  e nonostante le dichiarazioni moderate provenienti dalla Polizia Locale, la città di Ferrara è stata dipinta dai leghisti come una roccaforte del narcotraffico e della criminalità violenta.
Il PD locale ha resistito a questi scenari di violenza oltremodo esagerati grazie alle statistiche e ai rapporti che descrivevano il successo del governo della città guidato dal sindaco Tagliani, un bravo cattolico di sinistra: devo dire che con lui sindaco mi sono sentito sempre ben protetto a Ferrara.

Ma torniamo all’argomento.
Convinti di aver lavorato bene, si credeva che nessuno avrebbe dovuto temere per la propria sicurezza nella tranquilla e civile Ferrara. Insomma: cittadini, potete dormire bene, è tutto sotto controllo. Così, purtroppo, invece di cercare le ragioni del crescente successo della politica di pancia della destra, i gruppi del Centro Sinistra si sono persi in litigi interni.
Mentre nessuno comprendeva, al di fuori dei confini del partito, le differenze all’interno della sinistra locale, la destra ha saputo destreggiarsi con successo con un programma elettorale che, a parte il rabbioso rifiuto degli immigrati e l’aumento della presenza della polizia, conteneva, in fin dei conti, solo ulteriori dichiarazioni.
Sono sicuro che un’alleanza tra il PD vecchio e stanco e i rappresentanti spesso giovanissimi dell’associazionismo e della società civile locale avrebbe potuto impedire la vittoria della destra politica. Ma, come in Germania è successo al partito SPD, la maggior parte dei funzionari del PD, ciechi alla realtà delle cose e carrieristi, non erano disposti a questo sforzo. Per loro, il risultato elettorale del giugno 2019 è stato di conseguenza un grande shock, un vero e proprio disastro. Ma tutti gli osservatori della politica locale, ad eccezione dei funzionari e dei più leali elettori dei partiti di sinistra, sono rimasti ben poco sorpresi dall’esito delle elezioni comunali.

Si potrebbe disquisire senza fine sul declino della ‘sinistra storica’ non solo a Ferrara ma, come ha scritto una volte l’anarchico tedesco Gustav Landauer all’inizio del secolo scorso e prima del nazismo: “Non mi interessano i fiumi che sono già sfociati nel mare”.
Dopo il cambio di potere politico a Ferrara, se si decide di visitare questa città, un tempo così orgogliosa della sua grande tradizione rinascimentale e per decenni convintamente antifascista, a prima vista e molto superficialmente, sembra essere cambiato poco o nulla. La presenza della polizia era già visibile negli ultimi anni gestiti dal centro sinistra, perlomeno nelle piazze più grandi.  Il sostegno della città al festival annuale di grande successo promosso dalla rivista di sinistra-liberale “Internazionale” non è diminuito; forse appare un pò ridicola esorprendente la dichiarazione del molto provinciale sindaco Alan Fabbri di essere orgoglioso di “avere il mondo come ospite” per un lungo fine settimana.
E se sono ben informato alcuni esponenti della Lega avrebbero dimostrato il loro sostegno al movimento “Friday for Future” e sarebbero stati anche visti partecipare ai loro eventi.

Queste manifestazioni apparentemente così spontanee del cosmopolitismo liberale della nuova Ferrara contrasta in modo impressionante con un gran numero di azioni politiche e simboliche che sono state avviate: in tutti gli edifici pubblici le croci, in quanto simboli dell’identità cristiana della città, vanno obbligatoriamente attaccate, in modo visibile. Un’azione fortemente criticata dal vescovo Perego come una forma di strumentalizzazione politica troppo trasparente.

Anche Markus Soeder, il Presidente della regione Baviera dove vivo, proprio un giorno dopo la vittoria del suo partito democristiano alle ultime elezioni regionali ha attaccato personalmente le croci nel suo ufficio. Ma sia il Vicesindaco di Ferrara che l’attuale Presidente di Baviera devono sapere che viviamo in una società laica dove la vita pubblica va regolata secondo il Codice Civile e non come vuole un vescovo, un rabino, un Iman o qualsiasi autoproclamato salvatore dell’Occidente.
Come segno della decisa lotta contro il traffico di droga in città, l’amministrazione comunale di destra ha eliminato le panchine in prossimità degli alloggi degli immigrati. La città ha protestato contro queste ridicole misure di sicurezza.

Il Comune, tuttavia, non si lascia dissuadere da questa esorbitante politica simbolica. Mentre il sindaco Alan Fabbri si presenta come un politico vicino al popolo (e amico della buona pasta emiliana) nelle varie feste di strada e di quartiere, il vicesindaco Nicola Lodi assume il ruolo di un Rambo del governo cittadino di destra. Nei media locali, online e offline, sono state presentate notevoli immagini in cui questo bonificatore di destra, forte e muscoloso, che è stato visto alla guida di una ruspa che ha raso al suolo un campo rom alla periferia della città.

Il fatto che il giorno dopo il PD al consiglio comunale abbia presentato una richiesta per sapere se il vicesindaco fosse in possesso della patente di guida per la ruspa ci fa capire come l’opposizione di sinistra sia in difficoltà ad affrontare la nuova politica della maggioranza di destra in città; i politici di Centro Sinistra a Ferrara dall’inizio del governo di Destra non hanno saputo che creare alcuni ‘temporali in un bicchiere d’acqua”. Cosi l’opposizione ‘Non-Leghista,’ per non usare l’adesso molto pallida e porosa etichetta ‘Sinistra’, non ha oggi la minima possibilità di cambiare la direzione del vento politico in città durante gli anni che verranno e fino le prossime elezioni.
Per questo mi pare molto utile e da approfondire l’intervento di Federico Varese dedicato alla situazione attuale della ‘Sinistra ferrarese’. Al centro di un nuovo programma, di una nuova visione politica nell’epoca della globalizzazione, della pandemia Covid-19, del Nuovo Ordine mondiale  e della Re-Nazionalizzazione,  in tutto il mondo e anche a livello locale, deve essere posta la ricerca di nuovi soggetti politici, la scelta di nuovi temi fondamentali per affrontare i gravi problemi ecologici e sociali creati da un capitalismo aggressivo che sta cambiando il mondo come lo Tsunami che anni fa ha colpito le coste dell’Asia.

A tale proposito mi pare che un lato molto debole della Lega sia oggi la mancanza totale di un contatto con il mondo “fuori dalle mura”, dunque fuori da Ferrara e fuori dall’Italia.  Il solo “Festival Internazionale” infatti non basta per aprire la città verso il mondo: secondo me il “Festival” va sicuramente bene e va certo incoraggiato e sostenuto ma, talvolta, si presenta troppo autoreferenziale come “una Messa per i già fedeli”.  
Una sinistra nuova dovrebbe invece essere diversa, dovrebbe creare nuove opportunità, fornire nuovi stimoli; per questo ogni tanto servirebbe anche ascoltare di più qualche discorso di Papa Francesco sul futuro della Chiesa Cattolica alla periferia ed al centro di un mondo sempre più precario. 
Insomma, c’è molto da fare, da pensare, da difendere e da costruire una ‘Nuova Ferrara’ non murata in un bunker senza finestre. Per questo forse il ‘Popolo Non-Leghista’ deve frequentare di più i ‘Repair Cafè nelle periferie della città e meno i Street Bar e i salotti dei Palazzi dentro le mura.

Perché, parlando come tedesco, il mondo reale non si trova nei ‘Night-Clubs’ del centro di Berlino o nei salotti dei ricchi intorno alle fabbriche di Porsche, di BMW e di Mercedes. Se non sbaglio la Sinistra tedesca, la SPD, il partito “Linke” e una buona parte dei Verdi, ha capito la sua responsabilità nei confronti della forte crescità di una Destra che sta raccogliando le proteste in tempo di Covid-19 e di una forte scissione sociale dentro la società tedesca.

Sfatiamo il mito:
Il debito pubblico giapponese non è diverso da quello italiano

Ciò che fa la differenza non è tanto la nazionalità del debito (l’essere giapponese piuttosto che l’essere italiano) ma la volontà di gestirlo bene e il mantenimento degli strumenti per farlo.

Ma andiamo per ordine. I dati ci dicono che nel 2019 il debito pubblico giapponese ha superato il 240% e che per l’Italia si prevede il superamento del 166% entro la fine del 2020.

Nonostante una differenza a nostro favore di circa 100 punti percentuali, per il Giappone non sembra essere un problema, la sua credibilità non vede crisi all’orizzonte. L’Italia invece da giornali e tv è data sull’orlo del baratro. A questo punto la domanda è: cosa sfugge ai commentatori ‘seri’?

Chi ha letto l’articolo apparso sul Wall Street Journal il 4 settembre scorso ha già capito che questo articolo seguirà esattamente il filo di quel ragionamento per dimostrare, ovviamente, l’esistenza di un diverso punto di vista. Per dimostrare, sostanzialmente, che nulla, nel mondo dell’economia, è così oggettivo come si vuol far credere. L’economia vive di decisioni politiche come il consenso vive di televisione e di repubblica.it. Il debito pubblico può essere un debito oppure una risorsa, dipende da quali interessi si vogliono difendere.

E’ giustamente vero che il debito pubblico italiano non è sostenibile, o è meno sostenibile di quello giapponese, ma solo alle condizioni attuali. Ed è di queste condizioni che si dovrebbe discutere, di chi e perché le ha create. Se queste siano immutabili oppure frutto di decisioni politiche e, quindi, se queste decisioni abbiano tutelato i cittadini oppure li abbiano esposti a rischi e sacrifici inutili.

Chi scrive ritiene che l’Italia, potendo utilizzare gli stessi strumenti di politica economica e monetaria del Giappone, potrebbe arrivare a gestire anche gli stessi livelli di debito e che già oggi si potrebbe parlare di falso problema semplicemente applicando gli stessi criteri di chiarezza contabile utilizzata per il Giappone.

Con il Wsj siamo comunque d’accordo su un punto: non è solo questione di sovranità monetaria. Si può avere infatti la capacità di stampare la propria moneta ma ci possono essere condizioni internazionali sfavorevoli (si pensi a Weimar), incapacità di gestione della cosa pubblica (si pensi allo Zimbawe) o i due fattori che si manifestano insieme (si pensi all’Argentina oppure al Venezuela). Tolti questi ci sarebbero poi, a volerli vedere, tutti gli esempi in cui comunque la sovranità monetaria funziona e qui andiamo dagli Stati Uniti fino alla Svezia, dalla Corea del Sud, al Giappone, al Canada fino all’Australia e alla Norvegia. Dalla Gran Bretagna fino al Sud Africa ed oltre.

La diversità del debito giapponese sembra risiedere, come fa notare anche Cottarelli, nel fatto che il settore pubblico ne detenga una grande fetta, talmente grande che se la eliminassimo il debito scenderebbe al 153%, meno di quello italiano. Chiarezza contabile dunque. Il debito pubblico giapponese è più al sicuro perché una parte è comprata dallo stesso settore che lo emette, il 37% lo ha acquistato la Boj, poi ci sono i fondi pensione, le pensioni pubbliche e le assicurazioni. Insomma un debito solo formale, una “partita di giro”, un modo per finanziarsi con la propria moneta senza creare problemi. Ovviamente gli interessi che si pagano sul debito detenuto dalla banca centrale ritornano allo Stato generando anche un circolo virtuoso dovuto al signoraggio. Il mondo, e Cottarelli, lo sa e addirittura apprezza.

Se applicassimo lo stesso ragionamento per l’Italia potremmo constatare che attualmente la Banca d’Italia detiene una quota del debito pubblico pari a circa 400 miliardi mentre circa 700 miliardi sono detenuti da istituzioni finanziarie nazionali. Il che ci metterebbe già sullo stesso piano contabile del Giappone, se solo il mondo e Cottarelli se ne accorgessero. Allora la domanda giusta potrebbe essere: “perché non se ne accorgono?”

Poi ci sarebbe la quota detenuta dalla Bce e quindi (cumulativamente), come per il Giappone, ci sono interessi che ritornano allo Stato italiano, il che potrebbe far pensare che questi interessi con i futuri titoli del Recovery Fund andranno persi. Non dico che ciò sia fondamentale, solo che a volte le nostre autorità ci dicono ciò che vogliono dirci omettendo ciò che non vogliono dirci o non vogliono che notiamo, sembra una banale considerazione ma è meglio considerarlo se poi si vuole comprendere davvero le grandi questioni nazionali.

(fonte: statistiche della Banca d’Italia – 15 gennaio 2020)

C’è poi il punto relativo al debito comprato dalle famiglie e quindi del reddito da interesse che rimane all’interno del circuito contrapposto a quello comprato dall’estero, che ovviamente impoverisce finanziariamente il paese che emette il debito (gli interessi vanno all’estero e il capitale è più a rischio perché meno controllabile). Ebbene qui il Giappone fa meglio di noi, infatti solo il 6% del suo debito va all’estero mentre l’1% va alle famiglie, dimostrando quindi di volerlo pienamente gestire sia dal punto di vista di attacchi valutari che inflazionistici. E’ lo Stato, in Giappone, che tiene sotto controllo la politica fiscale e monetaria. Anche qui il mondo osserva e apprezza.

L’Italia ha avuto l’evoluzione come dal grafico seguente, è passata dall’avere un debito estero del 4% nel 1988 al 32% nel 2018 per arrivare a superare i 700 miliardi alle soglie del 2020 (fonte: Statistiche della Banca d’Italia).

Le famiglie passano dal detenere il 57% nel 1988 al 6% del 2018. Quindi sale l’esposizione con l’estero e diminuisce con le famiglie. Una scelta pessima, alimentata dal fatto che in molti casi c’è stata una chiara volontà nello spingere queste ultime all’acquisto di obbligazioni e azioni bancarie allontanandole dai sicuri risparmi assicurati dai Titoli italiani, con le conseguenze che abbiamo visto tutti. Lo Stato, continuamente e secondo gli osservatori nazionali, sull’orlo del baratro ha continuato a tenere fede ai suoi impegni, mentre le banche fallivano lasciando disastri e disperazione. Oggi, costretti a combattere contro il Covid 19, torniamo ai “Bot people” per necessità.

Scelte sbagliate che nell’immaginario comune sono stranamente patrimonio dell’Italia tutta e non solo di quella parte politica che le ha fatte ed imposte, a volte senza neppure passare per il Parlamento. Tanto vero questo che quando, ad esempio, un Draghi qualsiasi fa una considerazione da studente di Liceo viene osannato invece che essere messo di fronte alle sue responsabilità politiche trentennali.

Draghi ‘avverte’ infatti che esiste un debito buono e un debito cattivo. Cioè non vanno bene le mancette ma ci vogliono investimenti, magari in ricerca e infrastrutture, geniale.

Noi però lo sospettavamo e qualcuno addirittura lo sapeva. Si era a conoscenza dell’esistenza di debito buono e debito cattivo, non per particolare bravura ma semplicemente perché bastava ascoltare altri economisti come ad esempio Richard Werner, per rimanere all’oggi, ma potremmo arrivare persino ad aver letto Silvio Gesell per scoprire che i riferimenti alla logica in economia partono da lontano. Ma di più alla portata, in fondo, c’erano anche Keynes e la Costituzione italiana a parlarci della bontà dell’intervento e del controllo statale, in particolare nei momenti di crisi, e degli investimenti e poi del lavoro e della ricerca. La spesa di oggi, diceva Milton Friedman (niente di meno!), farà raccogliere gli interessi alle generazioni future.

Invece la politica italiana ci ha voluto dare altro, l’indipendenza dei mercati, della finanza e delle banche centrali nonché uno stato spettatore più che attore, tranne poi chiamarlo a gran voce quando si è voluto convertire debiti privati in pubblici (per non far fallire banche e istituzioni finanziarie), trasferire gli errori dei singoli alle comunità (per non fargli perdere i bonus milionari) e ridare stabilità al sistema (cioè perché continuasse a trasferire ricchezza dal basso verso l’alto). Il tutto, ovviamente, dando fondo a i nostri risparmi.

La conclusione è che non serve confrontare ciò che non si può confrontare. Il Giappone ha un sistema totalmente diverso dal nostro, ha la possibilità di controllare l’emissione monetaria e la successiva immissione di denaro nel sistema, ha il controllo delle banche commerciali attraverso la sua Banca Centrale che ovviamente è controllata a sua volta dallo Stato, ha la possibilità di decidere autonomamente delle sue politiche economiche. Può quindi riformare ciò che ritiene di dover riformare e indirizzare fondi dove ritiene di doverli indirizzare, può stimolare oppure frenare, può dare soldi alle sue aziende per lo sviluppo e la ricerca, può finanziare le sue università e i suoi ospedali.

Ha, inoltre, dei politici che hanno probabilmente onore, senso dello Stato e del dovere verso i cittadini. Facile governare con tutti questi strumenti a disposizione.

Da questo elenco, cosa ha a disposizione e cosa può fare autonomamente l’Italia? Forse è di questo che si dovrebbe discutere per scoprire che non è semplicemente vero che loro sono bravi solo perché sono giapponesi ma sono bravi perché hanno scelto di essere e rimanere giapponesi pur accettando la complessità del mondo, mentre noi siamo cattivi perché non riusciamo ad essere italiani e inseguiamo il mondo senza capirlo. Nel tempo abbiamo preferito essere un tantino inglesi, francesi, americani e adesso persino tedeschi per avere una direzione. Abbiamo ceduto tutti gli strumenti di natura politica e decisionale per l’incapacità di essere semplicemente noi stessi, convincendoci che la mancanza di capacità dei nostri politici fosse quella di un intero popolo.

UniFe: ritrovato il canino di uno degli ultimi bambini neanderthaliani del Nord Italia

Da: Ufficio Stampa UniFe

Appartiene a un bambino di Neanderthal di circa 11-12 anni vissuto presso il Riparo del Broion, sui Colli Berici (Longare, Vicenza) circa 48.000 anni fa, il dente da latte, per la precisione un canino, che è stato ritrovato grazie a una campagna di scavi condotta nel 2018 dall’Università di Ferrara e dall’Università di Bologna.
Il dentino, che appartiene forse all’ultimo bambino neanderthaliano del Nord Italia, è stato materialmente rinvenuto da Davide Del Piano, Assegnista di ricerca del Dipartimento di Studi Umanistici di Unife e, in tempi rapidi, è stato oggetto di uno studio realizzato da ricercatrici e ricercatori del Dipartimento di Beni Culturali dell’Università di Bologna e del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Ferrara.
I risultati pubblicati sul Journal of Human Evolution, in un articolo firmato a primo nome da Matteo Romandini, precedentemente Assegnista di ricerca di Unife e attualmente in forza a Unibo, sono emersi dalle analisi effettuate anche grazie  alla collaborazione con i Dipartimenti di Evoluzione Umana e di Genetica del Max Planck Institute in Germania, con l’Oxford Radiocarbon Accelerator Unit dell’Università britannica, con il DANTE Laboratory dell’Università la Sapienza e il Bioarchaeology Service del Museo delle Civiltà di Roma. 
Lo studio nasce all’interno del progetto europeo ERC-SUCCESS focalizzato sull’arrivo di noi Homo sapiens in Italia e sul nostro primo incontro con i Neanderthal nella Penisola, guidato da Stefano Benazzi dell’Università di Bologna, progetto a cui collabora dal 2017 anche il Dipartimento di Studi Umanistici di Unife.
“Il lavoro è frutto della sinergia di diverse discipline e specializzazioni – afferma Matteo Romandini, primo autore dell’articolo – quali l’archeologia preistorica di campo ad alta definizione tecnologica, che ha permesso il ritrovamento del dente, e gli approcci virtuali all’analisi morfologica, la genetica, la tafonomia e le analisi radiometriche, grazie alle quali è stato possibile attribuire questo resto a un Neanderthal così recente”. 
Lo studio dei reperti recuperati nel contesto del dentino è attualmente in corso, ma i dati mostrano già un uso continuativo del sito e segni di caccia e macellazione di grandi prede.  
“La produzione di strumenti, soprattutto in selce – prosegue Marco Peresani dell’Università di Ferrara – mostra una grande capacità di adattamento e lo sfruttamento sistematico e specializzato di tutte le materie prime disponibili”.
L’analisi del dente è stata condotta con metodi virtuali e altamente innovativi, che “ci hanno consentito di scoprire che si tratta di un canino superiore destro da latte di un bambino neanderthaliano di circa 11–12 anni, che ha vissuto e frequentato il Riparo tra 48000 e 45000 anni fa, rendendolo il resto di Neanderthal tra i più recenti di tutta la Penisola – confermano Gregorio Oxilia ed Eugenio Bertolini dell’Università di Bologna, tra i primi autori del lavoro.  
I risultati delle analisi genetiche evidenziano che, da parte di madre, questo bambino era strettamente imparentato con altri Neanderthal vissuti in Belgio alcuni millenni dopo, rendendo Riparo del Broion uno dei siti chiave per comprendere la progressiva scomparsa della specie a livello europeo, tema che infiamma ancora oggi il dibattito scientifico internazionale.
“Questo dentino è fondamentale – conclude Stefano Benazzi – in quanto è stato perso in vita da un bimbo neanderthaliano in Veneto, mentre nello stesso momento, a mille chilometri di distanza in Bulgaria (Bacho Kiro) era già presente Homo sapiens come dimostrato da alcuni recenti articoli di coautori di questo lavoro”. 
Le ricerche a Riparo del Broion – avviate nel 1998 dal Prof. Alberto Broglio di Unife e tutt’ora in corso – sono condotte sotto la direzione scientifica di Matteo Romandini e Marco Peresani, grazie alla concessione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e al supporto di Regione Veneto, Comune di Longare (VI), Fondazione Leakey, Fondazione CariVerona, Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, e del già citato progetto europeo ERC-SUCCESS.

Il re nudo, una fiaba moderna

I vestiti nuovi dell’imperatore  è una fiaba danese scritta da Hans Christian Andersen e pubblicata per la prima volta nel 1837. La trama della fiaba è nota e parla di un imperatore vanitoso, completamente dedito alla cura del suo aspetto esteriore, e in particolare del suo abbigliamento. Un giorno due imbroglioni giunti in città spargono la voce di essere tessitori e di avere a disposizione un nuovo e formidabile tessuto, ma invisibile agli stolti e agli indegni. I cortigiani inviati dal re non riescono a vederlo; ma per non essere giudicati male, riferiscono all’imperatore lodando la magnificenza del tessuto. L’imperatore, convinto, si fa preparare dagli imbroglioni un abito. Quando questo gli viene consegnato, però, l’imperatore si rende conto di non essere neppure lui in grado di vedere alcunché. Attribuendo la non visione del tessuto alla sua indegnità, anch’egli decide di fingere e di mostrarsi estasiato per il lavoro dei tessitori.
Col nuovo vestito sfila per le vie della città di fronte a una folla di cittadini i quali applaudono e lodano a gran voce l’eleganza del sovrano, pur non vedendo alcunché nemmeno essi e sentendosi essi segretamente colpevoli di inconfessate indegnità.
L’incantesimo è spezzato da un bimbo che grida con innocenza “Ma il re è nudo!”.
Ciononostante, il sovrano continua a sfilare come se nulla fosse successo.

Desidero proporre ora una riflessione che proprio partendo dal messaggio contenuto in questa fiaba possa sostenere il pensiero critico a non rimanere impantanato nei vari ismi che possiamo vedere agitare sempre di più la nostra società nelle forme del negazionismo, populismo, relativismo, dogmatismo, fascismo
Il re è nudo! si grida a gran voce nella fiaba. Questo fatto è talmente evidente da suscitare una reazione paradossale nei presenti: la sua ovvietà viene gridata a gran voce da un bambino, ma allo stesso tempo negata da chi questa evidenza vuole coprire, poiché spinto da interessi di altra natura.

Come si arriva al negazionismo

Siamo tutti uguali. E’ un dato talmente scontato in una società che si definisce democratica, che il rischio è proprio quello di dimenticarselo. Possiamo osservare i nostri figli giocare con gli altri bimbi allo stesso modo negli anni della scuola dell’infanzia, senza nessuna preclusione rispetto al colore della pelle, provenienza geografica o culturale, disabilità. Poi crescendo cosa succede?
Per giustificare certi orrori
, che con una parola chiamiamo razzismo, ecco che diventa necessario mettere tra parentesi il nostro essere uomini, la nostra comune natura, etichettare e ridurre l’altro ad artificiose e reificate identità: quella dell’ebreo, del nero, del migrante dell’omosessuale…

Solo così, da veri anestesisti dell’anima riusciremo passo dopo passo ad arrivare all’insensibilità emozionale, necessaria per giustificare anche linguisticamente la trasformazione della solidarietà in buonismo, per chattare contenuti grondanti di odio, per redigere atti legislativi dove le persone sono ridotte a pacchi postali da collocare in modo burocratico.
Per arrivare a questo risultato è necessario tenere accesa la televisione durante i pasti per vedere, mentre si consuma il pranzo, immagini di esseri umani morire di fame.
E’ necessario smettere di studiare, dimenticare la nostra storia, le nostre radici e appiattire tutto sul presente, non fare memoria di nulla, perché solo così tutto si può negare…anche che il re è nudo!

I problemi legati all’immigrazione ci sono e sono enormi. Devono essere gestiti con responsabilità e competenza. Non affrontarli in nome di una accettazione generalizzata sprovvista di una politica di integrazione è doppiamente colpevole. Altra cosa però è utilizzare queste emergenze solleticando e sfruttando la stanchezza della gente per fini di potere! Non bisogna mai dimenticare che stiamo parlando di esseri umani!
Metaforicamente il bambino della fiaba di Andersen lo assimilerei alla nostra Carta costituzionale, voce che è necessario ascoltare in tutti quei casi in cui vogliamo essere rassicurati sulla congruità delle nostre scelte.
Per esempio sulle democraticità delle scelte politiche.

Quando si perde la memoria 

Eccidio di Sant’Anna di Stazzema 12 agosto 1944,560 morti;
Eccidio delle Fosse Ardeatine, 24 marzo 1944, 335 morti;
Eccidio di Lippa di Elsane30 aprile 1944,269 morti,
Eccidio del Padule di Fucecchio 23 agosto 1944, 174 morti…questo elenco purtroppo è molto lungo e visto che a scuola questi avvenimenti non si studiano quasi più, chi vuole può, consultando L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia 43-45 (,ed.Il Mulino,2016), ritrovare  tutte le stragi di quel periodo con i 5.607 episodi di violenza, per un numero complessivo di 23.669 persone uccise.

Questo fu il fascismo. Ed è per questo che la XII disposizione transitoria e finale della Costituzione italiana vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista.

Desidero proprio rivolgere queste note col cuore in mano a chi è insofferente ed infastidito dalla cosiddetta retorica della Resistenza.
Non lasciamoci tentare dall’opporre, quasi in modo ragionieristico, alle stragi sopra richiamate i morti causati dalla reazione partigiana, nasconderemo solamente che il re è nudo! Dovremmo invece tutti vigilare affinché non siano ostentate, in modo particolare oggi sui social, dai nostalgici del ventennio, simboli, motti, effigi che in un qualche modo possano essere ricollegati a quegli orrori.
Dovremmo tutti ritenere che queste dimostrazioni pubbliche di un richiamo ai caratteri del fascismo storico non siano da archiviare come manifestazioni folcloristiche di un numero limitato di soggetti, ma pericolose deviazioni rispetto a ciò che dovremmo condividere come cittadini per il mantenimento di una società democratica.

L’esempio della Polonia

Guardiamo a ciò che sta succedendo nella Polonia di oggi, il paese che ha conosciuto Chelmo, Belzec, Sobibor, Treblinka, Auschwitz-Birkenau e Maidanek dove oramai da un po’ di anni sta crescendo sempre più un clima antisemita che rischia di rovinare l’Europa intera.
Abbiamo ancora negli occhi l’immagine del 17 febbraio del 2018 quando il primo ministro polacco Morawiecki depose un mazzo di fiori in un cimitero tedesco sulle tombe dei polacchi che durante la seconda guerra mondiale collaborarono con i nazisti, considerando i sovietici e i comunisti un nemico peggiore.
Commenta W, Goldkorn dalle colonne de l’Espresso: “Morawiecki è un signore cinquantenne, colto e istruito. Ha studiato economia in Europa e negli Stati Uniti, è diventato un importante banchiere. Insomma, è un uomo che conosce il mondo. Eppure, quel mazzo di fiori in onore di gente che nell’inverno del 1945 lasciò il territorio polacco assieme ai reparti nazisti – e che tradì la Polonia – veniva deposto proprio nei giorni in cui lo stesso premier spiegava che c’erano ebrei tra i perpetratori della Shoah; e a poche settimane dall’inizio delle commemorazioni del cinquantesimo anniversario dell’espulsione, nel 1968, degli ultimi ebrei rimasti in Polonia: traditi quindi dalla Polonia.”.

Un limite da non oltrepassare

Non c’è il tempo qui per analizzare compiutamente come sarebbe necessario tutti i richiami storici sopra riportati e il rischio è quello di esporsi a immediate contro argomentazioni che però a mio avviso non dovrebbero offuscare il messaggio che faticosamente tento di proporre. Qui non è il problema di dare il torto agli uni e la ragione agli altri, o di imporre sulle una propria verità.
Discutiamo, confrontiamoci, studiamo il più possibile senza trincerarci dietro a barriere ideologiche o pregiudizi di sorta; la cosa importante è porre il limite oltre cui nessuno può andare, oltre cui la facoltà critica diventa negazione dell’altro.
E questo rischio si corre ad ogni livello. E’ in fin dei conti un discorso di assunzione di responsabilità verso le giovani generazioni.

Quando si ha a che fare con l’interesse pubblico il dovere principale è quello di esplicitare quali siano gli interessi in gioco.
Il governo ha obbiettivi di un certo tipo, l’opposizione  un altro, i cittadini spesso  un altro  ancora; la democrazia riguarda l’equilibrata conciliazione di tutti questi diversi interessi attraverso l’arma bianca del compromesso.
E tutto ciò sia che riguardi i problemi di politica internazionale che quelli interni come, solo per fare un esempio, le misure anti covid da prendere per il rientro a scuola (davvero si ritengono provvedimenti adeguati il distanziamento di un metro in classi di 25 studenti, e autobus carichi completamente in tragitti fino a quindici minuti?).

Solo questo modo di agire, disinteressato, pubblico, critico come insegna l’intero percorso conoscitivo di J.Habernas, potrà consentire di formare una coscienza civica sensibile alla ricerca del bene comune, che non giochi a nascondino con la realtà mistificandone i fatti e dove anche in questo caso  possa essere sempre possibile che si levi alta una voce a richiamare tutti che  il re è nudo!