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PRESTO DI MATTINA
Risonanze

Risonanze di vangelo, parole antiche e sempre nuove, sono per me le poesie di Carlo Betocchi. Il suo è un vangelo vissuto a caro prezzo nel quotidiano; una scrittura incisa nel corpo delle cose, ferita per liberare il soffio d’anima prigioniero in esse. Ma al tempo stesso una scrittura seminata nel tempo ‒ «un passo, un altro passo» ‒ per ritrovare «tracce mutili», frammenti di senso dentro al muto silenzio del quotidiano. Eppure «col suo silenzio/ la mia anima benda le sue ferite./ E crede, infinitamente crede/ al mutamento. E vi scivola/ dentro. Tutto è compiuto/ e tutto è da compire./ Nel mio silenzio» (Tutte le poesie, Milano 1996, 578). Un vangelo compiuto e tutto da compiere ‒ dunque ‒ scevro da compromessi, spoglio da sicurezze, senza difese, né privilegi. Un vangelo al vivo, che rincuora la vita.

Quella di Betocchi è una fede che si consegna in abbandono all’altro che gli viene incontro; scaturita da ferita d’io che guarisce facendosi umiltà d’amore. Solo così ci si può convincere che la stoltezza del vangelo è più sapiente degli uomini e la debolezza del vangelo è più forte della forza degli uomini (1 Cor 1,25): «A me la fede/ non consente che un grido ed una voce:/ è quel poco che so, che sento vero/ dentro di me: ed in quel vero accendo/ l’essere a farsi un uomo che cammina/ solo e con tutti, innanzi a sé pregando» (Ivi, 545).

In particolare, una poesia di Carlo Betocchi mi accompagna da tanti anni, invitandomi all’umiltà d’amore. È un testo generativo di uno stile e di una pratica pastorali, che fanno partire alla ricerca del vangelo celato in qualunque frammento del creato, pure nel sasso, nell’albero, nel fuoco, nella sorgente in un fiato d’aria. Un vangelo tra la gente; un vangelo di vangeli, fuori dai recinti di coloro che si ritengono giusti. Presente pure nelle strade dove tendono agguati i briganti, ma percorse anche dal samaritano della parabola evangelica che, a motivo di quella debolezza forte e di quella stoltezza sapiente che promanano dalla compassione, non passa oltre, restando con l’altro, praticando così lo stesso operare di Dio nel rivelarsi a Mosè: “dì loro che io sono [l’altro], colui che sono accanto, che mi faccio prossimo a voi”.

Eccola: «No, non temere mai nulla da Dio…  Non temere il Signore Dio tuo. Ha detto: “Io sono quello che sono”/ e tu non temere mai nulla: poiché,/ se tu credi, non sarà tua l’esistenza,/ ma sua: né sarà mai protetta, tuttavia,/come tu speri e credi: anzi, gettata/ nelle fosse. Chi crede in Dio/ si appresti ad essere l’ultimo/ dei salvati, ma sulla croce, ed a bere/ tutta l’amarezza dell’abbandono./Poiché Dio è quello che è.
Ma si è già nel Vangelo quando/ non se ne può più uscire:/ e vi si è ancora quando,/ stanati dalle mura della sua Chiesa/ per impossibilità di restarvi,/ allora il Vangelo ci insegue/ come il veltro la preda agognata./ Fra te e la salvezza non/ altre vie che quelle segnate/ dal Vangelo; ma in quelle che vedi/ vanno, fra sciami d’innocenti,/ turbe d’ignavi e d’ipocriti./ E dunque fra te e il Vangelo /non c’è che il nasconderti/ dentro e sotto di lui come gramigna/ nel suolo, a far speco terroso/ in cui si realizza, come si può,/ quel che non esiste che nei fatti:/ qui in terra, e nella carità» (Ivi, 459-461).

Mario Luzi, in un’intervista (Biblia Notiziario 1996), ricordava che quel piccolo demiurgo che è un poeta, quando si accosta al vangelo, lo fa non tanto per la potenza e l’autorità di quella Parola, ma semmai, seguendo la singolarità che gli è propria, quella di smascherare le false parole, di scoperchiare quelle che, come sepolcri imbiancati appaiono all’esterno belle all’udirsi, ma dentro sono parole morte. E tuttavia quelle del poeta sono parole vere perché testimoniano non tanto il Creatore e il Padre nostro che è nei cieli, ma la sua creatura. In tutti i casi, in comune tra loro, la parola del vangelo e quella del poeta hanno l’amore per l’uomo. Talché il poeta, udendo la parola di Dio, ne coglie gli echi profondi e le risonanza che essa tesse con i silenzi degli uomini nel loro umano interrogare. «Il Vangelo – scrive Mario Luzi – è poesia esso stesso, nel senso di poiesis che crea l’esigenza di pensieri, crea pensieri nuovi, esalta l’esistente e l’assente nello stesso tempo. Fa sentire così vivo il mondo, così drammatico».

Ne La poetica dello spazio, Gaston Bachelard, per esprimere gli echi profondi generati nel lettore da un testo poetico, usa una parola francese intrigante: retentissement, da rententir, riempire di un suono forte o di un brusio, come refoli di vento a intervalli costanti in uno spazio che si dilata sempre più. Retentissement deriva dal latino tinnere, tintinnare, risuonare di suoni brevi o allungati, fievoli o rimbombanti; a volte è un bisbigliare da un orecchio all’altro, altre come un’ola nello stadio; un farsi intendere ripetutamente come un’eco, nello stesso perdurare di un’azione come l’andirivieni delle onde nel mare, l’espandersi di odori e profumi o il diffondersi di canti gioiosi, o di lamenti; rumori di officina, pesanti grida o il vagito di un neonato.

Retentissement possiede dunque una ricchezza semantica che non si coglie nella sua traduzione italiana con ‘risonanza’. Teniamo quindi a mente nel leggere quanto osservava al riguardo Bachelard: «Le risonanze si disperdono sui differenti piani della nostra vita nel mondo, il retentissement ci invita ad un approfondimento della nostra esistenza. Nella ‘risonanza’ non facciamo che intendere la poesia, nel retentissement la parliamo, è nostra. Il retentissement opera un cambiamento d’essere: l’essere del poeta sembra diventare il nostro… L’esuberanza è la profonda ricchezza di una poesia sono sempre fenomeni del doppione ‘risonanza-retentissement’: la poesia pare ridestare in noi echi profondi in virtù della sua esuberanza». Questo determina come un risveglio nel lettore, un divenire che lo trasforma: «La immagine che la lettura del poema ci offre, eccola diventare veramente nostra: essa si radica in noi stessi, e, sebbene noi non abbiamo fatto che accoglierla, nasciamo all’impressione che avremmo potuto crearla noi, che avremmo dovuto crearla noi. Essa diventa un essere nuovo del nostro linguaggio, ci esprime facendoci diventare quanto essa esprime, o, in altre parole, essa è al tempo stesso un divenire espressivo ed un divenire del nostro essere», (ivi, 12-13). Così il retentissement costituisce quel fenomeno che fa percepire al lettore ciò che il poeta ha scritto come fosse il proprio dire; lo fa cosciente che in lui abita la capacità linguistica ed espressiva dimorante nel poeta.

Nella traduzione francese della Bibbia ho trovato diverse ricorrenze testuali del nostro termine. In particolare, mi sono soffermato sul Salmo 19, che amplifica e diffonde le risonanze e le voci della creazione che narrano l’opera ‒ poetica anch’essa vien da dire ‒ uscita dalle mani di Dio. Il ritmo è incalzante, crescente, uno sparpagliarsi di suoni. Dai cieli si avvia la narrazione e, come una cascata, risuona sulla terra attraverso il distendersi dei giorni e delle notti, che traghettano nel tempo e lungo la storia quanto hanno udito e ricevuto. Le notizie trasmesse non sono discorsi chiaramente udibili e afferrabili, ma nell’intero spazio terrestre è ‘uscito il loro suono, se ne diffonde la voce’, tanto che fin all’estremità della terra ‘risuona la parola: «Leur retentissement parcourt toute la terre. Leurs accents vont aux extrémités du monde».

In questo ‘passa-parola’ di trasmissione e di recezione della vita, la creazione continua a muoversi, a ricrearsi, come quando in uno stagno d’acqua ferma si gettano sassi, che creano risonanze ondose a forma di cerchi, che vieppiù si espandono ingrandendosi. E incrociando il movimento ondoso provocato dagli altri sassi, essi creano trasformazioni e nuove armonie figurative rispetto alla forma iniziale. I cerchi che vengono così attraversati dalle onde degli altri ne sperimentano le risonanze come fossero le proprie, e forse qui, simbolicamente, ci viene rappresentato il fenomeno ricordato da Gaston Bachelard, che porta il lettore a sentirsi come il poeta, a percepire, almeno un poco, il testo come appartenente anche a lui.

La ricezione di un testo «è la capacità di fare azione, di fare passi incontro, anche quando il movimento sembra partire da altri, come i cerchi nell’acqua, non è ripetizione ma direi intensità nell’azione con cui anche chi riceve prende parte attiva nel far sua la cosa che riceve» (Luigi Sartori).

Padre Marcello dopo ogni colloquio o confessione diceva sempre a chi aveva di fronte: «avanti, avanti». Il mio congedo è simile: «un altro passo». Espressione che rivolgo spesso anche a me stesso la mattina, o quando sto per iniziare qualcosa di impegnativo o faticoso. Non fu allora solo meraviglia quella volta che, saltando qua e là tra le pagine dell’opera poetica di Carlo Betocchi, trovai il titolo di un testo che corrispondeva esattamente al mio quotidiano dire la speranza: Un passo, un altro passo

Un passo, un altro passo,
ivi del cielo il masso
azzurro, la vivente natura,
e l’inferma pietà
che se stessa conosce negli errori,
e la lieve follia, ivi la morte,
il rumore e il silenzio,
e il mio esistere anonimo;
e come dalla pietra sale il canto
di un colore che è muto,
un passo, un altro passo,
e inciampicando nel divino esistere
io giungo a riconoscermi nel sasso
che sospira all’eterno, in alto, in basso.”
(ivi, 286).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]  

Al cantón fraréś
Giorgio Alberto Finchi: “Al vin di nòstar cò”

L’autore, dopo aver scritto sul magnàr, su erb e piant delle nostre terre, ha compilato un repertorio in poesia dialettale sul mondo del vino nostrano: le pratiche nella vigna e in cantina, il bere all’osteria e la degustazione al ristorante, la selezione dei vitigni, gli abbinamenti gastronomici, le caratteristiche organolettiche delle varie denominazioni. Il tutto con umoristica leggerezza.
Di seguito proponiamo un compendio storico in rima, il ricordo di una antica uva bianca, un breve assaggio di vino rosso locale.

 

Pìcula storia dla vida e dal viη

Fin da la più luntàna antichità,
i m’à sémpar dit a scola,
al vin al jéra rinumà
e l’an è briśa na fòla
parché źa int l’era terziaria
dill piànt ad vida è sta’ truvà
int ill roć ad arenaria
e da alóra l’à “źarmujà”.
Qualcùn diś che la vida
l’as è misa iη salv coη l’arca,
e che Noè al l’à cargàda
iηsiém all besti, su cla barca.
La prima źént ch’là cultivàda,
sémpar stand a la storiografia,
dla Persia a par ch’la sié stada,
źa espert d’agronomia.
Int la penìśula italiana
prima dl’òm l’à mis ill radìś
e acsì iη val Padana,
sémpar stand a quél ch’i diś.
Rivà l’òm, int la preistoria
con di graη bucàj ad vin
al s’è mis a far baldoria
e a cantàr cmè i putìη.
Ma diéś sècul prima ad Crist
j’Etruschi, źént furèst
che da nu iη s’jéra mai vist,
i l’à difùśa in tut al rest,
iη zéntar e setentrióη
śgónd i źir dal so cuntèst
e in ogni altra direzióη.

Piccola storia della vite e del vino (traduzioni dell’autore)
Fin dalla più lontana antichità, / mi hanno sempre insegnato a scuola, / il vino era rinomato / e non è una favola, / perché già nell’era terziaria / piante di vite sono state ritrovate / nelle rocce di arenaria / e da allora ne hanno fatto di cammino. / Qualcuno dice che la vite / si è messa in salvo con l’arca / e che Noè l’ha caricata / insieme alle bestie, su quella barca. / I primi che l’hanno coltivata, / sempre stando alla storiografia, / sembra siano stati i Persiani, / già esperti di agronomia. / Nella penisola italiana / ha germogliato prima dell’uomo / soprattutto nella Valle Padana, / sempre stando a quanto hanno riferito. / Quando giunse l’uomo preistorico / con grandi boccali di vino / ha cominciato a fare baldoria / e a cantare come un bambino. / Ma dieci secoli avanti Cristo / gli Etruschi, popolo sconosciuto, / che ancora non si era visto, / l’hanno diffusa in tutti i territori, / del centro e del settentrione / e in base alla loro diffusione / anche in altre direzioni.

 

Liàdga

Agh jéra un temp
una pianta ad vida
che agh bastava póca cura:
ad sólfana na supiàda,
uη pó d’calzìna e sulfàt ad ram,
e la carséva seηza stòri
avśìn a ca’ o luηgh all tirèli.
La dava di grap cumpì
ad vó źala, bela e brilànta
tanta bòna da magnàr.
La bunéva purasà prest,
adritùra a la fin ad luj,
e par quést la gnéva ciamàda
‘la prima vó’ o ‘vó Liàdga’.

Lugliatica
C’era un tempo / una pianta di vite / che aveva bisogno di poche cure: / una soffiata di zolfo, / un po’ di calce col solfato di rame, / e cresceva senza tante storie / vicino a casa, lungo i filari. / Dava dei grappoli compiuti / d’uva gialla, bella brillante / e tanto buona da mangiare. / Maturava molto presto, / addirittura alla fine di luglio, / e per questo veniva chiamata / ‘prima uva’ oppure ‘uva Lugliatica’.

 

Rós dal Bosco Eliceo

Chì da nu agh è sémpar sta’
dal bóη viη par la vrità:
al teréη l’è ‘η pó sabióś
mò al viη l’è bel curpóś.
Vers al mar, vers a Vulàna
e più iη là, vers a Funtàna,
agh è uη vin da ‘giubilèo’,
al rós, apùnt, dal Bosch Elicèo.
Catàr l’origine ad chi’sta vida
l’è sicùr na bela sfida:
tant studióś i gh’à pruvà
e l’è finì int na bugà.
Fòrsi nata su ill mòt dal litoràl,
acsì salvàdga tal e qual
o cultivàda da quìi ad Spina
e dai Rumàη sira e matìna.
Zèrti i dscór d’Renata d’Francia,
d’j’àltar i diś con titubaηza
che la viéna dal meridióη
coη na bòna uservazióη
che al grap iη riva al mar,
e quést al par bèl ciàr,
al bunìs coη più vigór,
dat ach gh’è uη pó più ‘d calór
e ór ad luś aηch uη pó ad più,
al savévan aηca nu…
. . . . . . . . . . . . . . . .

Rosso del Bosco Eliceo
Qui da noi c’è sempre stato / del buon vino in verità: / il terreno è un po’ sabbioso / ma il prodotto è bello corposo. / Verso il mare, verso Volano / e più in là, verso la Fontana, / esiste un vino da ‘Giubilèo’, / il rosso del Bosco Elicèo. / Scoprire l’origine di codesta vite / non è molto facile, / tanti studiosi hanno tentato / e non ci sono riusciti. / Può essere nata spontaneamente / sulle dune del nostro litorale, / poi coltivata dagli Spineti / e dai Romani in ogni tempo. / Chi ricorda Renata di Francia, / altri dicono con incertezza / che provenga dal meridione / secondo la giusta osservazione / che il grappolo in riva al mare, / e questo è bello evidente, / matura con più vigore, / dato anche che c’è più caldo / e vi sono più ore di luce, / questo lo sappiamo anche noi… / . . . . . . . . . . / . . . . . . . . .

Tratte da: Giorgio Alberto Finchi, Al vin di nòstar cò : storia e poesia dei vini del Delta, Ferrara, Centro di Documentazione Storica, 2004.

Giorgio Alberto Finchi (Porotto 1929 – Ferrara 2008)
Medico condotto a Pontelangorino per 42 anni, socio del Gruppo Mandolinistico Codigorese, dell’Associazione Medici Scrittori Italiani, del Tréb dal Tridèl, del Moto Club Delta… Fra le sue pubblicazioni si ricordano: L’e tuta colpa dal prugress (1997), Al magnàr di nòstar cò (1998), Erb e piant di nòstar co’ (1999), con altri il Vocabolario del dialetto ferrarese (2004), Sanità fra satira e umorismo (2006). Ha composto sette commedie dialettali tutte rappresentate dalla compagnia “Straparót” di Porotto, per la regia di Mario Montano.

Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui] 

Cover: Vigneti sul Po. Foto di M. Chiarini 

“Riaprite la Biblioteca Rodari”:
una lettera dei cittadini ancora senza risposta

Come gruppo di “Cittadini in difesa della Biblioteca Rodari” nei giorni scorsi abbiamo inviato una lettera, che riproduciamo qui sotto, per chiedere un incontro sulle problematiche e le prospettive della Biblioteca Rodari, servizio del quale sentiamo gravemente difficoltà e necessità.
Purtroppo a tutt’oggi non abbiamo avuto alcuna risposta.
Speriamo ancora che le promesse di ascolto della società civile altre volte proclamate, trovino presto riscontro; certamente noi non desisteremo dall’occuparci del tema, sempre nel rispetto dei ruoli di ciascuno ma con la convinzione che anche la nostra voce abbia il diritto di essere ascoltata.
Con preghiera di pubblicazione.
Cordiali saluti
Luigi Rasetti
a nome e per conto del gruppo di cittadini a difesa della Rodari
testo della lettera inviata agli Amministratori:
Gentile Sindaco Fabbri,
Gentile Assessore Gulinelli, 

come sapete, il 3 ottobre scorso si è tenuta una pubblica manifestazione davanti alla Biblioteca G. Rodari, alla quale hanno partecipato numerosi cittadini (oltre 170 presenze registrate), che si sono uniti agli organizzatori per esprimere grave preoccupazione per la crisi della Rodari. 
Facendo seguito a tale iniziativa, siamo a chiedere ad entrambi di voler partecipare ad una pubblica assemblea nel quartiere Krasnodar allo scopo di dialogare con i cittadini su: 

1. Riapertura al pubblico della Biblioteca Rodari di v.le Krasnodar 102 ad orario pieno, il prima possibile.
2. Ripristino di personale bibliotecario specializzato (3 postazioni fisse, in presenza) in tempi brevi.
Inoltre, a seguito delle recenti dichiarazioni del sig. Sindaco sulla nuova biblioteca del Sud della città da collocare all’Ippodromo, vorremmo capire ed eventualmente avanzare richieste e proposte su:
3. Individuazione di una più idonea sede della Rodari sempre nel quartiere di V.le Krasnodar e nel contempo condividere una eventuale nuova destinazione d’uso dei locali di V.le Krasnodar102 che, per il vuoto di servizi di comunità che si creerebbe col trasferimento della biblioteca, potrebbe rappresentare un punto di riferimento di incontro a livello civico.

Chiediamo che tale assemblea pubblica possa aver luogo entro le prossime 2-3 settimane. Siamo fiduciosi che la nostra richiesta venga accolta favorevolmente e con spirito costruttivo. Da parte nostra, assicuriamo la massima disponibilità a collaborare ed operare nell’ottica del bene comune. Ringraziando per l’attenzione, restiamo in attesa di un riscontro e porgiamo cordiali saluti.

Cittadini a difesa della Biblioteca Rodari

GLI SPARI SOPRA
“Nessuno si salva da solo”: un ateo dalla parte di Bergoglio

Ci si salva se si agisce insieme e non solo uno per uno” (Enrico Berliguer)

“Nessuno si salva da solo” (Jorge Maria Bergoglio)

Io faccio davvero fatica a capire la religione, dice, per forza sei ateo. No, ma non è assolutamente quello il punto e nemmeno il motivo. La religione funziona per dogmi, funziona quando impone il fanatismo nel giudizio sugli altri. Nella storia gli esempi sono migliaia, parliamo solo della religione cattolica, la santa inquisizione, l’evangelizzazione delle Americhe, dell’Africa e dell’Oceania, e fermiamoci qua. Esistono degli esempi però altrettanto virtuosi, anzi le parole del Gesù fattosi uomo, parlano d’altro, molto spesso, nei secoli sono state modificate per convenienza. Lasciamo perdere le date dei vangeli, non apocrifi, e la storicità degli stessi, ma siamo davvero sicuri che i detrattori del attuale papa Francesco, che non a caso ha scelto il nome del Santo di Assisi, siano credenti?

Mi spiego meglio, la teologia della liberazione ha un grosso punto d’incontro tra cristianesimo e marxismo, ora immagino di far vibrare sulla sedia i bigotti di entrambe le correnti di pensiero, ma io da marxista curioso, gramsciano e non dogmatico, proseguo.
Ricordo male, oppure scavando nei miei lontanissimi anni di catechismo, che quel Ragazzo di Nazareth si schierava sempre e apertamente dalle parte degli ultimi? Vero, forse non era prettamente femminista, ma duemila anni fa, non ricordo che nessuno lo fosse.
Forse mi sogno quando, sempre Cristo, parlava dei ricchi e della cruna dell’ago?

La mia memoria vacilla, quando ricordo la storia dei mercanti e del tempio oppure della rivoluzione nei confronti del potere costituito, contro i soprusi degli oppressori romani in Palestina? Un po’ come l’imperialismo di oggi dello stato di Israele, ma non vorrei andare fuori tema.

Un amico mio scrittore dice che per scrivere occorre partire da un punto A per arrivare a un punto B. Ecco io generalmente, parto per una scrittura senza prima avere in mente quale sarà il mio punto d’arrivo. Ecco perché ho così tanti limiti e forse mai diverrò uno scrittore, rimanendo per l’eternità uno che scrive.

Ritorno alla mia analisi sul pensiero religioso e sul pensiero di papa Francesco, mi chiedo, perché Bergoglio sia più odiato dai credenti che dagli atei?
Continuo, perché è più vicino ai pensieri originari della sinistra, che ai pensieri originari della destra?
Nella mia piccola mente, la risposta pare scontata, forse perché il concetto di religione originario stava sempre e per dogma dalla pare degli ultimi, “ama il prossimo tuo come te stesso”, le parole non sono di Francesco ma del figlio del titolare.
Quando la religione per millenni è stata dalla parte del più forte, dalla parte dell’oppressore, dalla parte del re, della regina, dell’imperatore e dello zar, tutto andava bene. Difendiamo i confini, riprendiamoci il sacro sepolcro, combattiamo gli infedeli, sterminiamo gli adoratori di idoli. Fino qui andava bene a tutti.

Anche ora, secoli dopo, molti finti credenti (la maggioranza?) pensano che Gesù Cristo fosse dei loro, fosse dalla parte dei vincenti.
Ma non è così, fu il primo degli sconfitti, non rinnegò i fratelli o meglio quelli con cui Egli condivise il pane (cum panis), fino al massimo sacrificio.
Perché ora duemila anni dopo, quelle stesse parole, quello stesso verbo danno ancora così fastidio? Magari perché in molti credono in maniera bigotta, senza testa, fissi a testa in giù, continuando ad uccidere, con le armi o con le parole, tanto poi ci si pulisce l’anima con la confessione.
Siamo tutti peccatori, uccidiamo e poi ci pentiamo.
Chi è senza peccato scagli la prima pietra, diceva Lui.

Credo che il pensiero ottuso, di chi pensa alla religione a proprio uso e consumo sia una dei grandi mali dell’umanità da sempre, gli uomini hanno sempre avuto bisogno di un Dio, fatto a propria immagine e somiglianza, al loro servizio, del colore della loro pelle, con gli stessi tratti somatici.
Molto meglio gli idolatri, che non volevano dominare gli dei, ma del sole e della luna ne seguivano i flussi, non pensavano che Dio fosse con loro, il mondo, la terra, il cielo non è di proprietà, ma è in prestito, da restituire migliore alle future generazioni, dicevano i selvaggi.

Avere paura delle parole di papa Bergoglio, criticandolo come blasfemo, solo perché riporta direttamente le parole del Rivoluzionario palestinese, mi sembra veramente una grandissima ipocrisia.
L’ipocrisia di che crede che Gesù Cristo sia bianco, biondo e con gli occhi azzurri.

Non credo di essere particolarmente credibile, da ateo, quando parlo di religione.
Io invidio chi crede in modo laico e ponendosi domande, disprezzo altamente chi ancora si alza il bavero e sostiene che dio sia con lui, e che lui sia come dio (le minuscole qui sono volute).
Credo che le parole siano sempre quelle, sta nell’interpretazione il problema. Quando un uomo, dalla pelle scura, dai tratti orientali e dai capelli lunghi, stando alle scritture e agli atti, un po’ sbiaditi essendo una storia di duemila anni fa, diceva parole rivoluzionarie, che ascoltate ora, dalla voce di un papa, a molti credenti, danno assai fastidio. Forse perché quell’uomo assomigliava molto all’uomo nero di cui hanno tremendamente paura?

PAROLE A CAPO
Marinella Giuni: “Il mio ritorno” e altre poesie

“Come c’è un poeta che canta le violette e i tramonti e un altro che canta i tuoni e le bufere, così ci sono, accanto a poeti che cantano raggelati amori astratti, poeti che cantano tumultuose tragedie sessuali. E a nessuno viene in mente che questo faccia qualche differenza.” (Fernanda Pivano)

 

Perla

Questa lacrima
è una piccola perla
gioiello di un tempo lontano
che scava ora
il tuo viso di marmo
Il sole rapido cala
e nell’ultimo raggio
mi offre la tua mano
Rinunciare
sarebbe follia pura

 

Ogni giorno

Ogni giorno
questo potere
di bloccarti
alla sbarra
mi piace.
Sotto il sole
infuocato
il convoglio rallenta
come sapesse
del nostro incontro.
Ed io
che ne sono certa
godo
del vento
dell’aria leggera
del tuo saluto
sconosciuto.

 

Il mio ritorno

C’è una sola luce
che accende
la mia sera.
La tua finestra
quando illumina
la casa buia.
Dimmi che anche tu
hai amato
il mio ritorno.

 

Marinella Giuni (1961) , abita a Voghera. Laureata in Psicologia Clinica e di Comunità all’Università di Torino, spazia tra diversi interessi sportivi e culturali. Vincitrice e segnalata in diversi concorsi, ha pubblicato “Racconti seri se_veri” con Placebook Publishing e la raccolta di poesie “Nella stanza del te” con Le Mezzelane. Il suo sogno è mollare tutto ed aprire una libreria con le sue amiche lettrici e scrittrici!

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. .\4
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

L’IMPRENDITORE CON LA PASSIONE PER L’ECOLOGIA:
ricordando Aurelio Peccei

In un recente articolo Repubblica ha ricordato Aurelio Peccei, imprenditore e manager con la passione per l’ecologia, che nel 1968 riunì a Roma, assieme allo scienziato scozzese Alexander King, alcuni studiosi presso la sede dell’Accademia dei Lincei dando origine al Club di Roma, associazione non governativa, non profit che da allora persegue “la missione di agire come catalizzatore dei cambiamenti globali, individuando i principali problemi che l’umanità si troverà ad affrontare, analizzandoli in un contesto mondiale e ricercando soluzioni alternative nei diversi scenari possibili” (Wikipedia). Uno dei primi atti dell’attività del gruppo fu la richiesta al Massachussets Institute of Technology di Boston (MIT) di stendere un rapporto sullo stato del pianeta e di prevedere cosa avrebbe provocato la crescita economica che dal dopoguerra ha caratterizzato i paesi sviluppati.
Il rapporto, pubblicato nel 1972, con il titolo I limiti dello sviluppo (The Limits to Growth, o rapporto Meadows, da due degli autori), giungeva alle conclusioni che la Terra nel giro di qualche generazione sarebbe andata incontro ad eventi catastrofici a causa del superamento delle capacità del pianeta di sopportare le attività industriali umane”.

È lo stesso Peccei a sintetizzarne le conclusioni in una intervista rilasciate nel 1973 a Piero Angela (disponibile su futuranetwork.eu, sito che presenta studi, articoli, interviste, segnalazioni di materiali focalizzati sulla necessità di esplorare i possibili scenari e di decidere oggi quale futuro vogliamo scegliere tra i tanti possibili). Per me quello studio fu una illuminazione”, racconta oggi Angela. “All’epoca c’era l’idea di una crescita continua, come l’avevamo conosciuta nel dopoguerra. Ma oggi la cultura di quel rapporto è finalmente stata rivalutata”.

Peccei, dopo esperienze lavorative in Italia e all’estero, in ambito FIAT, nel 1964 entrò come amministratore delegato in Olivetti, che già allora iniziava ad affrontare le prime difficoltà a causa dei profondi cambiamenti in atto nella produzione delle macchine da ufficio. In seguito, non soddisfatto dei risultati ottenuti con Italconsult (una joint-venture tra diversi marchi italiani, quali Innocenti, Montecatini e la stessa Fiat) e con la presidenza dell’Olivetti, concentrò i suoi sforzi anche su altre organizzazioni, come ADELA, un consorzio internazionale di banchieri di supporto allo sviluppo economico dell’America del Sud; inoltre partecipò alla fondazione dell’IIASA (The International Institute for Applied Systems Analysis) con sede a Vienna centro di ricerca per problemi globali come sovrappopolazione, cambiamenti climatici, fame.
Un personaggio straordinario, che, come ricorda Gianfranco Bologna (ambientalista, è stato segretario del Wwf italiano e della Fondazione Aurelio Peccei – Club di Roma Italia) nella sua frequentazione tra il 1976 e il 1984, “ha contribuito a cambiare il modo di intendere il nostro rapporto con il Pianeta che ci ospita”. E’ di quegli anni l’idea e poi la costituzione del Club di Roma.

Nel 1992 (con Peccei morto nel 1984) è stato pubblicato un primo aggiornamento del rapporto, intitolato Beyond the Limits (Oltre i limiti), nel quale si sosteneva che erano già stati superati i limiti della “capacità di carico” del pianeta.

Un secondo aggiornamento, dal titolo Limits to Growth: The 30-Year Update è stato pubblicato nel giugno 2004. In questa versione Donella Meadows, Jørgen Randers e Dennis Meadows, alcuni degli autori del primo rapporto, hanno aggiornato e integrato la versione originale, spostando l’accento dall’esaurimento delle risorse alla degradazione dell’ambiente. Nel 2008 Graham Turner, del Commonwealth Scientific and Industrial Research Organisation (CSIRO) Australiano, ha pubblicato una ricerca intitolata Un paragone tra I limiti dello sviluppo e 30 anni di dati reali, in cui ha messo a confronto i dati degli ultimi 30 anni con le previsioni effettuate nel 1972. La conclusione è stata che i mutamenti nella produzione industriale e agricola, nella popolazione e nell’inquinamento effettivamente avvenuti sono coerenti con le previsioni del 1972 di un collasso economico nel XXI secolo.

“Ma, continua l’articolo di Repubblica, come fece Peccei a capire con così grande anticipo? E perché non fu ascoltato?” “Capì, risponde Enrico Giovannini, membro del consiglio direttivo del Club di Roma, e portavoce di ASVIS (Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile), perché adottò un modello basato su sistemi che interagiscono, a fronte di un approccio che invece privilegiava saperi segmentati: gli economisti si occupavano di economia, i geologi di geologia […] Fu la sua visione sistemica a permettergli di fare simulazioni sul futuro”.

È incredibile come quei modelli ci abbiano azzeccato. Nel 2014 uno studio australiano ha confrontato i grafici del Club di Roma con gli andamenti reali degli ultimi 50 anni: in molti campi (inquinamento, risorse, popolazione) i grafici sono praticamente sovrapponibili. Fa impressione la proiezione sugli abitanti della Terra: prevedeva un picco di 8 miliardi di abitanti nel 2020 che sarebbero scesi a 6 miliardi entro fine secolo: 2 miliardi di persone in meno nel giro di 80 anni. “Oggi, dice Giovannini, siamo drammaticamente vicini ai picchi previsti 50 anni fa dal Club di Roma”. Ma allora i potenti dell’epoca sottovalutarono l’allarme. “Risposero che la tecnologia avrebbe trovato le soluzioni e il mercato si sarebbe adattato”. “Ci fu anche chi accusò Peccei di catastrofismo”, aggiunge Gianfranco Bologna. “ll fronte di quelli che oggi chiameremmo negazionisti si unì contro il Club di Roma, da destra a sinistra”.

Fa poi impressione leggere nell’introduzione di un libro pubblicato negli ultimi anni del secolo scorso (Futuro sostenibile, ed. EMI, Bologna) a cura del Wuppertal Institut für Klima, “tutti i paesi ricchi nei prossimi anni e decenni dovranno affrontare questioni importanti. Come è possibile impedire una ulteriore divisione della società fra alto e basso, ricchi e poveri? Quali cambiamenti politici e quali riforme istituzionali sono necessari? Tutte queste domande attendono una risposta […] in rapporto con le esigenze dell’ecologia e della giustizia globale. […] A quanto pare attualmente l’ecologia ha ancora delle possibilità nel dibattito politico solamente se scende in campo alleata all’innovazione tecnica e alla possibilità di conquistare settori di mercato, altrimenti per lei non c’è nulla da fare”.

Mezzo secolo dopo i potenti ancora faticano ad agire. Ma, dice Giovannini, milioni di giovani in tutto il mondo scendono in strada per scuoterli. Cosa hanno in comune Peccei e Greta Thunberg? “Ascolta gli scienziati” dice oggi Greta come lo diceva 50 anni fa Peccei. Giusto quindi ricordarlo per quello che è stato, per i suoi appelli alla scienza e al costante invito a tutti a salvare la Terra.

Un addio

Ti prego vivamente di andartene. Di chiudere quella porta per sempre. Ti sei messo con un’altra a mia insaputa, ne bella  ne giovane. Era un tuo diritto? Forse sì, ma non lo dovevi fare così.  Hai tradito la mia fiducia. Hai voluto un’altra donna, altri pensieri. Ti prego di uscire da questa casa e non tornare più. Apri la porta, e guarda il mondo con occhi diversi, il sentiero è di sassi appuntiti e in fondo, vicino al cancello, ci sono le spine delle more. Il cancello è arrugginito, quando si apre cigola, fa un rumore sinistro, sembra si apra l’antro delle streghe. Il cielo è grigio, fa freddo. Sei invecchiato, hai poche idee e tanta presunzione. Fammi il favore di andartene. Addio”.

Tra le mie mani rigiro un pezzo di carta ingiallita che contiene questo messaggio d’addio. Forse una semplice nota personale, mai recapitata nella forma scritta che sta tra le mie mani, ma più semplicemente consegnata alla voce del mittente e volata dritta in faccia al traditore.  Chissà chi ha scritto quel biglietto. Chissà come è finito in una scatola di vecchie carte dimenticata dentro un baule che è nella vecchia casa di campagna della nonna Adelina. Mia nonna non è mai stata lasciata. Si è sposata tardi, è rimasta vedova presto, in tempo di guerra e con due figli piccoli. L’esperienza deve esserle bastata, non si è mai più risposata. Non le importava proprio più. Mia madre ha sposato mio padre ed è rimasta con lui fino alla sua morte. Ora anche le sta da sola, è diventata vecchia, gioca con i suoi nipoti ed è contenta così.

Di chi è quindi quel biglietto? Chi se n’è andato tanto tempo fa in una mattina grigia, uscendo da un cancello arrugginito e dalla vita di una donna della mia famiglia? Non so come indagare, dove trovare informazioni che mi aiutino a districare il  mistero, a collocare il biglietto in un tempo e in un luogo. Rigiro il foglio tra le mani, è giallo. Sembra vecchio, la carta è leggera, quasi trasparente. Non c’è intestazione, non ci sono segni o simboli rivelatori. La calligrafia è acuminata. Inclinata un po’ a destra, regolare. Il biglietto è stato scritto con una biro nera.

Chi l’ha scritto, chi ha vissuto quel dramma in quel giorno tetro in cui ha scoperto che il suo uomo aveva un’altra donna? Forse non ha importanza sapere da dove viene quel biglietto, di chi è. Forse ha senso il solo fatto di averlo trovato, mi sta portando un messaggio e un monito che viene da lontano. Ha un suo valore così com’è. L’ha portato a me il vento.

In quel biglietto c’è un tradimento, molta sofferenza, un buio all’orizzonte che impressione per la sua drammaticità. Mi chiedo cosa provi una donna tradita. Provo a immaginare. A proiettare su quel foglio un po’ di me, un po’ delle storie che ho sentito, un po’ di quel che ho visto, un po’ di quel che mi è stato raccontato e spiegato.

Credo che in ogni tradimento ci sia un grande dolore. Come scrive Anaïs Nin: “L’amore non muore mai di morte naturale. Muore perché noi non sappiamo come rifornire la sua sorgente. Muore di cecità, di errori e di tradimenti. Muore di malattia e di ferite, muore di stanchezza, per logorio o per opacità.”

Forse è vero, l’amore non muore mai di morte naturale, viene annientato da un tradimento fisico o mentale. In quel foglio giallo si è raddensato un dolore, una sofferenza inaudita, c’è del rancore.

Chi l’ha scritto e quando. Provo a immaginare.

Una donna giovane, con figli piccoli. Una vita di impegni, molta dedizione ai bambini. Poca attenzione alla forma fisica e alle richieste del marito. Esigenze non verbalizzate ma molto potenti che richiedono la vita nella sua essenza migliore. Richieste impegnative che vogliono leggerezza e riflessione, parole e consigli, viaggi raccontati e scoperte da fare insieme. Non c’è spazio per questo. Il marito cerca altrove e trova subito una riposta. C’è sempre qualcuno pronto a tradire, come c’è sempre qualcuno pronto a non farlo, a lasciar perdere per il bene di tutti. Data la situazione, il marito esce da quel maledetto cancello che stride e se ne va nel grigio per non tornare mai più. E’ l’inizio di un dramma, oppure la sua fine. E’ la parola che muore in bocca, il palato che si secca, il grido smorzato in gola, una lacrima che scende. Scende un po’ di pianto sul viso di quella donna. Una goccia che luccica, una goccia trasparente su un viso che sembra marmo. In quella lacrima ci sono molte lacrime, in quel tempo sospeso si raddensa il pianto. Pianto che sa di sale, di frustrazione di risentimento, di preoccupazione per il futuro. Lacrime che sono anche liberatorie. “Smettiamo di fingere, ora sappiamo come stanno le cose”. Il marito se ne va, esce dalla porta e non ritorna più. The end.

Oppure quel biglietto è stato scritto da una persona giovane, una convivenza iniziata da poco e subito difficile, delle abitudini diverse. Si cena alle diciannove, no si cena alle venti. Si esce con gli amici, no si gioca a carte. La domenica si va a sciare, no si fa un dolce per la zia. Si fa l’amore sul tappeto, no solo in camera da letto. Una quotidianità conflittuale, un senso di insofferenza e di oppressione che travolge subito tutto. E allora lui se ne va, trova un altra: non c’è matrimonio da sciogliere, non ci sono figli, ci sono solo i cocci di quel fugace amore, di quel futuro sognato e mai realizzato, di quella convivenza andata a pezzi prima ancora di acquisire una forma, una sua identità. Un vaso che va in mille pezzi, senza che nessuno provi ad aggiustarlo, una rottura di tutte quelle che erano le premesse di quell’unione. Una frattura secca, una comunione d’intenti che non si è mai realizzata, una favola incompiuta e mal scritta che non finisce bene. Una passione mancata, un sospiro frainteso, una silenzio doloroso, una partenza. Forse in quella partenza c’è stata l’inevitabilità di quella scelta. Il più forte ha rotto l’argine. Ha trovato un’altra storia. E’ uscito di scena portandosi via i cocci. Forse li avrà gettati appena varcato il cancello. In una grigia mattina avrà aperto quella porta cigolante.  Forse oltre il cancello c’era già qualcuno che lo aspettava. La fonte del tradimento era già là, l’origine e la conseguenza di quella partenza. Il dolore raddensa le lacrime di chi resta. Le rende sostanza che solidifica nel cuore. Ma non c’erano figli, né matrimoni, né promesse eterne. E’ rimasto solo quell’addio forse scritto e recapitato o forse solo pronunciato.

Rigiro il foglio giallo, scritto in nero. Lo guardo un ultima volta e lo rimetto nella scatola dove l’ho trovato. Ho rubato un briciolo di vita di qualcun’altro. Ho visto un dolore passato, un travaglio lontano e archiviato. A chi sarà appartenuto quel dramma non lo so. Richiudo la scatola e i miei occhi sono pieni di lacrime. Ho scoperto un addio e me ne ricorderò. Chissà quante scatole ci sono con contenuti così, con ricordi così. Con tanto dolore e un amore spezzato che non esiste più, che appartiene al passato e alla vita di chissà chi. Spero che l’autrice di quel biglietto ora stia bene, chiunque essa sia e qualunque sia il motivo che ha davvero mandato a pezzi quella storia. Almeno all’inizio un po’ di amore doveva esserci. E’ sui resti dell’amore che nasce l’odio, la rabbia e il risentimento. Non certo sull’indifferenza. Sull’indifferenza non nasce niente, non inizia e non finisce niente. L’indifferenza non da vita e porta via la vita. Con l’indifferenza si muore.

MICROFESTIVAL DELLE STORIE
Lo scrittore ferrarese Lorenzo Mazzoni dialoga con Consuelo Pavani su ‘Nero ferrarese’

Un libro e una proiezione concludono i primi due mesi di eventi gratuiti al Microfestival delle storie di Polesella. Venerdì 23 ottobre alle 21 in sala Agostiniani, Consuelo Pavani presenta Nero Ferrarese (Edizioni Pessime idee) di Lorenzo Mazzoni, collegato in streaming ma che il pubblico potrà vedere proiettato sul maxischermo della sala Agostiniani.

Con Mazzoni, scrittore ferrarese, autore della serie dell’ispettore Malatesta, si conclude la prima fase della programmazione letteraria del Microfestival, iniziata a settembre e che ha avuto come ospiti autori di carattere nazionale come Chiara Gamberale, Giulia Cuter e Giulia Perona, ma anche locali come Astrid Scaffo, per un totale di un centinaio di prenotazioni e presenze.

In calendario, inoltre, sabato 24 ottobre alle 21 sempre in sala Agostiniani, il film Visages villages di Agnès Varda e del fotografo JR rivolto ad adulti e bambini a cui il Microfestival ha dedicato, nei primi due mesi, e continuerà a dedicare laboratori e momenti in cui l’arte e la creatività possono esprimersi.

Entrambi gli appuntamenti si svolgono nel rispetto delle misure di sicurezza anti Covid, pertanto è prevista la prenotazione. Il programma di novembre e dicembre del Microfestival è in stesura e sarà comunicato alla stampa e al pubblico quanto prima.

Sinossi del libro Nero ferrarese di Lorenzo Mazzoni. Tre colpi d’arma da fuoco: mano sinistra, petto e spalla. Così si presenta il corpo del ragazzo di estrema destra trovato morto nell’auto. Una Ferrara ancora sotto shock per l’omicidio Aldrovandi piomba nella paura di attentati politici. Pietro Malatesta, ispettore di polizia e anarchico di natura, si troverà a indagare su un omicidio dalle dubbie motivazioni. Brigate rosse? Nar? Ferrara cerca la sua verità. Un giallo che rimane in perfetto equilibrio tra le indagini e la movimentata vita privata dell’ispettore, fatta di scarse amicizie poco raccomandabili, e di una passione per la Spal. Con a fianco Gavino Appuntato, l’unico poliziotto che riesce a lavorare con Malatesta, l’ispettore tenterà il tutto per tutto per risolvere il caso.

Prenotazioni evento Lorenzo Mazzoni:

https://www.eventbrite.it/e/biglietti-lorenzo-mazzoni-microfestival-delle-storie-121523047707?fbclid=IwAR28Z54D1jaPC7PoCBMXfrO5YILptEFghATrPEVu0bFT0j8ewOETvaky8cI

Sinossi del film Visages villages. Non è solo un film, è un viaggio alla ricerca di un’umanità nascosta nelle piccole realtà, nei borghi, nelle fabbriche, nelle case vecchie, dietro tende di pizzo bianco lavorate decenni prima. Un viaggio tra le comunità che resistono, tra piccole e grandi storie che vale la pena raccontare e immortalare, su pellicola cinematografica e fotografica. Registi e protagonisti: Agnès Varda e JR. Lei, famosa all’epoca della nouvelle vague e, nel film, ottantottenne curiosa, leggera e vivace come una bimba; lui, un giovane artista che usa la tecnica del collage fotografico su qualsiasi superficie. A bordo di un furgone, che altro non è che un’enorme macchina fotografica con le ruote, i due bizzarri compagni di giochi partono alla scoperta degli angoli più nascosti della Francia, quelli insospettabili e marginali, doppiamente carichi di meraviglia e storie. È questo un film nomade, pieno di immaginazione, commozione, ammirazione. Visage villages è grazia e tenerezza, è un piccolo promemoria per ricordarci che possiamo essere ancora in grado di sorprenderci, di ballare e di cantare.

Prenotazioni Visages villages:
https://www.eventbrite.it/e/biglietti-visages-villages 121525300445?fbclid=IwAR36vxvy7VMs385T7LbD0SD1Ane5sSA6_EQzBnIUVX2cM_578gvOUuAiz0

Il programma completo degli eventi del Microfestival su www.microfestivaldellestorie.it

Per informazioni: microfestivaldellestorie@gmail.com, messenger: microfestival delle storie.

RAZZA PADRONA:
quando il bicchiere è sempre più pieno

Per quanto indietro la storia risalga, trova una minoranza di uomini – ristretta o ristrettissima – padrona della ricchezza, delle sue fonti, delle vite di tutti gli altri.
Le forme cambiano e può essere diversamente raccontata, ma questa radicale diseguaglianza ne è una costante. Così pure l’atteggiamento nei confronti del resto dell’umanità, verso la quale nessun obbligo o vincolo è avvertito.

Fortebraccio – su un giornale che non c’è più: L’Unità – dedica uno dei suoi corsivi, Buon senso, a questo atteggiamento. È il 1968. Vi sono segni di possibili profondi cambiamenti, che non ci saranno. In Tribuna politica – viene da rimpiangerne la civiltà per le trasmissioni che ne hanno preso il posto – c’è Angelo Costa, presidente della Confindustria. A una domanda su la “contrattazione programmata”, non più che “un riguardoso faremo” proposto dal Governo, Costa appare meravigliato e infastidito. A Fortebraccio ricorda una commedia genovese dove il padrone Costa chiede al dipendente Parodi di guardare che tempo fa. Parodi si sporge dalla finestra e riferisce “Sciu baccan avremo acqua”, “Come avremo? Non siamo mica soci noi due”. Così il presidente Angelo Costa sembra dire “Come faremo? Non siamo mica soci noi”.

I padroni hanno una sola responsabilità – Milton Friedman, Nobel per l’economia rassicura – fare profitti, magari accompagnati da rendite. Da ciò deriverà vantaggio per l’intera società. Il tragico fallimento di un’esperienza, che si è detta addirittura comunista, ribadisce questa convinzione. Né i successi del modello cinese sembrano contrastare una diseguaglianza, di mezzi e potere, in crescita in quella società. Tra chi dubita che Friedman avesse proprio ragione c’è pure Martin Wolf, capo dei commentatori economici del Financial Times. Non basta “impegnarsi in una competizione aperta e libera senza inganni o frodi” se “lobbisti, donatori, finanziatori di ricerche accademiche” creano “le regole del gioco politico”.

Un gioco politico serio è quello “in cui le aziende non sponsorizzano spazzatura scientifica sul clima e l’ambiente, non uccidono centinaia di migliaia di persone incentivando la dipendenza da oppiacei, non fanno lobbying per ottenere regimi fiscali che permettono loro di nascondere i loro profitti nei paradisi fiscali, nel quale il copyright non viene esteso all’infinito, e nel quale non cercano di neutralizzare ogni forma di concorrenza e non si battono contro misure che proteggono i lavoratori dalla precarietà”. Ma un gioco fatto così non piace. Non garantisce gli stessi spropositati guadagni e poteri. Fortebraccio scriveva: “Si è padroni per grazia di Dio, un dio nel quale Costa e i suoi amici credono, anche perché scegliendoli ha mostrato, come dicono loro quando spiegano che non c’è nulla da cambiare, di avere buon senso”.

La grazia di Dio non c’entra nulla, sembra dire papa Francesco quando scrive: “Il mercato da solo non risolve tutto, benché a volte vogliano farci credere questo dogma di fede neoliberale. Si tratta di un pensiero povero, ripetitivo, che propone sempre le stesse ricette di fronte a qualunque sfida si presenti. Il neoliberismo riproduce sé stesso tale e quale, ricorrendo alla magica teoria del ‘traboccamento’ o del ‘gocciolamento’ — senza nominarla — come unica via per risolvere i problemi sociali…La fragilità dei sistemi mondiali di fronte alla pandemia ha evidenziato che non tutto si risolve con la libertà di mercato e che, oltre a riabilitare una politica sana non sottomessa al dettato della finanza, dobbiamo rimettere la dignità umana al centro e su quel pilastro vanno costruite le strutture sociali alternative di cui abbiamo bisogno”.

In un mio post su Azione nonviolenta,(Gli epuloni e i lazzari, 5 giugno 2017) mi sono occupato del tema, sul quale da subito il Papa è stato chiarissimo. Ricordo qui solo una sua espressione per me particolarmente efficace. “C’era la promessa che quando il bicchiere fosse stato pieno, sarebbe trasbordato e i poveri ne avrebbero beneficiato. Accade invece che quando è colmo, il bicchiere magicamente s’ingrandisce, e così non esce mai niente per i poveri”. Viene piuttosto da chiedersi perché in tempi di suffragio universale “un pensiero povero e ripetitivo” continui ad avere successo. Vero che non si vedono alternative pronte, ma si vede pure, come nota Wolf, che le pratiche a quel pensiero ispirate “spingono le rendite e i profitti verso l’alto della scala sociale e la disperazione verso il basso”. È che i ricchi, a differenza dei poveri sanno essere uniti nel perseguimento dei loro interessi. “Per vincere devono impegnarsi in battaglie collaterali: guerre culturali, razzismo, misoginia, nativismo, xenofobia e nazionalismo”, annota ancora Wolf. Sono tutti campi nei quali occorre l’impegno di chi opera per il progresso. Questo invero consiste, lo scrive Condorcet, nel ridursi delle differenze tra gli Stati e al loro interno e nell’innalzamento dell’etica personale. Resta un buon programma di lavoro, collettivo e personale.

Questo articolo è recentemente apparso sull’edizione in rete della storica rivista del Movimento nonviolento [www.azionenonviolenta.it]

SCHEI
Smart working: croce e delizia

In una delle sue riuscite caricature, Corrado Guzzanti impersonava un Walter Veltroni buonista e desideroso di comporre ogni contrasto nell’ecumenismo, appunto, veltroniano, che gli faceva ugualmente apprezzare una cosa e il suo contrario. Una cosa era bianca ma anche nera, ed erano entrambe buone e presenti sotto il grande ombrello del progressismo democratico.

Ecco, appunto.  Lo dice uno che lo fa da marzo: lo smart working è una delizia, ma anche una croce. Il primo mese è una croce subdola, della quale nemmeno ti accorgi. Te lo fa notare chi vive con te, quando vorrebbe apparecchiare per cena quel tavolo sul quale hai sparso documenti e stampante come se non ci fosse un domani. Il primo, istintivo effetto del lavorare a casa (che non è come lavorare in una sede decentrata: è un’altra cosa) è la scomparsa di un confine imposto tra tempo di lavoro e tempo di non lavoro, che è anzitutto l’assenza del confine spaziale. Intanto non devi fare una strada, un percorso che separi fisicamente il luogo dove lavori da casa tua. Al resto della croce provvede l’inconscio senso di colpa del privilegiato che lavora in poltrona, e che quindi deve espiare sgobbando senza un orario, tra la lavatrice da svuotare, i panni da stirare e i cani da portare a pisciare. Così arrivano le dieci di sera e il pc è ancora acceso. Se sei una donna, questa croce rischia di diventare un calvario, perchè nel frattempo col piffero che il lavoro di cura viene redistribuito tra i membri della famiglia: rimane, esattamente come prima, a carico della donna. E allora il pc può restare acceso alle due di notte, perchè svanisce anche il confine circadiano. Il diritto alla disconnessione va quindi imposto: gli strumenti e la rete intranet di accesso ai portali di lavoro devono essere disattivati ad una certa ora – oppure dopo un certo tempo di lavoro continuativo. Questa barriera tecnologica è un elemento di tutela primario, perchè in un tempo che sarà velocissimo qualcuno proporrà di incorporare gli strumenti aziendali dentro la persona del lavoratore, eliminando anche la distinzione fisica tra mezzo tecnico e essere umano. Three Square Market, una realtà tecnologica con sede nel Wisconsin, sta per espandere il suo programma che prevede l’inserimento di microchip sottopelle ai propri dipendenti. A quel punto la necessità di tutelare chi lavora dalla possibilità distopica di essere controllato a distanza in ogni istante diverrà la frontiera sindacale del terziario avanzato. Le aziende più lungimiranti, infatti, usciranno dalla logica del controllo a vista del dipendente, chiedendo in contropartita un salario sempre più legato ai risultati, agli obiettivi: lavora come e quando ti pare, ma ti pago in proporzione ai target che raggiungi. Le aziende più malefiche, invece, faranno entrambe le cose: controlleranno il dipendente stando dentro il suo corpo, e contemporaneamente vorranno retribuire i suoi risultati, non il suo tempo. Attenzione perchè rischia di realizzarsi una metamorfosi del sinallagma capitalista industriale: salario in cambio di tempo. La sfida non sarà più soltanto quella di liberare tempo, ma di rintuzzare l’affermarsi di un nuovo scambio: salario in cambio di risultato, di prodotto, di venduto. Chiunque lavori nei settori che spingono già in questa direzione(banche, assicurazioni, grande distribuzione, ma anche la sanità privata) capisce che questa modifica dello scambio rischia di trasformare tutti i lavoratori in venditori di prodotti, e tutti i clienti in vacche da mungere. E vince chi è più disinvolto, spregiudicato, privo di scrupoli. (NdA: introdurre un obiettivo – possibilmente non autodeterminato – di qualità ed efficienza nella Pubblica Amministrazione dei servizi documentali/amministrativi potrebbe invece essere un bene, anche se non legherei a questo obiettivo parte della retribuzione. Ma della carriera, sì).

E la delizia? La delizia è anzitutto il risparmio di tempo e denaro. Pensiamo all’enorme economia di risorse, anche energetiche, che si realizza organizzando video riunioni tra cinquanta o sessanta persone anzichè farle spostare tutte in giro per il mondo, su aerei o treni o mezzi privati. Non si viaggia, non si spende per mangiare fuori casa, si inquina meno, soprattutto nelle grandi città. Che poi questo sia una croce per gli esercizi commerciali che campano sui pasti dei pendolari non è affatto da sottovalutare. Che l’indotto commerciale in genere, che guadagna dall’attitudine a spendere di chi passa nove o dieci ore al giorno in città, ne soffra è indubbio – e anche questo è un settore che impiega migliaia di persone, che tra l’altro lo smart working se lo scordano. Tuttavia, succede quello che succede ogni volta che una trasformazione tecnologica è talmente potente da rendere illusorio qualunque tentativo di contrastarla. Per interi settori dei servizi, il lavoro da remoto diventerà una realtà stabile, perchè le aziende più accorte si sono già rese conto che il denaro da investire per dotare i dipendenti delle attrezzature tecniche e logistiche necessarie a lavorare in sicurezza ed ergonomia da casa, è inferiore al denaro che risparmiano potendo evitare di pagare canoni di affitto per i locali uso ufficio, potendo smobilizzare patrimonio immobiliare.

Quando la fase acuta dell’epidemia da Covid sarà superata, quando non si dovrà più dividere l’utilizzo del pc privato coi figli costretti alla didattica a distanza, lo smart working che conosciamo, abborracciato, senza tutele, emergenziale, dovrà essere sostituito da lavoro agile di qualità. L’unica direttrice da seguire per gestire questa transizione sarà quella dell’equilibrio. Come l’evoluzione tecnologica che ne costituisce la base, lo smart working non è nè buono nè cattivo. Dipende dall’utilizzo che se ne fa, e dal sistema di tutele che ne regolamenterà l’esercizio.

Breve e triste storia di un calciatore

La mia carriera calcistica, è presto detto, fu sicuramente tutt’altro che epica e avvincente, dai piccoli azzurri, agli under 18, ogni anno un campionato diverso, Etrusca, Porta Mare e Ugo Costa. Poi in quinta superiore smisi di giocare.
Troppo presto, avrei potuto divertirmi ancora. Ma la testa a quell’età non era il mio forte, neppure dopo a dire la verità.
Anni difficili introno ai venti, poi qualche campionato amatori, Confesercenti, Lo Scoglio e Sporting. Ennesima distorsione alla caviglia e basta col calcio a undici, senza nessun titolo sulla gazzetta.
Sei divertenti campionati di calcetto C.S.I., grezzo e rude libero anche in quello sport per piedi fini, rigorista, qualche goal su punizione, pochissimi su azione, un goal da metà, campo e uno dalla mia area, fino all’ultima partita ufficiale. Dieci minuti da subentrante, sul dieci a zero (per gli avversari), entrata alla vigliàcc al treno e mi rompo una spalla. Fine, the end, pronto soccorso e telefonata alla moglie in attesa delle gemelle e gioco finito.
Ma pure nella mediocrità della mia sedicente carriera agonistica ho avuto dei rimpianti, degli sliding doors che se avessi una bacchetta magica avrei voluto cambiare, sarebbero stati delle perle di memoria che oggi a cinquantuno anni mi avrebbero reso ancor più dolce il ricordo di quegli anni eroici.

  • Porta Mare – Laghese, partita di qualificazione del torneo Paolo Mazza sul campo della Libertas in via Canapa, categoria Giovanissimi. Risultato finale quattro a zero per noi, poi vincemmo pure il torneo, ma questo l’ho già raccontato mille volte. Non ricordo su quale punteggio, ma Paolino, il nostro portiere mi appoggia il pallone poco fuori dall’area, nessuno mi fronteggia mi allungo in eleganza sulla trequarti, come cervo che esce di foresta (cit.), la mediana avversaria, forse avvilita dal punteggio mi oppone poca resistenza, scarto e mi allungo scavallando la schiena d’asino del centro campo, i compagni sulla fascia mi insultano affinché io gli ceda il pallone. Ma no, proseguo. Sono sulla loro trequarti, mi fumo due centrocampisti che mi vogliono togliere il pallone, entro in area e via, anche il libero mi bacia le terga. Mi defilo un po’ sulla destra, non ho più fiato, non respiro, la vista mi si appanna, nella nebbia vedo uno con una casacca diversa dagli altri che mi viene incontro. Con le ultime cellule celebrali ancora non in apnea deduco sia il loro portiere, mi allargo ancora d’esterno alla sua sinistra, carico il destro e boom, tiro la bomba. Credo io. Ma calcio talmente male e talmente piano che lo sbruffo di terra colpita con la punta delle mie Benazzi si alza in un fungo nucleare di polvere, il Mitre rotola stanco e placido contro la rete. Di recinzione. A poco più di due metri dalla porta. A poco più di due metri dalla gloria e dalla gioia di avere francobollato, nel torneo più importante della mia vita, sotto lo sguardo di alcune decine di parenti tra cui mio nonno. Mi accascio a braccia aperte sull’erba. Forse qualcuno ride, forse qualcuno applaude, forse qualche compagno mi rincuora, dopo avermi nuovamente insultato per non avergli passato il pallone. Ma quel goal poteva entrare nella storia. La mia. Qualche anno dopo George Whea, attuale presidente della Liberia, mi copiò il gesto, con un risultato nettamente diverso. Ma pure io ho rischiato di segnare in un coast to coast in quella lontanissima primavera di metà degli anni ’80. Sarebbe stato bello, ma così non fu.
  • Categoria allievi credo, torneo notturno di Reno Centese, ancora col Porta Mare. Bellissimo impianto, fondo perfetto. Il torneo è a eliminazione diretta. Gran partita, dalle mie parti non passano neppure le mosche, anche grazie al mio compagno di reparto Fefo Rizzioli. Normalmente lui era la mente e io il braccio della coppia di centrali difensivi, un lusso per le giovanili dell’epoca, ma quella sera baciato dalla dea Eupalla, oltre ai mie compiti di marcatore puro azzecco pure diverse uscite e molti lanci sui piedi dei mie compagni più offensivi. Insomma sembro un ottimo regista difensivo, i miei piedi quella sera guadagnarono punti. La partita è tatticamente perfetta, le difese vincono nei confronti dei rispettivi attacchi avversari, 0 a 0 bello e combattuto sotto i fari. Praticamente da sempre sono stato un buon rigorista. Spesso nell’ultimo allenamento prima della partita finivo come rigorista designato, quella sera ero nei cinque. Non ricordo più l’ordine dei rigori, credo che prima di me avesse sbagliato Fefo, fatto sta che dal cerchio del centrocampo dove tutte e due le squadre sono assembrate (termine moderno e tristemente noto) mi accingo, tenendo a bada l’ansia (penso io), a percorrere i quaranta metri che mi separano dal dischetto del rigore. Chi non l’ha mai provato, non sa quanto pesa un cuoio a undici metri da un portiere, a me sembrava un macigno. Piccola nota di cronaca, io tutti i rigori che ho tirato, calcio a 11 (1) calcio a 7 (1) calcetto (tanti) amichevoli e partite tra amici (pure tanti) li ho tirati sempre tutti allo stesso modo, alla destra del portiere in basso cercando il palo e colpendo pallone di taglio interno. Quella volta invece cosa pensai, o così mi venne al momento del tiro, di tenere la sfera a mezza altezza. Il portiere mi guardava, io guardavo lui, c’erano le luci, c’era il pubblico, c’era mio padre e il Dottore suo amico e prof. di matematica, l’arbitro da l’assenso al tiro, il portiere si muove, io prendo la rincorsa saltello come Van Basten, il numero uno si tuffa alla sua sinistra, spiazzato, tiro a destra. Palla sopra l’incrocio di due dita, ma il quasi goal non esiste. Sbaglia poi anche Franchino, siamo fuori e per un terzo ne sono responsabile. Un rigore spagliato per un calciatore di quindici anni è un trauma, da cui non ci si riprende più.
  • Siamo in trasferta, anno forse 1986, forse l’anno prima categoria Giovanissimi o Allievi. Partita più che in discesa, San Bartolomeo – Porta Mare. Durante il match vedo la loro ala destra vomitare sulla linea laterale antistante le panchine. E non è una metafora, forse la tensione, più probabilmente la serataccia del sabato. Insomma per farla corta, dopo pochi minuti siamo uno a zero per noi, scorrono i secondi e due e tre e… la partita volge alla fine in un bagno di sangue per il San Bartolomeo, dieci a uno a pochi minuti dal 90°. In difesa abbiamo giocato con la sigaretta in bocca. Dimenticavo, la loro marcatura è  frutto di un autogoal del nostri libero. Il loro povero portierino non ne ha vista una sembra Sumbu Kalambay dopo dieci riprese contro Marvin (the Marvelus) Hagler è frastornato e quasi in lacrime. Beh io che decido di fare? Col mio 5 sulla schiena mi propongo in avanti, forse un calcio d’angolo, forte dei miei tre goal in quattro campionati. La palla dopo un rimpallo fuori area mi si ferma tra i piedi, nessuno mi fronteggia. E niente, carico il destro la rincorsa è perfetta, il piede d’appoggio si piazza a mezza spanna dal pallone, il collo pieno colpisce la valvola del Mitre. Mai calciato così bene e forte in tutta la trafila delle giovanili e neppure dopo. La palla tesa, ferma nell’aere saetta verso l’incrocio. E’ fatta vado a referto. Ma che succede, il portierino si flette sulle gambe e spicca il volo, con la mano di riporto sembra Clark Joseph Kent che si è appena dismesso la cravatta e l’abito elegante ed è rimasto con la tuta da supereroe. Vola il portierino, la madonnina della traversa lo prende per le spalle e con la punta del mignolino, dei sui bei guati Reusch la devia di millesimo di micron oltre l’incrocio. Allibiti i ventidue in campo, più le panchine, più il pubblico. Un boato fra i sui compagni, lo festeggiano come se avesse parato un rigore. Io allargo le braccia e sorrido. A fine partita sono andato ad abbracciare il portierino e gli ho detto: “Ma perché proprio a me? Come hai fatto?” e lui sorridendo mi disse. “Boh?.”
  • L’ultimo dei mie rimpianti risale sempre a tantissimo tempo fa, ma già oltre quindici anni dopo gli anni dell’adolescenza. Siamo agli inizi dell’ XXI° secolo, il mondo si è trasformato, l’irreversibile scorrere del tempo mi aveva già fatto diventare un ultra trentenne. Le scarpette chiodate erano già da mò relegate nel sotto tetto, ma il loro posto era stato preso dalle suole lisce idonee al calcetto in palestra. E lì, non eravamo neppure in palestra, era la Coppa don Bosco di calcio a sette, presso il campo di san Benedetto. Ero rigorista, come ricordavo primo, un killer implacabile da dodici goal su dodici tiri nelle portine piccole del calcio a 5. Il lavoro di suola del futsal non mi si addiceva, ma io continuavo a giocare da libero pure in un campo ridotto. Il calcio a sette è per atleti veri, il campo più lungo, le porte più grandi ma nella velocità del calcio a cinque, un massacro insomma. A bordo campo mia moglie, assieme ad amici e la mia bimba Valentina, le gemelline non erano ancora nate e sforzando la memoria la bimba avrà avuto forse tre o quattro anni. La squadra avversaria è più forte di noi, ma noi teniamo abbastanza bene. Sullo 0 a 0 l’arbitro fischia il rigore e io in qualità di vice capitano e killer dal dischetto strappo quasi il cuoio dalle mani di un compagno. D’altronde non ne sbaglio uno con la porta piccola. Peccato che quella fosse una porta grande. Sbaglio tutto dall’inizio, metto a terra il pallone troppo presto, non cerco la valvola, mi faccio intimorire dagli avversari che tra loro sussurrano: “tanto la sbaglia”, in più errore madornale, guardo l’arbitro e non il portiere. Il fischietto trilla, cambio lo sguardo dalla casacca nera a quella multicolor del portiere, dietro le luci, il pubblico, il rumore della gente sembra un frastuono. Portiere fermo immobile, una mummia, rincorsa, portiere ancora fermo, impatto, portiere fermo. La palla un po’ strozzata sfiora il palo, ma esce. E il portiere è ancora lì, maledettamente fermo. Avevo già sognato di correre ed abbracciare la mia bimba, ma il tutto sfuma in quella rincorsa e in quella profezia dei fottuti avversari che gufano e esultano: “te l’avevo detto io che lo sbagliava”. Delusione, amara e profonda delusione.

Il calcio passa come l’adolescenza, ma chiunque abbia indossato una maglia con un numero sulla schiena, chiunque abbia pestato l’acqua stagnante di uno spogliatoio ingorgato, si sia allacciato le scarpe coi tacchetti e utilizzato il nastro da pacchi come fasciatura è e rimarrà per sempre un calciatore. Tutta la vita, anche dopo i cinquanta anni e oltre.

PAROLE A CAPO
Seb Tennent: “Scambio” altre poesie

“La vera poesia può comunicare anche prima di essere capita.”
(T. S. Eliot)

 

Ferrara bagnata 

D’autunno, è bagnata!
E così lucida, è Ferrara!
Pare già preparata
ad un ballo di corte.
Finito l’acquazzone,
è come una duchessa
dopo il trucco,
per l’acclamazione.
A vestirsi di nuovo,
a rimirarsi
in vie che sono specchi
di soave perfezione.

 

Autunno 

L’autunno, mai
ha spento sorrisi
L’autunno arriva
in punta di piedi
Senza preavvisi
in un batter di ciglia
Più introspettiva
diventi
e più riflessiva
lieve, è la caduta
foglia dopo foglia
Ti ricopre l’auto
che hai parcheggiato
come al solito, ai bordi
di un viale alberato
Ché solo è bastato
quel vento spirato
E le parole pronunciate
su fondente cioccolato
Li cerchi ancora, quei crepitii
di fuochi, ai quali t’avvicini?
La fantasia, la protezione
di una soffice maglia?
Aromi, tisane di poesia
lasciata in infusione?
Pagine di libri
che al ritmo della pioggia
fagociti sul letto?
Troverai in un abbraccio
tutte le risposte
e conferme
e germogli di vita
che già meditavi.

 

Perfetti sconosciuti

Capita poi in un giorno sereno,
dannato e inatteso, un intoppo,
quando vorresti far tabula rasa
di certi pensieri
e paranoie
di troppo.
Ti perdi tra campi
a due passi da casa,
e vai per sentieri
e per scorciatoie
che più son tortuose
e strette, più volentieri
tu ti ci immergi,
in incontri casuali,
gratificanti saluti,
perfetti sconosciuti
e si fa così veloce
e semplice il modo
in cui, poi, si vaporizza
ogni amarezza.

 

Scambio 

Cosa c’è fra di noi,
se non scambi
arteriosi e venosi,
se non una simbiosi
perenne,
totale,
densa emoglobina,
reciprocamente
a ossigenarci,
mutuamente
a condividere
e dentro, pulsarci
tutto, ogni cosa
nell’atrio e nel ventricolo?

 

Seb Tennent (Ferrara, 1969). Laureato in chimica. Ha lavorato per lunghi anni come analista di laboratorio nel settore agrario. La “quasi-distruzione” del comparto bieticolo-saccarifero avvenuta a partire dal 2005 ha causato la chiusura del laboratorio. Ora lavora in una cooperativa di servizi di vigilanza e, nel tempo libero, esplora in bici il territorio ferrarese  e, “nascosto” da uno pseudonimo, scrive poesie sulla sua pagina Facebook.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. .\4
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

RESTITUIRE IL MALTOLTO: DA BENI CONFISCATI A BENI COMUNI
Intervista a Donato La Muscatella di Libera

‘BeneItalia’, ‘Libera il bene’, ‘per il bene di tutti’, ma soprattutto bene comune: si parla dei beni confiscati alla criminalità organizzata che, grazie alla prima campagna promossa più di vent’anni fa da Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie, tornano a essere patrimonio, e quindi corresponsabilità, di tutta la collettività.

Fin dalla sua nascita nel 1995, Libera – il coordinamento di associazioni fondato da Don Luigi Ciotti – evidenzia come l’attività di contrasto alle mafie deve colpire con priorità assoluta gli aspetti patrimoniali ed economici delle organizzazioni criminali, soprattutto con la confisca dei beni e il loro riutilizzo per finalità sociali. Lancia quindi una raccolta firme per un disegno di legge che possa aggiungere un pezzo importante alla legge Rognoni-La Torre: il riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie.
Il 7 marzo 1996 viene pubblicata in Gazzetta Ufficiale la legge 109, che rende finalmente la società civile protagonista della lotta alle mafie, attraverso la possibilità di riappropriarsi di spazi e crearne di nuovi in quei luoghi, sede o frutto di attività illecite, che prima erano il simbolo del potere dei boss.

Complessivamente, secondo i dati dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, (al 05 marzo 2020) sono 16.446 i beni immobili (particelle catastali) destinati ai sensi del Codice antimafia e sono invece in totale 17.376 gli immobili ancora in gestione ed in attesa di essere destinati. Una ricerca di Libera ha censito finora 865 soggetti diversi impegnati nella gestione di beni immobili confiscati alla criminalità organizzata, ottenuti in concessione dagli enti locali, in ben 17 regioni su 20. Questi numeri dimostrano come la restituzione alla collettività delle ricchezze e dei patrimoni sottratti alle organizzazioni criminali sia diventata un’opportunità di impegno responsabile per il bene comune. Il valore di questi beni si sposta dunque dalla sfera economica alla dimensione etica dei percorsi scaturiti dalle esperienze di riutilizzo per finalità sociali. Non ci sono quindi solo i numeri, ma soprattutto le tante storie: quelle delle persone cui i beni sono dedicati, spesso vittime innocenti delle mafie, e quelle delle persone che ogni giorno lavorano fra mille difficoltà per riaffermare il valore e la cultura della legalità democratica e dei diritti sanciti dalla nostra Costituzione contro la cultura della sopraffazione, del privilegio e della violenza della criminalità organizzata.

Fonte: www.libera.it
Fonte: www.libera.it

La legge n. 109/96 per il riutilizzo pubblico e sociale dei beni confiscati alle mafie ha compiuto ventiquattro anni e i beni tornati comuni e condivisi sono i protagonisti di ‘Consumo responsabile’, la rassegna organizzata dal Coordinamento di Ferrara di Libera, insieme al Presidio Barbara, Giuseppe e Salvatore Asta del Centopievese di Libera e alla Pro Loco Voghiera, all’interno del programma della Festa della Legalità e della Responsabilità 2020, che si tiene dal 15 al 17 ottobre a Factory Grisù. ‘Consumo responsabile’ viene ospitata da Hangar Birrerie, che per i tre giorni della festa dalle 19.00 preparerà un aperitivo con i prodotti di Libera Terra, coltivati con agricoltura biologica e provenienti da strutture produttive e terreni sottratti alla criminalità organizzata.
Ne abbiamo parlato con l’avvocato Donato La Muscatella, referente del Coordinamento di Ferrara di Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie.

Quella in partenza è l’undicesima edizione della Festa della Legalità e della Responsabilità. Da dove è nata questa iniziativa?
La Festa della Legalità e della Responsabilità – fu proprio su proposta di Luigi Ciotti che si integrò il nome della rassegna con questa seconda parte – nasce, oltre dieci anni fa, dalla volontà di mettere a fattor comune le competenze, in questa materia, di tutti gli attori presenti sul territorio ferrarese.
Istituzioni e associazioni messe in rete per proporre seminari, eventi culturali, laboratori e proposte di riflessione sul tema, accomunate dalla volontà di rispettare il rigore scientifico dei contenuti, in un contesto che, già all’epoca, proponeva troppe ‘suggestioni’.
Suggestioni che, più che con la legalità democratica, sembravano avere a che vedere con la xenofobia, perdendo di vista, da un lato, le peculiarità delle organizzazioni criminali di stampo mafioso e, dall’altro, la necessità di leggere qualunque regola, doverosamente, nell’ottica della nostra Costituzione.
Perché si credeva – e noi tutt’ora crediamo – che la legalità, priva del connotato che le attribuisce la democrazia, resti un concetto vuoto, proprio non dell’educazione alla responsabilità, ma della propaganda.

Nel tempo la formula si è modificata. Quest’anno come si svolgerà e qual è il ruolo del Coordinamento di Ferrara di Libera?
La Festa si è evoluta nel corso degli anni, anche in relazione al succedersi al tavolo degli organizzatori di partner differenti, che hanno espresso il proprio contributo e chiesto, talvolta, di modificarne l’impostazione.
Quest’anno, anche per i tempi ristretti nei quali è stata organizzata, ciascuna istituzione e associazione presente si è concentrata su singoli eventi presenti nella rassegna, dei quali ha curato autonomamente i contenuti e le modalità di proposta al pubblico.

Il tema della rassegna ‘Consumo Responsabile’ sono i beni confiscati e il loro riutilizzo sociale. Perché avete scelto questa materia?
Come Libera, all’interno dello spazio che ci è stato concesso, abbiamo voluto approfondire ciò che i beni rappresentano oggi, perché troppo spesso se ne coglie unicamente la dimensione economica e non quella, fortissima, di carattere sociale.
I beni confiscati rappresentano una modalità concreta di impegno su territori che hanno visto imperversare l’arroganza di chi ritiene che le regole si possano trascurare quando si ha il potere, restituendo non solo prodotti di qualità, ma lavoro vero e ‘pulito’.
A nostro avviso, in altre parole, sono un ottimo modo per attivarsi in maniera concreta, tangibile, reagendo alle diverse forme di criminalità organizzata.
È anche per questo che abbiamo scelto di unire a questi prodotti una riflessione sugli anni delle stragi, assieme a Margherita Asta, Referente Settore Memoria di Libera Emilia-Romagna, legando, così, memoria e impegno.

Ci può illustrare, sinteticamente, quali sono i passaggi per restituire un bene delle criminalità organizzata alla collettività?
Si parte con il provvedimento di confisca che, secondo i casi, può intervenire al termine di un processo, quando la condanna diventa definitiva o come misura di prevenzione, allo scopo di ‘congelare’, in presenza di specifici requisiti, beni che si ritengano frutto di attività illecita.
Parlando di beni immobili (appartamenti, fabbricati, terreni), il bene che, a quel punto, può dirsi ‘confiscato’, entra così nel circuito di gestione, che coinvolge lo Stato, gli Enti Locali nel cui territorio si trovano i beni e, naturalmente, le associazioni, che potranno sottoporre agli enti, nell’ambito di procedure ad evidenza pubblica, il proprio progetto di utilizzo per finalità sociali.
Una volta concluso questo percorso – che purtroppo, talvolta, dura molti anni – il bene può cominciare a ri-vivere attraverso la sua nuova destinazione, divenendo accessibile alle comunità che, per tanto tempo, l’avevano percepito come simbolo di illegalità.

Ci sono beni anche nella nostra città e Regione?
Si, certamente.
I dati dell’ANSBC (Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata) a oggi riportano, nella nostra Regione, 631 immobili in gestione e 144 già destinati; tra questi, 8 sono collocati tra la nostra città e la provincia.

Questa pandemia rappresenta una ‘opportunità’ per le mafie, che possono a loro favore la pandemia il coronavirus per infiltrarsi ancora di più nell’economia e nelle società. Quali sono i settori più a rischio e quali i segnali cui bisogna fare più attenzione?
I rischi principali sono collegati alla crisi economica che stiamo vivendo (molto forte nei settori della ristorazione, del turismo e dell’edilizia), che potrebbe portare alcune persone a far ricorso a forme di finanziamento illegali, e dall’inevitabile tendenza a snellire le procedure, per poter rispondere alle esigenze immediate della società.
Sotto questo profilo, la comprensibile necessità di semplificare, in una condizione d’urgenza, il rapporto di cittadini e aziende con la Pubblica amministrazione non può e non deve trasformarsi in una ‘ghiotta occasione’ di infiltrare l’economia legale e riciclare danaro generato dalla violenza e dal sangue. Penso all’ampliamento degli affidamenti senza gara o alle accelerazioni delle verifiche antimafia.
Dobbiamo sempre ricordarci, anche quando si risente parlare di vendere in asta pubblica i beni immobili confiscati, che le mafie hanno già dimostrato di saper leggere bene e in anticipo queste dinamiche, cambiando modalità di azione e scegliendo quella, di volta in volta, più efficace per i propri scopi criminali.

Una delle ultime iniziative di Libera è proprio un patto per la ripartenza dopo questa terribile crisi, che ha messo in luce tutte le criticità del nostro modello produttivo e sociale. La campagna si chiama #GiustaItalia, ce ne può parlare?
#GiustaItalia è un manifesto di 18 proposte politiche concrete, da sottoporre al Governo, lanciato da Libera, Avviso Pubblico e da tante altre associazioni e sindacati, per rimpiazzare la cultura dell’emergenza con un modello di rinascita del Paese che non si basi sull’adattamento al presente, ma sulla costruzione di un nuovo modo di fare le cose, aumentando la trasparenza e riducendo le diseguaglianze sociali.
Un vero e proprio Patto di Responsabilità collettivo, che vuole cogliere questo momento per migliorare e migliorarci, anziché accettare il ritorno a una normalità, della quale già prima del virus conoscevamo i molti limiti.

Clicca sull’immagine per leggere il programma giorno per giorno di Consumo Responsabile

Vite di carta /
Il cavaliere di Calvino alla Biblioteca Popolare Giardino

Vite di carta. Il cavaliere di Calvino alla Biblioteca Popolare Giardino

Giovedì 15 ottobre alla Biblioteca Popolare Giardino si terrà un reading in ricordo di Italo Calvino, nato in questo stesso giorno e mese anche se di lunedì nel 1923, e non a Ferrara ma a Santiago de las Vegas, presso L’Avana.

Mi è stato chiesto di partecipare a questa giornata delle lettrici e dei lettori, ho detto subito sì. Mi è stato indicato di scegliere una pagina che per me è speciale, ho scelto immediatamente un capitolo da Il Cavaliere inesistente, il numero quattro. Rido sempre nel rileggerlo, rido di gusto.

Perciò perché non condividerlo in una occasione tanto ghiotta: saremo tutti lì a ricordare la penna forse più straordinaria del nostro Novecento, proprio nel giorno del suo novantasettesimo compleanno (in realtà Calvino è mancato nel settembre del 1985, senza arrivare a compiere sessantadue anni) e forse suscitare ilarità con la lettura ad alta voce è un buon modo per toglierlo dall’imbarazzo, se ci sente da lassù.

Poche settimane prima di morire aveva ribadito a Claudio Romanini, uno dei curatori dei Meridiani Mondadori dedicati ai suoi romanzi e racconti, di avere un rapporto difficile, addirittura “nevrotico” con l’autobiografia; proviamo a sorridere allora. Farà bene a tutti.

Il Cavaliere, uscito nel 1959, è un romanzo breve e si compone di dodici brevi capitoli: insisto sulla brevità, perché come lettrice mi ha colpito la proporzionalità inversa tra quantità delle pagine scritte e qualità della narrazione. Il capitolo che ho scelto lo dimostra ampiamente, tanto che dovrò selezionarne solo alcune componenti, quelle che rivelano uno spassoso gioco letterario.

Siamo nell’Alto Medioevo, al tempo della guerra tra l’esercito di Carlo Magno e gli Infedeli, che sono risaliti dalla Spagna fino alle porte di Parigi. Rambaldo di Rossiglione è venuto apposta a combattere tra le fila cristiane per vendicare la morte del padre, il marchese Gherardo, caduto a Siviglia per mano di un pezzo grosso tra i mori, l’argalif Isoarre.

Ora mi concentro su questo giovane e impetuoso cavaliere, tralascio di scrutare chi è il narratore nel quarto capitolo, come sono i paladini che Rambaldo sta conoscendo nelle ore che precedono la battaglia, e in particolare il cavaliere Agilulfo, quello che ha già dato tante indicazioni al nostro giovane mostrando di sapere tutto sulla vita dell’accampamento cristiano.

Agilulfo però ha una caratteristica unica, non c’è. Dentro la sua armatura immacolata non c’è nessuno. A dargli consistenza sono stati inizialmente gli atti di coraggio e le gloriose imprese da paladino, ora sono le mansioni da lui svolte, con pignola perfezione, dentro al campo.

Ecco metto a fuoco Rambaldo, che è al suo primo combattimento e guardo con i suoi occhi cos’è la battaglia.  Il testo dice: ”Il segno che era cominciata la battaglia fu la tosse. Vide laggiù un polverone giallo che avanzava, e un altro polverone venne su da terra perché anche i cavalli cristiani s’erano lanciati avanti al galoppo.

Rambaldo incominciò a tossire; e tutto l’esercito imperiale tossiva intasato nelle sue armature, e così tossendo e scalpitando correva verso il polverone infedele e già udiva sempre più dappresso la tosse saracina. I due polveroni si congiunsero: tutta la pianura rintronò di colpi di tosse e di lancia”.

Non ho le parole per dire quanto sia comica questa scena, nel senso che dovrei usarne troppe, facendole accavallare le une sulle altre. Di sicuro questa descrizione della battaglia che comincia è uno straordinario esempio di straniamento e davvero tutti noi lettori la vediamo come fosse la prima volta.

Di sicuro fa ridere l’abbassamento repentino del racconto dalla dimensione epica del combattere a quella comica e quotidiana della tosse provocata dal polverone agitato da cavalli e uomini in movimento. Poi ci ritrovo figure retoriche a iosa, una meravigliosa tecnica della ripresa cinematografica in soggettiva alternata al campo lungo della veduta oggettiva finale.

Un’alternanza efficace dei canali sensoriali della vista e dell’udito, ma si direbbe anche del tatto attraverso il disagio fisico del tossire.
Potrei scovare anche altro in questo passo, ma mi chiama una altro punto del capitolo, collocato verso la fine.

La battaglia finisce per Rambaldo, che è provato dalla fatica e si allontana dal campo per cercare riposo e ristoro in un boschetto, il locus amoenus che non può mancare in un romanzo che parla di guerra e di battaglie. In realtà vuole rimanere sulle tracce di un cavaliere che lo ha appena aiutato a difendersi dall’imboscata che gli hanno teso due saracini, ma non ha voluto presentarsi.

Vorrei parlare del suo cavallo colpito a morte, di Rambaldo rimasto appiedato mentre continua a cercare il cavaliere dall’armatura color pervinca che, non svelando il proprio nome, gli ha recato una grave offesa, una delle tante del cavilloso codice cavalleresco.

Ma corro anch’io ad assistere alla scena che si verifica tra le fronde del bosco: finalmente Rambaldo scorge il cavaliere sconosciuto nei pressi del greto di un fiumicello, si apposta per osservarlo e lo vede correre scalzo sugli scogli. Sembra “un crostaceo”, con la corazza e l’elmo nella parte superiore del corpo e con la nudità del ventre e delle gambe.

Colpo di scena: “Rambaldo non credeva ai suoi occhi. Perché quella nudità era di donna: un liscio ventre piumato d’oro, e tonde natiche di rosa, e tese lunghe gambe di fanciulla”. E cosa fa la plastica fanciulla? “Si mise tranquilla e altera a far pipì. Era una donna di armoniose lune, di piuma tenera e di fiotto gentile. Rambaldo ne fu tosto innamorato”.

Noi che leggiamo e ci siamo appostati con Rambaldo per osservare la figura misteriosa siamo straniati per la seconda volta in poche pagine. La sorpresa di vedere una fanciulla e non un uomo è grande: ancora non lo sappiamo, ma anche chi ci racconta la storia non è un narratore univoco e alla fine dovrà svelarci il suo vero volto. La sorpresa che si tratta di una donna ci fa scattare il raffronto con altre donne guerriere della nostra tradizione epica.

Ma non basta: quando anche riprendessimo a leggere le imprese di Bradamante e di Clorinda nei poemi usciti dal nostro Rinascimento ferrarese potremmo delineare solo una parte di questa figura di donna. Perché la fanciulla che ha fatto innamorare Rambaldo e che ha appena smesso di combattere arditamente, ora fa una cosa inusuale, mai vista prima, fa pipì. Di conseguenza anche il fulmineo innamoramento di Rambaldo non si è mai visto prima.

Nella nostra tradizione letteraria “alta”, quella che si studia alla scuola superiore, nessuno si è mai innamorato di una donna senza vederla in volto. E che figure hanno le Donne che ci sono consegnate dai testi poetici dalla Scuola siciliana di metà XIII secolo in poi: hanno la pelle candida e i lineamenti angelici, i capelli sono lunghi e biondi, l’incedere regale e armonioso al tempo stesso, la voce soave e soprattutto il loro cuore è gentile.

Da Calvino ce lo potevamo aspettare, e infatti proprio lui che è stato un grande estimatore del nostro Ariosto e che nei suoi romanzi e racconti ha tracciato un denso filone di storie fantastiche, piene di parodia e di leggerezza nel giocare con la tradizione letteraria, proprio lui ci spiattella un innamoramento avvenuto così. Niente incedere elegante e pudico della Donna tra la gente, niente gioco di sguardi che incatena l’uomo alle gioie e alle pene d’Amore.

Sto parlando di gioco letterario e mentre scrivo conto le implicazioni che esso produce sulla organizzazione del testo del Cavaliere. Per non disperdermi in tanta ricchezza narrativa riprendo la figura di Rambaldo: dunque egli ha conosciuto i piani di battaglia, noiosissimi e ripetitivi: gli è stato detto di prendere posizione nell’esercito schierato e andare sempre dritto, fino al momento in cui la sua lancia cozzerà contro l’argalif Isoarre, che combatte sempre nello stesso punto.

Poi ha preso parte alla battaglia, che è quella dei due polveroni giallastri che si vanno incontro. Ancora, non ha incontrato subito Isoarre per un errore strategico, le fila dei soldati sono sfasate e i cavalieri così non si incontrano; ha intercettato invece l’argalif Abdul e solo grazie all’intervento di uno degli interpreti (indispensabili quando si affrontano eserciti che parlano lingue differenti) non lo ha infilzato; infine ha provocato l’uccisione di Isoarre solo indirettamente, avendogli mandato in frantumi gli occhiali. E’ proprio il caso di dire: “A Rambaldo successe tutto diverso da come gli avevano detto”.

E anche a noi lettori sono stati portati via i temi della guerra e dell’amore come li ha codificati la nostra narrazione epica medievale e moderna. Via l’immagine monumentale dell’eroe guerriero (i paladini che re Carlo passa in rassegna nel primo capitolo appaiono sudaticci e annoiati dentro le armature, sotto l’elmo nascondono principi di calvizie). Via soprattutto l’apparato concettuale e le forme dell’amore cortese, con gli amanti trepidanti e la donna angelicata.

Questo per quanto riguarda il rapporto che Calvino instaura con la tradizione. Manca ancora la parte del suo discorso rivolta all’uomo contemporaneo, a cui rimandano i tratti così inusuali di Agilulfo, un Cavaliere che non esiste se non per ciò che fa, un personaggio che si “cosifica” nel mansionario quotidiano dentro al campo cristiano.
Sarebbe intrigante parlarne, magari succederà un’altra volta.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

 

I DIALOGHI DELLA VAGINA
A DUE PIAZZE – Non so che tu sai quel che so…

Riprende dopo la pausa estiva la rubrica I dialoghi della vagina di Riccarda Dalbuoni. In A due piazze Riccarda e Nickname si pongono un dilemma: spiegare sempre o non spiegare mai?
Quando Nickname intraprende esposizioni verbali appassionate, la donna quasi sempre già sa.

N: Una donna che conosco bene, quando le spiego una cosa con quello che io giudico un appassionato trasporto divulgativo, mi guarda con una faccia che dovreste vedere e mi dice: “Guarda che lo so”. In effetti spesso lo sa, mentre io l’ho appena saputo da Wikipedia. Scopro oggi che questo mio appassionato trasporto potrebbe essere annoverabile come “mansplaining”, traducibile come un uomo che ti spiega le cose che già sai meglio di lui, come se lui le sapesse meglio di te. Da quando so questa cosa, tendo a non spiegare più nemmeno le cose che penso di conoscere davvero.

R: Ma c’è di peggio di una donna che ti dice Guarda che lo so (e se te lo dice, lo fa solo quando ha molta confidenza e questo significa che per i primi tempi, ti ha pure voluto dare la soddisfazione di pensare che lo sapessi solo tu). Di peggio c’è una donna che di fronte a un concetto, a un approfondimento, a qualcosa che non sia una nozione da enciclopedia del web, pensa: E te lo devo pure spiegare? Lo pensa e non lo dice. E se nella sua mente scorre questo titolo di coda non espresso, non l’acchiappi più. La didascalia è terribile soprattutto a doverla fare perché vuol dire che le parole hanno preso il posto della simultaneità di due persone che sentono e si capiscono. Se io te lo devo pure spiegare, saranno solo parole.

N: Torniamo sempre lì: la donna dice una cosa e l’uomo ne deve capire un’altra. Ma c’è di peggio: la donna non dice niente e l’uomo deve capire che è già troppo tardi. Non abbiamo la capacità di leggere le vostre parole, figuratevi se abbiamo la capacità di leggervi nel pensiero.

R: Ecco l’uomo che si arrende all’accettazione che tanto non capirà mai né quando lei parla né quando lei sta zitta. E te l’ho anche dovuto spiegare, caro Nick.

E voi da che parte siete? Provate a spiegarle le cose o ci rinunciate? Cosa credete sia meglio?

Potete scrivere a parliamone.rddv@gmail.com

“FRATELLI TUTTI” …. E LE SORELLE?
il lungo cammino delle donne; le parole della giovane femminista boliviana Adriana Guzman

Nel 2017 la parola Femminismo è stata eletta parola dell’anno.  Oggi nel 2020 quando una donna vince un premio importante o viene eletta in una posizione pubblica di grande rilievo se ne esalta l’importanza, eppure pretendere di essere nominate con il nostro nome, donne, quando si tratta di essere descritte nella quotidianità, con la conseguente declinazione al femminile dei sostantivi e degli aggettivi che ne accompagnano la narrazione viene considerata una richiesta esagerata, inutile e pedante.

Il titolo dell’ultima enciclica di Papa Francesco “Fratelli tutti” ne è un esempio lampante. Le donne rientrano nel neutro maschile fratelli e, con buona pace di tutte, guai a chiedere che venga integrato con Sorelle. Il neutro maschile fratelli ci deve accontentare dando per scontato che il sesso delle donne, e per sesso intendo proprio tutti gli organi genitali femminili, un corpo incarnato di donna, non abbia bisogno di essere nominato. Ma il sesso delle donne, che tutti ostentatamente dicono di conoscere a fondo, e certo tutti sono passati da lì per venire alla luce, è reale,  e se quello delle donne  non viene considerato tale,  allora ,“la realtà vissuta dalle donne a livello globale viene cancellata”(Rowiling) .

Oggi sappiamo che le parole influenzano la chimica dei nostri corpi, i neuroni del nostro cervello. Newberg e Waldman hanno raccontato la relazione tra le nostre parole e i nostri corpi e quanto queste abbiano implicazioni profonde sulla percezione che abbiamo della realtà. D’altronde gli antichi lo sapevano bene, i codici sono pieni della saggezza racchiusa in semplici, ma precise parole accostate, basti pensare ai mantra, ai salmi, agli inni etc. Per i cristiani  poi  “ il verbo si è fatto carne”, dunque, Il sapere, quello che muove la realtà, è un sapere che passa attraverso l’esperienza della carne, attraverso l’incarnazione, e non può prescindere da essa. Il sapere non è solamente una speculazione intellettuale e mentale, il sapere è anche viscerale.

Dunque, alla luce di tutto questo perché, poi, ai fatti, si continua a considerare superfluo nominare il sesso di cui  più della metà dell’umanità è costituita, perché lo fa anche il Papa? E’ evidente, l’intenzione del Papa era quella di abbracciare tutte e tutti con il suo fratelli, in particolare gli ultimi, i diseredati, gli immigrati etc (  badate bene tutti neutri maschili, categorie in cui l’umanità viene suddivisa  e di cui le donne diventano una ulteriore  sottocategoria)  ma il suo diniego, alla richiesta delle donne della chiesa di essere nominate nel titolo con l’aggiunta di Sorelle, il che avrebbe aperto anche alla aggiunta all’interno della riflessione di una declinazione al femminile quando occorreva,  mostra  quanto, il Papa, e certo non solo lui, non abbia compreso che gli ultimi degli ultimi molto spesso, anzi forse sempre, siano le donne e le bambine e che non nominandole non si vede. Adriana Guzman, giovane femminista Boliviana, lo spiega molto bene “Qual è l’uomo più sfruttato, più oppresso, più discriminato? Un uomo che è contadino, che non sa leggere, che non sa scrivere in castigliano, che non è andato a scuola, un omosessuale potrei dire, un orfano, un disabile. Ci sono tanti strati di oppressioni sopra un uomo, una sopra l’altra, però al di sotto di queste una donna, che è disabile, che è contadina, che non è andata a scuola, ha in più l’oppressione di essere una donna…”

Dunque, continuando la riflessione, questo Papa che con la sua “Laudato Sì” ha accolto molte delle sollecitazioni e riflessioni che venivano dai movimenti di base, che ha saputo coraggiosamente parlare di natura affiancandola a Dio, che parla di casa comune a prescindere dalle differenze, che è riuscito a spostare lo sguardo  dai mondi “primi” alle popolazioni indigene aprendo al grande sapere ancestrale, che si è posto alla guida di chi da decenni critica  il cinismo dei principi fondanti del capitalismo,  l’arroganza del colonialismo,  e  che si pone contro ogni forma di razzismo e di violenza,  anche nei confronti della natura stessa, non sembra riuscire a capire quanto la cultura patriarcale, di cui tutti e tutte siamo intrisi, ed è umanamente comprensibile,  succede ai più, e in particolare nella gerarchia ecclesiastica che ne è una espressione granitica, sia la radice di tutte le oppressioni e che senza un radicale e nuovo sguardo sul mondo, che passa strutturalmente  attraverso le parole che lo descrivono, non potranno essere estirpate.

Magnificamente la Guzman, in soli 10 minuti, con una acuta analisi che vi invito ad ascoltare (https://youtu.be/bJ7WnZXi_Lk ), dimostra che “Il patriarcato non è un sistema in più, non è il prodotto del capitalismo, non è una conseguenza della colonizzazione, non è una forma di razzismo. No, no, il patriarcato è IL SISTEMA che produce tutte le oppressioni, tutte le discriminazioni e tutte le violenze che vive l’umanità e la natura, ed è costruito storicamente sopra il corpo delle donne!”.

Se non si parte da li, dal riconoscere che la cancellazione del sesso delle donne nella narrazione quotidiana, è la radice dei mali che affliggono la contemporaneità a mio modo di vedere non sarà possibile nessun cambiamento radicale e tanto meno quello invocato dal Papa, e aggiungo: la cancellazione del sesso delle donne è un obiettivo preciso di chi si proclama per il progresso,  del potere tecnocratico da cui oggi sembra siamo governati ed è l’obiettivo dell’ideologia transumanista che dell’incarnazione e dei corpi ne  fa mercato, l’unico mercato ad  oggi in crescita capace dunque di tenere in vita il sistema capitalista. Dunque anche il Papa cade nel paradosso; se da un lato tutta la sua riflessione si costruisce sulla ricchezza delle differenze, sull’importanza  del dialogo umano, legato proprio agli sguardi, alle realtà dei corpi, alla connessione con altri organismi viventi, con il pianeta terra anch’esso vivente, e dunque in netto contrasto con il transumanesimo, nell’uso che ne fa della parola, cancella la differenza del dimorfismo sessuale , la primigenia differenza fondante l’identità dei singoli e facendo questo tradisce involontariamente l’obiettivo che si pone.

SE I LIBRI NON SONO PIU’ LIBERI:
Dopo la richiesta di controllo sui libri delle biblioteche

Un piccolo episodio, una scivolata di stile, un semplice tentativo di saggiare il terreno? Il fatto in realtà, e comunque vada a finire, è invece gravissimo. Quando i libri vengono posti sotto il controllo della politica, di un partito (di qualsiasi partito), siamo già a un passo dalla censura. Con buona pace della democrazia e della libertà di espressione.
Nel recente passato, in altre città, la Lega di governo ha già battuto questa strada. A Foligno nel 2018 sono stati perseguiti i volumi per bambini della biblioteca considerati “gender” e quindi allontanata la bibliotecaria disubbidiente ai nuovi ordini. E’ stata una pagina nera che non vorremmo si ripetesse a Ferrara. Se i libri non fossero più liberi, se le nostre letture fossero influenzate da un qualche potere politico, anche tutti noi saremmo più poveri e meno liberi.
(Effe Emme)
POSSIAMO PENSARE?
Visto che:
a) certi consiglieri leghisti di Ferrara vorrebbero “valutare” se i libri di alcune biblioteche cittadine per bambini “sono adeguati ai nostri cittadini, alle aspettative dei nostri elettori”;
b) certi consiglieri leghisti di Ferrara intendevano chiedere al Direttore dell’Ufficio Scolastico Territoriale di Ferrara di “voler fornire l’elenco dei testi in uso nelle scuole dell’Infanzia, nelle scuole primarie e nelle scuole secondarie cittadine, comprendendo titolo e casa editrice
c) certi consiglieri leghisti di Ferrara sono interessati a “conoscere metodi, qualità e tipologia dell’educazione fornita in particolare alle giovani generazioni”;
Considerato che:
a) i libri delle biblioteche pubbliche non dovrebbero essere adeguati alle aspettative degli elettori altrimenti sarebbero biblioteche private (in tutti i sensi);
b) il Collegio di tutti i docenti di ogni Istituto delibera la scelta dei libri di testo da adottare in base alle richieste dei singoli insegnanti approvate dai consigli di classe e di interclasse con la partecipazione dei genitori;
c) gli elenchi dei libri adottati sono pubblici poiché pubblicati sui siti dei singoli Istituti a fine maggio;
d) l’interesse a “conoscere metodi, qualità e tipologia dell’educazione fornita in particolare alle giovani generazioni” è cosa interessante di per sé sulla quale sarebbe opportuno confrontarsi pubblicamente ma quando l’interesse è legato a richieste simili appare come una volontà anticostituzionale di controllo…
Viene da chiedersi quale sarebbe stata la prossima iniziativa di questi consiglieri leghisti di Ferrara.
Possiamo forse pensare che questo interesse sia finalizzato a “valutazioni” che corrispondono ad una censura?
Possiamo forse pensare che siano impensieriti dal fatto che i libri adottati possano contenere informazioni storiche a loro non gradite?
Possiamo forse pensare che siano preoccupati dai libri presenti nelle biblioteche scolastiche?
Possiamo forse pensare che temano i libri scelti da chi sperimenta l’uso di fonti alternative ai libri di testo?
Possiamo forse pensare che siano terrorizzati dai libri in generale?
Possiamo forse pensare che questi consiglieri della Lega, oltre a proporsi per inchiodare dei crocifissi ai muri delle aule, vogliano “inchiodare” qualche insegnante a loro poco gradito?
Possiamo forse pensare che le stiano provando tutte per isolare (e magari allontanare) qualche docente non allineato?
Possiamo forse pensare che abbiano poca fiducia nella scuola, nei suoi dirigenti, nei suoi insegnanti e nei genitori?
Possiamo forse pensare?
Possiamo pensare?

P.S. Vedi anche articolo di Estense.com Libri e censura. La Lega stava per chiedere l’elenco dei libri scolastici

 

PER CERTI VERSI
Istantanea

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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ISTANTANEA

I cofani brillano
In linea retta il sole
Dei fiori volanti
In rapidi attimi
Il cielo si stropiccia
Come un maglione
Ciocche di capelli annuvolati
Tuoi restano
Sul tessuto
Stropicciami anche tu
Come velluto

PRESTO DI MATTINA
Si sta come coppi sui tetti

«Due strade divergevano in un bosco, e io, io presi la meno percorsa, e questo ha fatto tutta la differenza».

La strofa finale di questa poesia di Robert Lee Frost si adatta perfettamente al cammino percorso dal concilio Vaticano II. Di fronte al bivio che gli si poneva di fronte, una delle prime e fondamentali decisioni prese fu proprio quella di percorrere la via da tempo disattesa: quella, allora meno battuta, del ritorno alle fonti (ressourcement). E l’enorme ‘differenza’ che produsse questa scelta fu la scoperta che quella strada portava a un riavvicinamento (rapprochement) con gli altri cristiani separati, e persino con le altre religioni se non con il mondo moderno. Fu una direzione necessaria intrapresa dal Concilio per avviare un processo di ricongiungimento dentro e fuori la comunità cristiana. Grazie infatti all’immagine di chiesa che usciva dalla riforma liturgica ‒ una chiesa centrata sul mistero pasquale, evangelizzatrice a partire dalla Parola di Dio e dall’eucaristia, culmine e fonte della vita della comunità e una chiesa dei poveri ‒ balzava subito agli occhi la principale missione affidata alla Chiesa: il dono e il compito che le compete di far convergere, di mettere insieme, di riunire attraverso un nuovo stile, celebrante, dialogante, ospitante e attuativo la vocazione battesimale di ogni cristiano, precorritore di nuove relazioni e incontri volti ad avvicinare i rapporti con i fratelli separati, provando a sanare le rotture all’interno della comunità cristiana e tra questa e la modernità.

Rapprochement, ci ha ricordato l’amico Massimo Faggioli «è un termine usato molte volte dal pioniere dell’ecumenismo, il liturgista Lambert Beauduin. Non fa parte del corpus del Vaticano II in modo materiale, ma appartiene pienamente ai propositi del Vaticano II. La riforma liturgica del concilio gioca un ruolo significativo nello sviluppare (durante il Vaticano II) e nel realizzare (dopo il Vaticano II) questo aspetto chiave del concilio, in una direzione che non è meno importante di altre, meglio conosciute come il decreto sull’ecumenismo Unitatis Redintegratio, la dichiarazione Nostra Aetate, e la costituzione pastorale Gaudium et Spes. Il più importante rapprochement portato a termine dal Sacrosanctum concilium consiste in una visione riconciliata della Chiesa, della vita cristiana, della condizione esistenziale della fede nel mondo. Lontana dall’essere un’opzione puramente estetica, il punto di partenza teologico della riforma liturgica puntava a ricreare il rapporto tra liturgia cristiana, necessità spirituali dei fedeli e lettura teologicamente cattolica del mondo moderno nelle sue dimensioni storica e sociale» (Sacrosantum Concilium and the Meaning of Vatican II, in Theological Study, 71, 2, 2010, 767).

Dalla teologia alla poesia il passo può essere breve. Ciò che fa la differenza, scegliendo la via meno battuta, è il dono di uno sguardo poetico, capace di stupore che renda al vivo la figura di questo ricomporre, del mettere insieme, riunire e avvicinarsi. Incontri, sguardi e vissuti come paesaggi, scenari cangianti che connettono insieme prossimità e lontananza, altezza e profondità, risalgono dalla valle alla sommità e da questa ai dirupi scoscesi dei pendii, ricompongono frammenti, immagini, visioni, congiungono desideri, significati, colori, suoni, armonie e dissonanze, le proprie e quelle altrui. Un tale sguardo visto da una prospettiva liturgica diventa pure un vissuto e uno sguardo eucaristici, unitivi della pluralità dispersa.

È la medesima visuale percepita e messa in atto dall’architetto Carlo Bassi nel suo libro Perché Ferrara è bella: dove l’autore, immaginando lo svelamento della nostra città per chi la guarda da sopra l’orizzonte, allude a una prospettiva dalle stelle, zenitale, dal colmo dei tetti. Uno sguardo inedito e nuovo, assunto anche dal poeta Carlo Betocchi: il quale scrive: «tra poco un’altra estate. Me la godo già all’alba di uno di questi ultimi giorni d’Aprile, che si diffonde sui tetti delle case, stando alla finestra».

Betocchi ‒ scrive al riguardo Andrea Zanzotto, «ci chiama a convivere, a collaborare insieme ad esso entro la città umana, sempre messa spalla a spalla con il limite. E si pensi a quei tetti onnipresenti e sempre nuovi, a quei coppi che conservano un’intimità di freschezza e di argilla ancora intrise d’alba, anche quando appaiono più dilavati e forse intaccati dalle stagioni. Coppi, tetti, piani che quasi partono verso ogni lontananza, affratellati, e complementari ad un cielo che pur esso si ricrea di stagione in stagione. Esso sfuma nell’infinito e proprio così richiama il dato, il fatto, ciò che tutto giustifica, unisce, coordina, allena appunto ad una fratellanza» (Carlo Betocchi, Tutte le poesie, Milano 1996, 627-628).

Ho pensato allora, rileggendo queste pagine, che in questo tempo di ripresa conciliare ‒ dovuta all’opera di papa Francesco ‒ nella chiesa ‘si sta come coppi sui tetti presto di mattina’. Insieme oranti. Non si prega infatti nella liturgia delle ore con l’antifona mattutina: «Al sorgere del giorno mi ricordo di te, Signore, al sorgere della luce ascolta o Padre buono la preghiera degli umili»? E il vangelo non va forse predicato sui tetti come ci invitò Gesù stesso: «Quello che vi dico nelle tenebre ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio predicatelo sui tetti» (Mt 10, 27).

Può sembrarci una modalità stravagante. Eppure il vangelo è proprio questo: una guida alla città che proviene dal cielo; un modello di città discesa sulla terra, che vive ‒ per dirla con Calvino ‒ tra le nostre città invisibili, tra le nostre case e piazze e vie; soprattutto tra quelle meno conosciute, poco frequentate le cui prospettive nascondono incontri che sorprendono e ti fanno trovare pensieri e prospettive nuovi.

Rileggendo una pagina di Carlo Bassi sul perché la nostra città è bella sono stato sorpreso di trovarvi sintonie e simboliche a me familiari: ricomporre aggiungendo tessera a tessera, passando da una prospettiva all’altra, di piazza in piazza, di via in via e «da molto in alto fino al limite della visione zenitale» il puzzle della nostra città; e, per me, pagina dopo pagina, incontro dopo incontro ricomporre il vangelo tra la gente. Per trovare il “deposito della storia” ricercato da Carlo Bassi, come pure il tesoro della traditio evangelii, si deve percorrere la strada meno battuta, finanche un tragitto celato e poi restare sorpresi da luoghi sconosciuti, dal dischiudersi di spazi insospettati e ignoti ai più. Ma lo sguardo va allenato alle variazioni. Come le differenti prospettive da cui si guarda un albero ‒ se lo vedi di fronte, dal terzo piano o dai tetti ‒ così le immagini della città si «traslano», scrive ancora Carlo Bassi, mano a mano che essa si scopre al viandante, il quale diventa spettatore e artefice di una trasformazione dello sguardo che muta, mutando le prospettive. Si incontrano così in un primo momento dei luoghi: «riferimenti spaziali distinti e indimenticabili, quando sono esperiti dalla gente e visti all’altezza dell’occhio». Poi, cambiando prospettiva, quegli stessi luoghi diventano «spazi» quando lo sguardo li coglie da un ambito più elevato. E infine ti trovi di fronte a una trasformazione ancora maggiore là dove il campo prospettico della visuale si amplifica «in tracciati geometrici, cioè in elementi misurabili e confrontabili con altri, quando la vista di esse, la piazza e la strada, sia da molto in alto fino al limite della visione zenitale».

«Sembra quasi di poter dire ‒ prosegue Carlo Bassi ‒ che la città come manufatto architettonico, la città nella sua rappresentazione più significativa, come documento estetico da analizzare nelle sue parti rilevanti, la città come opera d’arte da sottoporre ad analisi usando la categoria dello spazio come sua unica chiave di lettura, sia quella, insospettata ai più, che l’occhio vede quando abbia la ventura di raggiungere luoghi inaccessibili come i tetti delle case, o spaziare da terrazze, da oculi di granai, da piattaforme di ascensori, da celle campanarie, da aerei in volo radente. La città offre, da queste quote visive, prospettive del tutto inedite, direi completamente nuove e incontrollabili, di difficile resa anche fotografica, le quali, proprio per questa difficoltà di traduzione in immagini su due dimensioni, ci avvertono che siamo davanti ad un fatto estremamente complesso, che muta ad ogni nostro svariare degli occhi. Esso, infatti, vive in funzione di una infìnità di elementi in perpetuo cambiamento (si pensi solo alla presenza della gente che si muove sulla scena naturalmente creata da quegli ambiti, al variare della luce, al mutare dell’atmosfera, delle stagioni) per cui un fotogramma, colto dall’occhio e fìssato dalla macchina, non sarà mai uguale al successivo. Dai ‘territori superiori’ nei quali ci poniamo, dunque, vediamo una città che pochi vedono, vediamo la fìsicità spaziale di eccezionali riferimenti urbani o di piccoli episodi della minuta trama del suo tessuto vitale».

In questo inizio di scrittura abbiamo solo un colpo d’occhio. Avvicinandosi ai particolari di quest’affresco testuale, lo sguardo è afferrato in un percorso celato, in cui Carlo Bassi a poco a poco svela le ragioni dell’irripetibile bellezza di Ferrara: «che va rivelata perché, per quanto ci è noto, è prerogativa unica di Ferrara, la quale può aggiungere ai suoi percorsi urbani più importanti e significativi questo: segreto e intenso». A me basta questo colpo d’occhio per dire il perché il vangelo è bello.

Nel vangelo si sta come coppi le sere d’estate: insieme pazienti; o nei «solstizi in cui l’anima viaggia per i cieli asciutti chiari per tutti». Nel vangelo si sta come «in un giorno terso come tanti d’estate» dove non c’è burrasca: «non avremo quel fremito che i cupi nuvoloni e le saette ci mettono in cuore». E tuttavia il vangelo è solo primizia del Regno, sua buona novella nella forma di un seme seminato di cui prendersi cura. Non mancheranno giorni e notti difficili in cui gettarci a capofitto, a fare argine ancora all’inquietudine di vincere il male con il bene: «Saremo soli, semmai, nell’azzurro,/ a sentire che dentro il suo profondo/ c’è un cupo, c’è un lontano brontolio:/ che la serenità non è che un lembo/ d’una stagione più incerta;/ in cui, nel fondo, vibra d’inquietudine/ la sorda lotta del bene e del male,/ e spetta a noi gettarci a capofitto/ in mezzo allo spettacolo inondante/ travolti nella sua serenità» (ivi, 190).

Il vangelo è il riconoscersi di Cristo in ogni uomo (P. Mazzolari), celato tra le sue pagine come da uno spartito si ode il canto nuovo poiché, pagina dopo pagina va formandosi la libertà dell’uomo nuovo; questi dice Agostino, sa qual è il canto nuovo, è quello di colui che sa amare la nuova vita. E, così, a me sembra che Il Canto d’estate di Carlo Betocchi sia accordato sulle note del canto nuovo, come risonanze del “suo” vangelo:

“Così, come boccheggiano nel sole
appena nato, sdraiato sui tetti,
ad una ad una, queste bocche d’embrici
rossastre, antiche, dalla schiena calda;
la scorsa primavera andar virenti
le vidi di muschiose fioriture,
nate all’alido; e il sole le riarse,
bevvero guazze, poi le rase il gelo
d’inverno: anch’io, quasi lo stesso,
come un’arida schiena che sopporta
pesi scottanti, geli inveterati,
nell’esistere mio nudo e costrutto
forse a null’altro, spero nel fiorire:
la dolce esclamazione che mi tocca
l’anima, dalle bocche degli embrici
oscure, ripetute lungo la linea
della gronda del tetto, mi sussurra
d’aver pazienza; e l’ombre, la ridicono,
dei coppi sopra i tegoli, scalate
di colore, fantastiche, mutevoli,
la pazienza implorando, poi che il cielo
oggi che è azzurro vive le disegna
a parlare, e dà voce a quelle cose
che non l’hanno, quando il sole declina”.
(Ivi, 178-179).

CONTRO VERSO
Filastrocca di un assassino

Ci sarebbe stato da ridere, se non fosse stato un dramma. Lui, omicida, nell’udienza in carcere per parlare dei figli che aveva reso orfani poche settimane prima, ha esaltato il valore della buona educazione. Che supponga consista nel sedersi composti, masticare a bocca chiusa, non dire parolacce e ammazzare la moglie il minimo indispensabile.

Filastrocca di un assassino

Io l’importante l’ho individuato,
è che mio figlio sia un bimbo educato.
La mamma è morta, sì, nell’incidente.
Io l’ho ammazzata, vabbè; è rilevante?
Poi fatta a pezzi e nascosta sotto al letto
per non volerla lasciare, dopotutto.
Perciò il divorzio non l’ho mai contemplato:
nel mio paese sarei disonorato.

Il signor giudice allora mi ha risposto:
“E un assassino ha l’onore tutto intero?”
L’ho accoltellata, sì, lo riconosco.
Ma poi è morta? È morta per davvero?

Si può immaginare la rabbia, lo sconcerto che provoca parlare con un uomo che ha ucciso la moglie e sembra non esserne minimamente consapevole. Eppure, ripensandoci, è plausibile che anche la sua memoria fosse inceppata come pure il suo rapporto con la realtà. Una morte violenta è un trauma grave, si vede, per chi la piange e anche per chi l’ha provocata.

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia  il venerdì.
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Al cantón fraréś
Dino Tebaldi: “Madòna piculìna”

Per conto del settimanale diocesano La Voce di Ferrara, Dino Tebaldi attraverso la corrispondenza con i lettori cura, nel 1983, una originale ricerca sulle preghiere dialettali locali. Il colloquio col pubblico produce sorprendenti testimonianze sulla religiosità popolare: scadenze liturgiche, cantilene infantili, invocazioni sacre e profane. Dei testi raccolti poi in volume, si offrono alla lettura quattro esempi con le traduzioni in italiano del curatore.

Madòna piculìna

Madòna piculìna
ch’la s’aliéva la matìna
par andàr ala piléta
a tór l’acqua banadéta:
par lavar’s man e viś,
par andàr iη paradìś.

Madonna piccolina
Madonna piccolina / che si leva alla mattina / per andare alla piletta / alla fonte benedetta: / per lavarsi mani e viso, / per andare in paradiso.

 

La campana ad fra’ Simón

Din, dan, dón,
la campana ad fra’ Simón
tut’i dì la sunàva,
tut’i dì la guadagnava:
guadagnava uη par ‘d capùn
da purtàr ai sò padrùn.
I sò padrùη non gh’jéra,
agh jéra l’Adriana
ch’la sunàva la campana.
La campana la jéra róta;
tri putìn j gh’jéra sóta.
Tri putìn j gh’jéra sóta,
ch’j ciamàva cagnulìη
(cagnulìη: bao, bao),
al gatìη (miao, miao),
al galét (chichirichì):
salta sù, putìη,
ch’l’è dì.

La campana di fra’ Simone
Din, dan, dón, / la campana di fra’ Simone / tutti i giorni suonava, / tutti i giorni guadagnava: / guadagnava due capponi / da portare ai suoi padroni. / I suoi padroni non ci stavan, / ma ci stava l’Adriana / che suonava la campana. / La campana era rotta; / tre bambini eran sotto. / Tre bambini eran sotto, / che chiamavan cagnolino / (cagnolino : bao, bao), / il gattino (miao, miao), / il galletto (chicchirichì). / Bimbo, ora alzati, / che s’è fatto dì.

 

Sant’Antòni dal buśghìη

Sant’Antòni dal buśghìη,
chì aη gh’è paη,
chì aη gh’è viη,
chì aη gh’è legna da bruśàr:
Sant’Antòni, cum égna da far?

Sant’Antonio del porcellino
Sant’Antonio del porcellino, / qui non c’è pane, / qui non c’è vino, / qui non c’è legna da bruciare: / Sant’Antonio, come dobbiamo fare?

 

San Cristòfar grand e gròs

San Cristòfar grand e gròs
ch’al purtàva al mónd adòs,
l’acqua santa ala zintùra:
banadì ‘sta creatura.
Creatura bèla e bòna:
l’acqua santa a chi la dóna.
A la dón a vu, san Piér,
(ch’al gh’ha il ciàv
da vèrźar al ziél).
Va veràndo, va seràndo,
la Madonna va chiamando:
va chiamando Gerusalèm
ch’l’aη gh’ha né fasa, né mantèl
da infasàr cal Gesù bel.
Gesù bel, Gesù Maria:
am arcmànd l’anima mia.

San Cristoforo grande e grosso
San Cristoforo grande e grosso / che portava il mondo addosso, / l’acqua santa alla cintura: / benedite questa creatura. / Creatura bella e buona: / l’acqua santa a chi la dona. / Io la dono a voi, san Pietro, / ( che ha le chiavi / per aprire il cielo). / Va aprendo, va chiudendo, / la Madonna va chiamando: / va gridando Gerusalemme / che non ha fasce, né mantello / per fasciare il Gesù bello. / Gesù bello, Gesù Maria: / raccomando l’anima mia.

Tratte da: Dino Tebaldi, Madòna piculìna : preghiere dialettali ferraresi della tradizione popolare, Ferrara, “Voce di Ferrara”, 1984.

Dino Tebaldi (Jolanda di Savoia 1935 – Ferrara 2004)
Maestro elementare, tipografo, studioso di storia e tradizioni locali, cultore del vernacolo ferrarese. Come giornalista ha collaborato, fra gli altri, al Resto del Carlino e alla Voce di Ferrara. Ha insegnato italiano nel carcere e fra gli zingari. I suoi molteplici interessi lo hanno portato a scrivere degli argomenti più diversi: dal Palio di Ferrara al fiume Po, dai poeti dialettali all’istruzione primaria, dalle bellezze della città all’editoria ferrarese. Molti i suoi testi, stampati fuori commercio solo per amici e biblioteche, erano autografati con il riconoscibile inchiostro verde.
Delle innumerevoli pubblicazioni si citano: Il dialetto ferrarese nella scuola elementare (1982), Proverbi dialettali per tutte le stagioni (1983), Par Frara còl dialèt : antologia degli autori de “Al tréb dal tridèl” (1998).

Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui] 

Cover: S. Antonio abate, via del Gambone, Ferrara. Foto di M. Chiarini

 

SCHEI
Il Diavolo veste Prada (e paga coi soldi del Vaticano)

All’uscita della cresima, suggello di anni di catechismo, coi parenti in ghingheri e nell’atmosfera ecumenica, cerimoniosa e festante del sagrato, alla domanda su cosa questa esperienza gli aveva lasciato, mio figlio rispose: “Mi sento agnostico”. Mutuo la (involontaria?) genialità di questa sua affermazione preadolescenziale: anch’io voglio essere agnostico sul caso del cardinale Becciu, numero due della Segreteria di Stato vaticana, dimissionato da Papa Bergoglio per un utilizzo disinvolto delle finanze vaticane, tra cui cento milioni di sterline per operazioni immobiliari a Knightsbridge, il quartiere più caro di Londra (fonte Financial Times); nonchè per il mezzo milione di euro non contabilizzato finito nella disponibilità della sedicente filantropa Cecilia Marogna, titolare di una società slovena (Logsic) che finanzia operazioni umanitarie e, pare, anche l’acquisto di poltrone Frau, borse Prada e scarpe Tod’s. Intervistata dal Corriere della Sera, Cecilia Marogna si difende dapprima con orgoglio nazionalista (“ho acquistato solo prodotti italiani”), poi dice che le operazioni del Vaticano non sono contabilizzate per definizione, che lei non poteva certo emettere delle fatture, che doveva “pagare delle persone in Africa, gestire delle crisi, fare dei bonifici”. Viene in mente quella scena di “Ecce Bombo” in cui la ragazza risponde a Nanni Moretti che le chiede cosa fa nella vita: “Mah, te l’ho detto: giro, vedo gente, conosco, faccio cose”.

Questo “scandalo” sta riempiendo le pagine dei giornali anche per la pozza pruriginosa nella quale sempre si tuffa la stampa quando di mezzo c’è una donna, immancabilmente soprannominata “Dama Bianca”. In realtà, la guerra di papa Bergoglio contro la corruzione e il riciclaggio di denaro nella Chiesa ha conosciuto atti ben più pesanti: fra tutti, ricordiamo l’azzeramento dei vertici dello IOR, che nonostante l’acronimo (Istituto Opere Religiose) è passata alla storia come la banca lavatrice delle più luride masse di denaro mai transitate dal sistema finanziario ufficiale, altro che opere religiose. Quando la parte conservatrice della Chiesa ed i suoi Socci di corte tuonano contro la sua presunta eresia, l’ignoranza dottrinale, uno schiaffetto dato in diretta tv ad una fedele troppo invadente (scandaloso atto di violenza in una Chiesa squassata dagli abusi sessuali ai danni di minori); quando addirittura lo accusano di essere “comunista” e di voler aprire le frontiere agli infedeli straccioni o fanatici, quando lo accusano di considerare un valore il “meticciato”, cosa che in effetti afferma nella sua recentissima enciclica “Fratelli tutti”, più che un novello manifesto comunista una declinazione ramificata dei concetti ritrovabili in sintesi nel testo di “Imagine” di John Lennon (con la significativa eccezione della “imagine no religion too” che sarebbe stato eccessivo aspettarsi dal Papa); quando lo accusano di tutte queste nefandezze, dovete tradurre. Quando i nemici ti attaccano sui princìpi, sull’ortodossia, sulla morale, sui dogmi, devi tradurre simultaneamente: ti stanno attaccando sui soldi, sui vizi, sul potere. I loro soldi, i loro vizi, il loro potere, che vedono messi in pericolo.

Papa Bergoglio ci sta provando, con inevitabili errori (soprattutto di politica interna) ma con una premura ed una fretta inversamente proporzionali al tempo che gli resta da vivere: più si avvicina la sua fine (spero naturale), più fretta ci mette nel cercare di restituire un minimo di dignità ad una istituzione che perde progressivamente presa proprio perchè ha fatto strame della sua etica, della coerenza tra i princìpi e le azioni, della propria autorità morale. Pochissimi sono i leader che, una volta assurti ai vertici di uno Stato o di una organizzazione, manifestano quell’indipendenza rispetto alle cambiali da onorare, ai debiti da pagare, alle mani da baciare (quelle mani che li hanno sostenuti e appoggiati nella rincorsa alla vetta) necessaria per tagliare le corruttele, interrompere i ladrocinii, punire i violentatori. Tra quelli che hanno intrapreso questa gigantesca iniziativa dal secondo dopoguerra, a me veniva in mente Gorbaciov.  Adesso mi viene in mente anche Papa Francesco, e quindi, come lui spesso chiede, prego – agnosticamente – per lui.

in copertina: elaborazione grafica di Carlo Tassi

PAROLE A CAPO
Sergio Gnudi: “Ora è il tempo” e altre poesie

“Ogni poesia è misteriosa: nessuno sa interamente ciò che gli è stato concesso di scrivere.”
(Jorge Luis Borges)

 

Ora è il tempo

Ora è il tempo infinito del basta
ora è il tempo di alzare la testa
ora è il tempo di chiedere il conto
ora è il tempo che il tempo è finito.

Lasciamo che vadano i giovanetti
lasciamo che gli eroi siano eroi
e innoviamo i sacri miti del dunque
e abbracciamo le steli pulsanti.

D’italica porpora ammantato
il nume grida il sacro percorso
sul niente della strada indicata
e noi seguiamo ossequiosi il vessillo.

Ora è il tempo di scordare l’augurio
quello che fece felice Cirene dell’Ade
e se nessuno piange d’Eurialo la morte
è chiaro che la tragedia sia pretesto.

Nel passo tacito dei giovanetti solerti
non resta che offrire fiducia al domani
nella vita che forse sarà il credere è pegno
di un mondo futuro uguale al sacro passato.

Ascoltiamo le forti grida di inni al futuro
offriamo agli dei l’altare abbondante di beni
e come Agamennone aspettiamo Ifigenia
e il destino ci colga con il sangue vermiglio.

 

Ti ho vista raccogliere

Ti ho vista raccogliere paurosa le carte,
ti ho osservata nascondere il viso fugace,
ho seguito il tuo sguardo fuggire la vista,
ho preso la misera moneta e te l’ho offerta.

Mi hai guardato con sospetto e timore,
ho sorriso con vergogna appena celata,
il tuo viso si è sciolto in un timido sole,
hai preso il soldino allungando la mano.

Le colpe di uomini e donne in quel gesto,
le tristi storie di noi tutti in quell’atto,
di chi si erge a credersi il vero e il giusto,
di chi pensa all’altro come al nemico.

Veloce il colosso superbo potrebbe crollare
e perdersi nella brina dell’inverno gelato
o nell’afa assolata del deserto giallastro
o peggio nella siccità di anima e cuore.

Hai messo nella logora tasca il dio blasfemo,
avresti dovuto dirmi che ti è dovuta la vita,
che nessuno di noi, saccenti, può negarla,
che la fortuna ci arrise per un semplice caso.

Invece hai ringraziato coprendoti il viso,
te ne sei andata veloce a cercar altre carte,
a cercare altri oboli da aggiungere al pranzo
e io sono rimasto a guardare triste e sconfitto.

 

Lascia infine

Lascia infine i vecchi libri
lascia quell’odore stantio
che non offre che ricordi
che non mostra che passato.

Spalanca le finestre al futuro
ascolta i pensieri ridondanti
di chi urla sberleffi all’antico
di chi mostra le vesti luminose.

Vieni e usciamo a ballare nel sole
ad annusarne il morbido odore
a salutare la gente sicura di vita
a offrire il sorriso al semplice passo.

Nessuno deve più capire l’umano
nulla sarà da studiare dell’animo
di bambini e musica sarà il cielo
e di innocue carezze sopra il capo.

Rinuncia a studiose e ombrose giornate
a ricordare poeti e scrittori già morti
lascia quel pernicioso desiderio di vero
e accogli nel cuore l’oblio della storia.

Questo è il grido ammagliante che giunge
questa è l’agonizzante speranza che spegne
troppo debole è l’ anelito di umana virtù
e forse questo è il destino finale che ci attende.

 

Quel poeta

Eccolo lì all’angolo dei pensieri
eccolo lì un poco macilento
e un poco orgoglioso di penare
e anche impettito nel dolore.

Quel suo canto che tra gioie e pene
si libra dal petto mai invecchiato
si dissolve in piccole lacrimevoli scintille
che suonano di vita, di cuori e d’amore.

Ti racconta che tutto gli hanno rubato
anche la morte che vorrebbe compagna
e che i teneri amici gli cadono attorno
con quella testa nelle spalle incassata.

Tu lo guardi e sorridi con compiacenza
ma sai quanto il suo mondo sia lontano
quanto sia strascicato il suo narcisismo
lui il Poeta che al martirio è votato.

Poi mi accorgo di cose che ho fatto
ho colto i fiori e ora tocca alle erbe
poi mi accorgo dei magri bottini
e dei grigi capelli sulle tempie.

Lui mi è fratello nelle tetre nebbie
di questo lento tramonto senza sole
e rimango a contare fredde le sillabe
di un poema che non vuole finire.

Quel poeta a cui freddi giorni fanno eco
quell’illuso dell’ingannevole salvezza
quel facitore di versi che porgono la mano
quel triste lamento mi guarda allo specchio.

 

Sergio Gnudi, ha pubblicato nove opere poetiche. L’ultima nel 2019 è stata Ballate del tempo che fu. In poesia ha scritto d’amore, con la trilogia A Cinzia, Raccontami o Dea e Il filo d’Afrodite e poesia civile con Incitamento alla politica del 2015. Due sono il libri per ragazzi pubblicati: La mamma racconta gli eroi e Le storie di Antonio. Con il musicista astigiano Beppe Giampà ha creato reading musicali: Era febbraio, Le stagioni in città e la Storia delle Storie, sull’epica del Torino calcio. Tra poesia e narrativa è il volume Sensazioni del 2017, dal quale è stato realizzato un film presentato alla fiera del cinema di Venezia del 2018. E’ del 2018 il romanzo La statua del potere, che si rivolge a un pubblico giovane. Del 2019 la raccolta di racconti Il gioco di Diana, storie di streghe e povere donne. Attualmente sta collaborando con Sergio Altafini a Eridanea: un progetto multimediale sui miti greci nel Basso Po. Ha infine realizzato la scrittura filmica del nuovo lungometraggio La vita che verrà, che è stato presentato all’ultimo Festival del Cinema di Venezia.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. 
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Dal 19 ottobre in Emilia-Romagna, prima in Italia, test sierologici rapidi in farmacia per gli alunni di tutte le scuole di ogni ordine e grado, genitori, familiari conviventi e studenti universitari assistiti sul territorio. Gratuiti e volontari.

Da: Regione Emilia Romagna

Coronavirus. Dal 19 ottobre in Emilia-Romagna, prima in Italia, test sierologici rapidi in farmacia per gli alunni di tutte le scuole di ogni ordine e grado, genitori, familiari conviventi e studenti universitari assistiti sul territorio. Gratuiti e volontari, obiettivo 400mila persone già nei mesi d’avvio. In arrivo anche 2 milioni di tamponi rapidi per le scuole e gli ambienti di lavoro a rischio e campagna di vaccinazioni antinfluenzale potenziata. Bonaccini-Donini: “Nessuna tregua al Covid”

Siglato oggi l’accordo con le associazioni di categoria delle farmacie convenzionate, pubbliche e private: sierologici rapidi – esito in 15 minuti – in quelle aderenti all’accordo, per una platea potenziale di 2 milioni di persone. Conclusa anche la prima gara interregionale per l’approvvigionamento di tamponi veloci (risposta in massimo 20 minuti), utili a verifiche immediate, per esempio sull’intera classe, in caso di pos itività: disponibili dal 26 ottobre. Infine, già pronte 1.200.000 dosi di vaccino antinfluenzale: +30% rispetto al 2019

Bologna – La Regione Emilia-Romagna estende la propria azione di prevenzione e controllo contro il virus. A partire da test sierologici rapidi in farmacia – con esito in soli 15 minuti – per la ricerca degli anticorpi anti SARS-CoV-2, destinati a una nuova, ampia, fascia di popolazione, che potrà arrivare fino a due milioni di cittadini, quasi un residente su due in Emilia-Romagna. Chi risulterà positivo, farà il tampone nasofaringeo per la conferma o meno dell’eventuale contagio da Covid.

Operazione possibile grazie all’accordo siglato oggi stesso con le associazioni di categoria territoriali delle farmacie convenzionate, pubbliche e private.

Una campagna senza precedenti rivolta al mondo della scuola, dopo quella iniziale su docenti e operatori. L’invito a partecipare è per alunni e studenti degli istituti di ogni ordine e grado, genitori, fratelli e sorelle e altri familiari conviventi, ma anche gli universitari che hanno il medico di medicina generale in Emilia-Romagna. Una platea potenziale di circa 2 milioni di persone che a partire dal 19 ottobre, e fino al 30 giugno 2021, potranno gratuitamentee su base volontaria, prenotare ed effettuare il test nelle farmacie convenzionate aderenti all’accordo. L’auspicio è che già nei mesi di avvio, almeno il 20% di loro aderisca a questa misura di contrasto alla diffusione del Coronavirus: 400mila persone.

Nella fase iniziale il nuovo provvedimento voluto dalla Giunta regionale riguarderà dunque un target ben preciso, e cioè tutta quella parte del mondo scolastico non ancora sottoposta a screening; in un secondo tempo, anche in base all’andamento dell’epidemia e all’esito dei test, lo screening potrà rivolgersi ad altre fasce di popolazione, sempre in modo gratuito.

Ai nuovi test sierologici rapidi, si aggiunge una seconda leva: i tamponi rapidi – 2 milioni acquistati dalla Regione e anche qui esito in 15-20 minuti – da utilizzare dal 26 ottobre nella scuola e negli ambiti lavorativi pubblici e privati a maggior rischio. Sia per aumentare ancora la capacità di screening sia per poter svolgere velocemente verifiche estese (per esempio a un’intera classe) in presenza di positività e quindi ridurre al minimo possibili quarantene o i tempi di avvio di qualsiasi misura di tutela.

Infine, lunedì 12 ottobre parte la campagna di vaccinazione antinfluenzale, con molte più dosi rispetto all’anno scorso e in anticipo rispetto sempre al 2019, vista l’utilità che potrà avere nella gestione delle diagnosi Covid, essendo simili i sintomi a quelli dell’influenza.

Novità importanti per l’intera regione, da Piacenza a Rimini, illustrate oggi in videoconferenza stampa dal presidente Stefano Bonaccini, dall’assessore alle Politiche per la salute, Raffale Donini, e dai rappresentanti delle associazioni di categoria delle farmacie convenzionate.

“Un altro strumento di grande utilità, veloce e ancora una volta gratuito per i nostri cittadini, con cui rafforziamo ulteriormente quella ‘caccia’ al virus che ormai da mesi ci vede impegnati senza sosta- ha sottolineato il presidente Bonaccini-. Le farmacie convenzionate sono parte integrante del nostro servizio sanitario e costituiscono veri e propri presidi sul territorio; in un’ottica di prossimità e di vigilanza sulle esigenze di salute della popolazione, possono proporre al cittadino di aderire a servizi di assistenza che puntano anche alla prevenzione. Di qui, l’idea di stringere questo accordo con le associazioni di categoria, che ringrazio davvero per la collaborazione, per allargare ulteriormente la platea delle persone su cui effettuare la ricerca anticorpale. Nuovi test sierologici, più vaccini antinfluenzali e due milioni di tamponi rapidi: vogliamo essere pronti a contrastare il virus, al quale non dobbiamo dare tregua, anche in questa fase che vede numeri in risalita, per non disperdere i risultati del grande lavoro fatto dal Paese nella fase più dura dell’emergenza e continuare a garantire una ripresa in sicurezza. Ma la cosa più importante- chiude il presidente- è continuare a rispettare rigorosamente le regole già esistenti: distanziamento, uso delle mascherine e cura dell’igiene, lavandosi spesso le mani”.

“Rafforziamo la nostra capacità di intercettare il virus di fronte all’attuale curva epidemica, che impone una nuova, ulteriore attenzione, sia nella capacità di testare la popolazione che nell’azione di tracciamento, scovando quindi quanti più asintomatici possibile- ribadisce l’assessore Donini-. Vogliamo dare la possibilità di sottoporsi gratuitamente allo screening a un’ampia fascia di popolazione, ripeto, asintomatica: quella che viene quotidianamente a contatto, direttamente o indirettamente, con il mondo della scuola. Il nostro augurio è che in tanti decidano di aderire, sfruttando quest’opportunità. Con i tamponi rapidi, inoltre, avremo la possibilità di andare a uno screening esteso della popolazione, consolidando in maniera determinante la nostra capacità di individuare, circoscrive e spegnere sul nascere eventuali nuovi focolai”.

Test sierologico rapido in farmacia: per chi, come, in quanto tempo

Il target preciso per questo screening sono dunque i genitori dei bambini e degli alunni/studenti (fascia d’età 0-18 anni e maggiorenni se frequentano la scuola secondaria superiore), gli alunni/studenti stessi, i loro fratelli e sorelle, e altri familiari conviventi. L’offerta dell’accertamento della risposta anticorpale attraverso il test diagnostico sierologico rapido può riguardare dunque anche i minori, a condizione naturalmente che ci sia il consenso dei genitori/tutori/affidatari (uno dei quali deve presenziare all’accertamento). Rientrano nel target anche gli studenti che frequentano corsi universitari e che hanno il medico di base in Emilia-Romagna.

Da Piacenza a Rimini, sono 1.366 le farmacie convenzionate, pubbliche e private, operative in Emilia-Romagna. Quelle che, in base all’accordo, hanno deciso di aderire alla richiesta della Regione di effettuare i test dovranno attuare idonee misure idonee di sicurezza (uso obbligatorio e corretto della mascherina, igienizzazione delle mani all’ingresso, controllo della temperatura corporea, distanziamento). L’elenco delle farmacie aderenti sarà pubblicato a breve sul sito della Regione; chi vorrà sottoporsi al test dovrà prendere appuntamento con il farmacista. Per il Servizio sanitario, il test in farmacia avrà un costo unitario pari a 16.76 euro (IVA inclusa).

Il farmacista registrerà sulla piattaforma SOLE i dati della persona che si sottopone al test, il cui esito sarà disponibile già dopo 15 minuti dall’esecuzione. In caso di positività, il cittadino eseguirà presso i Dipartimenti di Sanità Pubblica aziendali il tampone nasofaringeo che potrà rilevare l’eventuale presenza del virus SARS-CoV-2.

Altri 2 milioni di tamponi rapidi in arrivo per l’Emilia-Romagna

La gara per mettere a disposizione, in Emilia-Romagna, 2 milioni di tamponi antigenici rapidi per la diagnosi di positività a SARS-CoV-2 è stata bandita dalla Regione Veneto, che stavolta ha agito da committente unico a nome anche di altre Regioni, così come era avvenuto con altre gare in passato gestite da altre Regioni, con l’aggiudicazione che avverrà nel corso della settimana. Dopo i passaggi formali necessari, l’Emilia-Romagna disporrà dei test rapidi già entro la fine del mese. Questi test, che prevedono l’esecuzione di un tampone, possono essere eseguiti in diversi contesti e forniscono il risultato nel giro di massimo 20 minuti.

La Regione Emilia-Romagna intende utilizzarli per le attività di screening destinate al mondo della scuola; questo per indirizzare nel migliore dei modi, in tempi brevi, gli interventi in quell’ambito. Ma non solo la scuola: verranno interessati anche gli ambiti lavorativi pubblici e privati a maggior rischio e, più in generale, quelle situazioni che risulteranno critiche dall’osservazione degli andamenti epidemiologici. Sull’utilizzo dei test si è avviata un’interlocuzione positiva con la principale rappresentanza dei medici di medicina generale: ciò consentirà di rendere più fruibile questa tipologia di test da parte dei cittadini.

Campagna di vaccinazione antinfluenzale 2020-2021

E proprio in un’ottica di prevenzione, e per favorire la diagnosi differenziale, quest’anno la Regione ha deciso di anticipare a lunedì 12 ottobre l’avvio della campagna di vaccinazione antinfluenzale; non solo, perché viene spostato in avantioltre il 31 dicembre, il termine per vaccinarsi. Acquistate anche più dosi di vaccino: 1.200.000, circa il 30% in più rispetto alle vaccinazioni somministrate nella passata stagione; inoltre, nei contratti di fornitura viene prevista l’opzione di acquisto da parte della Regione di ulteriori 230.000 dosi, circa il 20% in più. Proprio in questi giorni le Aziende sanitarie stanno ricevendo i vaccini da distribuire ai medici di medicina generale.

Nel frattempo, ha già preso il via la campagna di comunicazione del servizio sanitario regionale (organizzata tra social, spot radio, video, locandine), all’insegna dello slogan “È tempo di influenza, è ora del vaccino. Vaccinati, proteggi subito te stesso e gli altri”.

Il vaccino, infatti, è utile nel ridurre le complicanze gravi e gli accessi ospedalieri soprattutto per le persone con patologie croniche e può semplificare la diagnosi differenziale, nonché migliorare la gestione nei casi sospetti di Covid-19. Nella passata stagione si stima che ci siano stati circa 580.000 casi di influenza in Emilia-Romagna.

Hanno diritto alla vaccinazione gratuita persone di età uguale o superiore a 60 anni con o senza patologie; donne in gravidanza o nel post partum; adulti e bambini (a partire dai 6 mesi di età) con patologie croniche; medici e personale sanitario e sociosanitari; addetti ai servizi pubblici essenziali (per esempio, forze dell’ordine, vigili del fuoco, volontari che operano nel settore sanitario); donatori di sangue; personale degli allevamenti e dei macelli. Tutte queste persone possono richiede la vaccinazione al proprio medico di medicina generale o ai servizi vaccinali regionali (Pediatria di Comunità e Servizi di Igiene e Sanità Pubblica), essendo appunto competenza del sistema sanitario pubblico, quindi di quello regionale, garantire la copertura vaccinale alle categorie a rischio.

Cessione al libero mercato delle farmacie territoriali

Per trovare una soluzione alla carenza di vaccino che si è creata a livello nazionale, anche in Emilia-Romagna, dopo la decisione assunta dalla Conferenza delle Regioni, vengono cedute al libero mercato, a disposizione delle farmacie territoriali per le persone non appartenenti alle categorie a rischio, 36.000 dosi (pari al 3% dell’acquistato). Le farmacie del territorio riceveranno i vaccini dopo le consegne al Servizio sanitario regionale.

Le persone sane possono infatti comprare in farmacia il vaccino e farselo somministrare dal medico di fiducia (costi variabili a proprio carico); oppure richiedere la vaccinazione antinfluenzale ai servizi vaccinali regionali (costo 22 euro) che la somministreranno però solo dopo aver garantito le vaccinazioni alle categorie che ne hanno diritto. /CV

Via degli Sgarbi :
per una nuova guida di Ferrara

Ferrara, 6 ottobre 2023

“Ferara, stazione di Ferara”, dice l’altoparlante. Fuori, un signore appena arrivato col treno, chiede un’informazione ad un passante.
Signore: “Mi scusi, potrebbe indicarmi la strada per andare in Municipio?”
Passante: “Certamente. Lei prosegua dritto fino all’incrocio con via Adolfo Itleri, poi al semaforo prenda a destra per Contrada del Manganello.
A quel punto vedrà il parco-giochi Erode il Grande, quello recintato e senza panchine; lei prosegua sulla sua destra fino a piazzale Benito da Predappio.
Una volta lì, noterà una vecchia biblioteca dedicata a Gianni Rodari che ora è diventata un’armeria; la superi e poi vada a destra per vicolo del Crocifisso Ostentato.
In fondo, svolti ancora a destra per via Italo Balbo fino a che si troverà in Largo dei Fasci Littori.
Da quel punto dovrebbe vedere il Castello Estivo, dove vivevano gli Este d’Estate.
Continui, attraversi il Ponte dell’Impero, cammini su via della Croce Celtica e, una volta in fondo, giri a destra in via Feldmaresciallo Rommel.
Dopo pochi metri, sarà arrivato in Municipio.
Una volta lì, le consiglio di visitare la mostra BIMBA, BAMBA, BUMBA & BOMBA. Sottotitolo: Se sei ubriaca sei in parte responsabile dello stupro; è  dedicata all’esaltazione della donna elegante, sempre in camicia nera, vista come angelo del focolare ed una condanna alla femmina (bimba) drogata (bamba) e ubriaca (bumba) che cerca di farsi stuprare per poi far scoppiare il caso mediatico (bomba) e rubare i soldi agli uomini per bene.”
Signore: “Grazie mille, è stato gentilissimo. Non conosco nessuna di queste vie ma ricordo che in centro c’erano Corso Martiri della Libertà e via delle Volte. Ci sono ancora?”
Passante: “Purtroppo no, gli hanno cambiato nome. Sa, delle Volte  penso che se fossi nei panni dei Martiri anche io avrei Corso lontano da qui per cercare un po’ di Libertà”
Nel frattempo, vicino alla vecchia altalena rotta del parco del grattacielo, un bambino saltella da solo, cantando una filastrocca:
Ferrara, Ferrara, che bella città
si mangia, si beve, l’amore si fa.
Ferrara, Ferrara, la nebbia dov’è?
Guardaci bene: è lì dentro di te.
Ferrara, Ferrara, tu dimmi però
meritiamo davvero questa popò?

LETTERA APERTA AL SINDACO DI FERRARA: ORA BASTA!

di Mario Zamorani

Signor sindaco,
lei ha scritto: “Clandestini, violenti, spacciatori e bivaccatori seriali, che altro non fanno che rendere meno sicura la nostra città, non possono pretendere alcun diritto, devono solo tornare da dove sono venuti. Per noi non sono né risorse né persone da integrare a nostre spese. Sono solo un tumore da sradicare” (vedi link).

Le sue sono parole di odio e di disprezzo senza precedenti per la loro gravità nei confronti di persone che in gran parte sono “gli ultimi e i disperati” della Terra. Pensiamo in particolare a clandestini e bivaccatori (chiunque siano questi ultimi). E anche chi delinque ha diritto a un giusto processo, non alla gogna. Lei e il Diritto siete alternativi.

Per la legge il sindaco rappresenta il Comune e lei in quanto sindaco rappresenta tutti i ferraresi.

Non siamo più disposti a tollerare in silenzio parole di odio e di disprezzo da lei o, come avviene con allarmante frequenza, dal suo vicesindaco.

Ha superato il limite. Non ci rappresenta più.

Mai un sindaco di Ferrara era caduto così in basso con parole tanto violente. Un clandestino non è un tumore da sradicare. La cultura del diritto dello Stato liberale e lo Stato di diritto e democratico garantiscono che tutti i cittadini abbiano diritti come indicato dalle leggi e dalla nostra Costituzione, dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea; non sono tumori da sradicare. Mai, chiunque essi siano e qualunque sia il loro comportamento. Semmai è lei che dovrebbe essere allontanato dall’alto incarico che ricopre per le sue parole.
Dalla criminalizzazione del clandestino a quella della persona con diverso colore il passo è breve, forse inesistente; poi verrà criminalizzato ogni “diverso” e giù siamo su quella strada: forse non lo sa ma lei è già fuori dalla storia dell’Occidente e dalle sue conquiste di civiltà.

Anche Papa Francesco, rivolgendosi a cattolici e non, sostiene che dobbiamo tutti creare un radicale cambiamento nelle nostre società e che è necessario rifiutare “tutte le ingiustizie che oggi cercano la loro giustificazione nella ‘cultura della scarto’- una malattia ‘pandemica’ del mondo contemporaneo”. E aggiunge che bisogna dare voce ai “senza voce”. E tra questi ultimi indica
“migranti, rifugiati e sfollati, che vengono ignorati, sfruttati, violentati e maltrattati nel silenzio colpevole di molti”. E il suo non è silenzio, la sua è istigazione attiva.

Con le sue parole lei ha posto se stesso fuori dalla cultura giuridica dello Stato di diritto e ha fatto precipitare Ferrara, che lei dovrebbe rappresentare, nella barbarie.

Crediamo fermamente che la grandissima maggioranza dei ferraresi abbia queste sensibilità e che quindi lei non parli a nome dei ferraresi, ma a nome di alcuni odiatori. Lei è venuto meno all’onore che deve contraddistinguere le persone che ricoprono incarichi istituzionali.

Ora basta! Non siamo più disposti a tollerare parole di odio e di disprezzo! Quindi le chiediamo di smentire le sue stesse parole e di chiedere scusa a tutti i ferraresi. Se non lo farà da qui potrà partire la riscossa della città democratica.

Per firmare la petizione vai a; https://www.change.org/p/alan-fabbri-sindaco-di-ferrara-lettera-aperta-al-sindaco-di-ferrara-ora-basta

Nulla accade per caso

“Nulla accade per caso”.
Ce lo ripetiamo come mantra consolatorio davanti agli insuccessi, con un fondo di speranza compensatoria in ciò che seguirà, oppure lo diciamo con convinzione intrisa di felicità, nel caso di un successo. Caso? Energia? Destino? Tentiamo di dare risposte razionali a quegli eventi non pianificati o attesi che irrompono, tentando di scoprire e rendere manifesti i fili invisibili che uniscono luoghi e persone, circostanze e fatti ma tutto resta inspiegabile: accade e basta.
Nel 1950 Gustav Jung formulava la ‘Teoria della sincronicità’, asserendo che il vincolo tra più avvenimenti che sembra casuale, nasconde un profondo significato per la persona che lo vive, costituendo una forte esperienza con valore simbolico. Sono fatti che accadono spesso, compaiono all’improvviso, inaspettati, e molto spesso cambiano il corso della nostra vita. Non esistono le coincidenze con collegamento causa-effetto: esiste un’intima connessione che unisce l’ambiente, l’inconscio collettivo che accomuna tutti gli esseri umani, la singola persona, e bisogna fidarsi e affidarsi all’istinto per aprire le porte della sincronicità, sgomberando pensieri e atteggiamenti rigidi, cinici e rinunciatari. Tutto è collegato, le cose fluiscono, una dopo l’altra, in un ambiente in cui tutti sono connessi: possiamo prendere decisioni, operare scelte, porci obiettivi ma poi gli eventi interferiscono, l’inaspettato si manifesta scompigliando, orientando altrove.
In letteratura troviamo frequentemente situazioni sincroniche senza le quali la narrazione non avrebbe senso o si appiattirebbe su una realtà poco credibile, perché la vita reale stessa è fatta di eventi voluti e pianificati intercalati con fatti e accadimenti indipendenti da una nostra consapevole scelta razionale.
Nei ‘Promessi Sposi’ (1827), di Alessandro Manzoni, Renzo e Lucia vengono sballottati tra numerosi scherzi del destino, e quello che doveva essere un matrimonio senza complicazioni, diventa un’epopea intensa. Fra’ Cristoforo indirizza Lucia verso l’Innominato, il quale tradisce le aspettative di don Rodrigo; ogni personaggio deve fare i conti con il ‘caso’, il ‘destino’, la sincronicità, l’interdipendenza dei fatti. “Se non fosse successo quello, non si sarebbe arrivati a questo…” .
In ‘Il nome della rosa’ (1980), il celebre romanzo di Umberto Eco, il giovane Adso da Melk, discepolo di Guglielmo da Baskerville, trova i brandelli di libri e pergamene dopo l’incendio alla biblioteca dell’abbazia e li considera come tesori sepolti nella terra da salvaguardare e studiare con amore. “[…] Come il fato mi avesse lasciato questo legato. Più rileggo questo elenco e più mi convinco che esso è effetto del caso. Ma queste pagine incomplete mi hanno accompagnato per tutta la vita che da allora mi è restata da vivere, le ho spesso consultate come oracolo […]”.
Nel ‘Decameron’ (1350-1353), di Giovanni Boccaccio, apparente disordine e casualità sembrano prevalere nelle storie dei personaggi delle novelle, che compaiono slegate e distanti l’una dall’altra. Ma Boccaccio riesce a dar loro un ordine, una gerarchia, un senso, rifacendosi a volte al volere divino, altre alla capacità umana.
Italo Calvino, nel romanzo ‘Il castello dei destini incrociati’ (1969), usa una tecnica combinatoria per eliminare il disordine di tutte le trame possibili da percorrere e sviluppare. Parte da un mazzo di tarocchi le cui carte vengono distribuite su un tavolo e tutto diventa un gioco di combinazioni in cui il significato di ogni carta dipende dal posto che essa occupa nella successione di carte che la precedono e la seguono.
Dagli incroci che si formano, prendono vita le storie. In ‘Insonnia d’amore’ (1993), di Nora Ephron, Sam, vedovo inconsolabile, decide di trasferirsi con il figlioletto Jonah da Chicago, che gli ricorda ogni momento la giovane moglie, a Seattle. Il bambino, che vive la solitudine e sofferenza del padre, si rivolge a una radio facendo conoscere la loro storia e cominciano ad arrivare numerosissime lettere da pretendenti di ogni dove. Tra esse, quella della romantica giornalista Annie Reed di Baltimora, che il bambino ha estratto tra decine e decine. A molti altri inaspettati eventi, seguirà un appuntamento a New York tra Sam e Annie. “Non è incredibile? Prendi milioni di decisioni e un sandwich ti cambia la vita” esclamerà la protagonista, convenendo che nell’universo, minuscole variazioni portano ad evoluzioni inattese.
Laura Barnett in ‘Tre volte noi’ (2016), ci consegna due personaggi e due storie parallele che improvvisamente si incrociano. E’ il 1958, Eva e Jim, due studenti di Letteratura e Giurisprudenza a Cambridge, si incontrano inaspettatamente a causa di un cane sfuggito al padrone e un chiodo che fora la gomma della bicicletta della ragazza, intenta a schivare l’animale. Jim accorre in aiuto, e da quel momento tutto cambia. Eva lascia che il giovane entri nella sua vita, lascia un fidanzato in grado di permetterle un futuro nel mondo degli scrittori,  e tutto prenderà una traiettoria nuova che durerà tutta la vita, malgrado altre trame possibili.

Caso e necessità si intrecciano nelle nostre vite e non si tratta di destino ineluttabile né accidentalità, se vogliamo leggerne il messaggio. Ci piacerebbe, a volte, tornare indietro dopo un fatto, rimettere le lancette dell’orologio all’inizio per vedere altri scenari, altri effetti, altre opportunità ma i ‘se’ e i ‘ma’ sono sterili se non cogliamo l’importanza di ciò che è già accaduto. Possiamo solo vivere nel presente, con le nostre certezze e le nostre sliding doors, con uno sguardo attento attraverso le porte aperte e un atteggiamento plastico nel coglierne  messaggi e opportunità.