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FANTASMI
L’ACCIUFFASUONI

 

Ho sempre avuto una grande curiosità per i suoni.
La goccia che cade nel mezzo del lago di Braies ha una voce diversa se rimbalza sul tettuccio della mia roulotte bianco sporco. Addirittura la stessa goccia, che dal tettuccio scivolando lungo il vetro dell’oblò si tuffa al centro della corolla di quel tulipano, emette qui un piccolo gemito, breve, impercettibile. Ma io lo aspetto per ascoltarlo. E quando lo acciuffo sono brividi di gioia.
E il vento? Anche lui è affetto da disturbi della personalità. Quando soffia umido per i vicoli di Otranto bisbiglia all’orecchio, dolce, accompagnandoti nella tua passeggiata lenta, tenendoti sotto braccio, facendo le fusa frusciando i tuoi abiti leggeri. Poi prendendo la rincorsa si gonfia borioso entrando prepotente a Trieste con fiato secco e freddo. Ti ammonisce e fischia se provi ad aprire la porta. Non vuole che tu esca da casa.

“E l’allodola come fa?”
“Trilla” mi rispondeva nonno Giacomo.
“E il picchio verde come fa?”
“Ride”
E ridevo anche io da bambina fino alle lacrime scoprendo che il giaguaro brontola, le scimmie farfugliano, il furetto pot-potta, il gufo bubola, il cobra sibila e la zanzara zufola.

E poi iniziai a osservare lo zio Carlo quando veniva scarmigliato dai suoi lunghi giri all’estero a cena a casa nostra. Era pieno di penne nel taschino lo zio Carlo; le teneva lì al posto del fazzoletto. Ma le sue erano penne magiche che lo mantenevano in vita, mi diceva, poteva perdere tutto ma non le sue penne. Ci osservavamo in silenzio e incontrando i suoi occhi capii che avevamo una indole simile.
Fu con lui in segreto tra me e me che proseguii quel mio antico gioco.
“E lo zio Carlo come fa?” non lo rivelai mai a nessuno.

E così cominciai ad ascoltare ogni persona.
Ad esempio: perché a un certo punto tutti i giovani romani hanno iniziato a parlare con la zeppola in bocca?
Perché le ragazze orientali non camminano nel traffico metropolitano come tutti noi a singhiozzo sgraziati con momenti di arresto e ripresa, ma scivolano eleganti come se discendessero da una collina abbagliante di riso?

Il suono a seconda di come viene pronunciato modella i tuoi connotati, il tuo atteggiamento. E quel suono è territoriale. Quel suono, quegli accenti e quelle pause hanno bisogno di quel paesaggio, di quei colori, di quella temperatura per nutrirsi.

E fu così che non mi bastarono più i suoni della mia famiglia che avevo lungamente scandagliato, della mia città, della mia regione, della mia nazione. Iniziai a girovagare con la mia roulotte per acciuffarne di nuovi, per imitarli, immaginando come sarei stata ogni volta diversa indossandoli.

Mi trovai da grande a giocare proprio con una penna d’airone del Vecchio Mondo regalatami da mio zio. Provai a tradurre lingue lontane per renderle più familiari senza tradire lo spirito, il temperamento del personaggio creato dallo scrittore. Si trattava di compiere tripli salti mortali: individuare lo stile dell’autore, scoprire la voce di quel personaggio, immaginare la sua forma fisica, il suo modo di muovere le mani quando versa il vino per sé o per gli altri, insomma tutto quel che viene orchestrato dalla sua voce. Solo in questo modo puoi tradurlo in un’altra lingua. E’ un faticoso sondare solitario, affollata da tanti volti.

Più degli uomini i miei amici erano le creature galleggianti nei pensieri d’inchiostro di scrittrici e scrittori. E per ricambiar l’amicizia, a quei personaggi volevo restituir loro degne parole che non tradissero la loro anima.

“Si diverte tanto a tradurre signorina?”
Ingenuamente avevo detto di si; avevo risposto sinceramente a una persona reale in carne ed ossa che non si fece scrupoli, spazzandomi via, prosciugando la mia scintilla, derubando le mie impronte digitali, riducendomi ad ombra, impossessandosi dei miei pentagrammi di parole. Mi risucchiò fino a farmi scomparire. Imprimendo il suo nome a fuoco sui miei zampilli d’ingegno. Piantando la sua bandiera sulle mie proprietà, sul mio terreno dissodato dalla vanga del mio talento.

“E il negriero come fa?”

NOTE:
Questo racconto è stato liberamente ispirato alla grande traduttrice degli anni ’30 Lucia Morpurgo Rodocanachi. Un omaggio a Colei che definì Elio Vittorini “il negriero”. Indovinate perché.
In copertina:“Metamorphosis” di Tito Alacevich, 30 Maggio 2021

Racconto inedito, proprietà dell’autore.

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Vintage school:
gli intellettuali e “la nuova scuola”

Non conosco gli estensori del Manifesto per la nuova scuola [Qui] sottoscritto da uno stuolo di intellettuali che vanno da Alessandro Barbero a Chiara Frugoni, da Vito Mancuso a Massimo Recalcati, da Tomaso Montanari a Gustavo Zagrebelsky che, ovviamente, non potevano mancare.

‘Nuova scuola’ sta a significare che questa che abbiamo è la ‘vecchia scuola’, diversamente non si comprenderebbe la necessità di un manifesto. Le ‘buone scuole’, ‘le offerte formative’: tutto tempo sprecato, inquinamenti nell’esercizio principe della trasmissione del sapere, come nel lontano 1994 il Testo Unico aveva decretato consistere la funzione docente.

Nuova scuola e non ‘scuola nuova’, forse perché agli estensori risuonava un po’ come le ‘scuole nuove’, il movimento di rinnovamento scolastico dei primi del novecento sorto per rispondere ai bisogni di un mondo in rapida trasformazione.

Le trasformazioni del mondo non sono cura di cui prendersi per i promotori del nostro manifesto, perché la nuova scuola in esso disegnata è atemporale, fuori dallo spazio e dal tempo, un’entità dello spirito, un tabernacolo del sapere dispensato dai suoi sacerdoti. Un ritorno allo spirito di Hegel e di Croce tanto bistrattati dal materialismo dei tempi della scienza e della tecnica.

Una scuola senza storia, senza prima e senza dopo, senza ricerca, senza un propria cultura accumulata nel tempo, senza conflitti, anzi una scuola dall’identità violata, sfregiata dalle riforme e dagli interventi legislativi che si sono succeduti negli anni, che ne hanno deturpato la sua vera natura di otia studiorum.

Se qualcuno mai avesse pensato che fosse finalmente giunto il tempo di porre fine alla pratica dell’insegnamento ex cathedra, dell’insegnamento trasmissivo, di un sistema scolastico cattedracentrico, per gli estensori del manifesto è bene che si metta il cuore in pace.

Restituiamo centralità all’ora di lezione, alle discipline, ad ogni singola disciplina senza alcuna contaminazione, alla trasmissione del sapere. Le competenze sono nemiche del sapere e di ogni dimensione “integralmente umana” è scritto nel manifesto. Le competenze come lo sterco del diavolo, asservite al mercato.

Pensiero inquietante, perché suggerirebbe che neppure chi siede in cattedra è fornito di competenze, quelle necessarie a illuminare gli studenti della luce della sua disciplina. E cosa mai possederà al loro posto? L’ispirazione dello spirito santo? Avremo nella ‘nuova scuola’ i docenti pentecostali?

Nessuna contaminazione con il lavoro, più che mai con l’insensata alternanza scuola lavoro, via ogni orpello dalla scuola, dal digitale all’autonomia scolastica, niente offerte formative, ma centralità del docente in cattedra. Gli unici ammessi  all’aulica scuola i mediatori linguistici per gli studenti stranieri e gli psicologi dello sportello d’ascolto, per rimuovere eventuali interferenze prodotte dall’età evolutiva delle ragazze e dei ragazzi, che potrebbero ostacolare l’attenzione che è necessaria ai distributori del sapere in pillole, ai performer dell’ex cathedra.

Questo è il catechismo del manifesto, non avrai altro docente al di fuori di me, ma in questo manifesto gli studenti non ci sono, se ci sono sono schierati nei banchi, attoniti ad ascoltare la voce del maestro, affascinati dal suo eloquio e dalla sua padronanza della disciplina perché, come premette il manifesto, bontà sua: “..quello tra gli insegnanti e gli studenti è prima di tutto un “rapporto umano”. Grazie tante!

Ma quell’articolo ‘la’ determinativo della nuova scuola non offre alternative al mondo fermato nell’ipostasi del sapere, della cattedra, semmai con la predella come auspicava tempo fa Galli della Loggia, dell’aula e della classe, degli orari e dei programmi, unico universo della nuova scuola.

Preoccupa che questi signori scrivano di scuola, intanto perché è evidente che non di tutta la scuola si occupano, la loro enfasi cattedratica rimanda ad un grado di scuola prevalentemente secondario. Sarebbe da brividi per bimbette e bimbetti la scuola che prospettano, con maestri saputi che propinano pillole di nozioni già confezionate come quelle di Rodari, almeno per l’epoca che viviamo e per la cultura che sull’infanzia ci siamo anche a fatica conquistati, sarebbe davvero preoccupante. Forse agli estensori del manifesto sarebbe consigliabile prenotare qualche seduta presso uno degli epigoni del dottor Freud.

Restituire centralità allo studente che apprende, che in autonomia costruisce le sue conoscenze sarebbe lesa maestà.

La ‘nuova scuola’ è in realtà la scuola di ieri, come se il mondo si fosse fermato a quando sui banchi sedevano gli autori del manifesto. La scuola è tale solo se immobile, fotografata al tempo dello loro infanzia e adolescenza, dopo, solo la rovina, il degrado, l’imbarbarimento.

La ‘nuova scuola’ è esattamente quella già scritta da Gentile [Qui], essersene allontanati per adeguarsi ai tempi, a nuovi bisogni educativi è stato per gli autori del manifesto un’eresia che richiede oggi una pubblica abiura.

Ma viene da chiedersi se il manifesto è il manufatto di docenti che quotidianamente vivono il rumore d’aula, o il risultato piuttosto di pensieri subliminali frutto di frustrazioni che non si è più in grado di gestire e che la pandemia ha finito per esasperare.

Sconcerta che professionisti della cultura, come ogni insegnante dovrebbe essere, dimostrino di essere privi di una solida cultura scolastica, psicologica, pedagogica, didattica, ripiegati come sono nell’angustia della loro disciplina, senza considerare che ormai non esiste disciplina che non viva dell’apporto delle altre. Non si nasce insegnanti, e non è sufficiente essere esperti di una disciplina per essere dei bravi docenti. Essere docenti richiede quel molto di più di cui il manifesto non scrive, perché l’unica idea su cui regge tutto il manifesto è la nostalgia del carisma. Io, disciplina e carisma, si potrebbe dire. Una visione narcisistica dell’insegnante artigiano del sapere, ma non tutti sono dei poeti e se uno il carisma non ce l’ha, non se lo può inventare. Socrate e peripatetici restano confinati alle pagine dei manuali di storia della filosofia, bisogna farsene una ragione.

Di fronte alla restaurazione proposta da questa millantata ‘nuova scuola’ anche il pensiero del buon Dewey [Qui] agli albori del secolo scorso, quando nelle scuole del nostro paese prendeva corpo l’idealismo gentiliano, suona eretico nel suo pragmatismo, ma noi vogliamo concludere citandolo da Scuola e Società: “È la nostra un’educazione dominata quasi interamente dalla concezione medioevale del sapere. Essa si rivolge in gran parte soltanto al lato intellettuale della nostra natura […] non già ai nostri impulsi e alle nostre tendenze a fare, a costruire, a creare, a produrre sia per scopi utilitari sia per scopi artistici. […]  Ne consegue che noi scorgiamo dovunque intorno a noi la divisione fra persone ‘colte’ e ‘lavoratori’, la separazione della teoria dalla pratica”.

La ‘nuova scuola’ del manifesto non è certo la ‘scuola nuova’ di cui hanno necessità i nostri giovani per vivere in questo millennio, per affrontare le sfide che attendono loro e non certo chi oggi siede in cattedra, a cui competerebbe la responsabilità di attrezzarli per il futuro, un futuro che non consente di guardare indietro, di rifugiarsi nel passato, solo perché è l’unica coperta di Linus che si possiede di fronte alla propria impotenza intellettuale e culturale.

Per leggere gli altri articoli di Giovanni Fioravanti della sua rubrica La città della conoscenza clicca [Qui]

La riva del tempo di Roberto Dell’Oglio in libreria dal 5 giugno

da BookTribu

Un viaggio di ricerca, comprensione e accettazione. La riva del tempo di Roberto Dell’Oglio, edizioni BookTribu, in libreria dal 5 giugno, conclude la trilogia dell’autore Il fiume di mondi. Il viaggio di Edrik Akenah porta il lettore nel fluire di mondi fantastici che risponde al titolo della trilogia. Ma il viaggio non appartiene solo a vaste praterie azzurre e terre argentate, quanto al fluire di vite del suo protagonista che porta a riflettere su concetti atavici quali il bene e il suo opposto, il male. In questa saga fantasy, sorprendentemente, il bene e il male non sono altro da sé, bensì parte di chi legge, parte dello stesso Akenah. E così il viaggio, oltre alla ricerca, diviene superamento e infine scelta di chi vogliamo essere.

Roberto Dall’Oglio sottolinea come La riva del tempo sia “l’ultimo viaggio di un giovane eroe oltre i confini del tempo e dello spazio per restituire libero arbitrio là dove il destino è già stato scritto”.

Il primo romanzo della saga, La viola di Akenah, ha vinto il premio personaggi e ambientazione nel secondo concorso letterario nazionale di BookTribu, testimoniando la forza narrativa dell’autore, la sua capacità di concepire Il fiume di mondi e dargli corpo, voce, sentimenti e anima nei suoi protagonisti. E’ un fantasy che va oltre il suo genere, in quanto propone al pubblico un nuovo modo di concepire il fantastico e di renderlo presente in una lettura coinvolgente e mai uguale.

Roberto Dell’Oglio, nato a Trani nel 1995, è laureato in Informatica Umanistica all’università di Pisa, dove sta continuando gli studi per la laurea magistrale in Tecnologie del Linguaggio. La riva del tempo è il terzo e ultimo titolo della saga iniziata con La Viola di Akenah a cui ha fatto seguito La luna del deserto.

PER CERTI VERSI
Il pianto delle sirene

IL PIANTO DELLE SIRENE

Vorrei viaggiare
Laggiù
Con te
Poco importa
Se è difficile
O più ancora
Improbabile
Forse impossibile
Sono tutti dettami
della ragione
Poco importa
Per me vale
La tua bellezza
La gioia che esprimi
Dello spirito e della carne
La gioia che io avverto
Alla sola idea
Di sfiorarti
Mio fiore
Di donna
Immarcabile
E dolce
Con te
Vorrei ascoltare
La voce delle sirene
Piangere
Di fronte a te
Alla tua

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
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PRESTO DI MATTINA
Il nome a te dovuto

 

«Mi diranno: “Qual è il suo nome?” E io che cosa risponderò loro?», (Esodo 3,14)». Qual è il nome a te dovuto? Perché si creda che esisti, che sei vero, realtà e non pensiero, un sogno, un idea mia? Non desiderio mio di darti un nome, un mio vaneggiamento; al contrario: «al tuo nome e al tuo ricordo si volge tutto il mio desiderio» (Is 26,8).

Solo l’esperienza mistica e quella poetica riescono l’impossibile: nominare l’alto senza nominarlo e dire il nome segreto dell’amore fin dall’inizio e cantarlo senza enunciarlo, come è nel Cantico dei cantici: «Mi baci con i baci della sua bocca! Sì, migliore del vino è il tuo amore. Inebrianti sono i tuoi profumi per la fragranza, “aroma che si spande è il tuo nome”: per questo le ragazze di te si innamorano. Trascinami con te, corriamo!», (Ct 1, 2-4).
Solo quando si ama si sperimenta la voce a lui dovuta: «Una voce! L’amato mio! Eccolo, viene saltando per i monti, balzando per le colline», (Ct 2,8).

Proferire la voce ‘trinità’, come pure il lemma ‘amore’, senza il cuore, senza averlo incontrato, senza la paura di averlo perso e poi la gioia di averlo ritrovato e di nuovo di correre a cercalo, questo dire e confessare senza amore, è come l’eco di conchiglie vuote sulla spiaggia, labbra ruminanti dall’onda mosse, muovono il vuoto di una mortale afasia. O come “stroboli” aperti di pigna, dopo che il vento ne ha disperso le sementi, stanno come lingue rinsecchite tramutate in legno: fremono al vento parole prive di vocali, inservibili: «Quand’anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non ho amore, divento un bronzo risonante o uno squillante cembalo. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi l’amore, non sono nulla, a nulla gioverebbe», (1Cor 13,1-2).

Così è di chi prova a dire l’Altro nome ed ogni nome, senza l’arte “scombinatoria” dell’amore che lega e scioglie, costruttiva e creatrice di parole sempre nuove, e tuttavia ancora parole abbreviate, tronche nella loro finitezza, bisognose sempre di trascendersi, di protendersi al di là di sé stesse verso la loro intima sorgente, quella oltre ogni incontro: il volto dell’altro, sempre segreto e svelato ad un tempo, indecifrabile e detto, nascosto e ritrovato, circoscritto nella sua forma e cangiante e dispiegato all’infinito.

Così nome dopo nome, voce dopo voce, sguardo dopo sguardo, ancora oltre si ode nel silenzio il nome impronunciabile che è a lui dovuto: «Si, al di là della gente/ ti cerco./ Non nel tuo nome, se lo dicono,/ non nella tua immagine, se la dipingono./ Al di là, più in là, più oltre./ Al di là di te ti cerco./ Non nel tuo specchio/ e nella tua scrittura,/ nella tua anima nemmeno./ Di là, più oltre./ Al di là, ancora, più oltre/ di me ti cerco, Non sei/ ciò che io sento di te./ Non sei/ ciò che mi sta palpitando/ con sangue mio nelle vene,/ e non è me./ Al di là, più oltre ti cerco», (Pedro Salinas, La voce a te dovuta, Torino 1979, 11).

Anche i più solenni nomi e concetti della tradizione e teologia cristiane, distillati tra mille idiomi, come oro nel crogiolo nei primi concili, con l’intento di esprimere in sintesi la fede di tutti, decantati nel cuore di differenti culture di popoli per esprimere l’unico mistero della fede – come pure i misteri più insondabili della liturgia come quelli celebrati nella domenica della Santissima Trinità o del Corpus Dominirestano puro flatus vocis, semplici nomi, privi di consistenza per noi se non riescono a far udire l’altra voce: «Una voce! L’amato mio! Eccolo».

«La poesia è un’avventura verso l’assoluto. Si può arrivare più o meno vicino; si può fare più o meno strada, ecco tutto. Bisogna lasciar correre l’avventura, con tutta la bellezza del rischio, della probabilità, del gioco». Così Pedro Salinas descrive il suo itinerario poetico: un’erranza innamorata. Pertanto l’assolutezza della parola, come l’unicità del nome d’altri, sta oltre le parole e i nomi che nominiamo, voce che non può essere raccolta, se non continuando a desiderare, cercando e chiamando sempre di nuovo, attendendola anche quando giunge solo il suo silenzio e in quel silenzio gridi: “Trascinami con te, corriamo!”, tra un pieno e un vuoto, tra oscurità e chiarore, verso l’assoluto.

Lo stesso possiamo dirlo dell’esperienza mistica che è esperienza non di solitari e solitarie, neppure di pochi, ma di tutti coloro che osano la bellezza e il rischio dell’amore. Per Giovanni della Croce poesia e mistica furono abbracciate insieme come un’unica avventura, notte oscura, fiamma d’amor viva, salita al monte verso Kerem-El, il Carmelo, letteralmente ‘Vigna di Dio’.

Sabato scorso di mattina in libreria, sembrava aspettasse solo che gli passassi accanto per chiamarmi. La sua copertina non era nascosta tra i dorsi degli altri libri, ma esposta sullo scaffale in bella mostra. Proprio non si poteva non vederla, così familiare nel formato della collezione di poesia dell’Einaudi, nero su bianco: La voce a te dovuta. Poema, di Pedro Salinas, (Torino 1979). E lessi in fretta il breve testo per sentirne la voce e diceva: «E sto abbracciato a te/ senza chiederti nulla, per timore che non sia vero che tu vivi e mi ami». Trasalii! È questo un verbo che dice tutto e non esprime minimamente la dirompenza del sentimento che provai. Ma resistetti a quella voce seducente e non presi con me il libro; ne avevo già preso un altro: Scrivere per dire sì al mondo. Allontanandomi però stentii che era già segretamente entrato dentro di me a sparpagliarmi il cuore e i pensieri. Così andai all’Ariostea, certo che era là ad aspettarmi.

La raccolta poetica La voce a te dovuta appartiene alla piena maturità dell’autore, costituita da una settantina di brani. È tuttavia una raccolta unitaria, riunita come un poema d’amore per la continuità del tema che in essa si dispiega. L’ho sentita subito in alcuni tratti e versi così simile, oserei dire, così consonante al Cantico dei cantici, che è il luogo letterario, insieme ai testi profetici e alle beatitudini e parabole del Regno che meglio ci consente immaginare le cose future promesse nel Vangelo: promesse di giustizia, di pietà, di quell’amore più grande di tutti che sta nel dare la vita; un amore di cui non possiamo portarne il peso, se non a condizione che diventiamo familiari alla sua voce e la seguiamo come fosse una via, il nome a lui dovuto.

Immaginare la promessa: ecco il dono e il compito che lo Spirito chiede oggi ai cristiani per una conversione pastorale in stile sinodale. Occorre ridare volto, mani, piedi, cuore alle promesse e alle parole della fede di cui essi sono portatori, ascoltando, incontrando, accompagnando con il cuore. E non serve a nulla un semplice maquillage; non si cambia con i ritocchi di una cosmesi di superfice; non serve l’acido ialuronico per eliminare l’indurimento del cuore.

«Che cosa ci è stato promesso?»: si interroga Agostino nel suo Commento alla Prima lettera di Giovanni (IV, 6): «Saremo simili a lui, perché lo vedremo come egli è», ma aggiungeva con il sapere di chi ha amato e continua ad amare questo invito: «La lingua non è riuscita ad esprimersi meglio, ma il resto, le altre cose immaginatele, pensandole col cuore, (cetera corde cogitentur)». Ricreare il dirsi e il donarsi della fede, il suo credere e il suo sperare, a partire da un cuore pensante (Etty Illesum).

Le riflessioni di Maurice Merleau-Ponty (1908-1961) offrono alla teologia e al cristianesimo l’orizzonte di una fenomenologia della percezione e dello stile che consente di riscoprire uno “stil novo”, stile di abitare il mondo: «[Oggi] impariamo a veder nuovamente il mondo attorno a noi, da cui ci eravamo distolti nella convinzione che i nostri sensi non potessero insegnarci nulla di valido e che solo un sapere rigorosamente oggettivo meritasse di esser preso in considerazione … In un mondo così trasformato non siamo soli, e non siamo soltanto tra uomini. Questo mondo si offre anche agli animali, ai bambini, ai primitivi, ai pazzi, che lo abitano a modo loro e che coesistono con esso», (Conversazioni, Milano 2002, pp. 43-44).

Nel testo di Pedro Salinas c’è un passaggio per me significativo, illuminante, che mi ha ricordato il passare attraverso la notte oscura dei mistici spagnoli. Nella notte oscura, come insegna Giovanni della Croce, occorre restare abbracciati a colui che sembra averci abbandonato, lasciando solo il ricordo di una “pura voce d’ombra” e quella “solitudine immensa” di essere rimasti i soli ad amare l’altro che si è sottratto, come evaporato: «E sto abbracciato a te/ senza chiederti nulla, per timore/ che non sia vero/ che tu vivi e mi ami./ E sto abbracciato a te/ senza guardare e senza toccarti./ Non debba mai scoprire/ con domande, con carezze,/ quella solitudine immensa/ d’essere solo ad amarti».

Ma questa notte è per i mistici e i poeti e, per chi crede amando, la porta stretta che fa accedere ad un amore ancora sconosciuto; fa riudire una voce, una parola nuova oltre la parola, inimmaginabile e indicibile: un “incendio di amore” lo chiama Giovanni della Croce. Egli scrive: «se è vero che all’inizio della notte dello spirito non si avverte ancora quest’incendio d’amore, perché non ha ancora cominciato ad agire, tuttavia al suo posto il Signore dona subito un amore che verifica, permette di valutare, giudicare, un amore ‘estimativo’ di ciò che si sta vivendo». Una ferita d’amore sentita come un abbandono: «si tratta di un amore così elevato, che tutto ciò che l’anima soffre e sopporta di penoso nelle prove della notte oscura è il pensiero angosciante di aver perso Dio e di essere da lui abbandonata» (Notte oscura, 13,5). Oltre la porta della notte oscura si dice nel Cantico «trovai l’Amato del mio cuore, lo strinsi fortemente, e non lo lascerò» (Ct 3,4).

Nemmeno quel Dio, che ha ispirato il Cantico dei cantici per dare voce al suo nome impronunciabile Jhwh, è stato risparmiato da questa ferita d’amore, come di costato trafitto da lancia, “solitudine immensa” di essere il solo ad amare il suo popolo e sentire di non essere da lui riamato. «Perciò il Signore dice: “Poiché questo popolo si avvicina a me solo con la bocca e mi onora con le labbra, mentre il suo cuore è lontano da me, e il loro timore di me è solo un comandamento insegnato da uomini, perciò, ecco, io continuerò a fare meraviglie in mezzo a questo popolo, sì, meraviglie e prodigi; la sapienza dei suoi savi perirà e l’intelligenza dei suoi intelligenti scomparirà”», (Is 29, 13-14). «Essi hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne screpolate, che non tengono l’acqua», (Gr 2, 13). Ed ancora «Ad Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore. Come potrei abbandonarti. Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione» (Os 11, 3-4; 8).

Il modo tuo d’amare
è lasciare che io ti ami.
Il sì con cui ti abbandoni
è il silenzio. I tuoi baci
sono offrirmi le labbra
perché io le baci.
E sto abbracciato a te
senza chiederti nulla, per timore
che non sia vero
che tu vivi e mi ami.
E sto abbracciato a te
senza guardare e senza toccarti.
Non debba mai scoprire
con domande, con carezze,
quella solitudine immensa
d’essere solo ad amarti.
Se ancora non lo credo,
qualcosa già più denso,
più palpabile, la voce
con cui dici: «Ti amo»,
lotta per affermarti
contro il mio dubbio. Accanto
un corpo bacia, abbraccia,
frenetico, e cerca
qui la sua realtà,
in me che non ci credo;
bacia
per guadagnare la sua vita
ancora incerta,
puro miracolo, in me.
La notte è il grande dubbio
del mondo e del tuo amore.
Ho bisogno che il giorno
ogni giorno mi dica
che è il giorno, che è lui,
che è la luce: e li tu.
Ho bisogno del miracolo
insolito: un altro giorno
e la tua voce, a conferma
del prodigio di sempre.
Ed anche se tu taci,
nell’enorme distanza,
l’aurora, almeno,
l’aurora sì. La luce
che oggi lei mi porterà
sarà il gran sì del mondo
all’amore che ho per te.

Pedro Salinas, La voce a te dovuta. Poema, Torino, 1979

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

25 APRILE A METÀ
Radici del razzismo e scheletri negli armadi:
fortuna, violenze e morte di Italo Balbo (VII Parte)

“Un’immensa voragine di sabbia”: così all’inizio del XX secolo, Gaetano Salvemini definì la Libia, quando ebbe inizio l’avventura coloniale italiana.
Qualche anno più tardi furono molti contadini italiani a non credere ai miraggi di quella terra promessa, che la propaganda fascista descriveva fertile, rigogliosa, “liberata” e pronta per essere coltivata. Mussolini, volle che fosse il gerarca Italo Balbo ad occuparsi della colonizzazione agricola della Libia, dopo averlo sollevato dall’incarico di Ministro dell’Aeronautica del Regno d’Italia e inviato in qualità di Governatore nel 1934.
Balbo dichiarò che avrebbe seguito le gloriose orme dei suoi predecessori e avviò una campagna nazionale che voleva portare due milioni di emigranti sulla Quarta Sponda Italiana del Mediterraneo. Ne arrivarono soltanto 31mila, ma furono un numero sufficiente da trincerare dietro un muro militare, costruito nel 1931 in Cirenaica, per contrastare la resistenza delle tribù beduine degli indipendentisti libici Senussi.
Quel muro, il muro italiano di Giarabub, è tuttora presente, visibile e in funzione. Oggi viene indicato, mantenuto e utilizzato come efficace barriera anti-immigrazione. Si ritiene cioè che trattenga il flusso migratorio clandestino diretto verso l’Italia attraverso il Mar Mediterraneo, impedendo di raggiungere i luoghi di imbarco più facilmente accessibili che si trovano sulla costa del Golfo di Sirte.
muro italiano di Giarabub

muro italiano di Giarabub
Il muro italiano di Giarabub. 1931 (Libia)

Il muro italiano in Libia si presenta come una doppia linea di recinzione metallica lunga 270 chilometri, larga quattro metri, alta tre, visibilmente malandata ma resa insuperabile da chilometri di matasse di filo spinato che si srotolano dalle regioni a ridosso del porto di Bardia, lungo le sterpaglie desolate della Marmarica, fino a perdersi nel Grande Mare di Sabbia del Deserto Libico.
Questa grande opera venne commissionata alla Società Italiana Costruzioni e Lavori Pubblici di Roma, che la realizzò in sei mesi, dal 15 aprile al 5 settembre 1931, ad un costo complessivo di circa venti milioni di lire, impegnando nella costruzione 2.500 indigeni sorvegliati da 1.200 soldati e carabinieri, lungo un percorso totalmente privo di strade e di risorse idriche.
Il reticolato di filo spinato è sostenuto da paletti di ferro con base in calcestruzzo, vigilato dai ruderi fatiscenti di tre ridotte e sei ridottini. Lungo il suo percorso venero costruiti tre campi d’aviazione, una linea telefonica, vennero utilizzati 270 milioni di paletti di ferro e ventimila quintali di cemento.

Non potendo che apparire come ben piccola cosa di fronte all’immensità del paesaggio che la ospita, la presenza di questo muro colpisce perché oltre ad essere nel deserto, è deserto. Il compito di sorveglianza e controllo è sempre stato principalmente garantito dall’innesco di migliaia di mine antiuomo, cioè armi automatiche che esplodono e uccidono selettivamente, tutte le volte che vengono attivate da presenze umane.
Per un certo periodo, va però detto che fu oggetto di ricognizioni aeree sistematiche che venivano audacemente condotte, oltre che dai piloti dell’Aeronautica Militare, anche e direttamente dal loro capo supremo e Maresciallo dell’Aria Italo Balbo.
Oltre al muro, Balbo continuò a mantenere in vita quello che era stato fatto prima e qui negli anni precedenti: missioni e bombardamenti aerei.
E le derivazioni dei trimotori Savoia Marchetti usati da Balbo nelle transvolate atlantiche divennero caccia bombardieri siluranti chiamati Sparvieri, che continuarono ad essere utilizzati contro un’etnia composta da famiglie di pastori nomadi o seminomadi considerati ribelli, in bombardamenti incendiari e tossici.
Nei sei anni che Balbo visse e volò in Libia lo Sparviero abbatté tutti i record e tutti i primati di volo civile, velocità, trasporto, durata, distanza.
Poi il salto di qualità e da civile divenne un aereo militare: nella versione militare S.79K, il primo impiego operativo di 99 veivoli di questo tipo avvenne con l’intervento italiano nella guerra civile spagnola come “Aviazione Legionaria” e il 26 aprile 1937, tre S.M.79 dell’Aviazione Legionaria presero parte al bombardamento della cittadina basca di Guernica, un’incursione aerea compiuta (sotto il nome in codice di Operazione Rügen) in cooperazione con la Legione Condor nazista, che colpì nottetempo la popolazione civile inerme e ispirò il celeberrimo dipinto di Pablo Picasso.

L’allontanamento dal Ministero aveva eliminato Balbo dal centro del sistema di sviluppo industriale dell’Aeronautica, per cui lui, dopo esserne stato il motore e l’immagine, si ritrovò ad occuparne il ruolo di fantasma dell’opera in corso.
Sette anni prima era alla guida di imprese di voli transatlantici: il primo nel 1930 da Orbetello a Rio de Janeiro; il secondo tre anni dopo, da Orbetello a Chicago. Questa seconda crociera atlantica, organizzata per celebrare il decennale della Regia Aeronautica Militare Italiana nell’ambito dell’Esposizione Universale Century of Progress che si tenne a Chicago tra il 1933 e il 1934, lo aveva coperto di gloria.
Il governatore dell’Illinois e il sindaco della città di Chicago riservarono ai trasvolatori un’accoglienza trionfale: a Balbo venne intitolata una strada, tutt’oggi esistente, e i Sioux presenti all’Esposizione lo nominarono capo indiano, con il nome di Capo Aquila Volante. Il volo di ritorno proseguì per New York, dove il presidente Roosevelt organizzò, in onore agli equipaggi della flotta di 25 idrotransvolanti italiani, una grande street parade. Italo Balbo fu così il secondo italiano, dopo Diaz, ad essere pubblicamente acclamato per le strade di New York.
Gli esaltatori delle trasvolate atlantiche non mancano di citare ogni tipo di manifestazione organizzata a Chicago in onore del grande pilota: chissà perché omettono sempre di citare lo striscione che recitava “Balbo, don Minzoni ti saluta” e che commemorava il suo precedente onore acquisito come pioniere omicida dello squadrismo fascista.

Italo Balbo diario 1922Là, in Italia, partendo dalle valli del delta padano, aveva visto portare a compimento grandi opere di bonifiche che strapparono alle acque nuove terre da coltivare e nuove forme di diritti sindacali da reprimere grazie alla ”esaltazione della violenza come il metodo più rapido e definitivo per raggiungere il fine rivoluzionario”(Italo Balbo, Diario 1922, Mondadori).
Sempre là, nella bassa provincia Ferrarese, aveva inaugurato la strategia criminale delle esecuzioni mirate come responsabile diretto, morale e politico dei due omicidi premeditati, da lui considerati ’bastonate di stile’, che significavano frattura del cranio, somministrate al sindacalista Natale Gaiba e al sacerdote don Giovanni Minzoni.
Natale Gaiba venne assassinato per vendicare l’offesa, compiuta quando il sindacalista argentano era assessore del Comune di Argenta, di aver fatto sequestrare l’ammasso di grano del Molino Moretti, imboscato illegalmente per farne salire il prezzo, venisse strappato ai latifondisti agrari e restituito al popolo che lo aveva prodotto coltivando la terra, ridotto alla fame.
don minzoniDon Minzoni, parroco di Argenta, venne assassinato dai fascisti locali: Balbo non volle ammettere che fossero stati individuati e arrestati coloro che organizzarono l’assassinio e intervenne in molti modi, anche con la costante presenza in aula, per condizionare lo svolgimento e il risultato sia delle indagini che del processo penale, garantendo l’impunità del crimine.
Più infame ancora dell’appoggio politico e morale agli assassini, la diceria che don Minzoni fosse rimasto vittima di una ‘questione di donne’ e avesse un’amante, ignobile falsità costruita a partire da una colletta fatta dal parroco per consentire a una contadina di andare a nozze con un vestito degno: calunnia propagata anche dalle pagine del Corriere Padano, il quotidiano fondato da Balbo che chiamò Nello Quilici a dirigere immediatamente dopo che quest’ultimo, in qualità di caporedattore del Corriere Italiano, venne coinvolto a Roma nell’ambito delle indagini sul rapimento e omicidio dell’on. Giacomo Matteotti, segretario del Partito Socialista Unitario.

Qui, in Libia, Italo Balbo trovò condizioni esattamente contrarie e non riuscì a trovare, nemmeno con la forza, l’acqua sufficiente da donare alla terra di quei pochi coloni veneti e della bassa ferrarese, disperati e poverissimi, che, sotto l’enfasi propagandistica del regime, lo avevano raggiunto, si erano rimboccati le maniche e si erano illusi di rendere verde il deserto.
Fu sempre qui, in Libia, che Balbo, per tragica ironia della sorte o per fatale coincidenza, precipitò realmente in una voragine di sabbia e trovò la morte, colpito dal fuoco amico della artiglieria contraerea italiana.
Non fu peraltro l’unico ferrarese a rimanere vittima e protagonista di questo oscuro episodio avvenuto il 28 giugno 1940 nei cieli e sul suolo di Tobruk agli inizi della Seconda Guerra Mondiale. Con un ennesimo tributo di sangue vanamente versato qui, sulla sconfinata superficie libica, dove un muro difensivo alto pochi metri, è il beffardo simbolo di una torre di Babele che avrebbe dovuto innalzarsi fino in cielo, assieme a lui persero la vita anche i suoi più cari parenti e fidati collaboratori.

Evidentemente, mentre lui seguiva le orme dei grandi colonizzatori italiani, qualcos’altro stava seguendo le sue tracce, poiché la responsabilità storica di quanto avvenuto per sbaglio, come tragico errore e incidente di guerra, venne assunta in prima persona da un capo pezzo del 202 Reggimento di Artiglieria, che ammise di aver sparato raffiche di artiglieria contraerea all’indirizzo del trimotore Savoia Marchetti 79 pilotato dal suo comandante supremo nonché concittadino Italo Balbo, essendo significativamente pure lui, Claudio Marzola, 20enne, un ferrarese purosangue.
I colpi letali partirono da una delle tre mitragliatrici da 20 mm in dotazione a un Incrociatore Corazzato della Marina Regia che permaneva in rada semiaffondato e a scopo difensivo antiaereo, varato con lo stesso nome del santo patrono della città di Ferrara: San Giorgio.
Al momento del varo, avvenuto a Genova nel 1911, il motto dell’Incrociatore San Giorgio fu “Tutor et ultor” e a partire dal suo impiego nel primo e nel secondo conflitto mondiale venne cambiato in “Protector et vindicator” (Difensore e vendicatore).

Leggi la Prima Parte [Qui], la II [Qui],la III [Qui], la IV [Qui], la V [Qui], la VI [Qui]

Franco Ferioli, l’inviato di Ferraraitalia nel tempo e nello spazio, è il curatore della rubrica Controinformazione. C’è un’altra storia e un’altra geografia, i fatti e misfatti dell’Occidente che i media preferiscono tacere, che non conosciamo o che preferiamo dimenticare. CONTROINFORMAZIONE ci racconta senza censure l’altra faccia della luna,

Le storie di Costanza /
Carla Fracci, una Cenerentola intramontabile

 

Oggi è il 27 maggio 2021 ed è morta Carla Fracci, la più grande Prima Ballerina Etoile che il Teatro Alla Scala di Milano abbia mai avuto. Aveva ottantaquattro anni. Addio a un mito assoluto della mia infanzia. A una ballerina straordinaria.
Carlina, come la chiamava suo padre, aveva i nonni a Volongo, un piccolo paese della pianura Padana, non lontanissimo da Pontalba.

Arriva Valeria di corsa e irrompe nello studio dove sto lavorando.
“Zia Costanza! È morta Carla Fracci” dice. Sa che questa è per me una notizia significativa. Nutro per questa grande artista un’ammirazione che è durata una vita e che non si prosciugherà mai, continuerà ad alimentarsi grazie alle riprese dei suoi straordinari balletti.
E’ stata la più grande danzatrice di questo secolo. Sono sue alcune dei più conosciute e famose interpretazioni di ruoli romantici e drammatici, come Giselle, La Sylphide, Giulietta, Swanilda, Francesca da Rimini, Medea. Ha danzato con i più bravi ballerini del mondo: Rudolf Nureyev, Vladimir Vasiliev, Henning Kronstam, Mikhail Baryshnikov, Marinel Stefanescu, Alexander Godunov, Erik Bruhn, Gheorghe Iancu, Roberto Bolle.

La danza classica è molto impegnativa presuppone carattere, tenacia, allenamento costante, una dedizione assoluta, il controllo continuo del peso e della mobilità articolare.
Uno dei banchi di prova delle ballerine professioniste è costituito dai “fouettés en tournant”.
Si tratta di giri in punta su una gamba di perno mentre quella di lato funziona da frusta (45° alla seconda e passé con rond).
“ Zia mi senti, a cosa stai pensando?” chiede Valeria.
“Stavo pensando a quando Carla Fracci era giovane  e ballava Cenerentola”.
“Doveva essere molto brava”.
“Non solo era molto brava, era straordinaria.” le dico e lei piega la testa in segno d’assenso.

“Ma le hai ancora le scarpe di raso rosa con la punta di legno?”
“Non è legno, è gesso!” dico.
“Va beh, non fa molta differenza. Mi sono chiesta spesso perché le ballerine si rovinano i piedi con quelle scarpe tremende. Fanno male ai piedi solo a guardarle”.
“Per essere leggiadre e leggere come tante farfalle in primavera”.
“Ok ok” dice Valeria anche se continua a chiedersi come mai quelle punte di gesso possano davvero fare la differenza.
Recentemente è stato brevettato un nuovo tipo di punte. I componenti di supporto sono costruiti con materiali elastomerici infrangibili. Le punte da ballo sono rivestite una schiuma cellulare di uretano, lo stesso tipo di materiali che si trova nelle migliori calzature sportive. A differenza delle altre, le scarpe con questo particolare tipo di punta non si deformano né si deteriorano, durano cinque  volte in più delle tradizionali e possono essere lavate in lavatrice. Bel passo avanti davvero.

Ripenso a Carla Fracci e provo a visualizzare mentalmente alcune sue performance. Ma cosa era che la rendeva davvero così unica? Sicuramente una tecnica perfetta, ma anche una grande espressività, una capacità importante di “entrare nella parte”, di immedesimarsi nei sentimenti della protagonista dell’opera. Se uno guarda Cenerentola ballata dalla Fracci, non si vede Carla Fracci che balla, ma si vede Cenerentola. Una Cenerentola in carne ed ossa che ti trascina nel suo mondo fatto di sofferenza, di sorprese inaspettate e di un lieto fine così travolgente da far sognare tutte le bambine/adolescenti/donne che la guardano. Una eleganza intramontabile, una gestualità morbida e armoniosa che non lascia assolutamente niente al caso.  Una Cenerentola che si muove leggerissima ed elegante e che sfiora la terra volteggiando con il suo  principe in una favola che sa d’eternità. Carla Fracci è riuscita a fare questo, è riuscita a trasportarci in favole e storie  eterne dove il tempo si è fermato per assaporare una attimo di poesia, di eleganza, d’amore. Una danza espressiva piena di lacrime e sorrisi, un viso delicato e raffinato su cui spiccavano occhi scuri, intelligenti e profondi. La fatica nella danza di Carla Fracci non si vede, le lunghe ore alla sbarra, le prove infinite, i piedi pieni di vesciche. Non lo si vede affatto, non lo si ricorda perché non appartiene alla rappresentazione.

Forse è proprio questo ciò che di straordinario  quella ballerina è riuscita a fare. E’ riuscita a staccare la rappresentazione dalla realtà. Ci ha fatto entrare talmente dentro le storie che il suo corpo raccontava, che ci siamo dimenticati che quel corpo stava facendo fatica, stava soffrendo e forse anche sentendo male. Nei balletti di Carla Fracci, come in tutto ciò che sembra quasi eterno, non c’è dolore, c’è una sospensione del tempo ordinario che sa portare lontano, in mondo diverso dove leggere danzano le ore, senza ancoraggio a nessuna quotidianità. Quella donna leggiadra ha spiccato più volte un volo verso il cielo. In una specie di sfida alla gravità, annullando il tempo, contro la caducità di tutti  i sentimenti terreni verso il recupero di una spiritualità che sa d’eterno.
Credo ci sia una relazione tra l’arte vissuta a questi livelli e la spiritualità. C’è anche una relazione tra l’arte e l’uso appropriato del corpo. Un corpo che si piega con i suoi movimenti al volere dell’artista, plasma una storia e la rende vera, veritiera, auspicabile e realista.

Oggi Carla Fracci è morta ma la sua arte è eterna e insieme alla sua arte è diventata eterna lei.
Quella bambina che aveva i nonni che abitavano a Volongo e d’estate passava sempre le vacanze nei campi della pianura padana, ha saputo allungare una briciola di vita fino a farla diventare infinita, ha saputo coprire con un manto stellato un po’ del suo tempo e farlo diventare un sogno.
L’arte è così, la liberazione della creatività a servizio della rappresentazione è così, la danza è così e lo è nella misura in cui sa fondere gestualità, corporeità, musica e pathos. Nella danza di Carla c’è molto Pathos.

“ Ogni tempo ha i suoi grandi artisti” dice Valeria.
“Si” le rispondo. “Carla Fracci, lo è sicuramente stata”.
“Anche Virna Toppi lo è” dice Valeria.
“Si” le rispondo. “Anche Virna Toppi è bravissima. Una grande ballerina”.

Ma Virna Toppi è giovane, sulla cresta dell’onda adesso, proprio adesso mentre io e Valeria siamo qui nel mio studio a ricordare una grandissima ballerina che ci ha appena lasciato.  Proprio in quest’attimo in cui la morte ha interferito in quell’incredibile mondo che Carla Fracci ha saputo creare e rendere eterno. E proprio in questo tremendo attimo, il dolore è riuscito a perforare l’eternità poetica che lei stessa ha saputo creare.  Come se lei fosse l’unica in grado di riportarci al mondo, dopo averci trascinato via. Pochi a questo mondo hanno saputo fare tutto ciò, renderlo vero almeno per un po’.

Quando un corpo si muove con eleganza affascina, l’armonia del gesto è una delle premesse di quasi tutte le forme d’arte.

Prendee anca questa questa, la ghà un bel faccin” disse nel 1946 la direttrice della scuola di danza della Scala, rendendo felice oltre alla bambina, suo padre Luigi Fracci, il manovratore che col suo tram Linea Uno passava tutti i giorni davanti al Piermarini.

A ME BATTIATO…
Memorie di un giovane catanese

 

A me Battiato ha fatto chiedere cosa fosse la Patria, anni ’90, periodo delle autobombe, io bambino siciliano, di famiglia militante antimafia.
Fisiognomica e altri album mi hanno fatto domandare e sentire quanto fossi vicino a popoli del sud e dell’est del mediterraneo. Una Sicilia che è sempre stata terra di molti popoli, la stessa che in queste decadi istupidite (e non da sola) dagli schermi, dal tutto fatto e pronto, forse va perdendo questi suoi millenari attributi. Battiato faceva concerti ballando su tappeti persiani, danzava danze di quelli che oggi crediamo barbari del sud, meditava nei deserti (non riducendo il mondo a un idiota scontro di civiltà).
Battiato dava suono ai suoni e agli ambienti della terra nostra, di altre terre vicine, oltre che del sintetizzatore e della propria mente.
A 16 anni, investito da un motorino, investivo l’obolo dell’assicurazione così: una bicicletta, un mucchio di rullini fotografici e quasi tutta la discografia di Battiato disponibile all’epoca (poi lentamente ma piacevolmente dispersa tra i vari amici che la chiedevano, più o meno esplicitamente, in prestito). Così ho avuto modo di ascoltare quasi tutto, dai primi pezzi elettrizzanti incomprensibili e cacofonici, a quelli più orecchiabili e (diciamo) “intuibili”. Per cui su tutte le conversazioni che avevamo da adolescenti, soprattutto nelle estati calde, ormai bolognesi, traboccavano delle citazioni da Battiato.
Il trascorrere del tempo e delle cose ha ridotto di molto la mia disponibilità ad ascoltare i suoni della natura, degli ambienti, e ad apprezzare la morbidezza della loro comunicazione, umana, animale, ambientale. Al suo posto è entrato, non un sintetizzatore, ma un linguaggio macchina, che oggi permea la vita dei più, e sta rimodellando, nostro malgrado, il nostro modo di sentire. Dove il modello di riferimento è qualcosa di digitale, discreto (in senso matematico), poco sfumato, prevedibile e ordinato. Per via del tempo dato alla riflessione, nel tempo musicale, Battiato è per me un simbolo in controcorrente.
Una volta (decisamente prima della moda dei vinili) incredibilmente trovai una copia usata in vinile di Giubbe Rosse. Album specchio del mio sentire di giovane catanese (…e le lucertole attraversano la strada…). La regalai a una ragazza di cui ero innamorato.
Da quarantenne discreto, ordinato e razionale, potrei dire che è una cazzata, perché se piaceva a me non vuol dire che piacesse a lei. Ma è nei tempi morti, nelle sfumature, nel mistero che non abbandona il proprio spazio all’efficienza che possiamo contemplare, la natura dentro e intorno a noi, il sentire, le emozioni.

cover: Franco Battiato al Festival Gaber, 2010 (wikimedia commons)

FANTASMI
Una cosa talmente piccola

 

Una nevicata così se la ricordava solo da bambina. Quanti anni poteva avere? Poteva avere cinque anni? Forse invece non l’aveva mai vista in vita sua una nevicata così, e tutto quel bianco la portava indietro, a quando era molto piccola, o anche prima, prima ancora che le cose avessero un nome. Mentre lo aspettava – e questa non era una novità perché buona parte della sua giornata la passava ad aspettarlo – non poteva staccare gli occhi dalla grande finestra. Dietro quel muro bianco in confuso movimento non si vedeva niente.
Una settimana dopo era già tutto finito, concluso, archiviato. Aveva anche smesso di piangere, e aveva dovuto insistere, quasi arrabbiarsi con sua sorella: SI’ CAZZO, sono sicura, voglio solo stare un po’ sola, è permesso? E sua sorella: Ma guarda Nora che non mi costa nulla rimanere, a casa mia è tutto sistemato, ci facciamo qualcosa per cena.
Le aveva risposto male: NO, DICO DAVVERO, VA VIA!, scusami, prometto che domattina ti chiamo.
C’è ancora un po’ di neve in città, sul prato dei giardinetti e in piccoli mucchi sporchi e ghiacciati sui bordi delle strade, la temperatura è scesa di dieci gradi. Nora è sola, cammina per le stanze, ha compiuto 56 anni a ottobre, non è neppure vecchia. Mentre si muove per la casa, le viene in mente che dovrebbe occupare meglio quel tempo, pensare a qualcosa di utile ma non riesce a smettere di camminare, non riesce a fermarsi su un pensiero, ecco, l’ha trovato un pensiero, è un ricordo recente. Nella camera da letto del figlio, è lei che parla: Allora ti prendono? Lui ride, – Va piano mamma, è solo un provino, vado a Milano con il mister e per tre giorni mi alleno con la Primavera, mi vedono giocare, mi fanno tutti i test medici, alla fine mi diranno qualcosa. – Lei aveva sentito un tremito, una piccola paura che le si allargava dentro, ma era una cosa che il figlio non doveva vedere. Così ricordava una per una le sue parole: – Fammi capire bene, vuol dire che potresti andare a stare a Milano? E io, e il liceo, la maturità? No, caro mio: Mi oppongo vostro onore! – Così si erano messi a ridere tutti e due.

A Milano, al provino del Milan, non aveva fatto in tempo ad andarci. Per poco però, sarebbero bastati due giorni in più. Così se n’era andato da “non calciatore”, o almeno da “non ancora calciatore”. Ma sarebbe stato un calciatore o un fisico teorico? O un ingegnere come suo nonno? Oppure? Lui poteva diventare veramente tutto, perché lui era bello, lui era intelligente, lui era giovane, lui era buono. Così ragionano le mamme dei loro figli, così Nora ragionava fra sé. Le venne una voglia improvvisa di spaccare qualcosa, a mani nude, un vetro, un oggetto, un vaso da fiori. Era ancora molto incazzata, con Dio naturalmente, esattamente come Giobbe, fanculo, molto di più di Giobbe. Poi le vennero, lei li chiamava così, i pensieri paralleli. Lei non li chiamava ma loro arrivavano lo stesso. Se non avesse preso la bicicletta? Con quella nevicata poi. E se non fosse uscito per niente? Che bisogno c’era di uscire, col freddo, la neve, il buio? Se invece si fossero messi a fare la loro gara di solitari? Vinceva più lui che lei, gli venivano quasi sempre, lo zoppo, la piramide, Napoleone, e senza imbrogliare. Anche quando era un bambino piccolo e sbagliava i verbi e inventava le parole, vinceva lui, senza trucco e senza inganno. Scartò quei pensieri, non erano solo inutili, le facevano proprio male. Si concentrò sull’unico pensiero, sull’unica cosa che importava, il tormento di quell’ultima settimana. Dov’era ora il suo Luca?

Passò un anno, un anno intero, non le sembrava giusto e possibile ma passò ugualmente, e si era ancora in inverno, ancora faceva buio alle cinque, fuori ancora nevicava fitto. Non era cambiato molto o poco in quella casa. Nora adesso aveva 57 anni, ma vestiva allo stesso modo, si incantava davanti alla grande finestra, cercava di guardare attraverso il bianco confuso della neve, camminava per le stanze, pensava quello stesso pensiero.
Non era vero che non era cambiato niente. Da alcuni giorni e alcune notti Nora aveva una nuova idea. Una cosa per passare il tempo? Forse poteva chiamarlo così, un passatempo, un passatempo innocente, e se era una cretinata chissenefrega, e se era una follia chissenefotte. Quell’idea gliela aveva messa in testa suo fratello, senza volere, anzi volendo la cosa contraria, perché suo fratello Luca – si chiamava Luca anche lui come suo figlio ma il suo Luca era diverso – era una persona positiva, talmente impegnato nella sua azienda. Le telefonava tutte le settimane. Tutti i lunedì alle diciannove e trenta, e non saltava una settimana. Al telefono Nora sentiva la voce grossa del fratello maggiore che compiva il suo dovere e le diceva cosa doveva fare. Glielo ripeteva da un anno, Nora devi uscire, devi vivere! Ma sì, pensava Nora, era un discorso molto ragionevole, anche se ci sarebbe stato da discutere. Invece rimaneva zitta, sapeva che l’amore per la sorellina Nora si traduceva in lui solo in quell’imperativo categorico che aveva guidato tutta la sua vita. Così Nora ascoltava il fratello, si sottoponeva docilmente alle periodiche telefonate, ma non si piegava. Nonostante quel mantra settimanale, lei si limitava a sopravvivere, rimaneva preferibilmente sola, più o meno chiusa in casa, mangiando quasi niente, smettendo ogni occupazione e interesse.

Suo fratello non era abituato ai rifiuti. Come tutti gli uomini potenti non poteva sopportare l’impotenza. Non fosse stata la povera Nora, la sorella che aveva perso l’unico figlio, si sarebbe di sicuro alterato, avrebbe gridato e sgridato, sbattuto il pugno sulla scrivania. Con Nora sembrava una battaglia persa. Ma qualche giorno prima, l’ultima telefonata non gli era riuscita né paterna né affettuosa, si era invece conclusa con una vera e propria filippica. – Ascoltami bene Nora, Luca è morto e di lui quaggiù non è rimasto niente, niente di niente. –  Anche questa volta Nora lo aveva ascoltato, in silenzio, non ce l’aveva con la furia impotente del fratello. Ma anche questa volta non era d’accordo con lui.
Eppure lui le aveva detto qualcosa di nuovo, una piccola parola aveva messo in moto una enorme macina nel suo cervello, era come se si fosse spalancata una porta. Nora spense il cellulare e provò a guardare oltre quella porta, a inquadrare una cosa di cui non vedeva ancora bene i contorni, proprio come ci capita davanti a una fotografia che riconosciamo ma di cui non distinguiamo bene le figure fuori fuoco. Doveva pensarci, pensò, doveva lavorarci su.

E Nora ci lavorò, di giorno e di notte soprattutto, perché la notte i pensieri scivolano meglio gli uni sugli altri, liberi dal guinzaglio stretto del nostro io. Dopo appena due giorni Nora aveva raggiunto il primo risultato. Sembrava, alle prime, una semplice riflessione, un pensiero celibe come tanti, ma l’intuizione trovò presto conferme, così Nora la promosse al rango di una tenue certezza, infine sentì come il sapore di una vittoria, la prima dopo tanti mesi. Di fronte a lei, dentro di lei, vedeva e toccava una verità a prova di ogni confutazione. Come aveva detto suo fratello Luca? Non è rimasto niente di niente, aveva detto. Ma come era possibile? Sentiva che per nessuna ragione al mondo il suo Luca, morto a 17 anni in bicicletta per colpa di un camionista disattento, avrebbe potuto andarsene, liquefarsi, sparire del tutto. Fosse stata pure la regola aurea dell’Aldilà, l’avessero anche costretto con gli schiaffi o i forconi, o l’avesse voluto lui stesso, per stanchezza o voglia di oblio, in tutti i casi possibili, immaginabili e inimmaginabili, il suo Luca non poteva lasciarla sola, senza di lui, senza niente di lui. Luca, questo pensava ora Nora, doveva essere lì, da qualche parte ma non troppo lontano. Almeno un pezzetto di Luca, un piccolo resto, un frammento, una scheggia, una semplice ombra. Dopo tanto tempo, Nora provava qualcosa di molto vicino alla felicità. Non era un pensiero razionale? Chissenefrega, chissenesbatte, chissenefotte, Nora si congratulò con se stessa. Strinse forte le mascelle, adesso cominciava la parte più difficile.

Ma dove? Iniziava la caccia, le venne da ridere, era la sua caccia al tesoro. Rimase qualche minuto indecisa. Si guardò intorno, cercava un segno, un’ispirazione come la chiamava sua nonna. Ma dove? Nella camera da letto di Luca – era rimasta come quel giorno, lei non aveva toccato niente – o nella libreria, infilato tra un volume e l’altro, o nelle pieghe del divano, dietro la tela del quadro dello sconosciuto antenato, o in dispensa tra le bottiglie di conserva e i vasi di marmellata di marasche. Luca a sette anni ne aveva svuotato uno tutto intero, armato solo di un cucchiaino. Oppure in garage, sotto la sella della sua moto, nel cassetto dove stavano tutti gli attrezzi del mondo, o nel ripostiglio dove non guardava mai nessuno. Oppure. Potrebbe. Forse. Magari. E se fosse nella grande cassa in soffitta, dove dormivano i suoi giochi di bambino. Bisognava entrare nella testa di Luca: “quella cosa” l’aveva lasciata dietro di sé prima di andarsene, certo, potrebbe essere, ma forse lui “quella cosa” era tornato indietro dopo, era tornato apposta per riportarla, per darla a lei, per lasciarla a lei. Nora cercava, pensava e cercava, con gli occhi, col naso, le orecchie. Cercava di giorno, ma di notte soprattutto, a luce spenta, perché nel buio non c’è nulla che ti distrae ed è più facile scoprire i tesori nascosti.

Quella domenica mattina c’era un bel sole, quel sole d’inverno che non scalda il corpo ma l’anima sì, le venne in mente la canzone di Jannacci, “c’era un bel sole che bruciava gli orti, c’era un bel sol e asciugava i morti”. Cercò la canzone su Youtube e la mise a tutto volume. Quando un’ora più tardi, come tutte le domeniche mattine, arrivò sua sorella la trovo così, in piedi, vestita con il suo vestito a fiori rossi e gialli. In camera da pranzo Nora ballava da sola mentre andava la musica. Era un ballo lento, leggero, pieno di grazia. Sua sorella si fermò a guardarla sulla soglia della stanza e vide Nora a sedici anni appena compiuti, come l’aveva amata e come l’aveva invidiata. Ma in questa mattina di sole Nora è proprio strana e non è proprio vero che balla, sembra come dondolarsi, si culla, si abbraccia. Nella mano destra stringe una cosa segreta, una cosa raccolta chissadove. Non è una cosa grande, né una gran cosa, deve essere un oggetto minuscolo per stare tutto intero nella piccola mano di Nora. La sorella non ha mai visto in vita sua una scena del genere. Ma ecco, non c’è da preoccuparsi, ora Nora la sta guardando, mentre balla le sorride.

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Maggio 2060: Galassia-111

 

Mia figlia Axilla ha vent’anni e assomiglia a mio marito Luca e alla sua famiglia.
Mio figlio Gianblu ne ha diciotto e assomiglia a mia madre e alla zia Costanza. Oltre alla somiglianza fisica, Gianblu assomiglia ai Del Re anche per aspetti caratteriali. Gli pace leggere le poesie della zia Costanza e poi interrogarla su quando le ha scritte, su chi e cosa le ha ispirate. Gli piace la vecchia soffitta della casa di via Santoni, il giardino della zia Costanza con i cespugli di ortensie, la voliera con i canarini e le due gatte soriane dal manto scuro. Ogni tanto mi ricorda che c’è un po’ di confusione sui nomi delle due gatte, ed è vero. Quella che si chiama Ombra è di color nero e quella che si chiama Nera è tigrata, a strisce marroni e nere. Le gatte non sono state chiamate così per una precisa strategia, o per divertire la gente, ma in maniera casuale. Nera ha quel nome perché la prima volta che la zia e Axilla l’hanno portata dal veterinario, questi ha aperto la cartella sanitaria del felino e ha chiesto il nome. La zia e Axilla si sono guardate senza sapere cosa rispondere, perché la gatta veniva regolarmente chiamata Gatta e non aveva un nome vero e proprio. La zia ha guardato Axilla e le ha detto:
– Dai Axy scegli un nome
– Ma io non so che nome darle – le ha risposto Axilla,
– Il primo che ti viene in mente
– Nera – ha detto Axy e così, senza farselo ripetere due volte, il veterinario ha registrato il nome e la gatta è passata dal chiamarsi Gatta al chiamarsi Nera in un batter d’occhio.

Nera è così diventato il suo nome ufficiale anche se, in casa, non riuscendo a dimenticarci il modo in cui era sempre stata chiamata, le è stato appiccicato il nuovo nome a quello già consolidato e il nome di Gatta è diventato Gatta-Nera. Già questo era un po’ una stranezza, ma non è finita lì. Gatta-Nera, prima di essere sterilizzata, ha fatto quattro meravigliosi micini. Tre li abbiamo regalati e uno l’abbiamo tenuto. È una femmina con un manto folto, lucidissimo e nero, sembra una piccola pantera. Una gatta bellissima, l’ha detto anche il veterinario.

Questa volta la zia e Axilla non si sono fatte sorprendere e, prima di portarla al controllo sanitario, hanno scelto il nome. La piccola pantera si chiama Ombra, di certo non la si poteva chiamare Nera visto che Gatta-Nera è sua madre. Così, a causa di questo strano incrocio di eventi e casualità, non è la gatta nera a chiamarsi Nera, ma la gatta tigrata detta Gatta-Nera. Ogni volta che lo raccontiamo, le persone ridono di gusto. Chi non ride è la zia Costanza che sostiene che i nomi delle sue gatte non hanno niente di buffo, anzi sono seri e molto belli. Ma lei è unica, come sempre.

Questa vicenda diverte anche Prisca, l’amica di Axilla, che se l’è già fatta raccontare più volte.
Prisca va spesso con Axilla e Galassia-111 a trovare la nonna e la zia Costanza nella vecchia casa di via Santoni Rosa al numero civico 21. Come arrivano, entrano in casa, si tolgono i cappotti e si mettono a cercare Gatta-Nera e Ombra. Anche Galassia-111 ha un cappotto impermeabile, perché le apparecchiature elettroniche temono molto le infiltrazioni d’acqua che le danneggiano irrimediabilmente. I temporali improvvisi sono una delle principali cause di morte dei nostri Robot. Queste straordinarie macchine assomigliano ai loro proprietari, li imitano e acquisiscono da loro le modalità di comportamento. Amano stare all’aperto, giocare, leggere, parlare e fare tutto quello che fanno i loro umani di riferimento, oltre a svolgere i lavori per cui sono stati programmati.

Dopo essersi tolte il cappotto Prisca e G-111 si guardano intorno e poi compiono dei saluti di rito.
Galassia-111 è molto veloce nei saluti. – Ciao a tutti – dice, mentre Prisca fa il giro di tutti gli umani di via Santoni (li chiama i Santoniani) e degli animali domestici. Poi, quasi sempre, mentre Galassia-111 dice che vuole una caramella e trova qualcuno che gliela offre, Prisca saluta Pit-x, il canarino-robot della zia.
– Ciao Pit-x, pit pit.
– Pit – risponde il robot-canarino della zia,
– pit pit – dice Prisca
– pit pit pit – dice Pit-x.

Prisca salute sempre anche le gatte:
– Ciao Gatta-Nera tigrata e ciao Ombra nera.
Abbiamo notato che i nomi delle gatte mandano in confusione i circuiti meccatronici di G-111. Comincia a dire:
– Gatta-nera-tigrata-ombra-nera – ma, in fila a quel modo, le parole non le sembrano sensate e allora comincia a mescolarle cercando di costruire una catena di senso:
– Gatta-ombra-tigrata-nera-nera – e poi: – Ombra-nera-tigrata-nera-gatta – e poi ancora: – Nera-nera-tigrata-gatta-ombra.

Nel corso di questi ultimi anni, Galassia-11 ha cercato più volte di trovare un senso alla catena di parole che si può comporre con i nomi delle nostre gatte, inanellando tutte le combinazioni possibili, fino a quando una volta ha esclamato:
– Sbaglio, sbaglio! C’è una parola in più! Non bisogna ripetere “nera” due volte ma: “Gatta-tigrata e Ombra-nera”.
Siamo rimasti di stucco. I colori delle due gatte erano stati ricomposti semplicemente eliminando una parola di troppo (il secondo nera) ed erano quelli giusti. Non sappiamo come, Galassia-111 era riuscita ad associare il vero colore delle gatte al loro nome, semplicemente eliminando il “doppio nera” e, per uno strano caso, la sequenza aveva acquisito una sua verità ed efficienza.

Il mondo dei Robot è sorprendente, l’acquisizione per imitazione combinata alla programmazione elettronico-informatica sa davvero stupire.  Dopo esserci ripresi dall’exploit di G-111 ci siamo chiesti come fare a spiegarle che in realtà non c’è un nome di troppo, ma che i nomi delle gatte non corrispondono al loro colore. Come dirle che, per una strana confusione, il nero non era associato alla gatta nera, ma era il nome proprio della gatta tigrata, come dirle che Gatta era usato, sia come nome generico, che come nome proprio, che Ombra era il nome della gatta nera, che, anche se Gatta era tigrata, non si chiamava Tigrata, ma Gatta-Nera per un miscuglio di tradizione, casualità e bizzarria di Axilla e Costanza, di fretta del veterinario. In quel momento abbiamo evitato di provarci e nessuno ha commentato l’errata conclusione del rebus da parte di Galassia-111.

Passati alcuni giorni Prisca, convinta che il suo Robot sia il più intelligente di Pontalba, ha provato a spiegarle la situazione. Abbiamo visto uno spettacolo incredibile. Il circuito elettronico che aiuta G-111 a ragionare, ha cercato di nuovo di trovare un senso logico alle informazioni che le stava trasmettendo Prisca, ma non c’è riuscito. L’abbiamo vista stare prima ferma immobile senza dire nemmeno una parola, poi cominciare a roteare le telecamere degli occhi, poi a roteare le braccia meccaniche in maniera vorticosa e, infine, l’abbiamo sentita ripetere: – nera, nera, nera, nera, nera, …- Mamma mia che spavento abbiamo preso quel giorno!.

Il cervello di Galassia-111 è andato ‘in loop’. La scienza informatica definisce ‘loop’ una operazione che si ripete in ciclo, di solito in modo controllato. Può durare N volte (cioè un numero definibile di volte), o finchè non si verifica una particolare condizione. Oppure, come nel caso di Galassia-111, si dice che un programma è andato ‘in loop’, quando si mette nelle condizioni di girare su se stesso all’infinito, a causa di un errore di programmazione, o del verificarsi di accidentalità non previste in sede programmatoria.
Povera Robot, era nei guai. Il suo cervello si era confuso ed era entrato in un potente loop, continuava a ripetere “Nera, nera, nera, nera, nera …”  con le telecamere strabuzzate dalle orbite e le braccia che mulinavano paurosamente.

Prisca vedendo la scena si è messa a piangere, mia madre a ridere di gusto e Axilla, con il suo solito sangue freddo, ha preso il telefono e chiamato Luca, suo padre, che è un ingegnere elettronico molto bravo.
– Paaaa aiuto!
– Ciao Axy, cosa ti succede?
– Galassia-111 sta male, non capisce il nome delle gatte della zia Costanza e continua a ripetere nera, nera, nera, nera, nera …
– C’era da aspettarselo – ha commentato Luca con un tono di voce poco sorpreso.
– Il mondo di via Santoni è troppo bizzarro per i nostri Robot, li mette in crisi.

Ascoltando la sua voce al telefono non si capiva se era divertito o preoccupato o un misto di queste due cose.
– Provate a farla uscire dal loop distraendola. Axy dì a Prisca di darle un gelato al pistacchio.
Così Axilla è corsa in gelateria e poi è tornata a casa con il gelato al pistacchio.
Quando Galassia-111 ha visto il gelato si è immobilizzata. Prima ha ripetuto ancora per qualche volta – nera, nera, nera., …-  e poi si è fermata, ha fatto roteare le telecamere a ha alzato le braccia verso Prisca che le tendeva il gelato. Dopo un momento di silenzio, ha detto:
– verde-pistacchio-verde-pistacchio-gelato!
Evviva era uscita dal loop.
Noi che abbiamo visto la scena siamo rimasti impressionati, mentre la zia Costanza, che era andata ad innaffiare le ortensie, ha commentato quando è rincasata e Axilla le ha raccontato l’accaduto:
– Chissà perché ti è venuto in mente di dire al veterinario che volevi chiamare Gatta con il nome Nera. Hai messo a segno un colpo straordinario.
Zia e nipote si sono guardate e sono scoppiate a ridere. Sanno di aver combinato un pasticcio.

Costanza e il suo mondo sono solo apparentemente diversi e distanti dal mondo che usiamo definire “reale”, e quasi sovrapponibili ad ogni mondo interiore. Chi fosse interessata/o a visitare gli articoli-racconti di Costanza Del Re, può farlo cliccando [Qui]

Welfare: Riapertura in sicurezza dei Centri estivi, in Emilia-Romagna si parte il 7 giugno.

 

Welfare. Riapertura in sicurezza dei Centri estivi, in Emilia-Romagna si parte il 7 giugno, pronto il Protocollo operativo condiviso con tutte le realtà interessate. Nella nuova ordinanza della Regione il via libera alle attività per bambini e bambine e ragazzi e ragazze dai 3 ai 17 anni, dopo l’approvazione da parte del Governo delle Linee guida nazionali. La vicepresidente Schlein: “Un’opportunità per i più giovani e un sostegno per le famiglie”.

Tra le misure previste per garantire la sicurezza di partecipanti, personale e familiari: attività il più possibile all’aperto, inclusione di disabilità e fragilità, organizzazione in gruppi stabili di massimo di 25 ragazzi, omogenei per fasce di età, rispetto delle norme igieniche e di sanificazione, anche di materiali e giochi, utilizzo delle mascherine.

Bologna – In Emilia-Romagna si conferma per il prossimo 7 giugno la riapertura dei Centri estivi. Già annunciato nelle scorse settimane, il via libera ufficiale all’inizio delle attività, contenuto in una nuova ordinanza della Regione, arriva a seguito dell’approvazione da parte del Governo delle Linee guida nazionali, allegate all’ordinanza dei ministri della Salute e delle Pari opportunità firmata il 21 maggio scorso.

Si tratta dell’ultimo passaggio formale necessario per la ripresa delle attività estive per bambini e ragazzi tra i 3 e i 17 anni di età. Viale Aldo Moro, infatti, aveva già provveduto ad aggiornare e condividere con il tavolo regionale, composto da enti locali, enti gestori, coordinamenti pedagogici territoriali, organizzazioni sindacali e sanità regionale, il Protocollo regionale per i centri estivi nelle strutture, che ora andrà ad integrare le Linee guida nazionali.

“Abbiamo lavorato tutti insieme per conciliare il diritto all’educazione e alla socialità di bambine e bambini che hanno sofferto molto le misure restrittive, con la massima tutela della sicurezza loro, delle loro famiglie e del personale che lavora nei Centri estivi- sottolinea la vicepresidente con delega al Welfare, Elly Schlein-.  E ora che anche le Linee guida nazionali sono state emanate, tutto è pronto per ripartire con un servizio fondamentale per i bisogni dei più giovani e per la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro per le famiglie”.

Il Protocollo, in sintesi:

Le norme regionali riguardano i requisiti di accessibilità, i requisiti per il personale e per i volontari e la formazione sulle misure anti-Covid, le modalità di svolgimento in sicurezza delle attività e dei giochi, le misure precauzionali da rispettare per prevenire la diffusione del virus, le regole per l’accompagnamento e il ritiro degli iscritti, le procedure da seguire in presenza di casi positivi sospetti.

Alla base del Protocollo regionale ci sono sempre il distanziamento e l’uso delle mascherine e dei dispositivi di protezione per il personale, attività da svolgere il più possibile all’aperto, pulizia e sanificazione delle superfici e degli oggetti, oltre all’aerazione costante degli ambienti in caso di permanenza in spazi chiusi.

Tra gli altri provvedimenti indicati per garantire la sicurezza a bambini, ragazzi ed educatori, losvolgimento delle attività in gruppi stabili di massimo 25 iscritti con adeguati rapporti numerici tra educatori e bambini/ragazzi. Ladisponibilità di diversi spazi per lo svolgimento delle attività programmate, attenzione ai contatti, pulizia e disinfezione dei materiali e areazione costante degli ambienti. Attenzione particolare all’inclusione di bambini con disabilità o in condizioni di fragilità o vulnerabilità; accompagnamenti ed entrate scaglionati.

Il contributo regionale:

Confermati per il quarto anno consecutivo i contributi della Regione alle famiglie per sostenere i costi delle rette di frequenza: 6 milioni di euro provenienti dal Fondo sociale europeo e assegnati a Comuni ed Unioni per finanziare il progetto di conciliazione dei tempi lavoro-famiglia, in un anno che, per le famiglie e le donne soprattutto, ha comportato su questo fronte grandi disagi e sacrifici. Il contributo massimo sarà di 336 euro a figlio, a copertura totale o parziale in funzione del costo effettivo di iscrizione e potrà permettere la partecipazione a Centri estivi anche diversi, e per settimane anche non consecutive; unico vincolo è l’importo massimo riconosciuto per ciascuna settimana di 112 euro. Requisito economico necessario per beneficiare del sostegno, riservato alle famiglie (anche affidatarie) composte da entrambi i genitori, o uno solo in caso di famiglie monogenitoriali, occupati e residenti in Emilia-Romagna: un Isee entro i 35mila euro, rispetto ai 28mila dell’anno scorso. Dunque, un allargamento della platea dei beneficiari.

DIARIO IN PUBBLICO
Nome, cognome, soprannome

 

Nella diuturna fatica di scoprire pregi e difetti del popolo attraverso la stancante ma istruttiva visione dei programmi televisivi più conosciuti e frequentati ho scoperto che l’intervistato o l’intervistatore, per esibire la frequentazione e l’amicizia con qualche personaggio pubblico, sfoderano il nome di battesimo del suddetto. Il gioco sta nel proporre anche ai miei 5 lettori il nome di battesimo a cui dovranno aggiungere il cognome. Chi batte ogni primato è senza dubbio

Vittorio

E di ruota:

Matteo 1

Matteo 2

C’è chi invece mantiene la dizione del solo cognome, come la Meloni, in quanto, anche se ha scritto un libro per ribadire che si chiama Giorgia, non può adottarlo come segno di intimità televisivo-politica, perché quel nome è già occupato da una cantante pop.

Comunque la dizione nome+cognome ancora resiste con buoni risultati presso i politici, a cominciare dal capo dello stato, che correttamente viene indicato in quella dizione: Sergio Mattarella, come pure Dario Franceschini chiamato talvolta Dario dal suo concittadino Vittorio o Enrico Letta per il fatto che nella storia un solo personaggio ha diritto di essere chiamato solamente Enrico. Vale a dire Berlinguer.

Più complesso il caso dell’unicità del cognome che, secondo la prassi accademica, diviene oggetto di stima e/o di lavoro, indicando col cognome l’opera. Naturalmente la riflessione si svolge nell’ambito a me congeniale, ma è particolarmente diffusa nel ramo scientifico, economico, medico. Allora senza dubbio è normale chiamare Caretti, Binni, Spini, Preti, Nencioni, Varese….usati spesso con l’articolo per indicarne l’opera: il Sapegno, il Longhi, la Barocchi, la Gregori. Se figli o parenti prossimi, seguono la stessa strada, ecco allora la necessità di distinguerli attraverso la dizione nome+cognome: Valdo Spini, Stefano Caretti, Lanfranco Binni, Ranieri Varese, Federico Varese, Marina Varese, Federica Varese.

Ma l’ansia di intimità condivisa nella pronuncia del solo nome di battesimo diventa un vero e proprio esercizio di conquista, che Alessandro di Battista – questa settimana doppiato da un Crozza sublime – esercita nella presentazione ansiolitica della sua ultima fatica (si fa per dire) letteraria Contro. A un severo Bersani che dialoga con lui non risparmia un sospiroso ‘Pier Luigi’, che viene accolto da un improvviso colorito (rabbia? emozione?) più acceso dell’interpellato.

Non ho mai preteso o voluto un riscontro di compartecipazione nel nome di battesimo tra lo stuolo davvero notevole delle persone in qualche modo famose che ho incontrato nella mia non breve vita. Solo a tre ho osato pretendere l’uso del nome senza il cognome: Cesarito, Elsa, Giorgio. Il primo, che ho conosciuto attraverso la frequentazione diuturna dal 1956, lo interpello con quello che per gli amici era un affettuoso appellativo. Si tratta naturalmente di Cesare Pavese. Ma qui si va oltre una conoscenza immemoriale, in quanto quel cognome viene usato anche nelle ricordanze tecniche se, come qualcuno sa, la mia mail comincia con ‘gianpavese’. L’altra, a cui si è affidata la parte più intima della mia vita, è la Morante, che da sempre per me era e rimane solo Elsa; infine Giorgio non può che essere Bassani, amico in ogni senso e di cui ancor oggi divido con Portia Prebys la curatela del Centro ferrarese a lui dedicato. C’è poi la frequentazione, ancora una volta accademica, che fa sì che ‘l’Ariani’ sia il carissimo amico Marco, studioso di fama mondiale, oppure nel gioco delle parti la scherzosa polemica fiorentino-ferrarese tra le due Dolfi, Anna e Laura, che in altri tempi insegnavano alla mia nipote Alessandra in vacanza in Versilia che, per essere nel giusto, mai doveva pronunciare alla ferrarese ‘le Dólfi’ ma ‘le Dòlfi’, scatenando utili ed esilaranti polemiche.

A proposito dei soprannomi la cautela è d’obbligo, diventando di solito il soprannome un giudizio critico. Così, se ad un pronipote particolarmente dotato di interessi culturali viene dato quello di ‘Sapientino’, questo diviene sigla di riconoscimento nella comunità familiare.
Altro valore ha l’uso di soprannomi, che determinano un rifiuto dell’attività svolta da chi ne viene investito. Uno per tutti: ‘Naomo’, che dall’ambito ferrarese si dirama anche a livello nazionale. Oppure la dizione tipica del linguaggio regionale o provinciale. Si pensi al nome ‘Alan’ pronunciato con la palatale, come è d’uso dalle nostre parti.

Concludo questo diario spiegando le ragioni ben più profonde che mi hanno indotto a questo esercizio e che si riferiscono al conflitto israelo-palestinese. Nomi di popoli, nomi di guerre. Nomi che dietro si trascinano la Storia e che ci turbano, ci includono, ci frustano in quanto dietro ogni nome si cela la realtà: una realtà mai univoca.

 Per leggere gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

BIBLIOTECHE E SCUOLA:
CRESCERE CON LE PAROLE GIUSTE

 

Al dunque questa amministrazione comunale svela tutta la sua sciatteria. La gestione della cultura appaltata all’impresa dei fratelli Sgarbi e al loro inner circle, esternalizzazione dei servizi bibliotecari ed educativi, l’Istituzione dei servizi educativi, scolastici e per le famiglie da smantellare come un vecchio arnese per fare spazio al niente.

Il recente scivolone sull’inceneritore di Hera è rivelatore, perché denuncia l’assenza di visioni di prospettiva circa il futuro della nostra comunità cittadina. Il sindaco, invece di rendere conto di come la sua amministrazione sta operando per realizzare gli obiettivi di sviluppo sostenibile indicati dall’Agenda 2030 dell’ONU, mostra di avere il fianco scoperto, resta afono e ricorre al Presidente della Repubblica e al Consiglio di Stato.

Tra i target dell’agenda ci sono anche l’istruzione, l’educazione, la cultura in quanto condizioni fondamentali oggi per costruire qualsiasi domani. La complessità del presente, le incognite di ciò che non possiamo prevedere impongono una ricerca continua, un bisogno costante di acquisire nozioni nuove. Dovremmo, dunque, crescere tutti in una comunità preoccupata e sempre più attrezzata per questo, senza superficialismi, consapevoli che non esiste un sapere dato per sempre, ma piuttosto un sapere in continuo divenire che accompagna le nostre vite. Non ci sono più i catechismi da apprendere a memoria e neppure enciclopedie da consultare al momento del bisogno, ma problematiche sempre nuove, che mettono in discussione le competenze già acquisite.

E allora toccare biblioteche e servizi educativi senza avere un progetto di alta qualità e di vasto respiro è da sciocchi, come è da sprovveduti pensare di risparmiare sulla cultura, non quella degli eventi, ma quella delle persone, in particolare delle generazioni che verranno e di quelle che stanno crescendo.

Avremmo bisogno di irrobustire biblioteche ed istituzioni educative, anziché renderle più fragili e precarie; l’esperienza della pandemia ha messo in evidenza la necessità di mettere in rete sul territorio scuole, istituzioni culturali, servizi educativi, risorse culturali e del terzo settore. Questa rete non c’è e nessuno la sta disegnando. Nessuno neppure l’immagina e la prospetta, come se ogni presidio culturale del territorio fosse una realtà a se stante.

Un ferrarese come noi, ora ministro dell’istruzione del nostro paese, ha proposto i patti educativi di territorio. Cosa sono se non l’invito a creare sinergie tra scuole, biblioteche, istituzioni culturali, chiedendo alle scuole e al sistema delle istituzioni culturali di aprirsi a funzioni e servizio più ampi, nuovi rispetto a quelle strettamente istituzionali. Si tratta di ridisegnare i propri profili, di inventarsi modi nuovi di essere scuola sul territorio, come di essere biblioteca, museo, istituzione culturale, superare la prassi cattedratica delle scuole, come la vocazione preminentemente conservativa di biblioteche, archivi e musei. Divenire autentiche “piazze del sapere” per citare un bellissimo libro di Antonella Agnoli, edito da Laterza. [Vedi qui]

Chi è che si deve fare promotore di tutto questo, mettersi alla testa di un progetto nuovo che veda formazione e saperi come un affare corale, collettivo, permanente, non relegato alle liturgie delle scuole o delle istituzioni culturali, che rompa con le ritualità tradizionali paralizzanti? Una sfida alta di idee e di idealità, che dovrebbe vedere la discesa in campo dell’amministrazione comunale, almeno con i suoi assessori all’istruzione e alla cultura, anziché assistere ai balbettii di assessori impacciati, incapaci di immaginare il nuovo, perché impreparati, ridotti a passa carte del loro sindaco.

Le risorse per i patti educativi di territorio ci sono tutte, ciò che manca è l’adeguatezza di questa Giunta che farà perdere alla nostra città un’importante occasione, a danno soprattutto dei suoi giovani, grandi e piccoli, la possibilità di aprire una finestra su prospettive nuove tutte da costruire e percorrere.

Ci sono dati che ci dovrebbero preoccupare, di cui avremmo dovuto sentire parlare l’assessora all’Istruzione, la quale dovrebbe avere cura di occuparsi della scolarità dei nostri giovani e quindi anche della dispersione scolastica.
I dati dell’Istat sono preoccupanti, non conosciamo i dati della città, ma nella nostra provincia l’abbandono scolastico è al 19%, contro il 15% regionale, il 10% come obiettivo dell’Europa entro il 2020. Il dato cresce al 25% con picchi al 30% nei comuni più a Est, abbandono che riguarda soprattutto i ragazzi rispetto alle ragazze.
Dati che due anni di pandemia hanno fatto ulteriormente lievitare, bisognerebbe guardarsi intorno e capire che cosa è avvenuto nelle nostre realtà, quanti giovani, ragazze e ragazze stiamo rischiando di perdere.

Considerazioni queste che, se fatte, avrebbero dovuto suggerire alla Giunta comunale di non toccare presidi importanti per l’istruzione e la formazione come le biblioteche di quartiere, le quali vantano un ruolo importante nell’integrazione dell’offerta formativa delle scuole, da migliorare, aggiornare e ampliare, da reinventare anche, non certo da interrompere o ancora peggio smantellare.

Con disinvoltura si pone fine all’Istituzione dei servizi educativi, scolastici e per le famiglie che ha dimostrato di essere fondamentale per garantire integrazione, pari opportunità di crescita e di realizzazione a tutta la nostra infanzia e adolescenza. Nel mentre nulla viene detto da parte dell’assessora all’istruzione in merito al Sistema integrato di educazione e istruzione zero-sei.

Eppure la frequenza sempre più numerosa dei nidi e delle scuole d’infanzia è fondamentale, dovrebbe essere un obiettivo da perseguire per combattere le diseguaglianze, gli svantaggi di partenza cause prime della dispersione scolastica, per rimuovere, secondo il dettato costituzionale, gli ostacoli di ordine economico e sociale, che impediscono il pieno sviluppo della persona umana.

Avremmo bisogno di curare le parole della crescita, della crescita dei nostri piccoli, dei giovani e della città. Le parole dei saperi, delle conoscenze, le parole delle pari opportunità che permettono di rimuove gli svantaggi di partenza, che consentono di crescere uguali con le stesse possibilità, con la forza di credere nel proprio futuro da realizzare, anziché arrendersi, abbandonare la strada e ritirarsi in se stessi.
Crescere con le parole giuste quelle dell’istruzione, dei saperi, delle conoscenze, delle letture fondamentali, quelle degli incontri con gli altri, delle relazioni, quelle che apprendi nelle piazze del sapere che sono le biblioteche, la rete dei luoghi di formazione dai nidi alle scuole. Parole che questa amministrazione comunale dimostra di non saper pronunciare e nemmeno immaginare.

GLI 80 ANNI DI DYLAN
(Per una teoria dell’immortalità)

 

Forse non ha molto senso festeggiare gli 80 anni di Bob Dylan.
Naturalmente tutti i compleanni sono celebrazioni convenzionali, ma nel caso di Dylan, almeno stando a certe sue dichiarazioni, la cerimonia appare particolarmente insensata. In un’intervista su Rolling Stone di pochi anni fa ha dichiarato al povero giornalista che lo stava intervistando che lui era morto da tempo, per l’esattezza nel 1964. Subito dopo gli ha mostrato un articolo con una fotografia di un certo Bobby Zimmerman (nome originario di Dylan), un motociclista californiano ucciso in un incidente stradale. Il giornalista ha pensato a un caso di omonimia, ma è stato subito messo a tacere.
“Nessuna omonimia. Semplicemente ero io. Quel Bobby Zimmerman di cui hai visto la fotografia adesso non c’è più, se ne è andato definitivamente. Vorrei poter tornare indietro a dargli una mano, dirgli che sono suo amico, ma è impossibile. Adesso ci sono io, Bob Dylan, con cui ora stai parlando, la trasfigurazione di quel Bob Zimmerman. Perché io sono morto nel 1964 e poi mi sono trasfigurato.“
Il giornalista gli chiede cosa significhi esattamente, e se lui, Dylan, è morto oppure trasfigurato, ma lui in sostanza gli risponde che non è questo il punto e che, alla prova dei fatti, non c’è differenza: “Tocca a te indagare su cos’è la trasfigurazione. Ma se credi puoi tranquillamente scrivere che stai intervistando un morto. Io non avrei ragione di oppormi.” Poi Dylan prosegue sostenendo che lui non è certo l’unico trasfigurato al mondo, che ci sono e ce ne sono stati diversi, alcuni famosi, anche se non così tanti, ed elenca vari personaggi da Churchill a Toni Morrison a B.B. King e altri. Tralasciando per eleganza Cristo e Budda. Ci tiene anche a precisare che non si tratta di reincarnazione o trasmigrazione delle anime, ma di pura e semplice trasfigurazione.

Altri tentativi di capirci qualcosa di più falliscono: bisogna andare a leggere i vangeli o i libri di alcuni mistici dove si parla della trasfigurazione, dice. A una prima lettura è facile sospettare che lui e il giornalista si siano messi d’accordo per divertirsi alle spalle dei lettori di Rolling Stone, ma sarebbe un errore. Perché in diverse occasioni Dylan ha ripetuto che la morte fa parte della vita, o meglio che si appartengono a vicenda, che la morte siede ogni mattina con te al tavolo della prima colazione e che la concezione lineare del tempo è pura apparenza. Che il passato continua a vivere nel presente finché a un certo momento ti accorgi che non esiste più, che è proprio passato per davvero.
E allora non sai più dove ti trovi e capisci di essere fuori dai giochi. Mentre gli altri fanno il loro gioco a volte ti capita di stare lì a guardarli, ma poi alla fine scopri che stai bene con te stesso perché tutto questo non ti riguarda, stai da un’altra parte, in un tuo angolo gelosamente custodito, un altrove accessibile a pochi. I’m not there, “Io non sono qui” è il titolo di una canzone dei primi anni sessanta scritta da Dylan che dà anche il titolo a un film di Todd Haynes sulla sua vita. Ed è proprio questo il punto forse più interessante.
Nell’universo di idee, immagini, metafore, citazioni e rielaborazioni che popolano le canzoni, nei libri e nelle interviste rilasciate da Dylan la questione del tempo è assolutamente centrale. Solo il presente e il futuro sono certi, il passato lo puoi trasformare a tuo piacimento, dice ribaltando un luogo comune consolidato. Tranne che il presente passa troppo in fretta e il futuro ancora non c’è.
In un’altra occasione ha dichiarato che il passato, il presente ed il futuro possono convivere in una stessa stanza. Liberi di credere che si tratti solo di frasi a effetto o magari di pura cialtroneria, paradossi mescolati con citazioni erudite o misticheggianti, come capita spesso nelle interviste a molte celebrità pop desiderose di stupire. Ma anche questo sarebbe un errore, perché se si riflette con più attenzione, poco alla volta si fa strada una precisa visione del mondo, anche se in perenne evoluzione e a volte contraddittoria. E in ogni caso all’inizio dell’intervista Dylan premette subito che sta cercando di spiegare cose che non si possono spiegare e chiede aiuto al giornalista che lo intervista per spiegare l’inspiegabile.

Quindi anche io, nello scrivere queste righe, cerco soltanto di spiegare le idee di qualcuno che fa fatica lui stesso a spiegare. Un’impresa destinata al fallimento. Eppure dietro il caos e l’apparente illogicità di tante dichiarazioni persiste la sensazione che ci sia un ordine mentale molto ben organizzato. E soprattutto una concezione particolare del tempo e della sua percezione che, almeno in parte, sfugge alle definizioni e alle spiegazioni fornite dalla filosofia.
Basta citare alcuni versi da canzoni famose per avvertire la presenza quasi ossessiva del tempo. ‘I was so much older then, I’m younger than that now’, ‘Then take me disappearing/through the smoggy rings of my mind/Through the foggy ruins of time’ ‘Inside the museums eternity goes up on trial’ ‘If the bible is right/ the world will explode… The next sixty seconds/could be like an eternity’ ‘And there’s no time to think’ solo per citarne alcuni.
Uno dei suoi dischi più famosi, del 1997, si intitola Time out of mind, tradotto come “Tempo immemorabile”. E molte sue citazioni, similitudini, proverbi più o meno deformati o ribaltati provengono non solo dalla Bibbia, secondo alcuni la sua principale fonte di ispirazione, ma anche da testi di classici greci o latini, come ad esempio Tacito, molto da Shakespeare e da Blake, da cantanti blues o jazz spesso poco conosciuti, da poeti simbolisti o surrealisti o da frasi di generali o politici vissuti durante la guerra civile americana. Nell’intervista a Rolling Stone dice che la storia serve come fonte di ispirazione, ma che la natura umana non è legata a un periodo storico particolare.

La stessa voce sepolcrale con cui canta ormai da qualche decennio evoca tempi e luoghi lontani. Una voce che si potrebbe definire fuori campo e fuori tempo, proveniente da quell’altrove storicamente e geograficamente indefinito.
Quando dice che in molte delle sue canzoni ogni verso può essere l’inizio di un’altra canzone e che potrebbe anche combinarsi con i versi di altre sue canzoni espone un principio matematico che rimanda ad una potenziale infinità di collegamenti e contaminazioni. La continua trasformazione delle stesse canzoni ogni volta che le esegue dal vivo, arrangiamento e testi, sta a simboleggiare un work in progress senza sosta, un presente continuo; una canzone del 1965 cantata nel 2016 non è più la stessa canzone, per questo l’unica vera musica è quella eseguita dal vivo e non quella che esce dagli studi di registrazione. Perché, dice, la trasformazione è nella natura dell’esistenza. Il tentativo è quello di modellare il tempo – ma anche i tempi della metrica dei versi e il ritmo della canzone – secondo criteri puramente soggettivi, estemporanei. Un’eternità mobile, fluida, inafferrabile, che ti sfugge tra le mani, con i vivi e i morti che coabitano, dialogano e si mescolano nello stesso spazio, nella fattispecie nello spazio di una singola canzone come nell’insieme di tutte le canzoni composte e variamente eseguite da Dylan durante i suoi infiniti concerti dal vivo.

Interessante anche il fatto che questa visione del tempo, ma anche dello spazio, sia stata ispirata da un maestro di pittura, tale Norman Raeben, un ebreo di Odessa, ex pugile, emigrato a New York. Su questo argomento molto è stato scritto da Alessandro Carrera, il traduttore in italiano dei testi di Dylan, suo massimo studioso italiano e non solo, scopritore degli angoli meno conosciuti dell’arte di Dylan.
Una canzone deve essere come un quadro, deve poter essere percepita e assimilata in un unico colpo d’occhio (o di orecchio). Impresa materialmente impossibile, ma possibile metaforicamente se con la memoria musicale e l’immaginazione si riesce con un movimento circolare a ricongiungere l’inizio della canzone con la sua fine fino a confonderli.
Pare che l’ispirazione originaria per questa idea sia venuta a Dylan, da sempre molto interessato alla pittura, da Chagall. Nei quadri di Chagall la forza di gravità (che in diverse occasioni Dylan giudica un elemento di disturbo, una forma di prigionia) viene sostanzialmente abolita insieme alla prospettiva. Oggetti e figure umane galleggiano nello spazio e i piani prospettici si sovrappongono a scapito della prospettiva. Ma anche dal punto di vista del racconto contenuto nei dipinti di Chagall difficilmente si trova un punto di vista che dia un ordine temporale a quanto accade. I punti di osservazione si mescolano e il passato ormai morto, il mondo dei vecchi villaggi ebraici distrutti prima dai russi e poi dai nazisti, continua a vivere in una dimensione al di fuori delle coordinate spazio/temporali.
Ecco allora che ritroviamo alcune idee forza che sottendono la poetica e l’idea di musica di Dylan: la memoria (Proust) che va oltre il semplice ricordo, la durata, la percezione e la circolarità del tempo, l’abolizione del tempo lineare. C’è dietro naturalmente molta filosofia, da Bergson a Nietzsche fino a Sant’Agostino e Heidegger e alla tradizione dei mistici ebraici e cristiani, altre idee prese dalla tradizione religiosa orientale, ma la filosofia deve farsi accettare con il suo linguaggio specifico e i suoi processi mentali per poter entrare nella vita delle persone, e solo di alcune, e nel farlo perde necessariamente dei pezzi, lasciando frammenti aridi, scollegati. Mentre l’arte, come nel caso di Dylan o come appunto in certi quadri di Chagall, penetra nella vita di tutti i giorni senza mediazioni, attraverso un approccio sensoriale, emotivo.

E’ stato pubblicato su Ferraraitalia il racconto breve di Francesca Alacevich Chi guarda chi [Qui], circolare già dal titolo, che sembra ispirato proprio a questa idea di atemporalità. La modella del quadro di Corcos sta lì e conserva il suo dolore e il suo rancore per secoli, chiusa in un museo e tenuta sotto processo per l’eternità, come dice Dylan in Visions of Johanna.
L’impatto è tanto più profondo quanto più viscerale, evoca una maledizione e fa pensare al blues, che continua a riecheggiare nelle composizioni musicali di Dylan. Ancora il blues, che con la sua selvaggia antica irriducibile malinconia e voglia di vivere, con la sua invincibile vocazione alla ribellione e alla sconfitta, contiene elementi di immortalità.
Molta musica contemporanea fatica a liberarsi dal blues, forse proprio perché, come dice Dylan, il blues fa parte della natura umana e la natura umana non appartiene a un periodo storico determinato. Le mode scorrono su un piano temporale parallelo che non si incrocia con il genere di arte di cui stiamo parlando.
Una teoria dell’arte che Dylan trasforma coerentemente in uno stile di vita, attraverso una serie continua di concerti dal vivo in giro per il mondo, il Neverending Tour, che gli permette di vivere dentro le sue canzoni, perennemente trasformate, l’unica realtà per lui degna di questo nome.
Una realtà senza tempo vissuta sopra un palco, capace di ingannare il passare degli anni, la vecchiaia e la morte. Una strada per l’immortalità.
Viene in mente la sua canzone Journey through a dark heath, dove canta: ‘There’ s a white diamond gloom/ on the dark side of this room/ and a pathway that leads up to the stars/ if you don’t believe there’s a price/for this sweet paradise/just remind me to show you the scars’, tradotto da Carrera con ‘C’è un alone di diamante bianco che brilla/ nell’angolo buio di questa stanza/ e un sentiero che conduce su fino alle stelle/ se non credi che c’è un prezzo/ per questo bel paradiso/ ricordami di mostrarti le ferite.’ 

Io contengo moltitudini è il titolo di una delle canzoni del suo ultimo recente album (Rough and Rowdy Ways). Poi però – dice in un’altra intervista – bisogna un po’ per volta sgombrare il campo e trovare un’identità utile al momento, più o meno dice così. E le tante moltitudini ci ricordano il Io è un altro di Rimbaud, una dichiarazione di poetica che Dylan doveva avere ben presente sin dalle prime canzoni degli anni Sessanta. Ecco perché è poi arrivato a dischi come Blood on the tracks, dove i narratori – l’io, il tu e il lui/lei – si mescolano e i tempi, come i personaggi del racconto si confondono fino a formare un affresco senza inizio e senza fine. Ecco come una canzone può essere percepita in un insieme, al di fuori dello scorrere del tempo lineare, proprio come un quadro. E questo è l’intento consapevole con cui ha scritto le canzoni di Blood on the tracks e in particolare Tangled up in blue, la più famosa di quell’album.
Contenere moltitudini non è un’esperienza comune, così come l’essere dei morti e/o trasfigurati che parlano e cantano con molte voci, alcune prese dalle cantilene religiose ebraiche altre dalla musica afroamericana e altre dal jazz o dal country o da un rap ante litteram, e poi trasformate sul palco, dal vivo.
Cantare le stesse canzoni sino a renderle irriconoscibili, cambiando i testi sul momento a secondo dell’umore e delle circostanze, spiazzare i musicisti evitando le prove e cambiando la scaletta, tutte queste non sono esperienze comuni. Così come l’inattualità di Dylan rispetto alle mode correnti non è una posa, che del resto molti hanno imparato a simulare, ma una necessità intrinseca al suo modo di immaginare la musica e le canzoni. In questa prospettiva parlare di mode, letterarie o musicali, non ha senso, quindi più che parlare di non attualità nel caso di Dylan bisognerebbe parlare, appunto, di atemporalità.

In conclusione, tanto per chiudere in modo circolare così come ho cominciato: ha senso scrivere un articolo per celebrare l’ottantesimo compleanno di un morto/trasfigurato che vive nell’atemporalità e che è immerso da tempo immemorabile in un paesaggio mentale che potrebbe trovarsi ovunque ma al tempo stesso esiste solo nella sua sconfinata immaginazione?
Come le mitologiche Highlands, una canzone di sedici minuti dell’album Time out of mind, luogo reale nel nord della Scozia ma usato da Dylan come metafora di quel “sentiero che conduce su fino alle stelle” o forse di questo altrove in cui si è rifugiato.
Probabilmente celebrare questo compleanno è fuori luogo, ma ormai è troppo tardi per fermare tutti coloro che hanno deciso di farlo.

Bob Dylan [vedi Wikipedia] andrebbe letto, ascoltato e riascoltato, dal principio alla fine e (viceversa), o iniziando da un punto e da una canzone qualsiasi. Il suo sito ufficiale [Qui]. Per un sito italiano di riferimento [Vedi qui]

Cattive TERF e buone femministe

 

Nell’articolo di Elena Tebano sul Corriere della sera dal titolo “Chi sono le «Terf», le femministe «critiche del genere» che si oppongono al ddl Zan [Vedi qui] l’acronimo Terf (un termine che sono certa la maggior parte delle donne non conosce) è un’offesa pesante a tutte noi.
Sono una donna e sono una femminista tardiva (radicale lo scopro ora), e questo termine  ho cominciato a sentirlo solo da quando mi sono convinta che il testo del ddl Zan, così come è scritto, cancella le donne e il loro sesso.

Basta dirsi critiche verso quel testo per venire bollate come Terf, ​ e direi che l’articolo di Elena Tebano ne è la dimostrazione. Ma cosa vuole dire? Vuole dire, ce​ lo spiega la giornalista, che siamo “femministe radicali trans escludenti”.  Ma tutte sappiamo bene che Sesso e Genere non sono la stessa cosa. Sappiamo bene che essere incarnate in corpi femminili ha segnato e segna  la nostra esperienza nel mondo e nella storia. Avere le mestruazioni una volta al mese, banalmente, è molto reale e impatta sulla nostra vita anche economicamente. Ed è​ chiarissimo a tutte noi che è sul sesso delle donne che si è costruita l’oppressione millenaria sui corpi delle donne. ​
Ancora oggi 140 milioni di bambine subiscono la​ cliterectomia​ e questo a causa del loro ​sesso biologico.​

Ora, secondo la giornalista e chi usa il termine Terf, volersi dire  donne perché nasciamo con sesso femminile, vorrebbe dire che siamo contro i trans o contro i gay o le lesbiche.
Ma come si può pensare di fare un’associazione di questo tipo? ​ Vorrei informare tutti e tutte che l’acronimo Terf in Inghilterra ormai è considerato un termine dispregiativo bandito persino dalla policy twitter: questo un tweet di Bea Jaspert (@ hogotherforsaken del 5 agosto 2019  “ Twitter’s Uk govt head of Pubplicy Katy minshal agreed at Humanrightctte tha terf, like Bitch and cunt is gendered term and that tweet usin the term, like those cited below, violate twitter’ policies and should be removed.”​

Avrei da entrare poi nel merito di molte questioni affrontate da Elena Tebano, a  partire  dal suo ridurre la biologia e il sesso biologico a un fatto di poco conto,  salvo poi appoggiare quella pratica aberrante che è la maternità surrogata tutta fondata sulla biologia, che fa dei  proprietari dei gameti i veri genitori, a scapito della donna che lo fa crescere nel suo grembo e lo partorisce grazie al suo sesso.
Mi vengono in mente le parole della leader del movimento delle donne mapuchevoi intendete la natura come una forza produttiva (sottinteso – da cui estrarre ogni ricchezza) noi come qualcosa di identitario e spirituale..” più chiaro di così!

Curiosamente i promotori del testo Zan  sono gli stessi che dicono che la maternità surrogata è un atto di amore, che la maternità non è biologia ma cultura, che i nostri corpi sono macchine ai quali cambiare i pezzi per riconoscergli la possibilità di essere quello che “ci sentiamo di essere a prescindere dal dato biologico” includendo nello slogan tutta la bellezza e l’amore di una società che ti accoglie per quello che sei quando invece è una torsione falsissima che prevede un amore della società cosi grande e disinteressato (ironico) da aprirsi in modo sfacciato e senza alcun pensiero critico al mercato delle transizioni e dell’uso di bloccanti della pubertà in età prepuberale, al mercato dei corpi e dei pezzi di corpi, (banche di spermatozoi e ovuli, embrioni etc ) alla medicalizzazione esasperata della società, oggi unico mercato in fortissima crescita.

È bene dunque sapere che chi usa messaggi retorici di amore e inclusione in questo modo, fa riferimento a un’idea di amore e di inclusione basata su questi paradigmi. Oggi la narrazione transumanista, che sono certa la maggior parte  della gente non sa cosa sia, è strisciante e ovunque. Sono quelli  convinti che la chimica infallibile degli algoritmi e dei robot possono tranquillamente sostituire la biologia (limitata e limitante) dei nostri corpi, quelli che perseguono l’immortalità e i corpi perfetti fino a volerci convincere che un corpo di silicone è come l’essere umano. Quelli delle digitalizzazione estrema  che fanno si che un robot oggi risponda al telefono chiedendoti di parlare perché sta imparando a parlare la nostra lingua (provate a telefonare al numero Eni ti risponderà Lucilla!).
Per me invece biografia e biologia sono fortemente interconnesse,  e i nostri corpi sono così intelligenti perché sanno integrare continuamente le informazioni biologiche con quelle biografiche legate al pensiero, ai sentimenti, alle emozioni, all’ambiente che ci circonda e sono giunti ai giorni nostri proprio grazie a questa intrinseca intelligenza emotiva biologica razionale.

Viviamo tempi estremi ma è oggi che siamo chiamati a decidere quale è la visione profonda che anima la nostra idea di mondo e di vivente. Domani sarà troppo tardi.
Io la mia scelta l’ho fatta, sono contro la visione transumanista, perché questa è al servizio del mercato dei corpi e di una falsa idea di libertà e di amore, perché tradisce nel profondo il senso antropoligico di essere umano.
Vi invito ad approfondire e a dire la vostra. Va fatto ora, senza accettare come buoni, falsi e semplificatori slogan, per lo più urlati dalla sinistra, perché in gioco c’è la civiltà futura e il mondo in cui vivranno i nostri figli.

COSA SIGNIFICA UNA CULTURA PER TUTTI.
Il documento del Gruppo di cittadine e cittadini a difesa della Biblioteche

Il Gruppo di cittadine e cittadini a difesa della Biblioteche dopo aver raccolto oltre 1.000 firme su un appello che chiedeva il rilancio del sistema bibliotecario ferrarese, ha promosso una manifestazione in piazza Castello, affollata di adulti e bambini. dove sono state esposte con chiarezza le criticità e le inadempienze sul tema biblioteche della Giunta che oggi governa la città. Si chiede l’assunzione di nuovi bibliotecari , il rilancio e il potenziamento delle biblioteche decentrate e lo sviluppo complessivo del sistema pubblico della biblioteche. Questo movimento spontaneo appare sempre più nutrito e dimostra di avere idee precise su come e su cosa si dovrebbe fare. Vi invitiamo a leggere il documento, frutto di una elaborazione collettiva, che qui riportiamo integralmente. La speranza è che l’Amministrazione Comunale dia finalmente risposte adeguate a un bisogno diffuso di una cultura pensata, proposta, fatta e fruita da tutti i cittadini.
(Effe Emme)

Il sistema comunale delle biblioteche di pubblica lettura della nostra città ha una lunga tradizione in termini di qualità dei servizi resi alla cittadinanza e di professionalità dei bibliotecari in essi impegnati. Siamo giunti ad un punto importante nelle vicende che guardano il suo futuro. Nella commissione consiliare dell’ 11 maggio scorso, finalmente, l’Amministrazione Comunale, per bocca dell’assessore Gulinelli, ha esplicitato le proprie intenzioni in proposito.

L’Amministrazione non ha un progetto per le biblioteche comunali, solo un’idea di ridimensionamento e disinvestimento sul servizio

Da quanto abbiamo ascoltato in sede di Commissione consiliare, emerge che l’Amministrazione comunale non intende svolgere alcun ragionamento per il rilancio del sistema bibliotecario ferrarese. L’unica idea prospettata è quella dell’esternalizzazione delle biblioteche di S.Giorgio, Porotto e Rodari, peraltro dentro una logica di puro risparmio e deresponsabilizzazione del ruolo del pubblico. L’ipotesi avanzata è stata quella dell’esternalizzazione delle biblioteche di S.Giorgio, Porotto e Rodari, prevedendo peraltro un impegno di spesa per 100.000 € in un anno. Una cifra che, di per sé, dimostra che siamo dentro una logica di risparmio e disimpegno, visto che la spesa per il personale attualmente impiegato in quelle biblioteche ammonta a circa 150.000 € ( 5 unità per 30.000 € annuo di costo), mentre per far funzionare ad un livello minimo quelle biblioteche sarebbero necessarie almeno 6 persone. La spesa prospettata significa utilizzare personale sottopagato rispetto ai dipendenti comunali e, comunque, con questi numeri, non in grado di garantire servizi aggiuntivi rispetto agli attuali, come sbandierato dall’Amministrazione, per giustificare l’esternalizzazione del servizio di quelle biblioteche. In più, non è previsto alcun intervento di potenziamento dell’offerta dell’attuale sistema bibliotecario e di miglioramento del servizio di quelle che rimarrebbero a gestione comunale diretta. Insomma, siamo in presenza di un’impostazione per cui le biblioteche esternalizzate avrebbero l’unico “pregio” di costare di meno rispetto ad oggi e le altre continuerebbero a vivacchiare, come peraltro succede da lungo tempo in qua: nessun investimento per il futuro, solo un progressivo disimpegno e declino del sistema bibliotecario comunale.

Si può prendere un’altra direzione: progettazione partecipata e informata, forte investimento nella cultura del territorio e delle biblioteche, valorizzazione del loro ruolo pubblico

La nostra riflessione, invece, porta da tutt’altra parte. Dopo anni in cui non si è guardato al sistema bibliotecario come risorsa per la città, invece è possibile e necessario invertire la tendenza e tornare a investire nel sistema bibliotecario cittadino, con un’idea adeguata delle trasformazioni in atto e pensando al ruolo che esso può svolgere nella città degli anni a venire.
In primo luogo, riteniamo necessaria una progettazione partecipata e informata perché gli obiettivi culturali ed educativi delle biblioteche non si possono sviluppare in modo astratto, ma sono strettamente legati alle aspirazioni delle comunità che intendono servire. Parlando di bisogni e aspirazioni ci pare importante un confronto pubblico non solo sulle biblioteche come istituzioni che ospitano e mettono a disposizione collezioni di libri/media e risorse informative, ma anche su come le biblioteche possano contribuire attivamente alla ripresa economica e sociale post pandemia.
A questo proposito, ovvero del possibile ruolo delle biblioteche nel fornire servizi ai cittadini finalizzati all’inclusione sociale, all’apprendimento permanente, alla citizen science, alla ricerca e innovazione e alla promozione di una cittadinanza attiva per una società democratica e sostenibile, stanno prendendo vita diverse linee di azione all’interno delle nuove politiche europee. Da questi strumenti politici (ed economici) ci giunge una visione della biblioteca futura adeguata a nuove sfide: sia in termini di innovazione tecnologica, che di inclusione sociale, che di supporto (con la messa a disposizione del patrimonio documentale custodito, delle strutture e delle risorse umane) alla ripartenza delle attività economiche legate al territorio e al turismo.
Ancora prima di valutare soluzioni organizzative definitive (quindi a prescindere dal rispondere all’emergenza delle aperture di alcune strutture con una soluzione temporanea) occorre scrivere in modo partecipato, Amministrazione e Cittadinanza, una Agenda per le biblioteche pubbliche che tenga conto, appunto dei bisogni della comunità della quale sono al servizio. Riteniamo che la scrittura di una nuova Agenda necessiti di un approfondimento che consenta ai portatori di interesse, attuali e potenziali, di avere una visione delle Biblioteche pubbliche come strumento attivo per tutte le azioni e le sfide che ci aspettano come comunità. EBLIDA European Bureau of Library, Information and Documentation Associations e AIB Associazione Italiana Biblioteche stanno producendo interessantissimi documenti su come le Biblioteche possono partecipare alla realizzazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile contenuti nell’Agenda 2030. Pertanto chiediamo all’Amministrazione di mettere a punto anche un progetto informativo (che sia utile a cittadini, imprese, politici e tecnici) chiamando relatori da queste Associazioni che possano stimolare la collaborazione fattiva di tutte queste realtà alla redazione di un progetto di largo respiro per il rilancio del sistema bibliotecario, facendone un attore importante per le sfide che ci attendono in quanto comunità.
Per noi, poi, questo nuovo progetto deve basarsi su alcuni punti fermi di fondo, costituiti da:

La costruzione di un nuovo modello bibliotecario e dell’offerta culturale nella città.
Occorre pensare ad un’idea di promozione e di diffusione culturale, in cui le biblioteche siano sempre più luogo di incontro tra i cittadini, le Associazioni, i soggetti che sono attivi in questo campo e non semplicemente il punto in cui si effettuano i prestiti del patrimonio librario. In questi anni, già si sono fatti passi in questa direzione, ma essi vanno potenziati e, soprattutto, resi strutturali in un nuovo approccio del sistema culturale della città. Per noi il sistema bibliotecario significa un unico servizio offerto in varie sedi con caratteristiche specifiche per ogni sede legate alla collocazione territoriale. Il rapporto con le scuole è vitale per ogni struttura, almeno fino alle scuole dell’obbligo, come forma di educazione alla lettura ma anche alla cittadinanza: in questo senso ogni struttura bibliotecaria dovrebbe avere, in modo strutturale, personale in grado di gestire incontri con scolaresche, dal nido alla scuola secondaria di primo grado. In più, occorre mettere in campo flessibilità nell’adozione di pratiche richieste dal dialogo col territorio ( ad esempio, la possibilità di istituire laboratori o altre forme di proposte non necessariamente o non precipuamente legate al libro, pensando anche ad una “squadra” che gestisca le attività di tipo laboratoriale). In questo quadro, ovviamente, va prevista da subito la riapertura di tutte le biblioteche comunali con orari e modalità di fruizione analoghe a quelle esistenti prima della pandemia (misurandosi con la sua evoluzione) e, in prospettiva, anche con il loro ampliamento;

Il potenziamento della struttura bibliotecaria
Negli anni scorsi, si era progettato un nuovo investimento nelle Corti di Medoro, progetto abbandonato dall’attuale Amministrazione. La stessa poi si è pronunciata per la creazione di una nuova biblioteca pubblica nell’area Sud della città, peraltro in modo vago e con ipotesi non precise in proposito. E’ ora, invece, di dare gambe concrete a questo proposito, e, a questo fine, occorre un reale coinvolgimento dei soggetti e dei cittadini interessati a questa prospettiva, dando luogo ad un Tavolo partecipativo per la definizione e l’attuazione di questo progetto. In questo quadro, occorre anche sviluppare un’adeguata riflessione sulle sedi e sugli spazi per i magazzini per tutte le biblioteche. Alcune sedi risultano nettamente inadeguate, come per esempio la San Giorgio, o la Rodari che dovendo servire la zona sud della città ha bisogno di locali consoni ai servizi che dovrebbe offrire una struttura con quel bacino di utenza. Insomma, biblioteche accoglienti, con arredi adeguati e materiale librario nuovo e in buone condizioni: questo dovrebbe essere l’obiettivo che può essere raggiunto solo mettendo a disposizione depositi/magazzini capienti e sicuri dove collocare i volumi frutto dello svecchiamento delle raccolte. Dovrebbero inoltre essere messe in campo risorse adeguate per finanziare attività di promozione della lettura per tutte le biblioteche (presentazioni librarie, o altro che oggi avvengono su base volontaria) per ampliare e aumentare la qualità e l’appeal delle attività proposte;

L’assunzione di un numero congruo di bibliotecari comunali per dare continuità e realizzazione effettiva al rilancio del sistema bibliotecario pubblico.
Esso si è sempre configurato come rete che ha poggiato la sua forza sulla presenza di personale adeguato nel numero e nella professionalità potendo contare per lo più su un avvicendamento che ha consentito ai bibliotecari esperti di affiancare i nuovi ingressi provenienti da altri servizi comunali e ha garantito costantemente un assorbimento funzionale delle nuove professionalità arricchendo e valorizzando quelle esistenti. I periodici incontri di servizio e di autoaggiornamento hanno rafforzato la sinergia tra gli operatori delle diverse biblioteche e favorito lo scambio professionale, la circolazione delle informazioni e delle tecniche andando nella direzione della creazione di un gruppo di lavoro quanto più possibile omogeneo. Purtroppo negli ultimi anni il depauperamento delle unità lavorative con l’uscita dal lavoro proprio delle figure più esperte ha evidenziato tutte le fragilità di un corpus di addetti che, da una parte necessita di formazione e di confronto professionale continuo, dall’altra richiede come indispensabile e imprescindibile l’assunzione di personale qualificato in ambito bibliotecario sia attraverso concorsi ad hoc, sia utilizzando contratti di formazione lavoro. Oltre a questo sarebbe necessario ritornare agli incontri periodici tra i bibliotecari e gli addetti alle strutture bibliotecarie, magari da svolgere a rotazione tra le varie biblioteche: sarebbe questo un primo passo per mettere in circolo esperienze, dubbi, difficoltà in un dialogo costruttivo. Allo stesso modo, si tratta di pensare allo svolgimento di regolari conferenze di servizio per esporre/relazionare sulle esigenze territoriali delle singole sedi ed individuare linee di azione e risorse condivise (anche di personale). Il buon funzionamento delle biblioteche si basa molto sulla professionalità e sulla motivazione dei bibliotecari e delle bibliotecarie che, se non si sentono isolati, possono fornire il meglio di sé. Tutto ciò presuppone anche un’attività programmata e permanente di formazione del personale stesso.
Più in specifico, negli ultimi anni abbiamo assistito ad un numero significativo di pensionamenti di personale, senza che esso sia stato adeguatamente sostituito. Mancano almeno 6-7 bibliotecari in organico, la cui assunzione va prevista nel corso di quest’anno, oltre ai 2 che sono contemplati nel piano occupazionale elaborato dal Comune di Ferrara. E’ un’operazione assolutamente fattibile rispetto alle possibilità occupazionali del Comune ( vedi scheda tecnica in allegato), al di là di quanto proclamato in modo distorto dall’Amministrazione, e che, peraltro, si sta percorrendo in altri Comuni, anche nella nostra Regione ( vedi il Comune di Bologna, che ha indetto un bando di concorso nel novembre 2020 per 23 posti nei servizi culturali per arrivare, nell’arco di 2 anni a 44 assunzioni nel settore);

La costruzione di un rapporto positivo tra gestione pubblica e altri soggetti operanti nel settore
Su questo piano, nel momento stesso in cui riaffermiamo il valore centrale dell’intervento pubblico nel sistema culturale e in quello bibliotecario nella sua offerta e promozione, riteniamo possa esistere un ruolo anche per altri soggetti, in particolare per quanto riguarda l’intervento in campi specialisti ( ad esempio, progetti specifici anche rivolti alle scuole e al coinvolgimento del territorio, fondi e catalogazione particolari, aperture extra orario serali e/o domenicali) e in termini aggiuntivi rispetto all’attività “normale” delle strutture bibliotecarie. La stessa situazione della Rodari , che ha bisogno di interventi e di un rilancio urgente, potrebbe essere interessata da una riflessione in questo contesto.
Ciò comporta, peraltro, anche il fatto imprescindibile che le lavoratrici/lavoratori di altri comparti usufruiscano degli stessi diritti contrattuale e salariali dei dipendenti pubblici.
Al termine di questo processo di confronto largo e partecipato, che, quindi, dovrà vedere coinvolti tutti i soggetti culturali, sociali e politici della città, compreso, ovviamente, il nostro gruppo di cittadine e cittadini, andrà ovviamente investito l’insieme del Consiglio comunale per approvare gli indirizzi politici fondamentali di questo nuovo progetto, che non può certamente essere lasciato a semplici atti amministrativi.

GRUPPO CITTADINE E CITTADINI A DIFESA DELLE BIBLIOTECHE

PRESTO DI MATTINA
Pentecoste, la Pasqua delle rose

 

“Una rosa, solo una rosa”: questo chiese Belinda al padre che partiva per un viaggio in pieno inverno, nella fiaba scritta da Jeanne-Marie Leprince de Beaumont (1711-1780) [Qui] e poi inserita, nella sua versione toscana, da Italo Calvino nella raccolta di fiabe italiane. Anziché un gioiello o una veste splendente, come reclamarono le sorelle, Belinda, la Bella, domandò il folle dono di un’unica rosa, un dono all’apparenza impossibile, fuori tempo, fuori stagione, fuori di questo mondo. Chiese non già qualcosa che la migliorasse dall’esterno, ma un dono per la sua interiorità: un aiuto a vedere in profondità, quello che fa percepire, oltre la facciata, l’intimo di ogni cosa, lo spirito di attenzione: unzione penetrante. Una rosa appunto, una e molteplice, intima e manifesta, una pluralità unita, inscindibile nei suoi petali e nell’unzione del suo profumo, integra nel suo centro che è recondito e dovunque. L’interiorità, come la rosa, è custode del multiforme mistero della gioia, quello che scaturisce dall’esperienza dell’amicizia e della comunione.

Così lo spirito è l’ospite che ci ospita, e l’interiorità è la dimora in cui accade una metamorfosi non diversa da quella che si sviluppa nella fiaba di Belinda. Una metamorfosi dall’insipienza, dall’inconsapevolezza, dall’insensibilità ai sensi spirituali, che diviene passaggio dall’oscurità al chiarore, dalla chiusura all’ospitalità: il riconoscimento e l’accoglienza dell’altro, del quale scoprire, al di là delle apparenze, il dono nascosto. Restituita alla chiaroveggenza dello spirito che svela in profondità il vero, il bene e il bello che apparirà solo alla fine, Belinda esclamerà «non mi sembra più un Mostro e se anche lo fosse lo sposerei lo stesso perché è perfettamente buono e io non potrei amare che lui». È la metamorfosi così giunta a compimento, rotto l’incantesimo che oscurava la visione.

Scrive acutamente Cristina Campo «La metamorfosi del Mostro è in realtà quella di Belinda ed è soltanto ragionevole che a questo punto anche il Mostro diventi Principe. Ragionevole perché non più necessario. Ora che non sono più due occhi di carne a vedere, la leggiadria del Principe è puro soprammercato, è la gioia sovrabbondante promessa a chi ricercò per prima cosa il regno dei cieli. Per condurre a tale trionfo Belinda, il Mostro sfiorò la morte e la disperazione, lavorò con la pervicacia della perfetta follia notte dopo notte, apparendo alla fanciulla reclusa, rassegnata ed impavida nell’ora cerimoniale: l’ora della cena, della musica. Chiuso nell’egida dell’orrore e del ridicolo («oltre che brutto purtroppo sono anche stupido») rischiò l’odio e l’esecrazione di quella che gli era cara: discese agli Inferi e ve la fece discendere. Non meno – e non meno follemente – fa [lo Spirito di] Dio per noi: notte dopo notte, giorno dopo giorno».

Come ogni fiaba ‒ ha osservato Cristina Campo ‒ anche questa «ci narra l’amorosa rieducazione di un’anima affinché dalla vista si sollevi alla percezione, per riconoscere ciò che soltanto merita di essere apprezzato. Percepire è riconoscere ciò che soltanto ha valore, ciò che soltanto esiste veramente. E che altro veramente esiste in questo mondo se non ciò che non è di questo mondo? L’amicizia del Mostro per Belinda è una lunga, una tenera, una crudelissima lotta contro il terrore, la superstizione, il giudizio secondo la carne, le vane nostalgie», (Imperdonabili, 11-13).

Belinda ‒ ho pensato tra me e me ‒ chiedendo quell’unica rosa, non ha forse domandato la chiaroveggenza, il dono dello Spirito “il dolce ospite dell’interiorità”, “la beatissima, luce che invade nell’intimo”? È così che lo invoca l’inno liturgico nella festa di Pentecoste. Dono dell’attenzione profonda, quella generata dal desiderio dell’incontro con l’altro; dell’intimità aperta, capace di sviluppare l’esercizio della contemplazione senza la quale ‒ direbbe Simone Weil ‒ la bellezza invocata e ricercata non può rinascere. Dono che unisce differenziando, che scruta le profondità dell’umano in cui ospitare l’altro; unzione che fa splendere e porta in piena luce i volti; rugiada che impreziosisce e rinnova la faccia della terra: “Emitte spiritum tuum et creabuntur et renovabis faciem terrae”.

Invocare la venuta dello Spirito è chiedere di poter riconoscere e accogliere uno spirito di sapienza e di intelligenza, di conoscenza e di pietà, uno spirito di tenerezza e di resilienza, spirito fiducioso che crede invincibilmente all’amore e così genera speranza. È domandare di vedere con gli occhi interiori la potenza e la bellezza spirituale della Materia, del bene e del vero imprigionati nella sostanza informe o deforme, inanimata e spenta, per accorgersi dello sprigionarsi in essa del fuoco. È dello spirito sconcertare, scompigliare rimescolare, riplasmare, perché è forza e movimento di trasformazione e trasfigurazione. Egli “irriga ciò che è arido”, “sana ciò che sanguina”, “lava ciò che è sordido”, “piega ciò che è rigido”, “scalda ciò che è gelido”, raddrizza ciò che è sviato”.

«Spirito ardente, Fuoco fondamentale e personale, Termine reale di un’unione mille volte più bella e desiderabile della fusione distruttrice ideata da un qualsiasi panteismo, degnaTi di scendere, ancora questa volta, sulla fragile pellicola di materia nuova in cui oggi si avvolgerà il Mondo, per darle un’interiorità. Ancora una volta, il Fuoco ha compenetrato la Terra. Non è caduto fragorosamente sulle cime, come il fulmine nella sua violenza. Ha forse bisogno di sfondare la porta il Maestro che vuole entrare nella propria casa? Senza scossa, senza tuono, la fiamma ha illuminato tutto dall’interno. Dal cuore dell’atomo più infimo all’energia delle leggi più universali, essa ha invaso, uno dopo l’altro e nel loro insieme, ogni elemento, ogni meccanismo, ogni legame del nostro Cosmo in modo così naturale che questo, potremmo credere, si è spontaneamente incendiato», (Teilhard de Chardin, Inno dell’Universo, Milano Brescia 1992, 11; 13).

Domani è Pentecoste; la beata Pentecoste. Le celebrazioni dell’anno liturgico si sono sviluppate gradualmente secondo le esigenze delle comunità cristiane che all’inizio, la domenica, celebravano il giorno del Signore, la sua Pasqua. La celebrazione annuale della Pasqua era considerata la “grande domenica”, perché si allargava, moltiplicava i giorni come fossero un unico giorno. Essa incluse così i giorni del triduo pasquale e la settimana dell’ottava di Pasqua, per poi allargarsi in una cinquantina di giorni fino al culmine della Pentecoste: la grande domenica del Cristo risorto asceso al cielo e datore con il Padre dello Spirito. Da questa “domenica distesa” inizia il «giorno nuovo», che i Padri della Chiesa han chiamato «l’ottavo giorno» perché in esso confluiscono e trovano compimento i sette giorni della creazione e tutti i giorni del mondo a venire.

Come ricorda Alfredo Cattabiani in due suoi testi (Calendario, Milano 1993; Florario, Milano 1997) Pentecoste è chiamata anche “Pasqua delle rose”. Per questo, volendosi rappresentare visivamente la discesa dell’unico Spirito in multiformi fiammelle sui discepoli radunati con Maria nel cenacolo, in molte chiese durante la messa di Pentecoste si facevano piovere rose, fiori e talora addirittura batuffoli di stoppa accesa dal soffitto al canto della sequenza Veni, Sancte Spíritus,  emítte cǽlitus lucis tuæ rádium. Così le rose diventavano raggi di luce, simboli della discesa dello Spirito che, come narra l’evangelista Luca, quel giorno si manifestò sui discepoli come lingue di fuoco che si dividevano e si posavano su ciascuno di loro: tanto che, pieni di Spirito santo, essi cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi.

Doveva essere uno spettacolo unico la Pentecoste celebrata nel Pantheon a Roma nel rione Pigna durante il medioevo. Costruito come tempio dedicato a tutte le divinità pagane dell’impero, fu trasformato in chiesa cristiana con il titolo di Sancta Maria ad Martyres. Mentre il papa benediceva la gente raccolta in preghiera, dal lucernario della cupola cadevano sui fedeli una pioggia scrosciante di petali di rose.

La rosa è classificata da Cattabiani tra i “fiori dell’assoluto”: tant’è che insieme al fuoco ben si presta a simboleggiare lo spirito e la sua audacia che spera contro ogni speranza. Non diversamente dal fuoco infatti, sensibile a ogni cosa, anche lo Spirito tutto attraversa senza mescolarvisi, tutto abbraccia senza che nulla lo possa comprendere. Ma non meno pregnante è l’analogia dello Spirito con la rosa, in cui tutto converge verso il centro, un’unità che, a sua volta, si irradia ed è irradiante di una pluralità differenziata e multiforme, delicata, odorosa, dipinta nei suoi petali che sprigionano, affrettandosi lentamente, da essa come ad intenerire perfino le spine dello stelo che la sorregge.

Lo Spirito a Pentecoste è audace, coraggioso, osa l’impossibile, ardisce là dove tutto sembra perduto. Si spinge fin dentro la morte di acque putride; riapre i giochi e le sorti che erano stati decretati chiusi con sentenza definitiva: quale illusione, mi viene da pensare al cartiglio (il titulus crucis) fatto scrivere in più lingue da Ponzio Pilato e appuntato alla sommità della croce.

Non viene meno lo Spirito alla sua missione, quella di inoltrarsi intrepido e consegnarsi all’oscurità muta e ambigua dell’Avvenire, penetrando in esso «con olio di letizia invece che con l’abito del lutto, con un canto di lode al posto di un lamento» (Is 61, 1-9). Non indietreggia in questo esodo cosmico. Precorritore e ‘cursore’ nell’infinitamente piccolo, ‘vettore’ nell’infinitamente grande, ‘errante’ nell’infinitamente complesso. Egli avanza, indicando sempre la posizione di inserimento o quella del raccordo, il punto di incontro, l’arrivo e la partenza, l’orientamento e le prospettive che si irradiano da essi. Questo lo fa e rifà anche con noi, come un vasaio al tornio che non getta l’argilla deformata, ma la riplasma sempre di nuovo, con la stessa determinazione ardente con cui spinse Mosè ed il popolo ad attraversare il Mare Rosso e ad abitare per quarant’anni il deserto prima di approdare alla terra promessa; con la stessa risolutezza con cui spinse Gesù nel deserto per poi discendere su di lui come dono di consolazione, di liberazione, di perdono, di gioia trasformandolo nel Vangelo del Regno, buona notizia per le genti.

E così, è ancora lui che genera l’audacia della nostra fede, di quella fede che opera come libertà che si affida, resa capace di praticare l’abisso dell’alterità per scoprivi anche Dio: «Se uno dicesse: “Io amo Dio”, e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede», (1Gv 4,20). Scrive ancora quel “pellegrino dell’Assoluto” che fu Teilhard de Chardin: «La Fede cristiana vi sembra lavorare nell’irreale, costruire nelle nubi? È perché, precisamente, non avete tentato di ‘lanciarvi’, sorretti da essa, nello spazio in cui, sola, essa vi permette di ‘vedere avanzando’. Il legame misterioso che correla, nella nostra anima, le facoltà di vedere e di agire, è questo: la realtà si rivela solo a coloro che sono abbastanza audaci per ‘deciderla vera’ e mettersi a edificarla in se stessi. Il Cristo ‘si sperimenta’ come tutti gli altri oggetti con l’operazione della Fede, è il Cristo stesso che appare, che nasce, senza nulla violare, nel cuore del Mondo… Ma ripetiamolo ancora una volta: “In verità, in verità vi dico, soltanto gli audaci accedono al Regno di Dio nascosto, sin d’ora, nel cuore del Mondo. Colui che, senza porre la mano all’aratro, penserà di averle intese, è un illuso. Bisogna tentare. Di fronte all’incertezza concreta del domani, bisogna esserSI abbandonati alla Provvidenza. Nella penombra della Morte, bisogna essersi costretti a non volgere gli occhi verso il Passato, ma a cercare, in piene tenebre, l’aurora di Dio: “più ci sentiamo affondare nell’Avvenire infido e oscuro, e più penetriamo in Dio, (La fede che opera, in La vita Cosmica, Milano, 423; 425).

Domani quando pregherò con le parole del nuovo messale sul pane e sul vino dicendo «Padre santifica questi doni con la rugiada del tuo Spirito» cercherò di ricordare questo frammento poetico di Th. S. Eliot: «E tutto sarà bene, e/ tutte le cose saranno compiute./ Quando le lingue di fiamma si avvolgeranno/ nel coronato sviluppo di fuoco/ E il fuoco e le rose saranno uno», (Quattro Quartetti, Book ed. Ferrara 2002, 76).

 

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

Al cantón fraréś
Bruno Pasini: a Milva “Par na guranta”

 

Al primo concorso provinciale in dialetto ferrarese a Portomaggiore (1966) il primo premio è assegnato a Bruno Pasini con una poesia dedicata a Milva, come si evince dall’antologia 1966-1971 della manifestazione portuense.
Nella lirica spicca una sensuale figura femminile, il paesaggio al tramonto, i venti tra i filari. L’erotismo è risaltato dalla luna che illumina il mare, la Sacca, l’amante. Poi la solitudine: un passionale distacco fra musicalità e profumi del mare.
(Ciarìn)

Par na guranta
           a Milva
Agh jéra int i to oć da sgranadóra
al fógh dal sól ch’al filtra int la basóra
ad dré da j’éls, bariera vérda ai vént
che i vién dal mar, quand l’onda l’è in turmént;
agh jéra int i to oć al fiór dal mal
ch’l’iηspciàva la miseria dla to val!
Na zìηgana at parév, coi cavì d’ram;
al nòstar nid al jéra uη lèt ad stram!
At luśéva i cavdìη sót’a la luna
come pigη śerbi iηcór tacà a la fronda
dla to pineta, quéla iη faza a l’onda
dal nòstar mar, che sót’a cal luśór
al s’pituràva tut d’arźént e d’or,
come la dstéśa dla to Saca d’Gòr!
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Dop t’at n’andàv pr’al to santiér d’carśìna,
come na bisa tra l’intrìgh dil cann,
spaciarànd coi pié scalz int l’aquastrìn…
sól… mi a vaηzàva… col cuηzèrt dil rann…
e con adòs l’udór dl’alga marina!

Per una gorese

C’era nei tuoi occhi insaziabili / il fuoco del sole che filtra nel tramonto / dietro ai lecci, barriera verde ai venti / che vengono dal mare, quando l’onda è tumultuosa; / c’era nei tuoi occhi il fiore del male / che specchiava la miseria della tua valle! / Una zingara sembravi, coi capelli di rame; / il nostro nido era un letto di paglia! / Ti luccicavano i capezzoli sotto la luna / come pigne acerbe ancora attaccate alla frasca / della tua pineta, quella di fronte all’onda / del nostro mare, che sotto quel lucóre / si dipingeva tutto d’argento e d’oro, / come la distesa della tua Sacca di Goro!
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Dopo te ne andavi per il tuo sentiero di carice, / come una biscia tra l’intrigo di canne, / sguazzando coi piedi scalzi nell’acquitrino… / solo… rimanevo… col concerto di rane… / e con addosso l’odore d’alga marina!

Tratto da: Poesia dialettale ferrarese : antologia dei componimenti poetici premiati e segnalati a Portomaggiore nei concorsi 1966-1971, Ferrara, SATE, 1972.

 

Bruno Pasini (Massafiscaglia 1916 – Ferrara 1999)
Altre note biografiche nel Cantóη Fraréś in data 08 maggio 2020  [Qui]

 Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca (Qui)

In copertina:  Verso il mare – foto di Marco Chiarini, 2020

Gerusalemme! Gerusalemme!

 

Gerusalemme è da sempre la città crocevia tra Oriente e Occidente con un flusso costante di genti, luogo di fede e oggetto di devozione, posta in gioco di incessanti conflitti politici; una delle città più cariche di memoria e più controverse al mondo, dove lo spirito del tempo è presente in ogni pietra, sulla soglia di ogni portone, nelle stradine, sui muri a secco e tra gli uliveti. Islam e Cristianesimo vivono sullo stesso suolo in un perenne tentativo di convivenza sotto minaccia della guerra civile, al centro di una contesa millenaria che fa affiorare tensioni, odio, posizioni identitarie, rigide e intransigenti. E’ la Città Santa per le tre grandi fedi monoteiste che “insistono sugli stessi centimetri quadrati e perciò plesso solare, concentrato di nervi con più conflitti che altrove”, come la definisce Erri de Luca. E’ soffocata sotto la pressione delle proiezioni e responsabilità, stritolata dalle strategie e compromessi, ferita dalle rivendicazioni e appropriazioni. E’ una città-mondo, un palcoscenico sul quale il mondo intero si dà appuntamento per affrontarsi, misurarsi, scontrarsi, posto sotto i riflettori dell’intera comunità internazionale. Un osservatorio, un laboratorio in cui realtà diverse, storie contrastanti, sperimentazioni di guerra e di pace non hanno mai smesso di coesistere.
Gerusalemme non è solo Israele e Palestina: è molto di più.
L’immaginario su Gerusalemme porta Torquato Tasso a scrivere ‘Gerusalemme liberata’, la cui prima edizione autorizzata dall’autore – preceduta da altre pubblicazioni prive del suo consenso – avverrà a Ferrara nel giugno del 1581 per essere poi pubblicata, completamente riscritta dal Tasso, nel 1593 con il nuovo titolo ‘Gerusalemme conquistata’. Nell’opera si battono eroi cristiani come Rinaldo e Tancredi ed eroi musulmani come Clorinda e Argante. Duelli, inganni, amori e fughe, battaglie, pretesti, stratagemmi, arti magiche, rivolte e incantesimi animano i 15.336 versi dei 20 canti del poema, anticipando con la fantasia e l’immaginazione una storia che sfocia ai giorni nostri nella realtà più cruda, dove l’assenza di arti magiche e incantesimi riconduce il tutto a un realismo ineluttabile.

Ci hanno pensato gli scrittori Dominique Lapierre e Larry Collins con ‘Gerusalemme, Gerusalemme!’ (1972) a introdurci nel terreno dell’evidenza, nella Gerusalemme del 1948, mentre gli ebrei scendevano nelle strade per festeggiare la nascita dello stato di Israele e gli arabi si preparavano alla lotta. Una narrazione che racconta di uomini, fatti, drammi che accompagnano la decisione delle Nazioni Unite del 1947, con la quale si decretò la separazione della Palestina. Un romanzo che tratta con grande attenzione e sensibilità i sei mesi successivi, descrivendo i protagonisti politici dell’epoca, l’organizzazione degli schieramenti, la corsa agli armamenti, gli scontri per guadagnare territorio, le mattanze perpetrate. Niente di fazioso, semplicemente Storia.
E la storia continua in ‘Una storia di amore e tenebra’ (2002) di Amos Oz, un libro autobiografico in cui l’autore racconta quattro generazioni della sua famiglia ebrea, la sua infanzia e giovinezza a Gerusalemme e quindi nel kibbutz di Hulda. Una saga familiare che evidenzia la paura costante di un nuovo genocidio degli ebrei nella stessa Israele, fa emergere ricordi e rimpianti, spaziando in 120 anni di avvicendamenti di quella società eterogenea. “[…] Molti anni dopo mi resi conto che la Gerusalemme sotto mandato britannico, cioè negli anni Venti, Trenta, Quaranta, era una città culturalmente affascinante, popolata da grandi mercanti, musicisti, studiosi e scrittori, ebrei e arabi che si intrattenevano con inglesi illuminati. Tel Aviv pullulava di teatri, cabaret, arte d’avanguardia, il balletto e grandi sport. […]”. Città che ricorda con ammirazione e nostalgia.
La scrittrice palestinese americana Susan Abulhawa nel suo romanzo “Ogni mattina a Jenin” (2011) racconta la storia della sua famiglia costretta a lasciare la propria terra dopo la nascita di Israele, i suoi primi anni in orfanatrofio e ciò che ha significato per tutti loro vivere la condizione di “senza patria” dopo l’abbandono della casa degli antenati nel ’48, per essere internati nel campo profughi di Jenin. 60 anni di esodo, di sradicamento narrati senza odio o spasmodica ricerca di colpevoli ma con un profondo bisogno di lasciare a figli e nipoti il ricordo. C’è anche un capitolo particolare in quella storia: due fratelli, l’uno rapito e condotto a diventare soldato israeliano, l’altro votato alla causa palestinese.

E veniamo alle vicende attuali, che evidenziano ancora una volta la profonda spaccatura mai superata, l’odio, il disprezzo, il linguaggio politico violento, il rifiuto dell’altro, che nascono dalla decisione politica di espansione di insediamenti ebraici a Gerusalemme est, sconvolgendo l’equilibrio delicato e precario già molte volte infranto.
La storia del quartiere Sheikh Jarrah è ancora più controversa e complicata e attinge a un passato lontano, quando all’interno della comunità prevalentemente araba, si stanzia una piccola enclave ebraica. Di qua passa la green line di confine tra Israele e la Giordania, tracciata dall’ONU nel 1948. Le tensioni e gli scontri aperti di questo periodo nascono in seguito allo sfratto di diverse famiglie Palestinesi (circa 300 persone) sancito dai tribunali israeliani, a beneficio di cittadini ebrei che chiedono di riappropriarsi, secondo tradizione giuridica consolidata nel tempo, delle case abbandonate prima del ’48.  Ennesimo fatto che, partendo da una questione giuridica assume connotati politici e va ad aggiungersi alla storia infinita del Medioriente. Una brutta storia devastante che si snoda come una catena, anello dopo anello, in una continuità che non lascia intravvedere una risoluzione certa e definitiva finché esisterà il concetto di ‘buona guerra’ o ‘cattiva pace’: esiste solo la volontà di dialogo, l’aspirazione a vivere con dignità e la volontà di non perdersi nell’odio.

 

La settima costola di Emanuele Tumminelli in libreria dal 29 maggio

da BookTribu

Una storia ispirata a un fatto realmente accaduto: la nascita di due gemelli attaccati dalla settima costola in giù. Sarà in libreria da sabato 29 maggio La settima costola di Emanuele Tumminelli, edizioni BookTribu, per la collana Black Out. Nel Piemonte di fine Ottocento, la famiglia Bertocci viene sconvolta dall’arrivo di qualcosa di mai visto: un figlio con due teste, quattro braccia e due gambe. In paese il parto è definito demoniaco e i genitori accettano di far esibire i figli nel circo di due impresari senza scrupoli.

La settima costola è la storia di due vite straordinarie non solo per la loro particolarità fisica che li vede gemelli uniti dalla settima costola, ma per le vicende che li riguardano. Essendo il romanzo ispirato a un fatto di cronaca, il lettore è catturato dalla curiosità di comprendere a fondo i protagonisti, e dal desiderio di scoprire di più della loro vita e delle loro disavventure. A volte con gli occhi del padre. A volte con quelli della madre. Sempre interrogandosi sul valore della vita e al peso così diverso che ciascuno le attribuisce.

“Capire ciò che spinge un padre a detestare i propri figli fino a farli stramazzare per la stanchezza o sperare per la loro morte fin dal primo vagito – spiega l’autore Emanuele Tumminelli – è la riflessione che si estende lungo la narrazione. La diversità è sempre un valore, anche per chi non vuole accettarlo”.

E Tumminelli riesce, infatti, inserendo la narrazione in una ambientazione storica ricca di approfondimenti, a fare comprendere quanto il diverso sia in realtà simile, e come si può amare chi non è come noi, e odiare chi si crede normale in un mondo di pazzi.

Emanuele Tumminelli è nato e cresciuto a Vittoria, nel sud est della Sicilia. Lascia la casa paterna durante il liceo per seguire il suo amore per la pallavolo, praticata in seguito per molti anni. Abita a Bologna con la sua compagna e la figlia.

Parole a capo
Roberta De Tomi: “Human being” ed altre poesie

“Per me la poesia è un tentativo malizioso di dipingere il colore del vento.”
(Maxwell Bodenheim)

Madama le Triste (Le streghe hanno il becco al collo)

Ciondola dal suo collo
il vessillo del vassallo
che fu di Madre Terra
prigioniera per un deca.

Non si accorge il misero
di ciò che ha lasciato
nel cuore germinare
in bilico tra due poli.

Il male prolifera
come carie in un dente
senza più sane radici
tra labbra seducenti.

Si estende al resto
come una piaga d’Egitto
estesa oltre il bacino
di mare e oceano e cielo.

La morte è l’unica soluzione
ma anche il convoglio con
tanta voglia indietro torna
se il binario improvviso si rivolta

Il capotreno tiene una corona
innaffiata dal tè fluttuante
di una vecchia teiera
ricordo dei dì dell’Impero.

Da “Alice nel labirinto” – DAE – 2017

Human Being

Le illusioni si raggrumano
nel nodo della cravatta
che rimpiazza la frusta
con i sorrisi rassicuranti
di un buonismo che scivola
tra le maglie della retorica
che sciorina gli aiuti
sulla pelle di chi fugge
perché crede nel Paradiso
del grande Luna Park
che a Occidente regala
zucchero filato e firme
opulenti alla fragola
ammuffita quando ecco
la porta del retro si apre
sul campo di lerce baracche
bagnate da sangue e sudore
di lacrime che non scorrono
per evitare le crude sferzate
del vento e della frusta
dell’amico in maglietta
che le manette intorno ai polsi
fa scattare sulla libertà
di un’illusione indotta
a far numero sul terreno
delle nuove schiavitù
che di oro fan scintillare
le tasche silenti di eroi
che si chiamano salvatori
ma sono fulgidi cannibali
saliti sul carro allegorico
di un Carnevale di eroi
spinti dal nuovo vento del Sud.

De Tomi Roberta – Da “I versi che uniscono” di Autori e autrici vari – Antologia a cura di Luigi Golinelli

 

Inedite

Giustizie urgenti

Giustizie urgenti
per i fischietti,
mangiamo fagioli,
pomodori, piselli e patate,
aspettando la giustizia
di poter vivere un sogno
tracciando i solchi del CV
declassato in serie Z
mentre in A aspettano le ferie.
Le classi dormono in cielo
sperando nell’Uomo allo Specchio,
che dissolva la paura di toccare la Terra
sollevando il velo, ultimo titolo
ingannevole come il cuore
sopra ogni apparenza.

 

Siamo fatte

Siamo fatte di sangue,
di cicli che nascondono Selene,
di lacrime asperse nella notte,
di figli nati, di semi incolti e bulbi secchi.

Siamo anime sciolte da etichette
che chiudono le gabbie della mente
lasciando l’illusione di libertà
tra i ronzii e i pungiglioni delle api regine.

Siamo gatte e pantere di lussuria
che vendono i loro sogni alle luci del successo
spacciando l’asta per un volontario godimento
che nasconde il prezzo del cartellino.

Siamo il nostro nome che la morte non cancella
nella solitudine della notte
cerchiamo polvere di stelle e gocce di rugiada
ma troviamo graffi e indifferenza.

Siamo anime accese come candele
che nessun vento può spegnere,
seminando zizzania non si accorge
dei diamanti sparsi tra petali all’improvviso.

(A Sarah, ad altre donne)

Roberta De Tomi è nata a Mirandola (Modena) negli anni Ottanta. Dopo la laurea al Dams di Bologna, ha iniziato a collaborare con alcune testate giornalistiche. Parallelamente, ha svolto mansioni legate alla comunicazione e agli eventi culturali. Nel 2012 è stata curatrice, insieme al poeta modenese Luca Gilioli, dell’antologia solidale “La luce oltre le crepe” (Bernini), sul tema del terremoto che ha sconvolto buona parte del Nord Italia. Dal 2014 ha iniziato a pubblicare con alcuni editori indipendenti. Tra i titoli: Come sedurre le donne (How2 Edizioni, 2014), Chick Girl – Azalee per Veridiana (Delos Digital, 2016), Alice nel labirinto (Dae Editore, 2017). Quest’ultimo, seguito dei romanzi di Lewis Carroll in formato librogame, ha ricevuto il secondo premio ex-aequo all’interno del Trofeo Cittadella per il miglior romanzo fantasy 2019. Il romanzo ha anche ispirato il booktrailer musicale I’m a prisoner dei NovelToy, diretto dal regista Giulio Manicardi. Allieva di Bottega Finzioni nel 2019, Roberta tiene anche docenze di scrittura creativa, gestisce pagine Social per enti e cura il blog La penna sognante. Nel 2020 ha auto-pubblicato il racconto lungo urbanfantasy Melody, la Vestale di Inventia, il mistery Erika e il mistero della Regina delle Fate; infine, il thriller Trappola d’ardesia (Delos Crime). Nel 2021 ha autopubblicato il mainstreaming sui temi della precarietà e dell’amore, Il maledetto residuo nel cuore.

La rubrica di poesia Parole a capo esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. 
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FANTASMI
Luci e ricordi arrugginiti

 

Il telefono squilla nel cuore della notte e mi sveglia: dannazione! Un’occhiata fugace sul comodino, sono le 2:04. Chi sarà?

Cerco la vestaglia, inforco gli occhiali, infilo le pantofole, arrivo un po’ trafelato al telefono ma ora non squilla più. Utente sconosciuto. Torno a letto. E adesso, chi riprende più sonno? Mi chiedo ancora confuso e stralunato chi potrebbe aver chiamato: un uomo o una donna? un astronauta che si sente solo oppure magari un sergente che mi cerca…? Non ho alcuna risposta, probabilmente sarà stato un errore. Però quella persona ha fatto squillare almeno tre-quattro volte, forse cinque.
Quindi era qualcuno che voleva proprio parlare con qualcun altro, forse con me: dopo alcuni squilli potrebbe aver cambiato idea oppure ha ragionato sul fatto che fossero quasi le tre di notte. In realtà io non aspetto nessuna chiamata urgente o dall’altra parte del mondo, perciò posso anche rimettermi a dormire.
Ma ora lentamente nella mia memoria assonnata riaffiorano pensieri e ipotesi su tante persone che potrebbero avere motivo di chiamarmi da altre città, paesi, pianeti o dimensioni, anche di notte, soprattutto di notte. Fantasmi assopiti nella mia mente semi-sveglia: nessuno di loro mi fa paura, anzi con tutti vorrei parlare per chiarire qualcosa e raccontare cose non-dette. Così ritornano in superficie anche innumerevoli memorie quasi dimenticate, bollicine con la coda come le note di una lontana serenata, oppure veloci comete, di quelle che lasciano una traccia luminosa nel cielo. Alcuni pensieri sono dolci e piacevoli, avvolti da un alone colorato come stelle di un’aurora boreale, altri pungenti e duri come i diamanti che rigano i ricordi vetrificati. Ma spesso sono sfocati e ossidati dal tempo, ruggine che fa cigolare i cardini della porta della mia memoria.

Verso le tre arrivo a una conclusione: se il telefono non squilla più vuol dire che si è trattato semplicemente di un errore o di un banale contatto, se risquilla invece devo assolutamente rispondere. E così finalmente riprendo sonno.

All’improvviso squilla ancora il telefono, sono le 4:02: mi catapulto giù dal letto scatenando una folle tachicardia di cui non capisco il motivo, e rischiando fratture multiple arrivo fino al mobile su cui ho appoggiato il telefono, che la mia mano afferra prima del secondo squillo. Ma non risponde nessuno: solo un lontano suono acuto, che ricorda il cigolìo di un cancello che si chiude, oppure che si apre, chi può dirlo. Poi la linea si interrompe con un rumore secco, come quello di una porta sbattuta dal vento.

Ritorno a dormire. Mi sveglio con il suono della radiosveglia alle ore 7:00 e le note di una canzone di Joan Baez*: soltanto allora incomincio a capire chi fosse dall’altra parte del telefono.
*) Joan Baez: Diamonds and Rust [Qui]

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A Ferrara la cultura è un affare di famiglia

A Ferrara la cultura sembra diventata un affare di famiglia. Giuseppe Antonio Ghedini da Ficarolo è stato un pittore di un certo valore, attivo nel diciottesimo secolo. Da quello che leggo, Ghedini donò alla Biblioteca Ariostea di Ferrara trentuno disegni, risalenti al 1736, anno in cui era già a Venezia. Questi disegni sparirono dalla Biblioteca per riapparire dopo centinaia di anni nel negozio di un antiquario milanese. Amici della Biblioteca Ariostea, Amici dei musei e dei monumenti ferraresi, Ferrariae Decus e Deputazione di Storia Patria, nell’ottobre 2020, contattarono il Comune di Ferrara per consigliarne l’acquisto. Il valore stimato era di 20mila euro e le stesse associazioni si resero disponibili a fare una colletta per contribuire all’acquisto. Sorvolo sulla misteriosa sparizione dei disegni da un ente pubblico e sulla loro altrettanto misteriosa ricomparsa presso una bottega privata: credo che nel mondo dell’arte, dopo più di duecento anni, ipotizzare un reato di ricettazione sia impossibile, se non altro per l’impossibilità non di immaginare, ma di dimostrare la provenienza delittuosa (ad esempio il furto) di quelle opere, che potrebbero essere nel frattempo passate per chissà quante mani. Più difficile è sorvolare sulla condotta torpida dell’assessore alla Cultura Gulinelli, che, citiamo dall’articolo di estense.com (https://www.estense.com/?p=909149): “dopo lunghi silenzi e ripetute sollecitazioni”, fa sapere (in aprile 2021) che l’amministrazione sta “valutando anche la possibilità di acquistarli non direttamente ma attraverso una Fondazione privata che li donerebbe al Comune e questo agevolerebbe le procedure tecnico amministrative trattandosi di un antiquario privato”. E quale sarà mai questa fondazione? Se un bookmaker avesse deciso di quotare le probabilità che non si trattasse della Cavallini-Sgarbi, uno scommettitore che avesse puntato un euro ne avrebbe potuti vincere diecimila. Virtualmente, in quanto le probabilità che non si trattasse di quella fondazione erano simili a quelle che il razzo cinese cadesse su Ferrara. Infatti Vittorio Sgarbi, in occasione della presentazione del rinnovato e restaurato Palazzo Schifanoia, ha svelato l’inesistente arcano, affermando che la Fondazione di famiglia ha acquistato i disegni per poi prestarli al Comune, anzi al museo Schifanoia stesso, per una esposizione ad alto tasso di tecnologia, mentre se li avesse presi il Comune per rimetterli alla Ariostea, quei disegni sarebbero finiti dentro uno scrigno, invisibili ai più.

Rimane un mistero (questo sì) l’assioma secondo il quale il Comune non potesse fare la stessa cosa, ovvero rendere fruibile l’opera dopo esserne divenuto proprietario, invece di farsela prestare da una fondazione privata, intestata all’attuale Presidente di Ferrara Arte, che potrà deciderne il trasferimento altrove. A discrezione ed a spese di chi saremmo pronti a scommettere, consci che la quota di vincita stavolta sarebbe misera: a discrezione della fondazione, a spese del Comune. Questo almeno era lo schema originario della convenzione tra fondazione e Castello Estense sull’utilizzo della collezione privata in mostra al Castello stesso: una robusta percentuale degli incassi (compresi quelli di chi voleva solo visitare il castello e non la collezione) a favore della famiglia Sgarbi, tutte le spese (comprese quelle di eventuali trasferimenti dell’esposizione) a carico del Comune.

Il problema non è tanto (o non solo) la nuova filosofia della politica culturale a Ferrara, fatta di molte ombre (tra tutte, l’azzeramento della prestigiosa gestione delle mostre ai Diamanti in favore di pacchetti preconfezionati non originali e riproposti in mezza Italia) e qualche luce (Schifanoia?). Non sono scandalizzato dal “traffico di influenze” esercitato da Sgarbi per portare alla direzione del Teatro Moni Ovadia, almeno fino a che la sua libertà artistica e creativa potrà dispiegarsi in piena autonomia. Qualche dubbio sull’autonomia in effetti viene, pensando alla turbolenta conclusione dell’esperienza da Presidente del Teatro di Mario Resca. Tuttavia il percorso del Teatro si apprezzerà vedendone il cartellone e misurandone la qualità della proposta artistica. Non sono nemmeno sorpreso o, peggio, indignato per l’ingombrante ed egotista presenza di Sgarbi, che si sta prendendo la rivincita da “profeta in patria” dopo anni in cui i tentativi di collaborazione con il Comune sono falliti, o sono stati coronati da modesto successo (la mostra della collezione privata in Castello, sotto la vecchia Giunta, ha staccato molti meno biglietti del previsto). Uno come Vittorio Sgarbi non può che fare l’assessore alla cultura de facto: sotto questo aspetto, la scelta di assessore di diritto non poteva che cadere su un amico dimesso, dal profilo impalpabile, patetico nel ruolo di spalla dello Sgarbi sarcastico e veemente, tanta è la differenza di temperamento che ce lo fa quasi apparire un tenero e disadattato prestanome. Quello che disturba e reclama una attenzione anche formale è il costante conflitto di interessi tra il ruolo pubblico e quello privato, come se tutto quanto viene proposto alla cittadinanza dovesse risultare frutto di una “concessione” o di un “prestito” (non gratuito) della famiglia al popolo, con il Comune a fare addirittura da procacciatore d’affari, come nel caso dei disegni di Ghedini. A Ferrara la cultura sembra essere diventato un affare di famiglia. Sempre la stessa.

Le Sardine sulla questione inceneritore
La giunta Fabbri deve ascoltare i cittadini e il territorio.

Comunicato stampa Sardine Ferrara.

Le Sardine ferraresi sostengono la manifestazione in piazza:
«Bisogna unirsi e protestare contro chi fa gli interessi di pochi sulla pelle di tutti».

Le Sardine ferraresi sono preoccupate per il futuro ambientale di Ferrara e si schierano dalla parte dei cittadini, seguendo l’esempio della Rete per la Giustizia Climatica: scendiamo in Piazza Castello, venerdì prossimo, alle 17.30, e partecipiamo uniti a “Ci siamo rotti i polmoni”, la manifestazione contro l’aumento dei rifiuti bruciati nel nostro inceneritore. Perché la giunta leghista ha avvallato la decisione di aumentare lo smaltimento di scorie provenienti anche da altre regioni, oltre le 50mila tonnellate prodotte dalla nostra provincia, secondo l’accordo stipulato tra Comune ed Hera? Per quale possibile introito?

Invece di accrescere i rifiuti da infornare nel termovalorizzatore, peggiorando la qualità dell’aria di un’area geografica con alcuni tassi d’incidenza tumorale inferiori solo a Taranto, andrebbe ottimizzato il sistema della raccolta differenziata e del riciclo plastico, nonché incentivata una filiera occupazionale basata sul riutilizzo dei materiali e dello zero waste. Per mesi non è stato comunicato alcunché ai cittadini, costretti a subire un progetto che per il profitto di pochi calpesta la salute di tutti, specialmente dei nostri figli.

Eppure la Lega spende centinaia di migliaia di euro l’anno in comunicazione, ma decide di omettere una presa di posizione cruciale, che nulla ha a che vedere con la straordinarietà presentatasi in occasione dello smaltimento eccezionale dei rifiuti pugliesi di qualche anno fa. Un’occasione, quest’ultima, favorevole per l’attacco della Lega con a capo Salvini, che nel 2014 si presentò in loco per pura propaganda. E proprio Fabbri allora si espresse così: «Diciamo no a questa vergogna». Sono altrettanto vergognose, a nostro avviso, la falsa retorica e la grave omissione del Sindaco e del suo entourage. Non è da tralasciare la leva contrattuale che il Sindaco sta sprecando: in qualità di presidente Atersir ed essendo Hera in proroga sulla gestione del servizio, Fabbri potrebbe pretendere dalla s.p.a. dei comportamenti più benefici, rinunciando alla logica del profitto industriale a favore della nostra salute.

Parimenti, sono insufficienti e sconcertanti le giustificazioni dell’assessore all’ambiente Alessandro Balboni che si è rintanato pubblicamente dietro la conferenza dei servizi e ha sventolato tecnicismi prodotti, non a caso, dagli uffici di Hera in totale controtendenza con le esigenze ecologiche del nostro territorio. Non c’è alcun decreto che abbia obbligato il Comune ad assecondare la multiutility. La nostra salute non deve essere frutto di un compromesso, per di più essendo la prima città in Italia per la raccolta differenziata e grazie agli sforzi dei ferraresi. L’assessore Balboni, che sui social ci ha sommerso di foto in tenuta Plastic Free, strumentalizzando l’impegno e l’entusiasmo di decine di volenterosi, ci ha preso in giro? Che senso ha siglare protocolli d’intesa coi cittadini, se poi non coinvolge l’opinione pubblica su scelte fondamentali? Le apparenze con il sacco nero in mano e i guanti non bastano più, sono figlie dell’opportunismo e di un politicare vecchio stampo che finge di ascoltare le persone per poi favorire le carriere dei singoli. E i loro privilegi.

DIARIO IN PUBBLICO
Letture e avvenimenti: Ferrara e altro

 

mannekin pisIl Manneken Pis la celeberrima statuina di Bruxelles alta una cinquantina di centimetri è ormai nella mentalità maschile corrente il referente artistico più citato, in quanto nell’immaginario popolare per la ‘pissa’ di una certa età si propongono infiniti rimedi e pilloline.

Quanto alla donna invece è il Push Up ciò che infiamma il desiderio femminile: la ‘tetta erta’.push up

Su queste due immagini si costruiscono fortune che fanno dimenticare pandemie e lockdown.

Ma la continua ricerca che continuo a condurre sui canali tv più frequentati m’informano dell’orrido che avanza e che piace tanto agli italioti di ogni età. C’è ad esempio un programma il cui titolo leggermente blasfemo mette in mostra concorrenti mezzi scemi, che si combattono a suon di musica e danza. Si chiama Gli Amici di Maria. Ogni spiegazione del titolo risulta puramente pleonastica. Si passa poi agli orrori della cronaca quotidiana, dove veri (?) giudici comminano pene e premi a situazioni familiari egregiamente rappresentate da attori di strada, o giù di lì e il solenne titolo Forum ne è la garanzia. Infine l’ossessione della Eredità, che ogni sera mi vede perdente per la mia vergognosa ignoranza su quesiti sportivi, tiene ancora bene a causa anche delle due bambolotte smorfiosette chiamate professoresse e l’indubbia capacità del conduttore Flavio Insinna.

la città delle cento meraviglie
Ne La città dalle 100 meraviglie ovverossia I misteri della città pentagona. (Roma, Casa d’Arte Bragaglia, s.d. (novembre 1923). Copertina di Annibale Zucchini) Filippo de Pisis [Qui] mette in luce tra sarcasmo e ironia le lordure e non solo i pregi della ‘Frara’ da lui amata e studiata.

 

la poetica della meravigliaOra un nuovo libro ripropone la figura e la qualità della scrittura depisisiana: Miriam Carcione, La poetica della meraviglia. Filippo de Pisis scrittore, Bulzoni editore, Roma, 2021.
Finalmente si ripropone la figura del grande scrittore/pittore con una aggiornata bibliografia e con un’attenzione alla storia del testo, che sembra sia stata sempre più dimenticata in questi decenni.

La lettura di quel testo mi scaraventa nei meandri più infimi di ciò che a Ferrara, città del Worbas ( e non hélas come sfugge alla penna dell’introduttrice del libro del ‘Worpas’), è accaduto in questi giorni. Una nutrita schiera di persone, si parla di 300/400  l’8 maggio si è riunita per partecipare alla manifestazione titolata No paura day Ferrara in Piazza Castello, ad ascoltare tanti interventi che, come suona la recensione, sono stati “di scrittori, medici, farmacisti, naturopati, giuristi tutti attivisti per la Difesa della Libertà e la fine immediata dello Stato d’Emergenza.”

Peccato che molti di loro erano privi di mascherina, oltre a non rispettare le distanze di sicurezza. Da qui sono scattate le sanzioni, che hanno multato parecchi di loro, ma hanno innescato una sgradevolissima polemica con il proprietario dell’hotel Annunziata, che aveva protestato per la mancanza di attenzione a quelle regole che così faticosamente i più attenti si sono date. A questo punto il proprietario dell’hotel, che aveva espresso un parere molto equilibrato, viene attaccato nel modo più subdolo, in quanto uno dei promotori spedisce a Booking.com una relazione sull’albergo insultante e priva di verità, il cui titolo è già un esempio della livorosa e indecorosa recensione: “Albergo in perfetto stile DDR Germania dell’est”. L’estensore è un avvocato che non esita ad esprimere una opinione naturalmente legittima, visto che viviamo in una democrazia, ma che esprime una falsità di contenuti così evidente da sollevare l’indignazione di moltissimi nei social.
Non è proprio una decorosa medaglia che i No paura day si sono appuntata.

Ma ormai la città dalle cento meraviglie non ci risparmia nulla, pur nel tentativo – questo sì laudabile – di promuovere forme avanzate di cultura. Non mi addentro sul generoso input che ha spinto tanti fruitori del servizio bibliotecario a manifestare in difesa delle biblioteche pubbliche, promosso dal gruppo che si riconosce nell’associazione Salviamo le biblioteche ferraresi.

Resterebbe da parlare del docu-film in lavorazione sul “giardino che non c’è”, promosso tra gli altri da Dani e Noa Karavan e che riguarda ovviamente l’ubicazione o la realtà del famoso giardino del libro omonimo di Giorgio Bassani. Ho partecipato con grande emozione e compartecipazione ad una intervista che mi è stata fatta proprio a Casa Minerbi nel Centro studi bassaniani da solo e con Portia Prebys. La sensazione che ho avuto, e che spero sarà confermata a film realizzato, che si tratti di una pietra importante portata alla conoscenza del mondo e dell’arte del grande scrittore ferrarese.

 Per leggere gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]