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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


PAROLE A CAPO
Beniamino Marino: “Il volo” e altre poesie

Rubrica a cura di Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini

“La poesia ci abitua a pensare. Il pensare ci abitua a pensare l’essere (fisico, psichico, storico) dentro al tempo, come suo orizzonte”.
(Gianni D’Elia)

 

DIETRO L’ORIZZONTE

Apro gli occhi ancora assonnati.

Scruto l’orizzonte e il cielo azzurro di stamani.

Si insinua agile il pensiero bello di te

nelle fessure del cuore mio torvo.

Vago indolente per le strade deserte, mi segue il ricordo

del suono argentino del tuo sorriso e della voce.

Vorrei che tu fossi accanto a me ora.

Quante emozioni si ridestano, rinasco finalmente.

Incedono come selvaggi cavalli, onde di un mare procelloso.

Desideri che si eclisseranno dietro l’orizzonte tra qualche ora, il sole

declinante li imporporerà coi suoi raggi.

Forse ti rivedrò?

Saremo felici di nuovo.

 

IL VOLO

Fuggi, ti esorto con tutto

il cuore. Fuggi lontano

da questi miasmi pestiferi,

da questo assordante

chiacchiericcio.

Bevi fino ad ubriacarti

il liquido prezioso del

cielo terso

di questo mattino invernale.

Danza mostrando

il corpo tuo sinuoso,

effondi i tuoi

profumi inebrianti,

fai ondeggiare la tua

ricciuta chioma.

Fai strabuzzare

gli occhi degli angeli

ancora assonnati.

Ridesta la loro voglia d’amore.

Rendi meno infelice,

grama la loro vita.

 

TRAMONTO SURREALE

Incedo lentamente sul

sentiero del bosco

cosparso di foglie gialle e

rosse,

i miei piedi le frantumano,

il loro suono interrompe il

silenzio.

Pensieri che volteggiano

insieme

ai ricordi nella mente.

Occhi bagnati dalle lacrime

che brillano come perle preziose.

Il sole scaglia i suoi ultimi

raggi,

tinge le nuvole di rosso,

prima di

scomparire oltre la linea

dell’orizzonte.

Si odono le grida di

bambini

che giocano lontano

da me.

Nulla scuote la mia

indifferenza,

la speranza si allontana

per andare altrove.

Lascia le sue impronte ed

io le seguo

con gli occhi invano.

La notte cala dal cielo,

un prezioso sudario

avvolgerà la città.

Il mio cuore si distende su

quel letto di foglie,

il silenzio del bosco lo

inebrierà.

Beniamino Marino
“E’ un compito ostico e semplice quello di scrivere pochi pensieri per descriversi. Sono un 58enne, amo leggere romanzi, poesie e saggi.  Nutro un grande interesse per l’arte. Faccio fotografie con cui esprimo le mie emozioni. Dipingo saltuariamente. Scrivo da pochi anni poesie.”.

Dal 6 al 18 luglio  Parole a capo, la rubrica di poesia di Ferraraitalia, esce ogni mattina durante tutta la settimana.
Per leggere tutte le puntate e tutti i poeti di ‘Parole a capo’ clicca [Qui]

PAROLE A CAPO
Andreina Moretti: “La mia terra” e altre poesie

Rubrica a cura di Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini

“La poesia è qualcosa, o qualcuno, che dentro di noi vuole disperatamente essere”
(Marina Cvetaeva)

 

LA MIA TERRA

La dolce voce di mia madre,

il caffè che borbotta sulla fiamma,

la tenda leggiadra volteggia come una ballerina

sospinta da un brezza salmastra e conosciuta,

i profumi rapiti ai gerani sui balconi assolati,

odore di rose, di baci rubati, di resina e mare,

di conchiglie naufragate e reti addormentate.

Il campanile scava dentro il cielo

tingendo di azzurro le ore,

la salubre pineta  abbraccia d’ombra i sogni di un bambino,

le fontane abbandonate agli angoli  delle vie

gocciolano memoria.

La sabbia incandescente e bianca

corre a smarrirsi nel mare e nel suo orizzonte,

una radio, una canzone, evocano ricordi

come briciole di pane scrollate dall’alto.

L’odore dei viali fiancheggiati dalle siepi

mi conducono a casa,

la mia terra è una bruna donna,

una dura zolla dissodata,

è il tramonto sulle barche,

un odore di festa e tradizioni,

un mare di storia e civiltà,

la mia terra è la culla del cuore e dell’amore.

 

L’ONDA E IL SUO RICORDO

Mentre il mare consuma

l’eterno all’orizzonte,

le stelle e le conchiglie

raccolgono silenzi

di  pietre e  desideri.

L’onda e il suo ricordo

cullati nelle  reti

colme di canti di sirena

di voci di madri

e odori di  lontani mari.

Gli scogli dimenticati e sconosciuti,

vestono cappotti di alghe

e granchi morti,

abbracciano l’immenso circostante

raccontano di perle e di maree.

Sul manto dell’acqua più celeste,

le  anime affamate dei gabbiani

vagano con piume più leggere,

in cerca di pesci sconosciuti,

nel sale che avvampa le ferite.

L’onda torna al suo ricordo

per morire nuovamente

e  risorgere d’incanto,

intona una melodia assai remota

che solo gli angeli hanno già ascoltato.

 

SONO UN ALBERO

Io sono un albero

con il corpo abbottonato alla corteccia,

rifugio degli spettri nella notte,

impigliato al vento il suo mantello

ridesta ogni bimbo dal suo sonno.

Sono un albero e una sposa,

di fiori e di profumi un anello,

in pegno la  promessa del suo frutto.

Sono un albero che annusa la natura circostante,

respira l’universo della gente,

cercando il destino e il suo disegno.

Sono un albero che cerca nel passato la sua storia,

affonda le radici assai bramose

nel sangue e nella terra dei ricordi.

Sono un albero e sono un guerriero

che lotta contro il tempo e le stagioni,

illusa protendo all’ infinito e all’ eterno.

Le braccia al cielo in preghiera

e Dio si inginocchia e spera,

rapito dal battito di un cuore.

Sono un albero solcato dalle rughe,

dalle pene e dagli errori,

è scritto che i germogli dell’amore

l’anima del poeta  desteranno.

 

Andreina Moretti
(Roseto degli Abruzzi, 1959). Da bambina sognava di divenire una scienziata, ma la famiglia non ha avuto la possibilità di farle continuare gli studi, così la sua vera scuola è stata la vita, e la scrittura è diventata il suo magico mondo in cui rifugiarsi. Tra le pubblicazioni segnaliamo: Nel cielo di Erode (poesie, 2015); La fontana del Santo (2016), in cui narra la storia di Roseto degli Abruzzi; Il cuore in tasca e i ricordi in valigia (romanzo, 2017); Il sonno dei pesci (poesie, 2019). Ha partecipato a numerosissimi premi letterari tra cui segnaliamo: Prima classificata al concorso “Per te donna”; Medaglia ad honorem al concorso “Giovanni Paolo II”; Prima classificata al concorso “Troskijcafè”; finalista al concorso “Alda Merini”; Prima classificata al concorso “Peppino Impastato”. Regista ed autrice di opere teatrali.

Dal 6 al 18 luglio  Parole a capo uscirà ogni mattina durante tutta la settimana.
Per leggere tutte le puntate e tutti i poeti della rubrica Parole a capo clicca [Qui]

Guerriere

C’è sempre e ancora quella sottile pellicola di fragilità e debolezza che avvolge le donne dell’immaginario collettivo, anche se oggi ci si limita a pensarlo perché non sarebbe politically correct esprimerlo ad alta voce. Un’idea dura da estirpare, nonostante l’evidenza. Eppure le donne hanno contribuito a far andare avanti l’Italia della pandemia, della difficoltà estrema, dello shock.
Ci ha pensato il grande disegnatore di fumetti Milo Manara, maestro dei comics, a rendere riconoscimento e omaggio al genere femminile impegnato a soccorrere, accudire, aiutare e dare un senso di quotidianità rassicurante alle giornate più buie. Uscirà a fine luglio “Lockdown Heroes”, una raccolta di 25 illustrazioni che rappresentano dottoresse, infermiere, commesse, operaie, poliziotte, ferroviere…, il cui ricavato verrà destinato all’Ospedale Sacco di Milano, al Cotugno di Napoli e al Policlinico universitario di Padova.
Il loro spirito battagliero, il coraggio irriducibile e l’abnegazione, hanno valso quella definizione, “Heroes”, meritata come tante medaglie guadagnate sul campo. Donne guerriere della nostra epoca, che non hanno nulla da invidiare alle eroine del passato di cui ci narra la storia, spesso accompagnate nelle loro battaglie da un alone di leggenda.

Artemisia, sovrana di Alicarnasso (VI – V secolo a.C.), accompagnò il re persiano Serse nella campagna contro i greci a Salamina, vestendo il ruolo di comandante. Nel vederla combattere, il persiano pronunciò la frase “I miei uomini sono diventati donne, mentre le donne sono come gli uomini”.
Una figura sorprendente è l’ultima grande donna del Medioevo, Caterina Sforza (1463-1509), Signora di Imola e Contessa di Forlì, soprannominata “tigre” per lo straordinario coraggio. Difese con i denti i suoi regni dalle pretese di annessione di Cesare Borgia, pianificando manovre e addestramenti per le milizie. Nella vita privata amava occuparsi di alchimia e di caccia. Visse tra complotti, infedeltà, minacce e violenze, matrimoni e vedovanze senza mai lasciarsi intimorire. Incinta di uno dei suoi figli, si asserragliò nel Castel Sant’Angelo per 12 giorni, minacciando il Vaticano a difesa dei  suoi territori. A 36 anni, con 8 figli, rimase vedova per la terza volta e dopo una breve prigionia a Roma, passò il resto della sua vita a Firenze.
Ching Shih, cinese, (1775-1844) passa alla storia come la pirata più potente che si conosca. Prostituta di Canton nel bordello di Guangzhou, sposò un pirata, e alla sua morte ne prese il posto.  Il suo esercito piratesco consisteva in 80.000 uomini e 1800 navi. Era considerata spietata e crudele ma attenta alle altre donne: nel suo codice di leggi per le donne prigioniere proibiva ogni violenza da parte delle ciurme, anche se poi le destinava come mogli ai suoi filibustieri. Fu sconfitta dall’esercito portoghese nel 1810 e si ritirò dalla pirateria, conservando i suoi bottini.
Un nome ricordato nella storia delle donne guerriere e in quella dell’imperialismo britannico è Rani Lakshmi Bai (1827-1858), proveniente da una famiglia altolocata della città di Varani, in India. Studia arte militare e combattimento e a 15 anni va in sposa al sovrano di Jhansi. Alla morte del marito e del loro figlio, rimane unica sovrana. Si ribella agli inglesi che vogliono annettere il suo regno e combatte strenuamente per due settimane, prima che la città cada. Si unisce ad altri leader della rivolta antibritannica e si batte con estremo coraggio, definita dagli inglesi “la più bella, intelligente e pericolosa tra tutti i leader indiani”.
La giapponese Nakano Takeko (1847-1868) fu una onna-bugeisha, una donna samurai che praticava le arti del combattimento per protezione. Fu a capo dell’esercito di guerriere che combattevano con la naginata, la temibile spada a lama ricurva. Trova la morte a soli 21 anni, nella battaglia di Aizu, durante la sanguinosa guerra civile che devastò il Giappone settentrionale.
Durante la II Guerra mondiale, Lyudmila Pavlichenko, Nancy Wake, Marina Raskava sono solo alcuni dei nomi da ricordare. Lyudmila, combattente nelle file dell’esercito sovietico dal quale era stata respinta inizialmente perché donna, fu uno dei migliori cecchini che la storia ricordi. Uccise 187 tedeschi solo nei primi due mesi di conflitto e divenne figura molto temuta. Nancy Wake, agente speciale britannica e comandante della resistenza,  si battè contro i nazisti, sabotando depositi e distribuendo le armi ai partigiani francesi. Specialista nelle fughe, venne soprannominata dai tedeschi “topo bianco”. Divenne il primo nome della lista dei ricercati dalla polizia nazista, con una taglia sulla sua testa di 5 milioni di franchi. Marina Raskava fu pioniera dell’aviazione russa e, delegata da Stalin, addestrava al volo le giovani reclute. Fondò le “Streghe della notte”, una flotta aerea al femminile, che pilotava aerei biplano di legno, sorvolando i bersagli e creando azioni di disturbo con un carico limitato di bombe.
La lista di guerriere sarebbe ancora lunghissima ma ne ricordiamo in particolare una: la giovane Asia Ramazan Antar, curda. A soli 16 anni è entrata nell’unità di protezione delle Donne, le truppe siriane femminili in lotta contro l’Isis e la dittatura repressiva di Bashar al-Assad. Giovane donna, simbolo di una resistenza eroica insieme ad altre sue compagne, è morta in combattimento nell’agosto del 2016.
Donne sensibili ed emotivamente vulnerabili che diventano leonesse quando la vita glielo impone, ora come un tempo.

PER CERTI VERSI
I giorni di Ustica

Ogni

domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
[Qui]

I GIORNI DI USTICA

Sono i giorni di Ustica
Ero un ragazzo dai tanti capelli ricci
Tu eri aria
Chissà forse ci incontravamo già nella bassa
In uno dei sabati come questi dove nessuno passa
Neanche il dolore passa
Per tutti i morti durante lo scontro
E dopo
Una serie impressionante
Di intrighi
Forse tutti e due siamo aria
Entra dal finestrino
Mentre fumi
E poco si spiega
Di quella storia
I frantumi

LO CUNTO DE LI CUNTI
La Taverna di Dio

Rubrica a cura di Fabio Mangolini e Francesco Monini

“Siamo in missione da parte di Dio”: chi non ricorda la mitica frase passe-partout che il mitico John Belushi pronunciava nel mitico The Blues Brother? Da allora di acqua ne è passata davvero tanta. il film è del 1980, e il ‘fratello’ John Belushi se n’è andato dopo un paio d’anni, ma – come miracolosamente accade a quei rari manu-fatti che si tramutano in Mito – molte di quelle immagini, e parole, e musiche e gesti sono rimaste impigliate nella nostra memoria collettiva.
Ed è rimasto soprattutto un particolare ‘clima’, una specie di sorriso struggente che solo a volte ci capita di rincontrare. Come ad esempio in questo racconto di
Cristiano Mazzoni, ambientato non a Emmaus ma in una taverna contemporanea e dove un Dio in persona strapazza a dovere i suoi moderni apostoli disobbedienti e mette in croce guerre, ricchezze e malefatte di 2.000 anni di Chiesa-Stato.
Legge il racconto
Fabio Mangolini. Buon ascolto, buona visione e buon divertimento.
(I Curatori)

Lo Cunto de li Cunti – Cristiano Mazzoni “La taverna di Dio”, letto da Fabio Mangolini

 

LA TAVERNA DI DIO

In un angolo della piccola sala, ad un tavolo appartato, seduto su una seggiola impagliata, giaceva un uomo, canuto, robusto, di corporatura possente. L’uomo aveva una lunga barba bianca, capelli molto lunghi acconciati con strani dreadlock ante litteram. Era abbigliato in modo strano, sembrava avesse una tunica bianca lunga, con calzari antichi, simili a quelli utilizzati dai romani duemila anni fa. Anche la taverna a dire il vero era strana, si direbbe vintage, utilizzando un vocabolo moderno che però poco si addiceva al luogo. Pochi ed educati avventori, nessuno schiamazzo, musica irriconoscibile in sottofondo, molte caraffe d’acqua e vino sui tavoli, fette di pane ed olio, zuppe di ceci e fagioli. Nessuno che si abbuffasse o che galleggiasse sopra alle righe.
L’uomo, nel tavolo più lontano dal bancone, fumava assorto una pipa, lunga e sottile, davanti a se una piccola caraffa di vino vermiglio ed un bicchiere mezzo vuoto, una fetta di pane intonsa e le posate ordinate a lato del piatto. L’uomo, di cui si capiva l’ascendente ed il carisma, aveva la faccia particolarmente corrucciata, rughe di pensiero ed espressione gli solcavano il viso abbronzato. Con la mano sinistra si sorreggeva la testa, appoggiando il gomito sul tavolo. Fumava talmente lentamente che le braci nella caldaia rischiavano di spegnersi.
Borbottava tra se, sembrava disperato era come se fosse consapevole del suo fallimento, senza conoscerne appieno le ragioni.
« Dove ho sbagliato ? Quando sono diventato l’oggetto, l’arma con cui gli uomini mascherano la propria ottusità e la propria cattiveria ? Si scannano tra di loro da millenni, inneggiando ai miei nomi, mi dipingono su scudi crociati, su mezze lune, sui baveri di nere uniformi, crociate e controcrociate, inquisizione, evangelizzazione, olocausti, religioni di stato e stati religiosi »
« Giuro, se non fossi colui che è, darei ragione a quel ragazzone tedesco, con la barba, che è qui da noi da poco; si la religione è l’oppio dei popoli, il fumo con cui le menti ottuse si inebriano confondendo la morte con la salvezza, l’intolleranza con la tolleranza, il profitto a discapito di tutti e tutto, l’abbruttimento con la bellezza. Blasfemi. Uccidono con tutte le armi visibili ed invisibili, con le bombe intelligenti e sante, con le lame antiche e nuove, col fuoco depuratore, col petrolio ed i soldi, con gli imperi e l’imperialismo. A mia immagine e somiglianza ? ma chi ha scritto questa cazzata ? occhio per occhio dente per dente, per rimanere ciechi e sdentati. Credono di conoscermi, vogliono sapere, mi trasformano in ciò che gli fa più comodo. Se non fossi io, sarei ateo ».
Nel frattempo, altri due uomini, altrettanto fuori dal tempo discutono a bassa voce, quasi sussurrando per non farsi sentire, al bancone del bar. Uno di spalle, sui trent’anni, atletico, capelli lunghi e barba incolta, non fosse stato per la tunica e i sandali sarebbe stato tale e quale al front man dei Doors, Jim Morrison, l’altro altrettanto aggraziato nelle membra ma più anziano, aveva una kefiah sulla testa ed una lunga barba scura.
I due, sembrava non volessero farsi sentire dagli altri, strani avventori della locanda.
« Preparati che fra poco ci chiama e vedrai, quanto sarà incazzato con noi ».
« Lo so, Lui ci ha mandato sulla terra a diffondere il verbo, ma che colpa ne abbiamo noi, se quelli non hanno capito una parola, che sia una. Hanno traviato, stuprato, violentato il nostro esempio. Sono acciecati dalle scritture, sono avulsi nelle loro idee, che non riescono a capire quanto sia bella la diversità, di pensieri parole opere e omissioni. La storia insegna, ma gli uomini sono degli scolari inetti, disattenti ed ottusi».
Nella taverna, si aggiravano nel contempo, con fare rilassato strani personaggi. Un corpulento uomo glabro, abbigliato con una specie di pannolino gigante, parlava roteando ritmicamente le braccia ed indicando punti lontani in un immaginario universo di luce, mentre due avventori lo ascoltano con dedizione. Un indiano metropolitano, raccontava, deluso e rassegnato, fiabe sulla natura, sull’ acqua, sull’ aria, sulla madre terra e sul fuoco, nel paese degli uomini, oramai popolato solo da ombre erranti, disperse tra i fumi di un alcool velenoso.
Sembravano tutte persone importanti, anche se definirle persone era abbastanza riduttivo, se non offensivo, forse blasfemo.
L’interno della locanda era caratterizzato da una luminosità tenue, emessa da antiche lampade ad olio, con una strana caratteristica, non si esaurivano, lo stoppino rimaneva acceso e non si accorciava mai. Tavolini quadrati e tondi apparecchiati in maniera minimal con tovaglie di carta del pane, gialla. Qualche caraffa di vino si perdeva nel mare magno di brocche d’acqua, fresca e talmente limpida da sembrare inesistente.
L’unico vizio che pareva concesso in quel locale, era quello del fumo, che a dir la verità sembra più vapore, non si percepiva infatti lo sgradevole odore del tabacco stantio, ma un salubre aroma salmastro, quasi termale.
« Muhammad, Emanuele, venite qui ! »
Una voce possente, impositiva, saturò l’ambiente dell’osteria. Dopo quel tuono, tutti gli occhi si rivolsero ai due uomini appoggiati al bancone.
« Lo sapevo, questa volta è arrabbiato forte, e pure sono millenni che gli uomini utilizzano il suo o nostro nome per compiere delle immani porcherie » sussurrò a mezza voce uno dei due.
« Siamo qui Padre, ci devi parlare ? »
« Vi devo parlare ? Ma la guardate la TV satellitare oppure state tutto il giorno a cazzeggiare nel limbo ? »
« Ma noi veramente …. »
« Mi piacerebbe sapere che cosa gli avete raccontato a quelli laggiù, ho investito un sacco di forze per farvi studiare, vi ho mandato a mio nome e questo è il risultato ? Guerre sante, guerre di religione, guerre umanitarie, guerre di evangelizzazione, guerre di potere, guerre economiche, guerre per il petrolio, guerre tra razze, guerre tra pastori ed allevatori ed altre mille. Non ci siamo dimenticati che siamo monoteisti vero ? no perché, se così non fosse, al vostro posto avrei mandato giù Marte ! »
« Io ho 99 nomi, sono uno e trino, molti mi aspettano come Messia, altri mi vedono come essere femminile, altri come Budda, altri come il tuono, il magnanimo, come il Creatore, come la luce, ecc. ecc. e noi da quassù solo questo siamo riusciti a creare ? un mondo d’odio ? La tolleranza, la giustizia, la bontà, la pace, ma dove sono finite ? siamo solo chiacchiere e distintivo ? e poi, ma voi lo sapete, che saranno almeno 5 secoli che qui su da noi arrivano più atei che credenti ? abbiamo creato dei mostri che si nutrono dei bambini, altroché i comunisti di una volta …. »
E continua « Col diluvio abbiamo già provato e non abbiamo risolto nulla, ho scacciato i mercanti dal tempio, ma si sono moltiplicati come i Gremlins, le sette piaghe sono diventate sette milioni e niente, Gomorra è più potente che mai; questi sono di capa tosta. Un idea ce l’avrei. Mi incazzo, scendo giù io, tolgo il potere ai potenti e lo consegno nelle mani dei bambini, creo delle infantocrazie e gli adulti intolleranti e tronfi, i capi, i governanti, gli egoisti, i predicatori d’odio, li faccio tutti lavorare in fabbriche di giocattoli. Gli vieto la tessera della FIOM e li faccio sgobbare in catene di montaggio, senza pause e con gli straordinari non pagati. Altro che armi e bombe. Prendo le armi del mondo, le fondo e costruisco materiali per cavalli a dondolo ».
L’uomo dalla lunga barba bianca pareva davvero arrabbiato, nella taverna calò un ondata di freddo glaciale, tutte le fiammelle delle candele e delle lampade ad olio sobbalzarono all’unisono.
Nello stesso momento entrò nella locanda, un ometto vestito di tutto punto, giacca e cravatta compresi, che si diresse nel tavolo d’angolo, dove erano seduti i tre.
« Amici, sono venuto a regalarvi il libro con le parole di Geova, non abbiate indugio, leggete il verbo e cantate con noi ». Disse, l’ometto appena entrato.
« Testimone ? ma non hai visto chi siamo ? il libro delle parole, a noi ? Ascolta, non abbiamo tempo, prenditi una pausa e vatti a vedere la partita. Al campo celeste c’è un partitone, profeti contro angeli, di alla maschera che ti mando io. Vedrai che ti fanno entrare. »
« Grazie, grazie, vado subito e chissà che non riesca a piazzare qualche libro. »
« Ecco. Bravo, vai. »
« E quindi capo, cosa facciamo come mettiamo una pezza ai nostri errori ? »
« Stavo pensando di rimandare giù, a mio nome un po’ dei ragazzi che non credono in me. Comincerei col tedesco, l’argentino e due italiani (sardi). Li manderei in missione per conto di Dio, in ogni angolo di quel piccolo e derelitto pianeta e farei capire a quel branco di testine di cernia, che la vita è gioia, tolleranza, ricerca delle differenze, biodiversità di pensiero, luce. Il male è l’oscurantismo del denaro, degli assolutismi, degli integralismi, delle religioni vissute come prevaricazione, come noi contro di voi, come il mio Dio è migliore del tuo. Sulla terra esiste una sola razza, quella umana, diceva uno scienziato, che pure lui non credeva in me. E poi, mi viene pure una domanda, com’è che tutti quelli che mi rappresentano, che conoscono la mia parola, che hanno vissuto nella rettitudine, pur essendo peccatori, non sono religiosi ? Non è che poi, alla fine, sono ateo anch’io ? »

Il racconto Cristiano Mazzoni  La Taverna di Dio è già apparso su Ferraraitalia il 31 dicembre 2016.

Lo Cunto de li Cunti, i racconti da leggere, guardare e ascoltare, torna su Ferraraitalia ogni domenica mattina. Per guardare e ascoltare tutte le videoletture del Cunto de li Cunti clicca [Qui] 

Cover: elaborazione grafica di Carlo Tassi

OLTRE LA BUFERA
Oggi, venerdi 3 luglio, ore 21.15 su Rai Storia
Prima Tivù del film di Marco Cassini su Don Minzoni

di Stefano Muroni

Nelle settimane drammatiche dell’epidemia, la società Controluce, fondata da Stefano Muroni e Valeria Luzi, con sede a Roma e a Ferrara, ha continuato a lavorare intessendo rapporti importanti con la Rai.
A marzo la società ha presentato all’azienda televisiva l’ultimo lavoro, Oltre la bufera, ultimo film scritto e diretto da Marco Cassini, su don Giovanni Minzoni, parroco ucciso dai fascisti ad Argenta nel 1923.

dal film su Don Minzoni di Marco Cassini Oltre la bufera (2019) – foto di scena

La chiamata da parte di Rai è arrivata ad aprile da parte di Marina Chiaravalle – braccio destro di Paolo Del Brocco, amministratore delegato di Rai Cinema – la quale ha comunicato alla società la volontà della Rai di acquistare il film. Nel mese di giugno è stato contrattualizzato l’accordo, che prevede 4 anni di acquisto di cui i primi otto mesi di esclusiva.
Il film sarà messo in onda oggi, venerdì 3 luglio, in prima serata, ore 21.10, su Rai Storia, canale 54, a pochi giorni dai 135 anni dalla nascita del parroco ravennate, festeggiati il 29 giugno.
Ci sarà subito una replica il giorno dopo, sabato 4 luglio alle 9.40 del mattino. La Rai ha già espresso la volontà di portare il film in altri canali Rai, in concomitanza con altre ricorrenze minzoniane e storiche.

dal film su Don Minzoni di Marco Cassini Oltre la bufera (2019) – foto di scena

Sono orgoglioso di essere riuscito a portare un film così importante in prima serata sulla Rai. Intanto perché è la nostra storia, dei nostri luoghi, dei nostri nonni. Poi il film è stato girato interamente nel ferrarese: da Ferrara a Mesola, da San Bartolomeo in Bosco a Portomaggiore, da San Vito di Ostellato fino ad arrivare al Museo della Civiltà Contadina. Per me l’arrivo in Rai è la vittoria di un intero territorio, rappresentato da comuni, società, Camera di Commercio, CNA, cooperative, banche, Rotary, Lyons, privati, Regione Emilia Romagna, Istituti di Storia, che si sono messi assieme perché hanno creduto a questo progetto. Il merito va a loro, in primis.

Infine questo film è stato realizzato con un concetto imprenditoriale precisissimo: abbiamo fatto esordire ragazzi del ferrarese che si sono formati al Centro Preformazione Attoriale e che poi sono entrati alla Scuola d’Arte Cinematografica Florestano Vancini. Stiamo diventando una città, un territorio dove le nuove generazioni possono preformarsi, formarsi professionalmente e muovere i primi passi nel mondo del lavoro, trovandosi in prima serata sulla Rai a 20 anni. E’ per me una rivoluzione, motivo di grande soddisfazione, anni fa queste possibilità erano impensabili a Ferrara.

Questa filiera, che noi chiamiamo Ferrara La Città del Cinema, la ufficializzeremo dopo l’estate, assieme all’Amministrazione Comunale di Ferrara, la Provincia e la Regione.Partendo da questo venerdì, prima serata sulla Rai, col film su don Giovanni Minzoni”.

Stefano Muroni, ideatore, produttore e protagonista di Oltre la bufera

LA RIQUALIFICAZIONE DI CEMENTO
“Spero che questa Giunta abbia il coraggio di bloccare il nuovo mostro della Darsena”

Marzia Marchi – Ambientalista

Gentile direttore,

Trovo veramente curioso che ogni intervento di cosiddetta riqualificazione urbanistica si traduca inevitabilmente in una nuova colata di cemento!
L’avevo scritto in occasione della fantomatica piazza Verdi che da parcheggio, una volta riqualificata si è trasformata in immenso dehoors per i bar circostanti. Costi pubblici e guadagni privati!
Pertanto, spero davvero che questa Giunta abbia il coraggio di bloccare il nuovo mostro della Darsena, ovvero il parcheggio multi piano dell’ex Mof. Una struttura che qualcuno definisce agile perché in acciaio e reversibile!!! Ovvero un manufatto di acciaio che dovrà contenere migliaia di auto e di corriere! Ms che colata di cemento serve per sostenere questa strutturina agile? E dunque, quando l’ex assessore Fusari parla del più importante progetto di riqualificazione urbanistica di Ferrara, ha una visione ben limitata della città se riqualificare significa invitare auto ad avvicinarsi al centro, cioè aumentare mobilità inquinante in prossimità delle mura, in strade mal conformate per grande traffico e in una zona densamente abitata.

Mentre la Darsena giace arenata nel suo fango mefitico, senza barche e ora anche senza alberi. La stessa zona, già stuprata dall’orribile torre inutilizzata che svetta sul fallimentare Darsena City, aveva bisogno di ben altro intervento di riqualificazione che non un nuovo mostro a complicarne lo skyline.
Il mercato dell’auto è in crisi e la mobilità automobilistica dovrà prima o poi cedere al passo ad una mobilità sostenibile, ovvero metropolitane leggere e soprattutto biciclette.
Proprio davanti all’ex Mof è stata inaugurata in pompa magna la ridicola striscetta di 100 metri di pista ciclabile che nasce e sparisce nel nulla. Ecco, la riqualificazione urbanistica nell’ambito di un piano periferie avrebbe dovuto progettare una rete di viabilità ciclistica che dalla periferia conduce al centro in sicurezza.

Ma è più comodo seguire il percorso dannatamente tracciato in questo Paese: coniugare lo sviluppo al consumo di suolo. Non dovrebbe scendere un solo chilo di nuovo cemento sul nostro martoriato territorio, invece si continuano a progettare autostrade, vedasi l’altro scellerato progetto Cispadana, tanto per rimanere a casa nostra.
Sulla qualità ambientale di questa Giunta ho la stessa scarsa fiducia che avevo nei confronti di quella precedente, ma spero che, se non altro per ragioni di contrapposizione politica, non si dia avvio all’ennesimo scempio architettonico dell’ormai ex quartiere Giardino. Poi i mostri restano! Come l’orrendo stadio, sovradimensionato rispetto al contesto e tra un po’, temo, anche rispetto allo scopo!

EMILIA ROMAGNA IN FESTIVAL
Per il Ventennale 36 concerti live: dal 26 luglio al 10 settembre

Da: Regione Emilia Romagna

Novità e graditi ritorni, eccellenze italiane, con una forte presenza femminile. La “grande musica” che fa riferimento ai compositori del passato ma anche del presente. E poi gli omaggi ai compositori che hanno scritto per il festival, le orchestre La Toscanini e La Toscanini Next in residenza, la dedica nel concerto inaugurale al direttore, pianista e compositore Ezio Bosso, recentemente scomparso.

Emilia Romagna Festival compie 20 anni e festeggia questo importante compleanno con un ricco programma composto da 36 eventi live, dal 26 luglio al 10 settembre, in luoghi in gran parte all’aperto e suggestivi, nel pieno rispetto delle nuove misure di sicurezza.

Dando continuità alla sua vocazione di rassegna dedicata alla musica classica esplorata nelle più diverse sfaccettature, Emilia Romagna Festival conferma più che mai per questa edizione il proprio ruolo di importante realtà di promozione culturale al servizio del territorio e degli artisti italiani e internazionali.

Il cartellone ospiterà grandi artisti internazionali come Richard Galliano, Ramin Bahrami, Cristina Zavalloni, Danilo Rea, Ivo Pogorelich, I Solisti Veneti, Moni Ovadia, Daniela Pini, Silvia Chiesa insieme a giovani talenti di assoluto valore quali la violinista Sharipa Tussupbekova e l’ensemble Young Musicians European Orchestra.

“La Regione Emilia-Romagna- ha commentato l’assessore alla Cultura Mauro Felicori durante la presentazione del Festival tenutasi stamattina- intende confermare anche per il futuro il sostegno, ormai consolidato, all’Emilia Romagna Festival che nei 20 anni ha saputo conquistarsi prestigio e popolarità, rafforzando la musica di qualità nel brillante dialogo dei generi musicali, nello scoprire talenti, trovare nuovi luoghi, suscitare il lavoro dei compositori e quindi la creazione di nuova musica. Tutte virtù di questo festival, che la Regione apprezza e che il programma che sembra non risentire dei mesi passati ed è sintomo di vitalità, conferma”.
“Ieri abbiamo presentato Santarcangelo Festival nell’edizione del cinquantennale, poco tempo fa il Ravenna Festival. La cultura riprende possesso dei suoi spazi e luoghi- ha aggiunto l’assessore-, quale elemento fondamentale nella vita delle persone. Tutto questo mi fa particolarmente piacere. Apprezzo infine il ruolo de La Toscanini, orchestra in residenza, a cui daremo molta attenzione accompagnandone la crescita a livello nazionale e internazionale”.

Ai grandi compositori del passato Vivaldi, Bach, Rossini, Verdi e Beethoven, e a quelli contemporanei che hanno scritto musiche per ERF, Morricone, Bacalov, Gubajdulina, Sollima, Nyman, Glass e Penderecki è dedicata l’immagine del ventennale del festival.

“I compositori sono sempre stati il motore del festival- dichiara Massimo Mercelli, fondatore e direttore artistico della rassegna-. Fin dalle prime edizioni, ci siamo distinti con proposte di ascolto dei più interessanti compositori di oggi e dei grandi del passato, offrendo al nostro pubblico anche le creazioni di giovani autori, ancora sconosciuti poi giunti alla fama internazionale”.

Le orchestre in residenza di questa edizione si inquadrano tra le eccellenze italiane e quelle fiore all’occhiello dell’Emilia-Romagna: La Toscanini con i suoi organici modulabili, fondazione musicale di Parma acclamata da pubblico e critica nelle maggiori sale da concerto di tutto il mondo, e La Toscanini Next, neonato progetto di alta formazione in campo musicale mirato all’accrescimento delle competenze dei musicisti under 35, con sede nella scuola di musica Giuseppe Sarti di Faenza e nel centro di produzione musicale Arturo Toscanini di Parma.

II festival inaugura il 26 luglio all’Arena San Domenico a Forlì, con un debutto d’eccezione: il Concerto n. 2 di uno dei più celebri protagonisti della musica contemporanea internazionale, il pianista e compositore Michael Nyman, scritto per il flauto di Massimo Mercelli e dedicato all’amico comune Ezio Bosso, recentemente e prematuramente scomparso. Il brano sarà eseguito dallo stesso Mercelli con I Solisti Veneti, che insieme affronteranno anche Contrafactus di Giovanni Sollima, scritto su commissione del Festival proprio 20 anni fa, e due pezzi di Giuseppe Tartini, poliedrica personalità musicale e culturale dell’Età dei Lumi, di cui quest’anno il festival celebra i 250 anni dalla morte. Il concerto verrà trasmesso in global streaming in collaborazione con ItaliaFestival e il Ministero degli Esteri.
Sulle note della Sinfonia n. 7 di Ludwig van Beethoven, di cui quest’anno ricorre il 250° anniversario della nascita, riarrangiata dal compositore Fabio Massimo Capogrosso e delle elaborazioni per orchestra delle canzoni di Francesco Paolo Tosti a cura del Maestro Francesco Lanzillotta, la Filarmonica Arturo Toscanini diretta dallo stesso Lanzillotta con il mezzosoprano Daniela Pini chiuderà il festival il 10 settembre alla Rocca Sforzesca di Imola. /CL

Per avere tutte le informazioni sulle location e sul programma: [vedi qui]

DONNE, FORME E COLORI
Mostra a Palazzo Bellini: 4 luglio – 1 agosto 2020

Da: Organizzatori

La consueta esposizione artistica “Donne, forme e colori” curata dall’Unione Donne Italiane in occasione della Festa internazionale della Donna, quest’anno si apre all’estate proponendo il linguaggio artistico femminile nella mostra allestita nelle sale della Galleria d’Arte di Palazzo Bellini.

Le misure cautelative previste nella fase post emergenziale hanno dettato tempi e modi di apertura: le porte della sale saranno aperte sabato 4 luglio con un’inaugurazione simbolica ritmata sul filo del distanziamento, tuttavia l’esposizione sarà fruibile fino al 1° agosto 2020 nelle giornate di martedì e giovedì (dalle ore 10 alle 12 e nel pomeriggio dalle ore  16 alle 18) e il sabato (dalle ore 10 alle 12), sempre nel rispetto delle condizioni previste dai regolamenti anti Covid 19.

La sorveglianza e l’accesso ai visitatori verrà garantita dalle volontarie dell’Associazione UDI in stretta collaborazione con l’Amministrazione Comunale.

L’esposizione presenterà le opere di Sonia Avellino, la quale attraverso i suoi segni, quasi ossessivi, compone immagini complesse in assenza, quasi, di gravità.

E poi, le numerose artiste del territorio che, ognuna con il proprio linguaggio, esprimono le diverse declinazioni dell’arte.

L’UDI, nata dall’esperienza della seconda guerra mondiale, sostiene i diritti per una piena cittadinanza delle donne: per questo all’interno delle sale espositive verranno esposte le “Sagome Parlanti” prodotte dal laboratorio inclusivo finanziato dal progetto regionale “Opportunità condivise alla pari 2.0” e dall’Amministrazione Comunale, condotto da Isabella Guerra e Sonia Avellino.

Un progetto che per il secondo anno ha visto il coinvolgimento delle donne straniere residenti nel Comune di Comacchio, creando un’occasione di solidarietà, confronto e scambio tra donne.

IMBOCCARE UN’ALTRA STRADA
Investire nei Servizi che abbiamo abbandonato
Ridurre le diseguaglianze che si sono aggravate

Ho avuto modo di scrivere nei giorni scorsi su questo giornale dell’esito deludente degli Stati Generali dell’economia, [Vedi qui] Rispetto all’impostazione che mi è sembrata prevalente in quell’assise, e cioè di una dialettica tra Confindustria e governo, con differenze sui provvedimenti da adottare ma non alternativa nella visione di fondo, bisogna invece dire che la strada da battere dovrebbe essere tutt’altra.
Occorre avere il coraggio di percorrere un disegno che guarda ad un’idea alternativa di modello produttivo e sociale, un progetto che, al di là di come lo si voglia definire, capace di sottrarre alla logica di mercato e alla realizzazione di profitto la loro centralità nel definire le priorità nelle scelte economiche e sociali.
In primo luogo, serve un massiccio investimento nella scuola, nella sanità pubblica e, in generale, nei beni comuni. Per la scuola, anche solo per la ripartenza a settembre nelle condizioni imposte dal contrasto al Coronavirus, si tratta di mobilitare tra i 3 e i 6 miliardi (più del doppio di quanto sinora stanziato) per avere più insegnanti e reperire spazi adeguati per tornare alle lezioni ‘normali’, superando la modalità non utile della didattica a distanza. Sopratutto, va cambiato il modello aziendalista e di puro assecondamento alle tendenze del mercato del lavoro, che si è affermato negli ultimi anni, e  colmato il divario nei confronti della spesa media per l’istruzione in Europa. Gli ultimi dati Eurostat disponibili, relativi all’anno 2017, mostrano, infatti, una percentuale della spesa suddetta nel nostro Paese per tutti gli istituti del sistema di istruzione (dalla primaria alla terziaria) pari al 3,8 per cento del PIL a fronte del 4,6 per cento della media europea, che attualmente ci colloca negli ultimi posti: l’Italia è quartultima tra i 28 paesi dell’Unione europea.

Per la sanità – senza dover ricorrere al MES, visto che i pochi risparmi in termini di minor tassi di interessi lì previsti, nel medio periodo costerebbero assai più cari sul piano delle condizioni da rispettare ( che rimangono non all’entrata, ma durante e alla fine del prestito) – l’ordine di grandezza dell’investimento necessario è perlomeno pari al definanziamento del sistema sanitario degli ultimi 10 anni e al raggiungimento dei livelli della spesa percentuale di Paesi come la Francia e la Germania. Non ci discostiamo di molto da circa 40 miliardi di Euro, che vanno prioritariamente utilizzati per potenziare i servizi territoriali, l’attività di prevenzione e il numero degli operatori, ridottosi fortemente in questi anni.

Oltre a questi interventi fondamentali nei campi principali del Welfare ( a cui, peraltro, ne andrebbero aggiunti altri, in particolare quelli volti a ripubblicizzare i servizi pubblici consegnati ai privati, dall’acqua al ciclo dei rifiuti), punto decisivo diventa quello di mettere in campo un Piano straordinario di investimento e intervento pubblico, in grado di produrre una nuova traiettoria di crescita sociale e occupazionale.
Qui non si tratta – come non smette di proclamare ad ogni piè sospinto il presidente di Confindustria Bonomi – di voler essere dirigisti o di imporre una sorta di visione astratta e ideologica per affermare il primato dell’intervento pubblico rispetto al mercato, ma di avere la consapevolezza che non sarà il mercato a poter dare risposte utili alla crisi aperta dinanzi a noi. Persino Cottarelli – il padre della spending review, fustigatore della spesa pubblica- riconosce che gli investimenti pubblici sono quelli che generano il ‘moltiplicatore’ ( cioè l’impatto sulla domanda e sull’occupazione) più alto rispetto ad altri tipi di interventi, come quello sull’IVA o sul fisco. A maggior ragione se si considera che le questioni da affrontare implicano un salto di paradigma rispetto agli orientamenti ‘naturali’ del mercato e che sono rappresentate dalla riconversione ecologica dell’economia, dalla cura e risistemazione del territorio e dalla creazione di lavoro, che vanno assunte come obiettivi in quanto tali. E’ su questi terreni che vanno indirizzate le risorse – e non solo quelle – che deriveranno dal Recovery fund che arriverà dall’Europa, anche se probabilmente depotenziato rispetto alle ipotesi iniziali.

A questi interventi, poi, bisognerà affiancare un’azione forte per ridurre le disuguaglianze sociali che si sono prodotte e amplificate in questi anni. Questo tema è stato finora troppo oscurato e sottovalutato, e non casualmente. Vale la pena approfondirlo.
Nel nostro Paese, secondo i dati elaborati da Eurostat nel 2018, il rapporto fra il reddito equivalente totale ricevuto dal 20% della popolazione con il più alto reddito e quello ricevuto dal 20% della popolazione con il più basso reddito è pari a 6,09. In sostanza il 20 per cento delle famiglie più ricche in Italia ha un reddito annuale oltre sei volte superiore rispetto a quello del 20 per cento delle famiglie più povere, che è il quinto rapporto più alto nell’Europa a 28 Stati, superati in questo solo da Lettonia (6,78), Lituania (7,09), Romania (7,21) e Bulgaria (7,66), mentre quelli di Germania e Francia sono pari rispettivamente a 5,07 e 4,23. Peraltro la media Ue a 28 Stati risulta essere di 5,17.
Ancora peggio va se guardiamo alla distribuzione della ricchezza ( che misura non il reddito, ma il patrimonio posseduto): qui l’elaborazione di OXFAM ci dice che la ricchezza del 5% più ricco degli italiani (titolare del 41% della ricchezza nazionale netta) è superiore a tutta la ricchezza detenuta dall’80% più povero. La posizione patrimoniale netta dell’1% più ricco (che detiene il 22% della ricchezza nazionale) vale 17 volte la ricchezza detenuta complessivamente dal 20% più povero della popolazione italiana.

Sono dati impressionanti, se ci si sofferma un attimo a rifletterci sopra, che rendono necessario un intervento perlomeno per ridurre questa forbice. E, si badi bene, non solamente per una ragione di equità, ma anche perché, come ormai è sufficientemente noto, la crescita delle disuguaglianze è anche una delle radici da cui diparte la stagione delle crisi iniziata con il 2008. Non c’è dubbio – e questo vale in particolare per il nostro Paese – che la crescita della domanda interna, sostenuta in particolare dai redditi bassi e medio bassi, è componente importante per disegnare una nuova traiettoria di uscita dalle crisi. Non mi dilungo sui vari interventi che si possono mettere in campo in proposito: da una reale riforma fiscale che ripristini un tasso consono di progressività fiscale (a questo proposito sembra un’eresia ricordare che nel 1974 l’aliquota fiscale sui redditi superiori a 75.000 Euro andava dal 54 al 72%, mentre oggi essa è al 43%) all’istituzione strutturale di un reddito e di un salario minimo garantito, arrivando anche – altra eresia – alla tassazione sui grandi patrimoni.

Tutto quanto esposto rischia però di essere un’esercitazione intellettuale se, a partire dall’autunno, non si produrrà una mobilitazione sociale adeguata allo scontro che si profila. Una mobilitazione sociale che sui punti decisivi di una piattaforma di politica economica e sociale alternativa riesca a creare uno schieramento largo, partendo dalla costruzione di connessioni tra i vari movimenti sociali e, possibilmente, anche con il movimento sindacale. Vale la pena iniziare a lavorare per questa prospettiva.

PER CERTI VERSI
A V.

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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A V.

Eri un amico
Di un mio amico fraterno
In parte infermo
In una casa di riposo
Ah il riposo
È diventato sonno eterno
Il covid fu un soffio
A una farfalla morta

PRESTO DI MATTINA / Un parroco griot
che sciacqua i panni nell’acqua viva della gente

“Sciacquare i panni in Arno”: è la celebre espressione usata da Alessandro Manzoni per esprimere il desiderio di adattare lo stile dei Promessi sposi alla lingua toscana, la koiné di quello che poi diventerà l’idioma di una nazione sempre alla ricerca di unità, non solo linguistica. “Ho settantun lenzuoli da risciacquare, egli scriveva, con precisione, all’amico e poeta Tommaso Grossi, riferendosi alle pagine del romanzo bisognose di purificazione e autenticità.

Me ne rammento ora pensando che anch’io ‒ nella mia primordiale vocazione, quando ancora mi aggiravo in parrocchia ‘per prova’ ‒ scelsi di sciacquare i panni della mia ‘teologia accademica’, immergendola simbolicamente nelle acque del Nilo e del Danubio. Proposizioni, tesi teologiche e concettualizzazioni dogmatiche decantati e resi vivi dalla lettura di quelle tradizioni e linguaggi spirituali trasudanti esperienza e prassi di vita. Quei testi, intrecciati alle parole e ai concetti studiati, li purificavano, come a contatto con la lisciva dei lavandai e incarnandoli nella vita reale: domande e risposte, inquietudini e dubbi scaturenti dai vissuti delle persone incontrate. Così, poco a poco quell’immersione nelle acque profonde del vivere umano in compagnia di maestri spirituali dai nomi strani (staretz, zaddik, hassid) mi facevano ritrovare la strada di una teologia umana, narrativa e dialogica, capace di comunicare con la gente perché in ascolto dei loro vissuti, così da poter ridire a ciascuno, con il proprio linguaggio, per strada o agli incroci, nella piazza affollata o sull’autobus quasi vuoto, ridire quelle “immense parole” di quel caro fratello: “ama il prossimo tuo come te stesso”.

E come diventarono sempre più vere, per me, strada facendo, le parole del Concilio, scoprendo che non vi è nulla di quanto è genuinamente umano, che non trovi eco nel cuore di un discepolo di Cristo. Il vissuto del suo annuncio, per essere credibile, dovrà sempre di nuovo intrecciarsi con “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono”, (Cfr. Gaudium et spes, 1).

Così fu decisivo per me, fin dall’inizio, l’incontro con i Detti dei Padri del monachesimo antico, continuato poi anche in occidente con Benedetto. Parole centellinate con il setaccio del silenzio, generate dal distacco da sé stessi e dalla pace in Dio: fuge, tace, quiesce, lungo il corso del Nilo nel deserto egiziano. Ma pure fu alleata preziosa in quella sfida volta a rendere intelligibile il sentire e l’intelligere della fede con il cuore, l’optima lectio di quelle due tradizioni spirituali sorte nell’800 in Europa orientale, tra i Carpazi e lungo il Danubio: l’ortodossia, detta dell’’esicasmo’ e il giudaismo, ‘hassidismo/chassidismo‘.

La tradizione esicastica, da hesychia, che esprime calma, pace, tranquillità, assenza di preoccupazione; uno stato d’animo generata dalla sperimentazione concreta e persistente di quel sereno affidamento evangelico al quale Gesù ci invita: “Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita… Guardate gli uccelli del cielo: non séminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro?” (Mt 6, 25-26).

Questa esperienza ascetica, attraverso una preghiera incessante del nome di Gesù, era diffusa fra i monaci dell’Oriente cristiano fin dai tempi dei Padri del deserto. Conosciuta già da Evagrio Pontico, e praticata con uno stile gioioso dallo staretz Serafino di Sarov, il san Francesco russo, e da molti altri maestri spirituali, essa approdò tra i monaci del monte Athos dove è tutt’ora in uso. Una tradizione spirituale che ben è riassunta in un celebre detto di Evagrio sulla realtà costitutiva del teologo, in cui questi afferma che “se sei teologo pregherai veramente e se preghi veramente sarai teologo” (De Oratione, 60).

Ma non solo. Sciacquando il detto di Evagrio nelle acque profonde del vivere umano, ben si potrebbe anche aggiungere che “per essere teologo devi essere misericordioso, e solo se sei misericordioso sei davvero teologo”. “La verità cristiana, infatti, non può essere che verità pratica in quanto capace di orientare la vita”. Un fare dunque, una prassi, quella della misericordia, che è un dire anche nel silenzio della parola. Testimoniare, attuando la parola di Dio: che si può comprendere e credere solo facendosi.

Per Martin Buber, autore de I racconti degli hassidim, il ‘chassidismo’ rivela con l’immediatezza delle sue narrazioni che l’uomo può vivere come un tutto, unificato, in comunicazione con la totalità della realtà. Dio lo si sperimenta attraverso uno spirito di gentilezza. È presente in ogni cosa e lo si raggiunge anche nel più semplice avvenimento attraverso un’attenzione ai piccoli e alle piccole cose. Del resto, Hasid (che significa ‘pio’; plurale Hassidim), deriva da chesed, parola che designa lo stesso amore di Dio, amore di viscere materne, la compassione di un amore che tutto perdona e giustifica rendendo capaci di amore, giusti (Tzaddikim), anche quelli che lo praticano.

Per questo, nei racconti dei Chassidim si legge che se qualcuno esercita veramente l’ospitalità acquista i privilegi dei suoi ospiti. Chiesero a Rabbi Israel: “Da dove trae il giusto quella che tu chiami la ‘sola forza della giustizia’; forse che il Santo dei Santi, tale lo creò fin dalla nascita?”. Rispose: “Quando nasce, il giusto non riceve dal cielo un dono speciale. Il Giusto trae la sua forza di giustizia dai dolori, dalle sofferenze e dalle angosce della vita di questa terra”. Allora un altro discepolo, che aveva ascoltato l’insegnamento domandò: “Ma i giusti che con la sola forza della Giustizia consentono al mondo di continuare ad esistere, a quale popolo appartengono?”. Ed egli rispose di nuovo: “Essi provengono da diversi popoli che vivono su questa terra. E un filo sottile, ma possente, li unisce: il profondo amore verso il Santo dei Santi, il profondo amore per la parola di Dio, e il profondo amore per tutte le creature umane”.

Divenuto parroco, ho continuato a sciacquare i panni del mio catechismo nell’acqua viva della gente. Sotto forma di un Vangelo narrante e di una teologia narrativa disposta ad ‘investire nel ‘racconto’, ho cercato di ri-divenire discepolo di colui che esprimeva in parabole la bellezza del mistero di Dio e del suo Regno. In ciò mi sono sempre sentito molto vicino ai griot, di cui parla anche Cristina Campo; i cantastorie girovaghi della savana africana, figure di libertà e fedeltà insieme, uomini e artigiani della ‘parola’, che ebbi la fortuna di conoscere quando visitai per una decina di giorni la missione di Fratel Silvestro in Burkina Faso. In antichità, ad ogni principe era addetto un griot, il quale, nelle riunioni pubbliche, presentava il suo signore e ne proclamava la vita e le imprese. Ma di volta in volta egli si faceva anche araldo, annunciando le novità che sentiva lungo il cammino. Nelle adunanze diveniva portavoce di chi non aveva voce, conciliatore nelle controversie, mediatore tra famiglie e individui, conosceva la storia e custodiva la memoria delle genealogie dei clan che raccontava nel corso di pubbliche riunioni.

Animato da questa cifra narrativa, ho continuato negli anni a sciacquare i miei panni nelle modestissime acque del Po di Primaro e del Volano. E da quel risciacquo emerse anche un libretto di tanti racconti, intitolato Come alberi piantati lungo corsi d’acqua, che raccoglieva le storie scritte ogni Natale per la gente della messa di Mezzanotte. Ogni anno una storia: il racconto di un albero. Perché un albero?

Perché l’albero, come scrive Romano Giardini: “diventa figura del carattere simbolico delle cose e simbolo dell’esperienza del sacro, di come l’occhio umano deve rivolgersi al mondo e penetrarlo fino a coglierne il mistero”, (Religione e rivelazione, Milano 2001, 22). Del resto ‒ a pensarci bene ‒ si scrivono storie come si piantano alberi: a partire da un seme. Un seme che ogni volta può essere una domanda, una promessa, una speranza, un dolore o una gioia che l’incontro con gli altri ci affida. Sementi, verso cui ci si scopre responsabili, debitori di una corrispondenza di amore che ci chiama a divenire seminatori. Una parola neonata dunque, che attende un’altra parola e poi un’altra ancora, più coraggiosa, più vagabonda, che si metta a girare in cerca di altre per fare nascere piccoli racconti, nei quali ‒ come ha scritto Cristina Campo ‒ viene alla luce quello che copertamente sono tutte le grandi fiabe: “una ricerca del Regno dei cieli (Gli imperdonabili, Milano 2002, 223-224).

Prendiamo ad esempio la parola ‘ranno, che non conoscevo. Così è chiamato quel miscuglio filtrato di cenere e acqua bollente usato anche da mia nonna per lavare le lenzuola e renderle candide. Ecco la sua storia. “Un giorno mentre Rabbi Isacco Eisik stava cantato la canzone del sabato, dal titolo Quando osservo il sabato, in cui è detto: – Perciò lavo il mio cuore come ranno -, egli si interruppe e disse: – Il ranno non si lava, si lava col ranno! -. Poi però replicò a sé stesso: – Ma nella santità del santo sabato, un cuore può diventare così pulito da acquistare la forza di pulire come il ranno altri cuori”.

Lo scolaro che riferiva questo, molti anni dopo, quando era diventato egli stesso uno zaddik, raccontava ai suoi hassidim: “Sapete come sono diventato un ebreo? Il mio maestro, il santo Rabbi di Kalew, mi ha tolto l’anima dal corpo, e, come le lavandaie al fiume, l’ha insaponata e battuta e sciacquata e asciugata e ripiegata e me l’ha rimessa dentro pulita. A Rabbi Isacco fa eco dal deserto Abba Isacco il Siro che alla domanda: – In che cosa consiste la purezza di cuore? – , rispose: – in un cuore pieno di misericordia – . Gli fu chiesto ancora: – Che cos’è un cuore pieno di misericordia? –  – È un cuore pieno di compassione per tutta la creazione…-  Colui che ha la purezza del cuore porta dentro di sé la sofferenza dell’intero universo».

FOGLI ERRANTI
SCAMPOLI DI LOCKDOWN (3) – Tecniche di respirazione in apnea

di Giovanna De Simone

Tutto sommato mi sto abituando a questa reclusione. Non scalpito più come un animale in gabbia, come il giorno in cui il mio padrone mi mise agli arresti domiciliari.
Qui, in questi spazi ristretti, ho ricominciato ad inspirare ed espirare anche con poca aria a disposizione. Bisogna solo cambiare il modo di respirare, dice sempre il mio maestro yoga Raffaele durante le sue dirette facebook.
A proposito, ne ho una alle 18.30, ma oggi ho talmente tante cose da fare che non so se riuscirò ad essere puntuale all’appuntamento.
Alle 10.00, dopo il saluto al sole e la colazione, ho una lezione di risveglio muscolare, poi doccia, qualche telefonata di lavoro ed è già ora di preparare il pranzo ed infornare una nuova ciambella per la merenda mattutina.
Dopo pranzo è il momento della siesta, che trascorro dormicchiando sul divano tra notiziari e social, per ridere o piangere con i miei simili, stringendoli in un grande abbraccio virtuale.
Caffè e alle 14.30 ricomincio a lavorare in procedura smart working, come direbbe l’uomo forte che mi governa. Devo inviare alcune mail, far misurare in videochiamata la febbre a tutte le ospiti delle strutture di accoglienza che gestiamo, fare una riunione di équipe con le mie colleghe, per il monitoraggio dei casi.
Tempo prima, questo confronto si svolgeva una volta alla settimana, ma in quest’epoca di coronavirus e con le case piene di donne recanti vari disagi e svariate violenze, il confronto on-line è diventata una pratica quotidiana.
L’unica figata dello smart working è che mentre lavori puoi fare un sacco di cose contemporaneamente: rimestare il ragù, sistemare alcune foto del 2013 sparse sul desktop del computer casalingo, fare un solitario mentre si è in conference call con Bruxelles.
Solo al termine del mio finto orario di lavoro mi rendo conto che non ho ancora trovato il tempo di stendere i panni e guardarmi la 9° puntata, terza stagione, di una serie TV che manco Beautiful mi ha mai appassionato tanto.
Alle 18.30, in diretta su youtube, ho lezione di pilates, e poi via per la preparazione della cena.
Ho deciso di saltare l’appuntamento delle 18.00 con Borrelli, mi avrebbe rallentato tutte le attività, oltre a lasciarmi una carica di tristezza che avrei smaltito solo il giorno dopo come una brutta sbronza.
Da quando ho deciso di bannarlo, mi leggo i resoconti del bollettino on-line solo dopo cena, sdraiata sul divano e con un amaro nel bicchiere. So che è brutto dirlo, ma bisogna pur sopravvivere.
Rimane fisso il mio appuntamento delle 21.30 con la spazzatura. Mi metto il giubbotto, mi rullo una sigaretta ed esco fino ai bidoni, aspirandomi l’aria della sera.
Alle 22.00 ho la meditazione collettiva con il gruppo Osho Shao in diretta su istagram. Poi mi faccio ancora la doccia e mi corico esausta a letto, entrando nella meravigliosa residenza di Downton Abbey che mi aspetta a braccia aperte.
Inspirare. Espirare.

CONTRO VERSO
L’occhio nero della mamma

È ormai provato scientificamente che la violenza in famiglia fa del male ai bambini, quella vista come quella subita. La riconoscono, anche quando non ne sono spettatori diretti, e la loro sorte è affidata alle scelte degli adulti.

L’occhio nero della mamma

La mia mamma ha un occhio nero.
Non lo so se è proprio vero,
lei m’ha detto questa volta
che ha sbattuto nella porta.
S’era fatta ancor più male
scivolando sulle scale.
Una cosa non mi piace:
babbo strilla e mamma tace.
Un agente è stato qui,
lunedì, poi martedì…
Fino al sabato è tornato
l’ispettore ed il tenente
e la mamma gli ha giurato
che non è successo niente.
Lei dev’esser proprio buona
– a me sembra di capire –
se ogni volta lo perdona
on il rischio di morire.
Ora il giudice in udienza
vuol saper la verità,
lo ripete con veemenza,
lo ripete a sazietà.
Dice che io son bambino
e i bambini, per decenza,
han diritto d’imparare
cose belle e non violenza.
“Son caduta per errore”,
dice mamma al magistrato
Sì, lo sbaglio dell’amore…
Lui capisce – ma è spiazzato.
Il mio babbo ormai non cambia,
mamma non lo cambierà.
Ho paura, e pianto, e rabbia…
Chissà come finirà!?

Secondo l’unica ricerca nazionale sul maltrattamento all’infanzia in Italia, condotta da Cismai, Terres des Hommes e Autorità Garante dell’Infanzia e Adolescenza, la violenza assistita è la seconda forma di maltrattamento più diffusa in Italia.
Si dice ‘violenza assistita’ quella in cui il bambino è – non ‘assistente’, ma – spettatore della violenza su un familiare, più spesso la madre ma ipoteticamente anche il padre, i fratelli, i nonni…

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia tutti i venerdì.
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

PAROLE A CAPO
Pier Luigi Guerrini: “Evasioni e visioni” e altre poesie

Rubrica a cura di Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini

“La poesia non è una cosa morta, ma vive una vita clandestina.”
(Edoardo Sanguineti)

 

Pensieri per strada
Mancano punti di riferimento
al mio cruciverba quotidiano,
troppe caselle nere
sommergono definizioni
senza portamento.
Mi faccio società
delle mie azioni,
incontro persone
incastri di nazioni
si affiancano,
si sfiorano
si staccano
ignorando mete, storie,
destinazioni.

 

Questioni di tempo
Tempo nuovo temporaneo
Tempo differente dal tempo vissuto
Temporale con tempesta incorpo(do)rata
Temp(orale) e tempo scritto
Tempera(na)tura: misurazione del tempo corporeo in tempi di quarantena
che trascorrono restringendo la vita.
Temperare la matita in tempo reale.
Tempo del nonlavoro dilatato, tempo perso dilaniato.
Tempo rubato
Tempobliterato, tempo alienato
Tempo scordato
Tempo rincorso
Tempo del rimorso
Tempo silenziato
Tempo cronometrato, misurato
Tempo storico
Tempo anacronistico, tempo cronachistico
Tempo rifinito, tempo riservato.
Tempo di saldi. Ritagli di tempo.
Tempo del lavoro alienato
Tempo della creazione, tempo della riproduzione.
Lo spazio infinito del tempo limitato.
Tempo musicale, tempo individuale, tempo industriale
Tempo della semina e tempo del raccolto
Tempo diserbato, tempo disturbato, tempo intubato.
Tempo intero o parzialmente scremato
Tempo liquido, tempo secco
Tempo di risacca, tempo di risulta.
Tempo di rivolta.
I risvolti del tempo contemporaneo chiedono un tempo
supplementare d’attenzione e un maggiore tempismo.
Nel frattempo,
i frattali del tempo
frugano tra le pieghe del giorno
e si danno appuntamento ad incroci lampeggianti notturni.
(inedito)

 

Ponte di marzapane
Un triste cemento (armato di vergogna)
che grida vendetta,
colpevole appalto e improbabile fretta
si dice incuria, si legge interesse
s’invoca attenzione, ma la morte
fa Messe.

 

Evasioni e visioni
Si evade nel condizionale, nel condizionarsi, nel futuro improbabile. Nel consumismo con la carta di debito. Nelle prigioni di mercato. Nei bitcoin del desiderio. Nelle banche dal volto umano e dalle finestre sul vuoto.
Si evade negli emendamenti perdenti ma rassicuranti, negli emendamenti di testimonianza. Nella lista civica, nella lista cinica, nella lista comica.
Si evade nei cerchi magici dell’empireo infernale, nei buchi neri, nelle posizioni di principio, nelle statistiche virtuali, nelle sette macrobiotiche, nelle (nuove) sette sorelle, nelle sfere di cristallo, nelle scelte obbligate che ci rendono più leggeri. Nell’etichetta sul campanello, nell’etica condominiale.
Si evade nei diritti umani sacrosanti purché non danneggino i mercati. Nelle guerre commerciali.
Si evade dalla sinistra perché ci fa male la spalla e il pugno non si chiude più. Si evade dalla sinistra dopo aver atteso a lungo una grazia non pervenuta. Ci si butta a destra, cercando di parare il rigore economico.
Pertanto,
pertanto si faccia
pertanto ci piaccia,
un altro giorno
è sbucato dietro l’angolo.
Intanto, un altro appello alla ricerca di frasi d’incrocio per nuove abitudini d’amore.
Intanto, si traccia.
(inedito)

Pier Luigi Guerrini
Pier Luigi Guerrini (1954) è di Ferrara. Ha fondato, con Roberto Guerra e Lamberto Donegà, la rivista Poeticamente (1980). Ha pubblicato: Il fenomeno scomposto (Reggio Emilia, 1984) e l’ebook In prosa per la foto (ISNC Edizioni, 2014). Ha pubblicato in numerose antologie, riviste in cartaceo e online.

La rubrica di poesia Parole a capo esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. 
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RITORNA LA NOTTE ROSA:
dal 7 al 9 agosto a Comacchio e in tutta la Costa Romagnola

Ufficio Stampa Ascom Confcommercio – Comacchio 

La Notte Rosa si farà e verrà realizzata su tutta la Costa Romagnola (da Comacchio a Misano Adriatico come da tradizione) e relativi entroterra, centri urbani compresi.
Quando ? Nel secondo week end di agosto (7/8/9). A darne notizia Gianfranco Vitali, presidente di Ascom Confcommercio di Comacchio ma sopratutto in questo ambito coordinatore della cabina di regia di Destinazione Turistica Romagna:
“La Notte Rosa si farà – spiega Vitali – anzi sarà una vera e propria Pink Week perché gli eventi partiranno già da lunedì 3 agosto. Era necessario sopratutto in questo momento complesso per l’economia turistica anche del nostro territorio dare continuità ad un appuntamento importante per creare flussi di visitatori. Si tratterà di eventi diffusi sia nell’entroterra come sulle spiagge, insomma una Notte Rosa …soft allo scopo da un lato di salvaguardare la sicurezza ma dall’altro di richiamare turisti in un appuntamento entrato ormai stabilmente nell’immaginario collettivo. La Notte Rosa è uno stimolo in più”.
Una filosofia di piccoli eventi (cene romantiche al lume di candela….appuntamenti musicali più confidenziali, per fare solo due esempi…) che comunque permetteranno alla costa romagnola di promuoversi con entusiasmo e professionalità, con la madre di tutte le notti unendo sicurezza e divertimento. Un appuntamento che verrà lanciato come Pink Week a livello europeo (a breve saranno disponibili i programmi) e che testimonia la volontà di non rinunciare alla promozione in grande stile.

La ballerina di Pontalba

Sono le sedici. Oggi a Pontalba ha appena smesso di piovere. Nelle pozzanghere si vede la luce del sole e le  nuvole bianche che corrono come pecore.
Io esco  a fare una passeggiata. E’ il momento migliore per farlo.
Pontalba è un paese lombardo di pianura. Conta circa duemilacinquecento abitanti. Ha due frazioni:  Cominella e Milzuno.  Vicino a Pontalba scorre uno degli affluenti del Po: il Lungone. Per questo il paese fa parte del parco del Lungone Nord. Abbiamo una miriade di vincoli architettonici e paesaggistici, volti a fare in modo che l’insediamo umano non rovini la bellezza naturale del parco.

Esco e mi incammino verso il centro del paese, dove c’è la piazza principale con il suo monumento ai caduti della seconda guerra mondiale. Sull’angolo di via Santoni Rosa, c’è una forneria. Sull’insegna si legge “Da Camilla”. La fornaia si chiama Camilla. La conosco da sempre, ha un solo anno più di me, abbiamo frequentato lo stesso liceo e ci conosciamo da allora. Dopo la maturità lei ha ereditato la forneria del padre e ha cominciato a sfornare meravigliosi panini, mentre io facevo tutt’altro.

Guardo nelle pozzanghere e mi ritrovo a pensare a quando ero bambina. Anche allora amavo le pozzanghere trasparenti. Quelle dentro le quali si vede il cielo. Dopo una pioggia violenta, il cielo è limpido e l’aria  pulita. Guardando verso nord, si vedono le Alpi con le loro creste perennemente innevate. L’aria profuma d’acqua e di foglie. Faccio altri due passi e mi avvicino ad un’altra pozzanghera. Vi guardo dentro e vedo una piccola Costanza. Sono io da piccola.
Una bambina mora, con i capelli lunghi e lisci e gli occhi color delle foglie d’autunno. Un po’ verdi e un po’ nocciola. Una volta Tito sentenziò che quello strano color d’occhi faceva di me una persona speciale. Grande Tito, come sempre.
Da piccola ero una bambina musicale e ballerina. Il mio tempo libero era in buona parte dedicato ad ascoltare musica e a danzare.

Sognavo d’essere una ballerina del Teatro Bol’šoj, piroettavo trasognata sul cemento del mio cortile sognando le luci della ribalta.  Il Bol’šoj di Mosca è un teatro tra i più famosi e blasonati al mondo. E’ il tempio del balletto classico russo. La sua compagnia di danza, famosa ovunque, conta più di duecento ballerini. Uno dei primi ballerini della compagnia  è stato Rudol’f Nureev, considerato uno tra i più grandi danzatori del XX secolo insieme a Nizinskj e Bariysnikov. Per la sua velocità nel danzare e l’abilità nel compiere acrobazie di ogni genere era soprannominato the flying tatar, cioè “il tataro volante”.  Anch’io avrei voluto essere una tatara volante. Mi dedicavo a esercizi acrobatici con una certa assiduità e mettevo musica classica a tutto volume, costringendo gli abitanti di Via Santoni Rosa al supplizio della stessa musica riascoltata all’infinito.

Nella pozzanghera di oggi c’è quella bambina che mi è tornata alla memoria con molto vigore, sembra viva dentro l’acqua trasparente.

Il Sogno del Bol’šoj non esiste più. Solo i sogni alimentati da aspettative importanti, impegno, costanza, dedizione, fedeltà hanno qualche possibilità di realizzarsi. Tutti gli altri se ne vanno un po’ alla volta e, un bel giorno, spariscono. A dire il vero io un piccolo Bol’šoj  ce l’ho avuto.  Qui in paese c’era il teatro della parrocchia. Un teatrino piccolo che serviva per proiettare degli vecchi film la domenica pomeriggio e che, un paio di volte all’anno, accoglieva spettacoli di personaggi locali. Alla fine del mio primo anno di scuola elementare, le maestre organizzarono uno spettacolo per i genitori. A me fu assegnato il ruolo di prima ballerina. Un vero balletto classico con una parte da solista. La nonna Adelina, che da giovane aveva fatto la sarta,  mi fece un tutù bianco come la neve, riutilizzando il velo da sposa di mia madre. Io danzai magnificamente, per quel che può fare una bambina di sei anni autodidatta, ce la misi proprio tutta. I presenti applaudirono entusiasti e chiesero anche il bis, che naturalmente fu concesso. I bambini che parteciparono come protagonisti a quello spettacolo ora hanno tra i quaranta e i cinquant’anni, mentre gli spettatori dai cinquant’anni in su. Fu un successo, tanto che andammo anche in trasferta a Cominella, la nostra frazione più grande e ci invitarono per il Natale dell’anno seguente alla Casa di Riposo di Pontalba.
Alla fine dello spettacolo furono buttate sul palco una valanga di caramelle di zucchero. Dei fruttini duri come proiettili. Uno colpì un bambino sulla fronte con tale vigore che gli fece crescere il bernoccolo.

Credo che nella distanza di performance che c’è  tra una bambina che danza sul palco  del teatro dell’oratorio di Pontalba e una ballerina  del Bol’šoj di Mosca, ci stia tutto l’universo. Per fare i ballerini professionisti occorre una dedizione, una determinazione e un coraggio che la Costanza bambina non aveva. Era tutto sommato un po’ fragile. Poi quella bambina è cresciuta, ha imparato che la convinzione e la tenacia sono fondamentali, ed è riuscita a realizzare altri suoi sogni. Ma non quello.

Riguardo nella pozzanghera, la piccola Costanza sta volteggiando sulle note del Lago dei cigni di Čajkovskij. Entrambi i piedi sulle punte, fa passetti piccoli e agili, mentre le braccia sono alzate verso il cielo e si muovono leggere come le ali di una libellula. Il tutù è fatto di vere piume di cigno bianco e le sta rigido intorno alla vita, forma una corolla rovesciata intorno ai fianchi. Calzamaglia bianca, capelli legati e altre piume di cigno che incorniciano il volto.
Danza, ballando una specie di omaggio alla vita, un’interpretazione  della musica che sta ascoltando. Il cigno nasce, muore e rinasce ancora. I passi accompagnano la danza come fedeli esecutori di un copione già scritto, come il tramite tra il pensiero e ciò che il  corpo permette di fare.
Piedi che si muovono senza risparmiarsi, in maniera disciplinate ed elegante. Braccia che sembrano ali, che si librano in cielo. Un vortice di bianco, di piume, di leggerezza e d’infanzia. Un sogno d’eternità, di capacità di vincere la forza di gravità. Una magia, una favola unica. ll Lago dei Cigni è uno dei più famosi e acclamati balletti del XIX secolo musicato da Pëtr Il’ič Čajkovskij. La prima rappresentazione ebbe luogo al Teatro Bol’soj di Mosca il 20 febbraio 1877 con la coreografia di Julius Wenzel Reisinger.

Riprendo la mia passeggiata e lascio la bambina che danza felice. Arrivo sull’angolo della via, di fronte al negozio di Camilla e poi faccio dietro front, ritorno verso la pozzanghera, sono assalita dalla nostalgia per la Costanza ballerina. Voglio guardarla ancora un po’.

N.d.A.
I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.

FOGLI ERRANTI
SCAMPOLI DI LOCKDOWN (2) – La bugadara solidale

di Giovanna De Simone

“Ciao Isa!”, video-chiamo la mia amica del cuore che abita solo a quindici minuti di bicicletta da qui, ma che ora è distante come anni luce.
“Ciao!”, mi risponde in tuta di felpa rosa, secondo me la stessa che usava alle medie, dalla cucina buia della sua casa. “…scusa”, mi chiede sospettosa, “ma dove sei, che quel posto lì non l’ho mai visto? Confessa! Sei uscita di casa!”.
Oggi è l’innumerevole sabato pomeriggio di isolamento nazionale. Nel Mondo di Fuori è sbocciata una meravigliosa primavera che mai nella storia recente aveva degnato il mese di marzo di cotanta grazia, e io non so neanche come abbia fatto ad arrivare fino a questo punto senza aver compiuto una strage familiare degna dell’Overlook Hotel.
Durante la settimana riesco ad attutire il peso della reclusione perché ne evado legittimamente, andando al lavoro. Nel mio tragitto a piedi fino all’ufficio, scorgo le tendine delle finestre che si scostano e gli sguardi invidiosi dei più, che non hanno avuto il permesso premio.
Ma durante il week end, quando anche i supermercati sono chiusi, quando hai rinvasato anche le piante dei vicini, quando hai pulito dopo quindici anni il garage e la cantina, ti accorgi che gli spazi domestici sono diventati improvvisamente troppo stretti. Una frase del Talmud diceva che gli esseri umani sono come le olive, solo quando vengono schiacciati esprimono il meglio, così oggi sono andata in esplorazione dell’immenso condominio in cui abito.
“Eh no cara mia, non sono uscita oggi!” sorrido attraverso il telefonino alla mia amica, con il vento tra i capelli. “Ho scoperto che ho un terrazzo condominiale!”
Più che un terrazzo, è una colata di cemento, eternit e cacche di piccione, posta alla sommità di questo mostruoso palazzone di sessanta unità che deturpa, come una ferita, il glorioso ingresso dei Duchi nel medioevale centro cittadino.
Per disattendere l’immaginario della maggior parte dei cittadini che lo conoscono, esso non è un blocco di cemento armato, monolitico e compatto anche al suo interno. Il centro del palazzone è invece un tondo vuoto in cui si affacciano i balconi delle cucine delle sessanta famiglie che lo abitano.
La bugadara, in quest’epoca di coronavirus, è quanto mai popolata di un umanità di cui prima non ci era mai accorti.
Ah…ma la dirimpettaia del 4 piano, così seria ed integerrima, si fa le canne?!?
Ma quant’è carino lo studente di fronte?
E da dove l’ha uscita la moglie, quel cretino che abita sopra? Mai vista in quindici anni. La teneva chiusa in soffitta?
I primi saluti, mentre si stendevano le lenzuola, sono iniziati solo dopo il quinto giorno di reclusione. Era un sabato di sole e la fame d’aria ci aveva fatto affacciare tutti alla bugadara.
Chi stendeva le tende, chi dipingeva le ringhiere, chi travasava le piante, altri semplicemente prendevano il sole.
Dalle finestre aperte delle cucine arrivavano profumi di ragù alla sedicesima ebollizione e musica. Qualcuno canticchiava.
“Signora Tinaaaa!”, mi urla la vicina del piano di sotto. Mi affaccio che sto quasi per cadere.
“Salve signora Anna!”
“Volevo ringraziarla per la pianta che mi ha messo ieri davanti alla porta. E’ bellissima!”
“Di niente”
“Senta, sto facendo i maccheroni pasticciati. Ne vuole due porzioni? Gliele metto davanti alla porta.
Tutta la bugadara ascolta interessata e partecipe.
“Scusi lei”, urla il vecchietto della scala B dal terzo piano. “Lei che sta armeggiando con lo smerigliatore”
“Si?”, il novello sposino alza lo sguardo. “Salve, mi dica”, dice così piano che tutta la bugdara di sporge dai balconi per ascoltare.
“Quando ha finito con quella finestra, non è che me lo può prestare?”
“Ma certamente! Ma…come faccio a darglielo? Abita dall’altra parte del palazzo!”
“Guardi, me lo può lasciare stasera vicino ai bidoni della spazzatura. Verso le 21.30…”, poi si gira verso la platea tutta della bugadara, “e che nessuno me lo prenda!”.
Alle 21.30, dopo l’ultima sigaretta affacciati al balcone, le sessanta famiglie della bugadara si augurano collettivamente la buonanotte.

TERZO TEMPO
Da Zoleddu a Zoleddu, breve parabola di Gianfranco Zola

Martedì 23 giugno allo stadio Paolo Mazza si riaccendono le luci, non si riaprono i cancelli. La SPAL ospita il Cagliari, nella cui storia occupa un posto speciale Gianfranco Zola: concentrato di classe e umiltà, fantasia e correttezza, verso la fine della sua splendida carriera decise di ripartire dalla serie B. Quasi tutti lo ricordano come Magic box, pochi sanno che in principio e alla fine era sempre Zoleddu.

Nell’agosto del 1986 l’Italia del calcio non era più campione del mondo in carica. Dopo quattro anni, Diego Armando Maradona si era preso la rivincita, il mondiale e tutta la scena.
Dal Messico rientrava a Roma una nazionale da rifondare, eliminata agli ottavi dalla Francia di Platini, con il Pablito marziano di España ‘82 che era tornato sulla terra, un signor Rossi qualunque, il sogno non si era ripetuto. La comitiva avrebbe potuto meritarsi pomodori, di sicuro più di quelli presi dalla precedente spedizione azteca, non fosse stato per l’indulgenza verso i reduci del trionfo spagnolo.

1987, Gianfranco Zola, al centro, prima di Torres-Montevarchi.

A Sassari, come nel resto del mondo in quegli anni, cortili condominiali e campi sterrati sono pieni di ragazzi che giocano a pallone ad oltranza, ben oltre il tramonto, e nel mese consacrato a vacanze, preparazione e amichevoli precampionato, inizia a girare una voce. Finito il ritiro, la Torres è rientrata in città, si allena allo stadio dell’Acquedotto e quella voce dice che c’è un ragazzo che promette bene. Ha 20 anni ed è di Oliena, un paesino del centro Sardegna famoso per il Nepente, Cannonau robusto impreziosito dalla lode di D’Annunzio sull’etichetta, forse perché, al giusto dosaggio, genera poesia.
Quel giovane arriva dalla serie D, giocata con la Nuorese, e in campo pare sia uno spettacolo. Il calcio d’agosto fa tante promesse che spesso non mantiene, nessuno quindi immagina che quel timido e caparbio funambolo elargirà emozioni mai più superate. Ogni domenica arrivano da tutto il nord Sardegna per ammirare quella squadra e aspettare le magie di Zoleddu, così lo hanno ribattezzato. Quando alla penultima di campionato arriva il Montevarchi, la Torres è prima e si sta giocando la promozione, uno e due punti sulle rivali, così bisogna montare una tribuna in tubi innocenti dietro la curva sud per accontentare appena un migliaio delle innumerevoli richieste che arrivano. Finisce 1-0, decide Zola.

Non ricordate ai torresini quelle tre stagioni, potreste vederli piangere come gli uomini non fanno, direbbe De Gregori. Promozione in C1 subito, annata di assestamento nella nuova categoria, quarto posto e serie B sfiorata nell’ultima, con Zoleddu terzo in classifica cannonieri, dietro un giovane brizzolato del Perugia, Fabrizio Ravanelli. Un dirigente scaltro e lungimirante, protagonista dei vent’anni a venire, si accorge di lui, lo segue interessato e, come spesso farà, batte la concorrenza. Luciano Moggi nell’estate 1989 porta Zola a Napoli, il regno di Diego.

Al campione va a genio l’apprendista e prende sotto la sua ala il ragazzo che tre anni prima, mentre lui quasi da solo vinceva un Mondiale, stava passando dai campi in terra battuta del nuorese al livello minimo del professionismo. Quel sardo umile e affamato forse gli ricorda la sua timidezza di qualche anno prima, e chissà se la fama cambierà anche Gianfranco. Dei primi giorni insieme, iconica e unica è l’immagine di Zola sull’erbetta, sdraiato su un fianco, che studia ammirato Maradona mentre calcia in allenamento.

Da quell’incrocio di destini si diramano storie opposte, per l’argentino a breve scorreranno i titoli di coda, mentre partirà la sigla iniziale di un sogno per il sardo, che cambierà soprannomi ma non ruolo, idolo sempre: MaraZola a Napoli, Magic Box a Londra, di nuovo Zoleddu a Cagliari, dove chiude il cerchio di una trama quasi perfetta, in cui i successi con i club si intrecciano con l’esperienza amara e beffarda in nazionale. Eppure, dopo il rigore fallito agli europei del ’96, Gianni Mura, che messo a scegliere fra Baggio e Del Piero diceva Zola, scrisse di lui “resta uno su cui contare, uno che vale”.

Il film dei suoi successi è noto a molti, pochi sanno, invece, di quella voce che girava nell’agosto dell’86 nei cortili sassaresi, di Zoleddu in mocassini e camicia rosa che dopo le partite tornava a casa con i genitori venuti da Oliena, molto prima di andare a bottega da Maradona.
E no, la fama non l’ha cambiato, se è vero, com’è vero, che durante i sette anni al Chelsea, il giorno dopo la Premier League potevi trovarlo sovente nella sua casa al centro della Sardegna, come ai tempi della C2.
Gianni Mura non sbagliava.

Cover: Gianfranco Zola, 2018 (wikipedia commons)

PER CERTI VERSI
A Stock

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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A STOCK

Mi dà la zampa
E mi guarda
Con quegli occhi opachi di malattia
Ma come umani
Mi interroga
Ci mancano le parole
Non ci restano che i gesti
E una veglia
Sento il suo respiro chiede
Resti?

L’ASINTOMATICA, SFORTUNATA MARY
Una storia vera che pare un racconto di E. A. Poe

‘Paziente uno’, ‘paziente zero’, ‘superspreader’, ‘asintomatico’ sono termini che affollano la cronaca medico-sanitaria e sono entrati prepotentemente nel nostro lessico ormai quasi quotidiano, vestendoli di una normalità impressionante, se si pensa che fino qualche mese fa appartenevano solo ed esclusivamente agli addetti ai lavori.
Paziente uno di Codogno, di Piacenza, dell’isola d’Ischia, di Livorno: ogni luogo possiede il proprio, eroici simboli della lotta all’incubo per la sopravvivenza.
Caccia al paziente zero forse tedesco, forse proveniente da qualunque parte d’Europa: una realtà che supera la fantasia del film di Stefan RuzowitzkyPaziente zero”, del 2018, in cui una pandemia trasforma il genere umano in creature violente e genera la ricerca spasmodica di una cura da parte degli ultimi sopravvissuti.
E poi ancora l’esercito di asintomatici, silenziose ‘mine vaganti’ che vengono citate tra un misto di sospetto e timore, contornate da un’aura scura.
Viene in mente la particolare e rocambolesca storia di Mary Mallon (1869-1938), giovane irlandese che emigra negli Stati Uniti da un poverissimo villaggio dell’Irlanda del Nord, ospitata a New York dagli zii e passata alla storia con il triste appellativo di “Typhoid Mary”, Mary la tifoide, perché identificata come portatrice sana della salmonella enterica, responsabile del tifo.

Una storia vera e documentata che rasenta l’incredibile, perfettamente adatta a un racconto inquietante alla E.A. Poe. La giovane Mary cominciò a lavorare nei mesi estivi presso famiglie benestanti di Manhattan, passando poi a collaborazione domestica continuativa come cuoca. Durante la sua permanenza in quelle case, alcuni membri di queste famiglie manifestarono i disturbi tipici del tifo e una lavandaia dipendente ne morì. Nel 1906 andò in servizio come cuoca presso un ricco banchiere, la cui figlia contrasse la malattia poco dopo. Vennero attivati gli accertamenti sanitari necessari su tutti i presenti ma Mary scomparve dalla casa ancor prima che si concludessero le indagini. Dopo varie ricostruzioni, fu chiaro che le famiglie colpite dal tifo erano associate alla presenza della donna, la quale cambiava continuamente nome e spariva regolarmente nei momenti di emergenza.
Mary fu rintracciata a Park Avenue, dove lavorava dopo un ennesimo cambio di identità, tradita, forse per alcol o per soldi, dall’uomo con cui viveva. I tre poliziotti e la dottoressa Baker inviati dal Dipartimento di sanità pubblica per procedere con i prelievi di feci e urine, non riuscirono a cavare  di bocca alla donna una sola parola e il giorno seguente dovettero inseguirla perché fuggita da una finestra. Raggiunta, bloccata e caricata sull’ambulanza, venne portata al Parker Hospital, segnalata come persona pericolosa e inaffidabile.
Nel 1907 venne rinchiusa nell’ospedale Riverside a North Brother Island, in isolamento a tempo indeterminato. Alloggiava nella villetta dell’ex capo infermieri dell’ospedale.
Nel 1910, dopo discussioni, dibattimenti, mozioni e appelli, si presentò davanti al giudice con il suo avvocato e venne prosciolta dall’obbligo di permanenza sull’isola, definita dal magistrato stesso “sfortunata donna”.

Nonostante la diffida a continuare ad esercitare la professione di cuoca, continuò questo lavoro inventando identità fittizie come Mary Brown, Mary Breyhof; riprese il grembiule da cuoca dando l’avvio a una nuova ondata di infetti, compreso un noto ristoratore newyorchese che morì in seguito al contagio.
Nel 1915 era cuoca allo Sloane Hospital di New York, quando 25 persone furono infettate e colpite dal tifo. Allo scoppio dell’epidemia, Mary Mallon fuggì, stanata dal suo nascondiglio non molto più tardi. Questa volta non si ribellò e si consegnò all’autorità quasi con rassegnazione. Fu condotta nuovamente a North Brother Island e messa in quarantena forzata fino alla sua morte, avvenuta nel 1932, dopo che un ictus l’aveva debilitata sei anni prima.

Il tristissimo appellativo ‘Typhoid Mary’, inventato sensazionalmente dalla stampa dell’epoca, le avvalse un infausto posto tra i primati: quello della prima persona asintomatica individuata negli Stati Uniti in un caso di epidemia. Una cinquantina di persone contagiate, un ricordo inglorioso che lascia una lapide presso il St Raymond Cemetery nel Bronx, a memoria di questa donna d’altra epoca, fuggita per tutta la vita da se stessa.

PRESTO DI MATTINA
Monaci ed eremiti, gli innamorati del futuro

“Terrificanti e dolcissimi zen cristiani”: ricorrendo a questa efficace immagine Cristina Campo definisce i Padri del deserto, le cui storie assomigliano infatti ai koan usati nello zen: frasi paradossali, racconti brevi da meditare in compagnia di un maestro, per risvegliare la coscienza profonda, il centro della persona e il rapporto con le cose. Essi fiorirono nell’arco di tre secoli, dal III al VI secolo, come reazione al “pericolo latente e mortale” ‒ così lo chiama Cristina Campo ‒ di un compromesso del cristianesimo col mondo. Se infatti nel 313 con l’editto di tolleranza di Costantino che annullò l’ordine di Commodo per il quale “i cristiani non dovevano esistere”, i credenti in Cristo ritrovarono il loro diritto di vivere, si manifestava in essi anche la tentazione di scendere a patti con il potere; un pericolo reale, sempre risorgente, che persiste tutt’oggi, anche dopo 18 secoli, di rendere senza vita, senza testimoni, irrilevante tra la gente, il bel nome cristiano.

Profezia evangelica fu dunque quel tempo nel deserto, contestazione non violenta ma radicale ‒ come all’epoca dei martiri ‒ di un potere imperiale che allora aveva cambiato faccia e religione. La lotta per la difesa del cristianesimo continuava, sebbene non dal di fuori, ma interiormente, per purificare il cuore e resistere a quelle potenze che assoggettano l’uomo e gli rubano la libertà, ovvero ‒ come scrive Giovanni nelle sue lettere (1Gv 2,16) ‒ “la superbia della vita, le concupiscenze dell’uomo vecchio e dei suoi occhi, che bramano possedere”. Il campo di battaglia non era più l’arena degli spettacoli circensi, ma le spelonche in cui questi mistici dimoravano, circondati da bestie selvatiche a figura di quel “leone ruggente”, il divisore, “che si aggira cercando una preda da divorare” (1Pt 5,8).

Da essi scaturiva una profezia ri-generativa di un nuovo inizio evangelico, di una nuova seminagione e primizia di umanità, da attendersi finalmente inclusiva e ospitale; una comunità innamorata del futuro, di quel tesoro nascosto nel campo, che cela beni invisibili non solo nella fenditura della storia, ma nell’interiorità di ogni uomo: “secondo la sua promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali avrà stabile dimora la giustizia” (2Pt 2,13). Una comunità priva di gerarchie e distinzioni perché composta tutta da figli di pari grado: “Tutti voi infatti siete figli di Dio… vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,13).

Così Cristina Campo: “Mentre i cristiani di Alessandria, di Costantinopoli, di Roma, rientravano nella normalità dei giorni e dei diritti, alcuni asceti, atterriti da quel possibile accordo, ne uscivano correndo, affondavano nei deserti di Scete e di Nitria, di Palestina e di Siria. Affondavano nel radicale silenzio che solo alcuni loro detti avrebbero solcato, bolidi infuocati in un cielo insondabile” (C. Campo, I detti e fatti dei Padri del deserto, Milano 1975, p.13-14).

Il monachesimo nasce con Abba Antonio, l’egiziano, del quale il vescovo Atanasio di Alessandria scrisse la vita. Monaco da mónos ‘solo’, ‘in solitudine’; ma una solitudine di relazione, alimentata dalla Parola, di cui il monaco è interlocutore e interprete, sino a rendere manifesta una presenza dialogante. “Solus cum solo”: così infatti viene descritta l’esperienza eremitica e mistica, volta a ritrovare il centro profondo e unitivo della propria vita disseminata all’esterno. Una ricerca di sé stessi attraverso la ricerca di Dio, un cammino di personalizzazione nello Spirito del Cristo che accorda le differenze, libera dalle manipolazioni, guarisce dalla bulimia e anoressia spirituali risanando la ferita che tiene lontani lo spirito e le cose, riaccendendo quella brace soffocata dalla cenere del gusto di vivere.

Questo stesso Spirito, dimorando nella Parola di Dio, nei segni della fede e nei poveri, si offre all’incontro, mette in un cammino di fraternità e amicizia spirituali. Come un tappeto che continua a essere tessuto da qualcuno per qualcun altro ‒ è ancora una metafora di Cristina Campo ‒ i padri del deserto rivivono per tutti i cristiani quella provvidenza di amore: “Provvidenza” – insegna Antonio – “è il Verbo di Dio che compie sé stesso e dà forma alla sostanza che costituisce questo mondo. In questo divino tappeto è lecito all’uomo intessere sé stesso col filo magico di quell’amore che porta il nome strano di Comunione dei Santi. Tutti i portenti, tutte le conversioni, tutte le grazie di cui narrano le storie dei Padri del deserto sono largiti a qualcuno ‘per la pena che s’è assunto’ qualcuno per qualcun altro, per la privazione e l’umiliazione che qualcun altro ha accettato”. Come non pensare che così è accaduto anche per noi, poco o tanto, in ragione dell’amore che abbiamo ricevuto da qualcun altro.

Il monachesimo non è dunque fuga dalla terra per il cielo, o peggio disprezzo e distacco insensato dalla vita. Che, anzi, è presa ‘con lievi mani’, con ‘sprezzatura’ ‒ direbbe Cristina Campo negli Imperdonabili ‒ dove sprezzatura “è ritmo morale, è la musica di una grazia interiore; è il tempo nel quale si manifesta la compiuta libertà di un destino“. E continua l’Autrice introducendo i Detti e fatti: “La contesa con le potenze tenebrose che stringono d’assedio la mente è vinta, capovolgendo tutti i metodi naturali di lotta, secondo una specie di aikido spirituale (un’arte marziale a mani nude o con armi bianche) nel quale le energie aggressive del nemico sono per così dire utilizzate anziché respinte, il loro impeto assecondato fino a rovesciarlo nel suo opposto. È la santa sprezzatura del Vangelo e di quei piccoli vangeli che sono le fiabe. A chi ti chiede la tunica, e tu dà anche il mantello; e a chi ti angaria un miglio, tu vai con lui per due. Se un uomo o un demonio ti accusa, tu raddoppia l’accusa; se un uomo o un demone ti minaccia, tu mostrati avido di una più tremenda minaccia. Vegliardo, che farai, poiché ti restano ancora cinquant’anni da vivere [e da soffrire]? Mi avete grandemente afflitto poiché mi ero preparato a vivere duecento anni” (ivi, 211).

Il monachesimo assomiglia all’evangelica vite del Cristo, quella della sua umanità, i cui tralci portano tanto più frutto quanto più vengono potati. Ne ritrovo l’immagine proprio in taluni detti dei Padri, come quello di Abba Iperechio, il quale, per aver ritrovato la vitalità delle proprie radici, affermò: “L’albero della vita è in alto e vi ascende l’umiltà del Cristo ed anche noi solo se il nostro cuore è umile”. Senza dimenticare Abba Efrem che “quando era fanciullo, fece un sogno o ebbe una visione, per la quale un tralcio usciva dalla sua bocca, si ingrandiva e riempiva ogni cosa sotto il cielo; esso era carico di grappoli. Vennero tutti gli uccelli del cielo a mangiare i frutti della vite, ma quanto più ne mangiavano, tanto più l’uva aumentava”.

Una figura particolarmente significativa di questa esperienza mistica, umana e cristiana della ricerca di un fondamento e del luogo dell’altro, per giungere alle profondità e alle estensioni del proprio cuore sparpagliato, è l’immagine ‒ cara a Michel de Certeau, che la riferiva a Pierre Favre uno dei compagni di Ignazio di Loyola ‒ dell’albero capovolto con le radici celesti e i rami in basso, le foglie disseminate che lasciano cadere i frutti sulla terra. Qui sta il luogo dove altezza e profondità, cielo e terra, si guardano negli occhi e si cingono in un abbraccio, ovvero ‒ detto con il salmista ‒ dove “misericordia e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno. La verità germoglierà dalla terra e la giustizia si affaccerà dal cielo” (Sal 84, 11-12).

Anche nella mistica ebraica, secondo la Qabbalah, l’albero della vita assume simbolicamente la forma di un albero rovesciato su di sé, chiamato “albero sefirotico” che si compone di tre parti, simboli di altrettante vie, che sono l’amore, la compassione e la forza. I sefirot ‒ nel numero di dieci ‒ sono luci, energie, emanazioni che rappresentano le qualità e gli strumenti di Dio, ed esprimono l’irradiarsi della sua energia dal cielo sulla terra, con successive e diversificate mediazioni. In alto il trascendente, l’ineffabile la cui energia fontale è rappresentata dalla prima luce che ha nome ‘Corona’, per tenerla distinta dalla Testa che è incoronata. Si arriva discendendo all’ultima delle dieci emanazioni, che ha nome ‘Regno’ e rappresenta i frutti che dai rami scendono verso terra. Esso ricorda il racconto genesiaco della scala di Giacobbe, con gli angeli ascendenti e discendenti: luogo di comunicazione tra il cielo e la terra per far udire ancora la sua fedeltà all’alleanza, la benedizione premessa e rinnovata, non solo ad Abramo e alla sua discendenza, ma attraverso di lui a una moltitudine che non si può contare, perché pari alle stelle del cielo e ai granelli di sabbia in riva al mare.

Le dieci luci, o sorgenti di grazia, aiutano coloro che cercano Dio e camminano nelle sue vie ad andare a Lui con tutto il cuore, agendo secondo la sua volontà. Lo aveva ben compreso Abba Iperechio, di cui uno dei più citati apoftegmi recita: “Abbi sempre nello spirito il Regno dei Cieli, e presto l’avrai in eredità”.

Ogni sabato mattina su Ferraraitalia, appuntamento con la rubrica di Andrea Zerbini PRESTO DI MATTINA.
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FOGLI ERRANTI
SCAMPOLI DI LOCKDOWN (1) – Appuntamento al buio

di Giovanna De Simone

“Scusi signora…”, mi chiede il poliziotto mentre, in auto con il suo collega, mi si affianca abbassando il finestrino.
Sono le 22.13 di una calda nottata primaverile e io sono seduta su una panchina di ferro nella piazzetta lastricata di Porta Paola. Quella dove al venerdì facevano il mercato.
In quest’epoca di coronavirus mi sono data un piccolo appuntamento serale. Come una coccola, come un amante, come le carezze prima di dormire.
Alle dieci di sera, nell’ora del coprifuoco più serrato, quando sono tutti sdraiati sui divani a smaltire l’ultimo TG con il suo inesorabile bollettino, io esco a buttare la spazzatura.
Ho ideato un sistema di sacchetti piccoli in cui stiparla, così che a fine giornata almeno uno è irrimediabilmente pieno.
Quando sono le dieci, e fuori non si ode altra voce, io esco.
Butto la spazzatura e mi vado a sedere sulla panchina di Porta Paola, che dista solo 30 passi dal mio condominio.
Sto li, annuso l’aria, guardo la luna, mi fumo una sigaretta, smanetto con il cellulare.
“Signora scusi…”, scende dall’auto il poliziotto in divisa. Bell’uomo direi, ma chissà, in questa quarantena qualsiasi uomo mi sembra desiderabile. “Cosa sta facendo seduta fuori a quest’ora della sera?”
Insieme ai riders in giro per le strade deserte, ci sono loro, i vigilanti della notte. Poliziotti, vigili, carabinieri, guardia di finanza, a far rispettare il coprifuoco a suon di denunce, perché noi esseri umani siamo troppo cretini, e un nemico minuscolo e invisibile che ci uccide alle spalle ancora non ci fa paura.
“Mm”, dico imbarazzata. “Ero andata a buttare la spazzatura ma il bidone dell’umido è pieno…guardi!”, mostro come un alibi il sacchetto maleodorante di fianco a me.
L’uomo mi guarda sorridendo, “vabbè”, mi dice come una promessa, “facciamo che io tra 5 minuti ripasso. Se la ritrovo ancora qui mi tocca farle una multa”, e si allontana strizzandomi l’occhio.
Io abbasso lo sguardo arrossendo, pur sempre sensibile alla divisa. Prendo il mio sacchetto e mi avvio verso casa, quasi contenta nonostante la tuta, la spazzatura che puzza, le sopracciglia di Frida Kahlo, i capelli raccolti con il mollettone rosa.
In quest’epoca di coronavirus basta un attimo per sentirsi ancora una donna.

CONTRO VERSO
Matrimoni combinati

Il tono è grottesco, la sostanza è reale: i matrimoni combinati si fanno ancora, e ci sono genitori che li considerano giusti per proteggere i figli (soprattutto, ma non soltanto, le figlie), oppure per fare un affare.

Matrimoni combinati

Si credeva, irriverente,
al cospetto della gente
di potersi innamorare
prima ancora di sposare!

Dove va la tradizione,
le sue leggi belle e buone?
E chi più di un genitore
sa educare con amore?

La bambina è ormai ragazza,
stia lontana dalla piazza!
E se il giudice ha rispetto,
le ripeta il mio concetto:

la famiglia ha la sua legge
quella sola ti protegge.
Che diploma? Che lavoro?
Pensa invece al tuo decoro!

L’associazione Trama di Terre di Imola, che ha su questo un’esperienza specifica e consolidata, stima che ogni anno in Italia avvengano qualcosa come 2.000 matrimoni forzati.
Nella stragrande maggioranza dei casi queste unioni rimangono sommerse. Quando però i diretti interessati non sono d’accordo e riescono a chiedere aiuto attraverso un insegnante, un assistente sociale o un altro adulto di fiducia, vengono protetti dalla giustizia minorile che limita il potere dei genitori e interviene per garantire al ragazzo o alla ragazza il diritto di scegliere.

CONTRO VERSO, la rubrica delle cantilene indisponenti, le filastrocche con rime bambine rivolte al pubblico adulto, tornano su Ferraraitalia tutti i venerdi.
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La maturità di Bassani, un monito contro i razzismi

“Chi è Bassani?”. Si calcola che su mille ragazzi, tre su quattro non conoscano lo scrittore ebreo, a differenza dei ragazzi del Liceo Ariosto di Ferrara, dove anche il romanziere affrontò la maturità e fra gli studenti è ben noto.
Il Miur sceglie le persecuzioni razziali con Il Giardino dei Finzi Contini tra le tracce della prima prova di italiano della maturità 2018. Ai maturandi, che hanno fatto questa scelta, si chiede di analizzare un brano in cui compare la figura di Silvio Magrini, presidente della comunità ebraica di Ferrara dal 1930. Una storia vera e tragica, dove l’epilogo sarà la deportazione e la morte ad Auschwitz di tutta la sua famiglia. Prima della deportazione, Magrini racconterà l’amarezza e la rabbia nel momento in cui, a causa delle leggi razziali, verrà cacciato dalla sua amata biblioteca di Ferrara.
Il tema principale è l’antisemitismo, una scelta prevista, quella del Miur, in occasione della ricorrenza degli 80 anni dalla promulgazione delle leggi razziali in Italia. Una giusta attenzione accompagnata forse ad un collegamento alla politica attuale? A tal proposito, ecco alcuni commenti: “Quanto mai attuale!”, “Siamo in tema direi”, “Un caso?”. Ogni giorno giornali, tv e istituzioni fanno allusioni alle leggi razziali del 1938 e alla Shoah per futili motivi politici che offendono tutti coloro che sono stati perseguitati e uccisi nei campi di sterminio. Bisognerebbe evitare manipolazioni del passato e strumentalizzazioni al presente.
Auguriamoci, invece, che la scelta della traccia possa essere un invito rivolto alle nuove generazioni, alla riflessione affinché ciò che è stato non si ripeta o, come suggerisce Ruth Dureghello, presidente della comunità Ebraica di Roma, agli studenti: “Cogliete l’occasione di comprendere meglio come si arrivò a quella tragedia e soprattutto raccogliete quel testimone per impedire che si verifichi di nuovo”.

L’antisemitismo esiste ancora e non minaccia solo Israele (che da ieri si trova sotto attacco missilistico nell’indifferenza totale dei media, italiani compresi, pronti a “colpire” solamente quando Israele reagisce e si difende), come dimostrano le violenze e le uccisioni nei confronti anche di giovanissimi in Francia e in Germania. L’unica loro ‘colpa’? Essere ebrei.
Come possiamo insegnare ai giovani il rispetto quando li costringiamo ad assistere a violente manifestazioni antiebraiche come è accaduto e continua ad accadere anche in Italia, da parte di estremisti politici antisemiti?
I giovani devono comprendere che l’antisemitismo diventa pericoloso quando in uno Stato europeo si forma una forza politica che crede che gli ebrei siano la causa di tutti i mali della società.

N.B,. Questo articolo è uscito per la prima volta su Ferraraitalia il 23 giugno 2018 

CULTURA DI PACE E DIRITTI
Il bando regionale online dal 22 giugno al 20 luglio

Da: Regione Emilia Romagna

Incontri, iniziative per le scuole, premi, mostre e laboratori. La Regione Emilia-Romagna lancia un bando per progetti, promossi da enti locali e terzo settore, per sostenere una cultura della pace e dei diritti.

In linea con l’obiettivo 16 di Agenda 2030, delle Nazioni Unite, dedicato alla promozione di società pacifiche ed inclusive ai fini dello sviluppo sostenibile, vengono finanziate iniziative che facilitino e promuovano la crescita di una società in questo senso, congiuntamente ad una cittadinanza consapevole e alla responsabilità sociale. Per i progetti del 2020 sono a disposizione 190 mila euro.

Il bando, on line dal 22 giugno al 20 luglio, sarà disponibile nei prossimi giorni al link :https://bandi.regione.emilia-romagna.it/search_bandi_form , mentre la delibera ; approvata dalla Giunta regionale è già on line.

Nel corso degli anni, grazie ai contributi previsti dalla Legge per promuovere una cultura di pace (12/2002), sono stati realizzati importanti momenti di incontro e riflessione di rilievo regionale come il Popoli Pop Cult, incontro tra generazioni, popoli e culture attraverso la musica a Bagnara di Romagna, il Festival Francescano di Bolognaconconferenze, spettacoli, attività didattiche e momenti di spiritualità,  il Festival dei Diritti di Ferrara, e ancora iniziative rivolte alle scuole, tra cui il Premio per la Pace Giuseppe Dossetti, e poi mostre, laboratori e spettacoli teatrali.

Il bando 2020, in continuità con gli anni precedenti, sostiene progetti finalizzati a sensibilizzare la comunità regionale, con particolare attenzione ai giovani, alla cultura della pace e della nonviolenza, a promuovere lo sviluppo dei diritti umani, la non-discriminazione e la valorizzazione delle diversità, a incentivare il dialogo interreligioso e promuovere una riflessione su cultura, economia ed ambiente come fattori generatori di contesti di sviluppo inclusivi e sostenibili.

Presentazione delle domande

Le domande di contributo dovranno essere presentate sulla piattaforma informatica Sfinge 2020 da lunedì 22 giugno, alle ore 10, fino a lunedì 20 luglio 2020, alle ore 17.

I progetti presentati dovranno essere realizzati entro il 2020. Saranno valutate tutte le iniziative che si concludano dopo il 31 agosto e saranno ritenute ammissibili le spese sostenute nell’anno solare 2020.

I DIALOGHI DELLA VAGINA
Questione di infissi

Da dove entrano gli altri nelle nostre vite? Si fanno annunciare alla porta o entrano leggeri dalla finestra? Lettrici e lettori si raccontano.

ENTRARE E USCIRE

Cara Riccarda,
porta, finestra, ma cosa importa? Ti lascia sempre qualcosa. Tornassi indietro, non me lo chiederei più da dove l’altro è entrato né da dove sono entrato e uscito io.
N.

Caro N.,
mi fai pensare che a volte crediamo di entrare da un portone e poi ci ritroviamo per le scale di cantina. La settimana scorsa abbiamo parlato di come gli altri entrano nelle nostre vite, se bussando alla porta o saltando da una finestra, ma anche noi in qualche modo ci siamo infiltrati o abbiamo lasciato un piede nella porta, pur di non farla chiudere.
Riccarda

VOGLIE E BISOGNI

Cara Riccarda,
concordo che dalle finestre entrano i ladri, anche quelli di cuori. Delle persone, bisogna avere voglia, non bisogno e la pandemia ci ha aiutato a svelare chi siamo e chi abbiamo davanti.
M.

Cara M.,
la pandemia una frattura l’ha sicuramente provocata a più livelli, visibili e non. La storia di P. che abbiamo raccontato nella puntata precedente, è stato proprio questo: cogliere la non facile differenza tra il bisogno egoistico di qualcuno, e la voglia di stare con quella persona. Il bisogno di lei, nella storia di P., non ha trovato speculum nel bisogno di lui, che la differenza l’ha capita bene.
Riccarda

Potete scrivere a parliamone.rddv@gmail.com

I VOLTI DI MARMO E LE FACCE DI BRONZO
Vandalismo o legittimo e comprensibile atto di accusa?

Vandalismo o legittimo e comprensibile atto di accusa? Il mare rabbioso della protesta ha innalzato le onde fino a travolgere quelli che sono ed erano i segni di una storia, la nostra. Le statue hanno rappresentato, nel corso dei secoli, la scena in cui l’umanità ha vissuto, ha agito, quasi fossero una popolazione in cammino esse stesse, passo dopo passo a percorrere i tempi. Le abbiamo modellate noi, attraverso i nostri scultori, commissionate e celebrate, collocate con ammirazione, rispetto e venerazione nei parchi, nelle chiese, nelle piazze, nei punti più significativi della nostra civiltà eroica o corrotta, conquistatrice o aguzzina, coraggiosa o vigliaccamente profittatrice. Sono creature nostre che prendono vita nelle nostre fucine, nel nostro immaginario e scatenano un memento del passato che riconosciamo o tendiamo a disconoscere perché ce ne vergogniamo o avvertiamo estraneo ai nostri principi dell’attualità.
Che ci piaccia o no, sono pezzi di marmo o bronzo scalpellati e forgiati per testimoniare una storia di cui andare fieri o rinnegare e ripudiare. Rammentano un passato, una rivoluzione, un credo religioso, una vittoria bellica, una conquista, una scoperta, un merito in campo scientifico, artistico, letterario, culturale in generale. E quando disconosciamo o ripudiamo un segno visibile e potente dell’iconografia perché la storia ce lo impone, si crea inevitabilmente una crepa, un mea culpa in cui tutto viene rimesso in discussione, un indietreggiare per poi riprendere la rincorsa verso nuove idealità, lasciando alle spalle le macerie di capitoli di storia scomodi. Diventa un corto circuito che genera per un attimo oscurità, un blackout della storia che dura da sempre.

Nell’Isola di Pasqua, appartenente al Cile, una serie di statue monolitiche, circa mille moai creati presumibilmente intorno all’anno 1000 d.C., ricavate da un unico blocco di tufo si affacciano sull’Oceano Pacifico, sembrano fissarlo immutabilmente. Alcune reggono strani copricapi che ricordano il cilindro e la loro altezza, da 2,5 metri a 10 metri impressiona davvero, se si pensa che il corpo rimane completamente interrato. Furono scolpite direttamente nelle cave e trasportate inspiegabilmente nella posizione eretta, servendosi di tronchi d’albero che, presumibilmente, lasciarono l’isola completamente disboscata. Celebravano gli antenati defunti o importanti personaggi della comunità o forse erette per testimoniare credenze religiose: il mistero avvolge ancora i moai. Quello che lascia pensare a una guerra civile, uno stravolgimento sociale, una rimozione di questi stupendi simboli, oppure, ipotesi meno accreditata, un terremoto, è l’immagine di teste divelte e statue rimosse vistosamente dalla loro sede.

Passando ccn un balzo epocale alla Rivoluzione Francese, oltre alle teste umane caddero anche numerose teste di bronzo, nel nome della liberté, fraternitè, egalitè. L’ancien regime era morto per sempre attraverso, prima ancora, i suoi simboli.

Il 2001 segna tristemente la fine dei Buddha di Bamiyan, le due stupende statue scolpite da un gruppo buddista nelle pareti di roccia della valle di Bamiyan in Afghanistan, sulla Via della Seta, itinerario mercantile tra Cina, Asia Centrale, Medio Oriente ed Europa, riconosciute Patrimonio Unesco: 400 religiosi afgani, interpretando il pensiero dei talebani musulmani, decretarono l’abbattimento delle prestigiose sculture perché rappresentati di tendenze idolatre e infedeli. Ai lati delle due opere, i monaci vivevano come eremiti in piccole grotte scavate come caverne, addobbate con statue religiose e meravigliosi affreschi variopinti.

E’ IL 2003 quando una statua di Saddam Hussein viene colpita da un uomo con un grosso martello, prima di essere aggredita dalla folla. Immagine che ha fatto il giro del mondo come emblema di condanna e di svolta. Per poi ritrattare: dopo 13 anni, l’uomo ha dichiarato di essersi pentito perché il dopo-Saddam è peggiore del passato.

Nel 2014 tocca alla più grande statua di Lenin, eretta nella piazza principale di Kharkiv in Ucraina: un’altra statua di regime ‘giù per terra’, rimozione eccellente in una lotta non ancora risolta tra filorussi e dissidenza nazionalista. La stessa sorte toccata a Karl Marx nei Paesi dell’ex Unione Sovietica.

E siamo ancora qua, con la nostra voglia di abbattere, demolire, annullare traccia, ridisegnare una storia che ha subito delle svolte, non è andata come volevamo, ci ha deluso, rammaricato, infuriato.
Ora tocca a Cristoforo Colombo, demolito e gettato in un lago a Richmond, Virginia; tocca a Robert Milligan, deprecabile mercante di schiavi insieme a Eduard Colston. Tocca pure a Cecil Rhodes, considerato precursore dell’apartheid in Sudafrica, da cui prenderebbe nome la Rodesia.
Si arriva perfino a Wiston Churchill, la cui statua viene imbrattata, in Gran Bretagna, con l’infame scritta ‘was a racist” – era un razzista.
E poi ancora in Belgio, stigmatizzando ad Anversa il ricordo statuario di Leopoldo II, autore della sanguinosa colonizzazione del Congo nella seconda metà dell’800. Il popolo non dimentica e prima o poi ti chiede il conto. Nella nostra Italia è caduto su Indro Montanelli il peso della Storia, con il movimento ‘I Sentinelli’ che ne chiede la rimozione di ogni traccia del monumento e dell’effigie pubblica dopo che ne sono state rispolverate storia e dichiarazioni sulla campagna di Abissinia del 1935 a cui partecipò, che comprende la narrazione della 12enne acquisita come sposa etiope in un contesto di guerra.

Siamo un’umanità che ha bisogno di rivedere epocalmente la propria storia, ammettere errori, a volte mostruosità, per sopravvivere a fatti ed eventi talmente abnormi da non consentire l’assoluzione, la dignità. Sarà sufficiente l’abbattimento delle statue, segno di passaggio storico, ad alleggerirci le coscienze?