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NELL’ARIA C’E’ UN’ALTRA PANDEMIA:
L’indifferenza e l’isolamento socio-culturale

Ho letto con interesse su Ferraraitalia l’articolo di Francesco Monini  Biblioteche al tempo della pandemia”,  [Vedi qui] anche perché si tratta davvero di un problema, per così dire, all’ordine del giorno…
Proprio in questi mesi ,infatti, ci sono state a Ferrara diverse e importanti  manifestazioni  di tanti cittadini e cittadine nei diversi territori decentrati della nostra città, in occasione delle forti restrizioni di servizio o addirittura  ‘simil-chiusure’ delle biblioteche di quartiere, per difendere non solo il valore culturale di quello che si ritiene un bene pubblico, ma anche un vero e proprio patrimonio di esperienze e di attività socio culturali, educative e pedagogiche, che appartengono alla storia di tante persone e che per decenni hanno rappresentato un vero punto di riferimento della vita sociale del  territorio.

Il caso di Pistoia, che ritrovo citato nell’articolo di Francesco Monini, rappresenta davvero il valore che noi intendiamo quando parliamo di biblioteche e che vorremmo continuare ad offrire alla città: un esempio ci viene dalla direttrice delle Biblioteche e Archivi della città di Pistoia, Maria Stella Rasetti,  quando richiama un principio fondamentale nella gestione di questo bene pubblico, perché identifica la funzione della  biblioteca, come “Cittadella della democrazia”, ad un modo di stare insieme che crea comunità nella condivisione della conversazione, dello scambio di  informazioni, parole, idee e pensieri. Davvero un alto segno di cultura sociale e politica della condivisione di un bene! Ho avuto modo di vedere e seguire direttamente anche i servizi educativi rivolti a bambini e famiglie di Pistoia, che sono in rete col territorio come le biblioteche e verificare quanto siano valorizzate e davvero importanti per la vita della  città.

Se devo dire la verità, mi commuove  il fatto che altrove si continui a pensare, e si stia lavorando in rete, per mantenere un importante e composito modello di formazione socioculturale della comunità anche attraverso  la presenza delle biblioteche territoriali. Un modello che passa senza dubbio attraverso il lavoro dei bibliotecari, che gestiscono professionalmente tante attività insieme a tanti volontari. In questi luoghi ci si incontra e si costruiscono delle relazioni, bambini e adolescenti possono avvicinarsi a quel fascino che sta dentro le parole di un libro narrato, drammatizzato, che poi va letto con curiosità, o sulle riflessioni che tanti adulti anche anziani, possono ritrovare, facendosi  consigliare o scambiandosi esperienze e memorie lontane. L’avvicinamento alla lettura, all’arte, all’ascolto va fatta anche con l’utilizzo di strumentazione multimediale, così come la presentazione di spettacoli, o altri tipi di manifestazioni, sempre con la collaborazione delle scuole, delle Istituzioni e del territorio per “mantenere forti i legami”.

Anche nella nostra città c’è tutta una storia di esperienze analoghe, che hanno creato una bella rete nei diversi territori, perché, quasi sempre, le biblioteche decentrate hanno rappresentato quasi gli unici punti di riferimento per la vita della comunità.
Da un po’ di tempo però a Ferrara abbiamo assistito ad una forte riduzione dei servizi offerti dalle biblioteche, per la mancata sostituzione del personale che è andato in pensione; l’unico provvedimento del Comune essenzialmente è stato quello della restrizione dei tempi di apertura  al limite della reale possibilità per gli utenti di fruire del servizio per mesi interi, con la conseguente impossibilità di costrure una seria programmazione delle diverse attività rivolte alle scuole, alle famiglie, all’intera cittadinanza.

Ora poi, con le restrizioni dovute alla pandemia, che hanno condotto ad una chiusura completa dei servizi le persone sono davvero disorientate. E’ vero che esistono disposizioni ministeriali e regionali, ma è preoccupante che ciò avvenga senza che vi sia stata alcuna proposta alternativa che tenesse conto del profondo disagio che si sarebbe creato per  la comunità, soprattutto per un servizio culturale essenziale come quello di una possibile lettura indicata dall’amico bibliotecario in un momento di isolamento pressochè completo. Sappiamo che in tante altre realtà c’è, per esempio, la possibilità di prenotare libri e di avere la consegna a domicilio, o che le scuole dell’infanzia, e non solo, possono a gruppi ancora operare in biblioteca, fare esperienze attive.

Nel nostro territorio fortissime sono state le limitazioni di questi mesi; penso in particolare alla storica Biblioteca Rodari, sita nel popoloso quartiere di Via Bologna, rispetto alla quale l’Amministrazione Comunale ha provveduto già molti mesi fa a deliberare un piano, senza minimamente preoccuparsi di consultare i cittadini, né tantomeno di approfondirne l’organizzazione in occasione della situazione pandemica. Ciò che sconcerta la gente è il fatto di non venire coinvolta, di non contare come comunità e la lettura che se ne fa è quella di una profonda noncuranza della vita di cittadini da parte  dell’Amministrazione. Un segno molto diverso sarebbe stato probabilmente quello di essere coinvolti nelle decisioni rispetto ad un servizio loro offerto da decenni, almeno per conoscere e poter discutere eventuali ulteriori soluzioni, che si badi, anche altre città hanno adottato.

Il fatto di “mantenere legami” anche attraverso le biblioteche, in situazioni come quelle che stiamo vivendo, ha infatti un significato profondo, perché l’assenza di ascolto, il poco spazio alla parola dei bambini e dei ragazzi, in particolare, provoca distanza emotiva, isolamento.
Ritengo che la responsabilità educativa abbia radici in una realtà politica e sociale che accoglie su di sé soprattutto la difesa dei diritti di tutti i minori, sostituendo alla “grammatica dei bisogni”, che riconduce chi amministra all’unica voce dei costi dei servizi, anche la “grammatica dei diritti”, come ci ricorda la Convenzione Internazionale dei diritti dell’infanzia celebrata proprio in questi giorni.

Il valore culturale e politico di molte scelte coraggiose fatte dai Comuni che hanno attivato comunque servizi di “vicinanza” anche attraverso le biblioteche, ha significato in fondo misurarsi con la realtà che ci circonda, porre attenzione a prevenire nuove povertà e nuove disuguaglianze, continuando ad aiutare soprattutto i minori, a ricercare il significato di ciò che sta accadendo.
Credo quindi che l’Amministrazione dovrebbe tener conto che le biblioteche non sono un’appendice opzionale di un servizio da gestire solo sul piano gestionale e contabile, ma rappresentano una delle possibili sfide alla mediocrità e ai disvalori di questo tempo, che ha già dimostrato, purtroppo di offrire incertezza e isolamento socio culturale.

DIARIO IN PUBBLICO
Sui rimedi alle tremende (e istruttive) volgarità televisive

Mentre con estrema cura mi leggo la vagonata di note che illustrano il libro di Gigliola Fragnito, La Sanseverina, ripasso il dialogo che intreccerò lunedì sera al Libraccio con Francesca Boari sul suo romanzo Animula blandula poi, in sosta, comincio la ricerca di cosa vedere in tv.
Ritrovo un bellissimo film Lettere da Berlino che già mi aveva commosso; ma purtroppo a un’ora assai presta era finito. Così ho deciso di vedermi la finale di un furoreggiante programma di esibizioni danzanti, a cui partecipavano nomi noti e un poco imbarazzanti, quali quelli di una Mussolini e di un Peron (quest’ultimo non parente con il famoso statista), o anche di un Della Gherardesca. Basito, non tanto per le performances, quanto per il livello, a cui davano un impulso fondamentale pubblico in sala, commentatori, giudici, conduttrice e votazione via social.
Riproporre i commenti di vincitori e vinti farebbe la gioia di qualsiasi analista della lingua e del comportamento, ma ciò che mi lasciava a bocca aperta erano le decorazioni tatuate di molti partecipanti – alcune in testa -, i costumi, i vestiti, le acconciature e…baci, baci, baci.
Il giorno dopo una signora imponente, signora che tutti, lei per prima, si ostinano a chiamare ‘zia’ (si vede rivolti ai non conoscitori di cosa quel termine significasse qualche decennio fa), invita tra singultanti interiezioni a base di ‘amore’ e ‘tesoro’ a intervistare i giudici della gara danzante e i vincitori, tra cui una celebre parlamentare dal nome ancor più sfolgorante, che esibisce parentele illustri non ultima quella con la più famosa attrice italiana. Le cose precipitano allorché si richiede un giudizio, una presa di posizione, un commento che fosse almeno conseguente allo show. Solo una tra il gruppo dei giudici, dal nome un po’ selvatico, osa raccontare parte della verità che riversa sul pubblico indubbiamente italiota meriti e demeriti delle scelte.

Ma, per tornare al mio ruolo di radical chic, penso con una certa preoccupazione a quale fine sia destinata la politica, se tra gli illustri che compongono il parlamento nei suoi due rami troviamo i più assidui frequentatori di questi spettacoli, con e senza mascherine.

Mi domandano assai preoccupati gli amici per le scelte che ho imboccato nello scrivere questi ‘pezzulli’, se il cervello mi è andato in fumo o se anche io, nel bene e nel male, aspiro a frequentare ‘in minore’ questi personaggi. Un tempo non facevo parte forse delle accademie? Non mi ero cimentato in quasi trecento lavori, non tutti inutili o disprezzabili? Non avevo raggiunto, anche se in campi non del tutto miei, una certa rispettabilità? Rispondo con altrettanta franchezza che a non conoscere le scelte degli italioti poi si cade nelle frane politiche e si vive questo tempo angoscioso e angosciato come un remedium proprio dei tempi inutili.

Che cosa fanno allora tutti ordinati per benino i miei dodicimila ‘bambini-libri’, che invadono la mia casa, la rendono viva e ora esplodono in un sonoro sbadiglio. Da soli. Senza rapporto con gli altri. Da Firenze mi arrivano notizie allucinanti su come ottenere libri in prestito dalle più famose biblioteche a cominciare dalla Nazionale. Nel nostro piccolo non si può frequentare il Centro studi bassaniani di Casa Minerbi perché ambienti, libri e oggetti non sono sanitizzati. Ma come? E’ chiuso da quasi tre mesi! Cosa vuoi ‘sanitizzare’?

Per trovar conforto lento pede mi dirigo al luogo del piacere estremo: la libreria. E’ sabato. La trovo chiusa. Disperato per dover rimandare gli acquisti (la nuova edizione del Dizionario degli dèi di Mircea Eliade, dello stesso quello sui luoghi sacri,  l’ultimo volume di Vaccaneo sulla Torino pavesiana) in quanto molti sanno cosa sia per un frequentatore di librerie dover rimandare l’acquisto! Telefono alla direttrice del Libraccio di Ferrara che con voce funerea mi spiega che il  Bonaccini nostro governatore ha emesso per l’Emilia–Romagna una ingiunzione alle librerie di più di 250 metri di restare chiuse il sabato e la domenica. Se non avessi più radicato dell’amore dei libri la scelta politica mi rifiuterei di votarlo, per questa enorme c….ta. Ecco a cosa ci riduce il coronavirus.

Ma oggi lunedì mi rifaccio. Usciamo e ci facciamo depositare in piazza (come si diceva una volta) dal taxi. Fendiamo le folle del mercato e ci dirigiamo verso un celebre negozio che vende cachemire, poi nella (vuota) libreria e giù giù per la via delle compere, dove i negozi offrono e ri-offrono a compratori latitanti la loro merce pregiata ed infine ennesimo taxi per il ritorno nella deserta e soleggiata via dove, incurante del silenzio e del sole, occhieggiano le finestre della mia casa.

E’ e rimarrà indubitabile: il coronavirus nel bene e nel male ci ha abituato e ulteriormente ci abituerà a una vita diversa da quella che per lunghissimi decenni aveva formato il senso della nostra vita.

Per leggere gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

Le cose da salvare di Ilaria Rossetti

Salvare cose, memoria, segreti, se stessi. Frana un ponte, il Ponte, e Gabriele Maestrale non se ne va da quel che rimane di un palazzo pericolante e di una vita ormai blindata e sola. Le cose da salvare (edizioni Neri Pozza) di Ilaria Rossetti arriva là dove non si vede quando un uomo sceglie di lasciare il mondo fuori dalla porta e dall’esistenza. Ma il mondo bussa, ha la voce e la determinazione di una giovane giornalista, Petra, che vuole capire perché quell’uomo non ce la faccia a uscire, a salvarsi. Il moncone del ponte è la vita mozzata anche di chi è sopravvissuto, come Gabriele, che non va oltre a quello che gli è rimasto: casa e vita in bilico.
Cosa avranno salvato gli altri abitanti del palazzo scappando di casa quando il ponte è crollato? Cosa si sacrifica alla salvezza fra tutto ciò che ci è appartenuto fino a un minuto prima? Da salvare, nelle pagine di questo libro, ci sono anche i legami che né il ponte né gli anni passati in mezzo ai matrimoni finiti e ai lutti, hanno buttato giù. Da salvare c’è la volontà della mamma di Petra che progetta una ricostruzione della vita di chi è rimasto: un testamento d’amore alla sua famiglia, tutta da rifare, come il ponte. Il crollo che si è inghiottito persone e ha spezzato la città, diventa occasione di contatto e prossimità: fra Petra e Gabriele, fra Gabriele e due ospiti nascoste nel palazzo, fra il padre di Petra e Vanda che custodisce un segreto per sempre. Vecchi e nuovi legami sono la vera ricostruzione dentro le vite interrotte, ma che si ritrovano come se si fossero sempre aspettate. Tra l’amore che non se ne è mai andato e il tempo diventato vecchiaia, ci sta il riscoprirsi: dopo il crollo, dopo i lutti arriva il momento di non farsi più da parte perché “si salva quello che vuole essere salvato”.
Ilaria Rosetti presenterà Le cose da salvare venerdì 27 novembre alle 21 in diretta sulla pagina di Ferraraitalia e del Microfestival delle storie.
A dialogare con l’autrice Riccarda Dalbuoni.

COSA C’E’ DENTRO UN SOgNO?
Un esercizio per scaldare la mente

La mattina, prima di cominciare la giornata scolastica, nella classe prima che sto frequentando facciamo il “riscalda… mente”; come gli atleti che prima di fare una gara fanno il riscaldamento dei muscoli, noi proviamo a riscaldare i pensieri.
Può essere una conversazione, un gioco, una storia da ascoltare o da raccontare.
Qualche giorno fa un bambino ha voluto iniziare il “riscalda…mente” raccontando un suo sogno in cui c’erano tutti. Dopo averlo ascoltato, ho chiesto ai bambini e alle bambine che cos’è un sogno.

Queste le loro risposte:

  • Il sogno è una bella cosa che si immagina quando si dorme.
  • È una cosa senza forma.
  • È una cosa che vorresti fare o un posto dove vorresti andare.
  • È una cosa che vivi nella mente.
  • È qualcosa che ti immagini nella testa.
  • Può essere bello o brutto ma se tu stai facendo un sogno brutto, basta che giri il cuscino e dopo diventa bello).
  • È quando dormi che pensi a una cosa ma non la puoi fare davvero.
  • Quando immagini una cosa bella ma dopo non la puoi fare.
  • È come se tu, nella tua mente, pensi a qualcosa.
  • È un viaggio nella tua mente.
  • È come se nella tua mente ti porti dei pensieri.
  • È una cosa che ti viene nella testa di notte e sembra vera.
  • Il sogno è quando ti immagini una cosa e poi la fai dentro la notte.
  • Un sogno te lo immagini e fai finta di esserci dentro.
  • I sogni brutti si chiamano “incubi”; i sogni belli si chiamano “gioia”.

Nel frattempo, avevo scritto alla lavagna la parola “SOGNO” e qualcuno si è accorto subito che dentro un “SOGNO” ci sono le lettere che formano la parola “SONO”, che loro sanno leggere. Allora ho colorato la G di rosso e ho detto: “È vero ed è una bellissima osservazione. Sembra che per fare un sogno ci sia bisogno di aggiungere una G in mezzo a SONO. La G di cosa?

Qualcuno ha detto la G di Gatto, un altro la G di Gelato; poi qualcuno ha aggiunto la G di Grande.
Ho preso la palla al balzo e ho chiesto: “Qualcuno di voi ha un grande sogno?” Tutte le mani si sono alzate senza esitazione.

Queste le loro risposte:

  • Io vorrei tuffarmi in una cascata di cioccolato.
  • Io vorrei volare su un unicorno.
  • Io vorrei nuotare in una piscina di caramelle.
  • Io vorrei avere tantissimi lego da coprire il mondo.
  • Io vorrei svegliarmi la mattina di Natale col papà e trovare un regalo.
  • Io vorrei cavalcare un cavallo.
  • Io vorrei incontrare i miei amici.
  • Io vorrei tuffarmi da una cascata.
  • Io vorrei essere un falco.
  • Io vorrei salire su un drago.
  • Io vorrei essere un cavaliere.
  • Io vorrei incontrare un’amica.
  • Io vorrei nuotare coi delfini.
  • Io vorrei volare su un pappagallo gigante.
  • Io vorrei volare.
  • Io vorrei essere Spider Man.
  • Io vorrei conoscere Luì e Sofì di “Me contro Te”.
  • Io vorrei nuotare con uno squalo.
  • Io vorrei avere un pony
  • Io vorrei leggere tanti libri.
  • Io vorrei essere un pennarello per colorare il mondo.

Ho chiesto: “Secondo voi, quello che si immagina nei sogni può realizzarsi, può diventare una cosa vera?”
La classe si è divisa: sì e no erano, più o meno, lo stesso numero.
Allora ho scelto qualcuno dei loro sogni e ho chiesto: “Un bambino può diventare un falco?”
Tutti hanno risposto di no.
Ancora: “Si può cavalcare un cavallo?”
La maggioranza ha risposto di sì e qualcuno di no. I sostenitori del sì ci hanno messo poco a far capire che si può andare a cavalcare perché una loro compagna ci va.
Ho fatto un ultimo esempio: “Si può nuotare in una piscina di caramelle?”
La classe si è divisa fra i no e i sì.

Allora ho chiesto che le due parti designassero un rappresentante del no ed uno del sì per esprimere le ragioni dei “realisti” e dei “sognatori”.
Chi ha sostenuto che non si può nuotare in una piscina di caramelle ha detto: “Non si può nuotare in una piscina di caramelle perché se mettiamo le caramelle in una piscina poi si sciolgono”.
La logica sembrava inattaccabile ma il rappresentante del sì ha replicato: “Bisogna prima togliere l’acqua dalla piscina e dopo riempirla di caramelle… Così si può nuotare”.

Pur ascoltando con attenzione i realisti, parteggiavo segretamente per i sognatori quindi ho nascosto la soddisfazione e ho concluso dicendo loro che ci sono sogni che sembrano impossibili e sogni che sembrano possibili. Entrambi rimarranno sogni se non facciamo niente per realizzarli. Sta a noi far diventare possibile l’impossibile e far diventare il sogno realtà, sta a noi cominciare a cambiare le cose nel nostro piccolo, a partire dal nostro IO… anche a partire da una scritta alla lavagna che poi tutti scriviamo sul quaderno, maestro compreso: “IO SONO. IO SOGNO”.

Comunque la pensiate, IO SOGNO perché SONO ma, allo stesso tempo, IO SONO perché SOGNO.

Melania

Melania Trump: l’avevamo lasciata preda dei commenti del gossip, del pour parler della cronaca più disimpegnata, protagonista di apparizioni e look che non potevano sfuggire all’attenzione dei media. Abbiamo seguito le polemiche e le interpretazioni più fantasiose su quel parka indossato in occasione della visita alla struttura Upbring New Hope Children’s Center a Mc Allen in Texas, a ridosso del discusso confine tra USA e Messico, con quella appariscente scritta sulla schiena “I really don’t care, do u?”  (“A me non importa davvero, e a te?”). L’abbiamo criticata di recente sulle pagine di ogni magazine, ripresa mentre in Florida si recava al voto in un esclusivo abito di Gucci e la rara borsa Kelly Toile di Hermés, un outfit complessivo da 20.000 dollari sonanti. Una donna che ci aveva per un attimo fatti sognare quando, all’alba della vittoria presidenziale del marito Donald nel 2016, aveva dichiarato pubblicamente “I don’t always agree with his way of saying things” – Non concordo sempre con il suo modo di dire le cose – promettendo presenza, incisività e determinazione a fianco di chi era appena diventato uno dei potenti al mondo.
E i segnali di quel suo dissociarsi lo si è intravisto in numerose occasioni, rifiutando di prendere posto alla Casa Bianca per i primi cinque mesi del mandato, trascorsi a New York con il figlio Barron, sfilando visibilmente e in più occasioni la mano da quella del marito, nelle visite ufficiali e negli spostamenti, assumendo una mimica espressiva più che eloquente nei momenti pubblici significativi e cruciali, che non è sicuramente sfuggita ad occhio attento.

Nella realtà dei fatti, la sua partecipazione alla vita politica del tycoon non è stata così sollecita e di spessore: Melania Trump forse non ha mai voluto fino in fondo il ruolo di first lady che le spettava. E’ scivolata nella storia degli Stati Uniti d’America, con il suo elegante e inconfondibile passo felpato, lo sguardo felino che tutto coglie senza scomporsi, senza concedersi, se non a piccole parentesi indispensabili, a telecamere e media. Statuaria icona di bellezza e stile, eredità dei suoi trascorsi di modella sulle passerelle di Milano e di molte altre capitali della moda, si è sempre posta con discrezione a fianco del marito Donald, a volte quasi restia o imbarazzata, ricordando quello che dev’essere stata nel passato: una bella e intelligente ragazza di Novo Mesto, cittadina della Slovenia Sudorientale, padre rappresentante di auto e madre disegnatrice di cartamodelli per le creazioni di moda, la vita in condominio dopo il trasferimento con la famiglia a Sevnica, studi di design e architettura a Lubiana mai portati a termine, a 16 anni già modella e a 18 il suo primo contratto importante in tasca.
Una vita in crescendo, fino a diventare la 45^ first lady americana. In un’intervista del New York Times del 2016, sul ruolo che avrebbe assunto nel caso di vittoria del marito, rispose: “Sarei molto tradizionale, come Betty Ford o Jackie Kennedy. Lo sosterrei.”
Forse il peso del ruolo, la predominanza della figura presidenziale, le dinamiche familiari e i rispettivi incarichi rappresentativi non hanno facilitato fino in fondo le intenzioni, rendendo il mandato una vera prova di forza per lei, affrontata con il sorriso, la discrezione, a volte le lacrime. Con la sconfitta di Donald Trump, ha luogo l’ultimo atto di quello che la CNN ha definito lo ‘psicodramma’ alla Casa Bianca, prima che il sipario cali definitivamente su questo mandato: il Presidente uscente continua a rifiutare ogni contatto con tutti i capi di Stato e le sue fantasmagoriche battaglie legali per dimostrare brogli e irregolarità si protrarranno ancora per poco.
In quanto a Melania, le cronache riferiscono che si sta alacremente occupando degli addobbi natalizi alla White House, fedele alla decisione di rimanere in silenzio. E in questo caso il silenzio parla.

 

I FINZI-CONTINI E L’ANTIFASCISMO A FERRARA
Storia di una famiglia

È morto in questi giorni Leo Contini (1939-2020). Qui di seguito il cugino Piero Cividalli ricorda, in un testo inedito, alcuni aspetti salienti della famiglia Finzi-Contini. Come vedrete, ricorrono cognomi familiari per chi conosce Ferrara, da quello mitico dei Finzi-Contini, a Lampronti, Mayer, Hanau, nomi che si intrecciano con la storia delle persecuzioni razziali, il regime fascista, l’eccidio del Castello, l’esilio, il campo di concentramento, la morte e ovviamente con l’opera di Giorgio Bassani, il quale utilizza quel nome, Finzi-Contini, per creare una storia che si ispira  molto liberamente a quella di un’altra famiglia ebrea ferrarese e con una forte dose di invenzione.
A me preme soprattutto ricordare che Leo Contini, insieme al fratello Bruno, curò i diari del padre pubblicati da Giuntina nel 2012: Nino Contini (1906-1944). Quel ragazzo in gamba di nostro padre, con scritti di Alessandra Minerbi, Gloria Chianese e Clotilde Pontecorvo. I diari di Nino Contini meritano di essere letti e riletti oggi per la profonda umanità, perché raccontano la vita, i dolori e gli affetti di una persona alle prese con scelte difficili, in un tempo che è bene ricordare per quello che fu, per la scia di dolore, discriminazione e morte che si lasciò dietro.
Laureato in legge, avvocato giovanissimo presso lo studio Ravenna poi in proprio, alpinista, pilota provetto, padre e marito devoto, Nino negli anni venti si diletta di poesia ed è un lettore vorace. I genitori gestiscono un emporio nella Piazza della Cattedrale, mentre lo zio Ciro Contini firma il piano regolatore di Ferrara nel 1926, insomma una famiglia integrata, benestante e aperta, delle professioni, che vive appena fuori dalle mura del ghetto, ma allo stesso tempo endogamica e osservante della propria religione. Questo mondo si incrina negli anni trenta, quando Nino ed altri si impegnano ad accogliere gli ebrei tedeschi in fuga dalla Germania nazista (arrivano una dozzina di giovani). Quell’esperienza di accoglienza lo porta ad avvicinarsi al movimento sionista laico e socialista HeHalutz (Il Pioniere) e man mano a maturare una chiara scelta antifascista. La polizia del regime definisce Nino il “noto ebreo antifascista Contini avvocato Nino” (1° aprile 1939) e lo fa pedinare e sorvegliare da “un abile sottoufficiale”. Radiato dall’ordine degli avvocati, lui “individuo dotato … di una spiccata avversione per la politica dei Governi Autoritari” (Prefettura di Ferrara, 1940), rifiuta di iscriversi all’albo speciale degli avvocati ebrei. La situazione precipita nel 1940, quando viene arrestato e poi internato. Quella che sarebbe stata la vita di un borghese come tanti altri assume un valore emblematico e diventa un dramma umano.

I diari coprono un periodo di cinque anni, dal 1939 al 1944, iniziati quando Nino è ancora a Ferrara e continuati quando si ritrova internato a Urbisaglia, e poi alle Tremiti e a Pizzoferrato.
In salvo ma gravemente malato, muore a 37 anni a Napoli. I testi assolutamente privati e umani come pochi altri contengono momenti di introspezione, scoraggiamento e dialogo serrato con la famiglia insieme a riflessioni sulle vicende politiche e sociali del tempo. Le pagine scritte nella sua città natale ci restituiscono il clima di isolamento in cui si trovano gli ebrei, un ghetto sociale costruito dal fascismo almeno due anni prima dell’entrata in vigore delle leggi razziali, come ricorda Alessandra Minerbi nel suo saggio introduttivo.
Nino annota i piccoli gesti di discriminazione quotidiana, come ad esempio quello di un tal Navarra che Nino incontra e saluta e il quale, invece, finge di non conoscerlo. “Tanto meglio,” scrive Contini. Nel giugno del 1941, Nino viene trasferito a Pizzoferrato, vicino a Chieti, dove lo raggiunge la famiglia e vive alcuni momenti di serenità. Mentre lo zio e il cugino, Vittorio e Mario Hanau, vengono assassinati nell’eccidio del Castello Estense, Nino riesce a raggiungere con la famiglia Napoli e si getta nell’impegno politico, militando nelle file del Partito d’Azione nell’Italia liberata, in stretta collaborazione con Ugo La Malfa. “Era felice”, scrive il fratello che lo incontra pochi giorni prima della morte nel 1944.

Nel 2000, in occasione della giornata della memoria, il Comune di Pizzoferrato ha dedicato una strada a Nino Contini. La targa recita:
Via Nino Contini
1906-1944
Internato
Antifascita Ebreo

Poche ed efficaci parole. Propongo che la città di Ferrara non sia da meno. Dedichi una strada a questo concittadino, antifascita e vittima della odiosa discriminazione religiosa introdotta dal regime liberticida di Benito Mussolini e di Italo Balbo. Un ferrarese quest’ultimo a cui, ça va sans dire, dedicherei non una strada ma, per usare le parole di Piero Calamandrei, un monumento costruito “soltanto col silenzio dei torturati, più duro d’ogni macigno, soltanto con la roccia di questo patto, giurato fra uomini liberi, che volontari si adunarono, per dignità e non per odio, decisi a riscattare la vergogna e il terrore del mondo.”

Piero Cividali
STORIA DELLA FAMIGLIA CONTINI E DI LEO, UN CUGINO E CARISSIMO AMICO

Talvolta, mia nonna Gilda Contini Cividalli, mi raccontava delle origini della sua famiglia. Era nata a Ferrara  nella seconda metà dell’ottocento e in questa città aveva passato la sua vita di bambina e di giovane donna. Ferrara contava allora una fiorente comunità ebraica e suo padre, Beniamino Finzi Contini, possedeva un importante emporio vicino al Duomo della città.
I Finzi Contini stavano bene. Beniamino aveva sposato una giovane che gli aveva dato una figlia, Emilia, ma ben presto rimase vedovo. Si  risposò e dal secondo matrimonio nacquero tre figli, mia nonna Gilda, Nello e Ciro. Ma anni prima il vero cognome della famiglia era soltanto Finzi. Pare però che questi Finzi fossero tutti di bellissimo aspetto  e quando passavano per la strada questi giovani aitanti, la gente, ammirata, sussurrava: “avete visto questi bei contini?”. In breve tempo questo nomignolo divenne parte del loro nome e divennero Finzi- Contini. Ma a un certo momento, il mio bisnonno Beniamino, non so per quale ragione, abolì il Finzi e diventò Contini. I suoi figli, nascendo, ebbero soltanto il cognome Contini.
Un parente di cui non conosco il nome, sposò una contessa Bonacossi e prese il nome di Contini Bonacossi. Così inizio la storia della famiglia dei conti Contini – Bonacossi. Mia nonna, dopo sposata, venne ad abitare a Firenze. Suo fratello Ciro, valente architetto, andò a Roma ma con le leggi razziali emigrò in America con i due figli. L’altro fratello di mia nonna, Nello, era rimasto a Ferrara , si era sposato e aveva quattro figli maschi. Purtroppo morì giovane, subito dopo la prima guerra mondiale. Bruno, uno dei suoi figli, lo seguì nella tomba ancora giovanissimo.
Rimasero altri tre figli di Nello Contini. Uno di questi, Nino, sposò Laura Lampronti, pianista. Ma con le leggi razziali, essendo un noto antifascista ebreo, fu internato in un piccolo borgo vicino a Chieti.Là crebbero i suoi due figli Bruno e Leo. Recentemente questo piccolo paese ha voluto onorare la memoria di Nino Contini mettendo a suo nome una delle strade.

Verso la fine della seconda guerra mondiale, con l’avanzare delle truppe alleate, Nino e la sua famiglia riuscirono a passare le linee  e, liberati, si stabilirono a Napoli. Ma Nino si ammalò e in breve tempo morì. Dopo la guerra Laura si stabilì a Roma con i due bambini ma pochi anni dopo morì anche lei. Leo fu accolto a Milano dai nonni Lampronti, e là finì i suoi studi di ingegneria nucleare. Conobbe Marcella Mayer e la sposò.
Pareva che tutto andasse bene invece, poco dopo la nascita, il loro primo bambino fu trovato morto nella culla. Marcella, era incinta del suo secondo figlio e, traumatizzata, perse anche quello.  Dopo nacquero altri tre figli che oggi vivono tutti in Israel. Leo, fervente sionista e forse scontento della sua vita in Italia, nei primi anni 70 fece l’Alià e si stabilì a Tel-Aviv.
Poco più di un anno fa, ci fu nel cimitero ebraico di Ferrara una bella riunione dei discendenti di Beniamino Finzi Contini. Credo che fossimo una cinquantina venuti da tutte le parti del mondo. Molti neanche li conoscevo. Ma fu bello lo stesso e Leo, che stava ancora abbastanza bene, volle leggere i nomi dei discendenti di Beniamino Contini oramai defunti anche loro. Il suo  matrimonio con Marcella era in crisi da molti anni e si erano separati.
Anni dopo trovò una nuova compagna e si risposò. Da anni aveva rinunciato a lavorare nel campo dei suoi studi universitari e si era dedicato alla pittura. Aveva pochi mezzi e per mantenersi faceva lavoretti saltuari che poco lo soddisfacevano. Ma ebbe sempre il coraggio di essere se stesso, senza tentennamenti. È proprio in questi anni per lui non facili che divenimmo sempre più amici. Siccome abitava a Giaffa non potevamo incontrarci spesso. Ma le nostre chiacchierate per telefono non finivano mai e la nostra amicizia si rinforzò sempre più. Caro Leo, la sua vitalità mi mancherà molto e il suo coraggio nelle avversità mi resterà di esempio per sempre.
Piero Cividalli

Nota: La redazione di FerraraItalia è grata a Piero Cividalli per aver acconsentito alla pubblicazione del suo testo. Piero (n.1926), a sua volta vittima delle leggi razziali, raggiunse con la famiglia la Palestina nel 1939 e si arruolò nella Brigata Ebraica dell’Esercito britannico a 18 anni. Rimase in servizio per due anni. Pittore ed insegnante di storia dell’arte in pensione, vive a Tel Aviv.

Cover: Comune di Pizzoferrato (Chieti), la via intestata a Nino Contini nell’anno 2000

PER CERTI VERSI
Il deserto che abbiamo attraversato

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
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IL DESERTO CHE ABBIAMO ATTRAVERSATO

Ti ricordi
Il deserto che abbiamo attraversato
Il mare di silenzio
Sulle gobbe
Della luce
Striata
Una tigre
Maramalda
Assente
Tu ricordi
Il muro di nebbia
Chiaro
Come se non ci fosse
Altro che niente
E poi il rosa
Che si posa
Sulle foglie
Crolla il muro
Ceruleo mondo
Aperto
Ai tuoi colori
Al tuo fascino etrusco
Il nero
Una specie di giallo
Indefinibile
Il mistero
Della vita e della morte
Che cambiano sempre
Come la nostra luce
Tornata
Corrente

PRESTO DI MATTINA
La seconda voce dell’anima

«Se ascoltaste oggi la sua voce! Non indurite il cuore». È un versetto del salmo 95,8: un ‘vocale’ convertito in testo nelle pagine del salterio, che ridiventa suono nella proclamazione a voce alta. Fa parte di una salmodia liturgica, del canto che, quale grande invitatorio alla preghiera, apre il culto giudaico e cristiano. Ma questo versetto rispecchia pure l’esperienza che ognuno sperimenta ogni volta che legge un libro. Dalle pagine aperte risuona infatti l’invito non già alla lettura ma all’ascolto, a seguire la voce che prende forma e si traduce in un corpo, nell’espressione di un viso. Lo sguardo di un volto che attende anche solo una risposta silenziosa. È un volto, segnato da sillabe e vocali, che viene risagomato ogni volta, di nuovo, come sequenze cinematografiche, sotto gli occhi di chi legge.

Ci si stupisce sempre come la prima volta, aprendo un libro, che basti così poco, poco più di un niente per dire e udire cose nuove. Una manciata di lettere combinate ai suoni e tenute insieme da noi, fin da piccoli, chini sul sillabario – «l’alfabeto il modello d’ogni combinatoria d’unità minime» direbbe Italo Calvino – poi seguendo la rubrica dei nomi nuovi, per imparare il mistero della vita che porti dentro e si congiunge con quella di fuori.
Sillaba dal greco syllabḗ, “prendo, riunisco insieme” suoni a lettere unite in un’unica emissione. Congiunge insieme vocali (“lettera dotata di voce”) e consonanti (che “suona con” o “suona insieme” alla vocale). E il lemma ne è come la premessa, il titolo, l’argomento, l’invitatorio che viene prima come porta d’ingresso al dire.

È il miracolo del linguaggio vocale e scritto: segni e suoni amalgamati assieme, lettere come nel gioco di dame e cavalieri che si allontanano e si lasciano, si cambiano di posto rincorrendosi dentro alla parola stessa o nella frase o nella pagina passando poi da una all’altra, da un libro a quello successivo, sino a formare in ciascuno una biblioteca interiore. Un’immagine che ritroviamo nella lettera inviata a Eliodoro da san Girolamo nella quale, riferendosi alla prematura scomparsa di Nepoziano, suo figlio spirituale, ricorda: «l’assidua lettura, e prolungate meditazioni avevano reso il suo cuore come una biblioteca di Cristo» (Lettera LX a Eliodoro).
È il linguaggio come un prodigio, simile a quello del caleidoscopio che punta l’oscurità luminosa del mistero e, ruotando, le tessere come lettere disegna figure e sensi nuovi al nostro vivere, traduce e interpreta l’esistenza, e quanto più inserisci vetri colorati quanto più nel caleidoscopio prendono forma parole nuove, frammenti di un infinito comprendere e interpretare.

Ogni volta che si apre un libro, la lettura ci pone in un’attualità di ascolto di un passato altrimenti muto, con effetti prodigiosi ricordati da un versetto del salmo 62 [61]: «Una cosa ha detto il Signore, due ne ho ascoltate». La voce non rimane infatti prigioniera dell’evento passato che l’ha suscitata una prima volta; ma attraverso la scrittura ri-parla una seconda volta anche oggi. È come se la voce diventasse testo e questo, quando è compreso, ridiventasse voce interiore, risveglio e chiamata al senso.

In una prima occasione la voce si è udita nella sua enunciazione originaria. Poi infinite volte è stata mediata e tradotta dal testo che la rende ri-udibile nel segno della scrittura. È allora anche una questione di traduzione, insieme testuale ed esistenziale, elaborata da colui – l’interprete –, che è chiamato a vivere una prossimità così intensa con l’altrui scrittura da generare un processo di assimilazione e comprensione, che lo spinge a riversare se stesso nel testo, se non a incontrare se stesso in colui che con altre lingue lo scrisse.

Così, l’abbiamo imparato per esperienza, «la lettura non è mai un monologo, ma l’incontro con un altro uomo, che nel libro ci rivela qualcosa della sua storia più profonda e al quale ci rivolgiamo in uno slancio intimo della coscienza affettiva, che può valere anche un atto d’amore. E qui forse, tra il lettore e lo scrittore, si producono lo sguardo, la coscienza, il faccia a faccia di una vera e propria relazione etica» (E. Raimondi, Un’etica del lettore, Bologna 2007, 13-14).

L’intera Bibbia può considerarsi allora come una conversazione in itinere. L’invito permanente all’ascolto, all’incontro e al dialogo: per tentare alleanze; per formare amicizie; per ricercare quel santo Graal di quell’ultima cena, che ha visto nella condivisione del pane e del calice, un comunicare nell’agire e nel patire, il simbolo reale di quell’amore così grande da spingersi a dare la vita per gli amici. Il calice della vivificante vita del Figlio dell’uomo, che sarà in grado di trovare solo chi saprà rivolgere all’altro – ecco l’istanza etica – raffigurato al cavaliere che lo custodisce, ormai malato e vecchio di millenni, la domanda giusta: «qual è il tuo dolore, la tua ferita?».
La Torah e i Vangeli, formati in diversi momenti e tempi della storia, sono ancora una narrazione in corso, che continua anche oggi a cercare e a trasformare i suoi lettori. Leggendola, infatti, la loro vita verrà ridefinita e interpretata in un modo nuovo.

Suggestiva appare dunque l’immagine del poeta e saggista inglese John Donne che scrive: «Tutta l’umanità deriva da un unico autore, e costituisce un unico volume. Quando un uomo, muore, non viene strappato via un capitolo dal libro, bensì viene tradotto in una lingua più alta; ed ogni capitolo deve essere così tradotto. Dio impiega diversi traduttori; alcuni pezzi sono tradotti dalla vecchiaia, alcuni dalla malattia, alcuni dalla guerra, alcuni dalla giustizia, ma la mano di Dio è in ciascuna traduzione, e la sua mano rilegherà di nuovo tutti i nostri sparsi fogli per quella biblioteca nella quale tutti i libri saranno aperti l’uno all’altro» (J. Rosen, Il Talmud e internet, Einaudi, 2001, 11).

Com’è umile e solenne aprire un libro. Ne nasce un’intimità che cresce a poco a poco, una familiarità che soppianta l’in-conoscenza. Lo si apre bensì con le mani, ma come in punta di piedi, sospesi, in attesa di qualcosa, di qualcuno, come si fosse a Natale, anche in pieno agosto. Girare pagina è poi un’altra, come vedere un bambino fare un passo, e poi un altro, un poco più sicuro, e poi via via più spedito e allegro, quando egli si scopre nel libro e prende confidenza, sino a che, voltando le pagine del libro, questo dischiude le pagine del lettore, come fossero “aperti l’uno nell’altro”.

Un libro può diventare così la seconda voce della propria anima. L’ho imparato leggendo un racconto chassidico in cui si narra di un vecchio libro di preghiere, del rabbino suo lettore e dei suoi nipoti: «I suoi nipoti dissero, un giorno, al Rabbi:nostro nonno e nostro maestro: il tuo libro di preghiere è vecchio, le pagine sono ingiallite, alcune di esse sono quasi illeggibili e noi abbiamo deciso di regalartene uno nuovo, in segno del nostro affetto e della devozione che abbiamo per te”. Rispose il Rabbi: “da innumerevoli anni io prego da questo libro: ogni mattina, ogni pomeriggio ed ogni sera. Esso è diventato vecchio insieme a me. Le sue pagine mi sono familiari, così come io sono divenuto familiare a loro. Esse sono una testimonianza della mia vita; esse hanno conosciuto i momenti di gioia e di serenità che il Santo dei Santi ha voluto concedermi, ed anche i momenti di dolore e di sofferenza. Le lettere di ogni riga, di ogni pagina di questo vecchio libro mi hanno aiutato a esprimere al Creatore, tutto l’amore e tutta la fiducia che io sento per Lui. Ogni lettera, ogni parola del vecchio libro, sono entrati nella mia persona. Così come la mia persona, sembra entrata in ogni sua lettera ed in ogni sua parola. Io ed il vecchio libro siamo divenuti una sola cosa. A volte, quando tutto quello che esiste intorno a me sembra crollare, quando io, con dolore, vedo il male prevalere sul bene, e l’ingiustizia prevaricare il senso della giustizia, e sento il mio corpo farsi privo di forze, in tal maniera, da non poter dar voce alle sante preghiere che in antico i Maestri composero, allora basta che io passi il mio indice sulle parole stampate del Libro, perché avvenga in me qualcosa di strano, di misterioso. A me sembra che da quelle pagine esca una voce, che non è la mia, ma che alla mia molto assomiglia. Miei cari nipoti, questo vecchio libro dalle pagine ingiallite, dopo così lungo tempo, di vita in comune, sembra aver appreso a pregare per me. Esso è insostituibile, perché rappresenta la seconda voce della mia anima”» (A. Sonnino, Racconti chassidici dei nostri tempi, Assisi/Roma 1978, 110).

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GLI SPARI SOPRA
La ricerca di un futuro

In Italia, ora più che mai servirebbe una partito che si richiamasse ai valori di Enrico Berlinguer, alla modernità della sua opera e del suo pensiero. Concetti e parole inserite profondamente nel Comunismo Italiano, fonte di democrazia e di ideali per quattro generazioni di persone. Andato disperso e abiurato dalla fine del secolo breve fino a questo secondo decennio del ventunesimo secolo. In molti lo decantano, addirittura gli avversari politici ne tessono le lodi, ma la sua figura fa ancora tremendamente paura perché davvero dei dirigenti di una qualche sigla politica si ispirino a lui per il futuro, per il prosieguo del tempo che scorre rapido. Non esiste una avanguardia in Italia, che nel suo nome cerchi di aggregare dei compagni per realizzare davvero qualche cosa di nuovo. Esistono sigle politiche che espongono la sua effige nelle sedi, come ricordo o come santino, ma non ripercorrono le sue idee, le hanno abbandonate da decenni. Almeno quattro altri partiti espongono l’effige della falce e del martello non come elemento aggregante o come i simboli del lavoro, motivo per cui nacquero un paio di secoli orsono, ma come medaglie di purezza esclusive e non inclusive. La bandiera rossa è stata gettata nel fosso da tanto, troppo tempo, sotto l’immagine di Enrico nessuno mai ha voluto costruire unità e forza del progresso e popolo.

La parola democrazia deriva dal greco, ed è composta dai termini demos (che significa “popolo”) e kratos (che significa “potere”), Potere al Popolo, queste sono le basi del Marxismo. Questo concetto pone le idee di Berlinguer sul piedistallo della modernità, senza bisogno di ricordare le deviazioni che molti governi Comunisti presero dalla rivoluzione d’ottobre in poi.

Sommossa popolare, appunto per portare al potere gli ultimi, gli sfruttati, i braccianti, gli operai, quelli che nei millenni mai ebbero diritti e voce in capitolo, sfruttati e vilipesi dalla notte dei tempi. Tale rivoluzione avvenne però nella nazione meno preparata ad accoglierla, quella grande madre Russia che non aveva una classe operai forte e consapevole, ma era per lo più composta da braccianti che solo pochi decenni prima erano ancora servi della gleba, la nazione che mai Marx individuò come avanguardia per le masse popolari.

Dico questo perché il pensiero comune continua ad additare il Comunismo realizzato col Comunismo reale. L’Euro comunismo di Berlinguer, e ancor di più l’anomalia italiano porsero il più grande partito dei lavorati del mondo libero a traino di una terza via, mai davvero cercata e né tantomeno seguita dai referenti delle sinistre dopo il giugno del 1984.

Ora che non esiste più un mondo diviso in blocchi, dove l’Est ha superato l’Ovest nella ricerca del profitto per pochi a discapito degli ultimi, le idee di Berlinguer diventano una necessità.

Io credo che in tanti, troppi vedano Enrico come una foglia di fico, dietro cui nascondere la propria lontananza dai suoi ideali.

Un mondo raggrinzito e ammalato intorno al concetto di capitale, bolso e senza respiro, in questi tempi di pandemia, dove esiste solo una classe sociale che continua ad aumentare i profitti a discapito di tutti gli altri, dipendenti, artigiani, commercianti, operai, tutti in lotta tra loro per in dicare chi più di altri è fonte di privilegio. Accomunati da un unico nemico, che viene dall’Africa, quella massa di diseredati che servono ai partiti, quasi tutti, per sottolineare le differenze e per conservare quelle briciole di pane che i padroni del vapore spargono alle masse intrise di cattiveria e con la bava alla bocca, con la paura che l’ultima scaglia di pane duro venga utilizzata per nutrire chi sta peggio di noi.

Una grossa parte della classe operaia che non è più classe, che non ha più coscienza di se si è imbruttita nelle idee, instillate goccia a goccia da anni di propaganda revisionista. L’analfabetismo funzionale ha superato quello di ritorno, un popolo senza età che si informa sui social media, che posta e riposta immagini di pensieri altrui. Un solo piccolo e maledetto virus sta squassando il mondo conosciuto, portando alla luce decenni di sfruttamento della natura in maniera malevola e senza criterio, sistemi all’apparenza democratici dove chi ha i soldi si cura, mentre gli altri vengono lasciati annegare, non solo in maniera figurativa. Un sistema agli sgoccioli dove privato e privatizzazioni, ricercate da schieramenti centripeti hanno portato all’evaporazione del Welfare, dove la sanità pubblica è diventata azienda e la sanità privata si arricchisce con i soldi dei contribuenti, oltre che dei pochi privilegiati che ne possono disporre.

Un mondo dove la scuola è sempre ai margini dei programmi di partiti sempre più simili, dove nemmeno Lombroso riuscirebbe a riconoscere gli uni dagli altri.

Sono ripetitivo e limitato nei miei grezzi concetti, forse perché alle volte spero che qualcuno, migliore di me riprenda da terra quella bandiera rossa e la sventoli, come una guida turistica sulla piana di Ghiza e dove un popolo, davvero unito la segua, nella ricerca di una utopia necessaria e non più procrastinabile.

Dolce Enrico, mi piacerebbe che ti staccassero dalle cornici entro le quali sei stato relegato in questi trentasei anni, mi piacerebbe che tu stesso potessi togliere la polvere della tua dignità troppo spesso usata come paravento.

Si lo vorrei davvero un partito di ispirazione Berligueriana, dove potermi sentire a casa, dove poter credere che il mio piccolo contributo possa essere una briciola di sabbia, per costruire un argine contro l’abbruttimento di questi tempi. Dove le mie idee possano confrontarsi e confondersi con quelle di tante compagne e compagni, senza l’assurda ricerca della purezza, senza lucidare troppo la falce, senza dibattere sul tipo di martello (da carpentiere, da muratore, da montatore meccanico, ecc.).

Berlinguer non solo come oggetto di ricerca o peggio di culto (lui lontano anni luce dal culto della personalità) ma come pensiero critico, vivo, da ritrovare, da ripercorrere, una ricerca di un futuro migliore, radicale, non moderato, ma inclusivo, alla ricerca della diversità e dell’impurezza.

Io credo che solo in questo modo, solo avendo ben chiaro il passato si possa sperare in una rinascita, una luce in un futuro che ora a me sembra troppo cupo, anche solo per ricercare la speranza.

Il telepate

Nell’enorme sala, la luce filtrava debolissima dagli schermi posti intorno alle plafoniere sul soffitto. L’uomo era seduto a terra, accanto a una parete. La postura del corpo e l’aspetto del viso tradivano lo sforzo che andava compiendo per concentrarsi.
L’aria nella sala cominciò a fremere, impercettibilmente, e una vibrazione attraversò le spesse pareti di cemento. Trascorsero alcuni minuti di silenzio e di immobilità. Poi il viso dell’uomo si rasserenò, quando cominciò a vedere con gli occhi dell’essere che andava cercando.
– La bellezza, la vista, l’udito. Erano come elfi che cercavano qualcosa nel mio cervello. Uno di loro si avvicinò a me e disse: “Signore, nella tua mano leggo la sofferenza di un animo tormentato, leggo la follia di vivere inseguendo un sogno, la voglia di trovare un padre. Signore, vorrei accompagnarti”.
Io non vi conosco. Chi siete? Cos’è quell’aura intorno ai vostri corpi, ai vostri cavalli?
“Il segno della nostra nobiltà, che riconosciamo in te, Signore”.
Mia madre tornava dal mercato della città sul vecchio trenino a scartamento ridotto. Intorno donne giovani e vecchie, bambini urlanti. Mia madre era contenta, aveva trovato un po’ di carne e di uova, si accarezzava la pancia, dove io ancora per poco sarei stato rintanato. Un’ondata di calore mi attraversò, lo ricordo, e poi ancora una. Le ondate si susseguirono sempre più velocemente, il caldo diventò insopportabile. Sentii mia madre urlare, il mio corpo urlò attraverso il liquido amniotico. Divenni un tizzone che gemeva senza poter fuggire.
La notte per addormentarmi mia madre mi cantava una canzone che parlava degli Elfi del bosco, delle loro spade fiammeggianti. Mentre ascoltavo il suo cervello ripensavo sempre a quel momento sul treno, quando per la prima volta sentii i suoi pensieri, il caldo passò e i suoni divennero elettricità. Fu il momento nel quale tutto accadde. Non vedevo. Ma sentivo, udivo.
Poi gli altri videro me. E i loro pensieri furono pieni d’angoscia, di compassione, di odio per me. Di ribrezzo.
Crebbi da solo. La mia famiglia fu allontanata dalla propria casa perché la zona era altamente contaminata. Fummo destinati a un piccolo villaggio di montagna dove la gente ci accolse come lebbrosi. I miei genitori e tutti gli altri del mio villaggio morirono nei cinque anni successivi. I bimbi dei montanari non erano cattivi, si avvicinavano per giocare con me che ero sotto la tutela del capo villaggio, ma i loro genitori li picchiavano e imponevano loro di starmi lontano. Non ero certo un bello spettacolo. Le mie corde vocali erano incapaci di vibrare ed emettevo solo fischi terrificanti, le palpebre erano cresciute come escrescenze e mi impedivano di aprire gli occhi, il naso era quasi inesistente, respiravo rantolando. Ogni giorno il capo villaggio mi apriva gli occhi con una specie di rudimentale bisturi, con il quale tagliava le croste che si formavano durante la notte tra le palpebre e il viso. Allora io potevo alzare quelle escrescenze con le mani e vedere finalmente le cose del mondo. Jordi – mi dicevano – tu sei fortunato, non dovrai lavorare. A te ci penserà lo Stato. Sei fortunato Jordi. I loro pensieri dicevano: “Speriamo che muoia presto, il sussidio che ci danno non ripaga nemmeno un minuto di questa vita d’inferno che ci tocca fare per colpa sua. Maledetto Stato, maledetta vita che ci impone queste sofferenze. Maledetto, orrendo Jordi che sei sopravvissuto a qualche cosa che non sappiamo. Maledetto bambino venuto al mondo per uccidere i tuoi genitori. Possa tu morire presto.”
Non morii.
Certo a me la situazione appariva in un modo del tutto diverso. Voglio dire che non mi pesava il mio essere, perché non ero conscio della mia diversità o mostruosità. Ero grato a quegli uomini che mi pulivano gli occhi e mi mostravano il mondo. Ero grato: ma non mi era necessario vedere, per capire il loro mondo. Infatti, c’era qualcosa di più. Nelle giornate, nelle notti che si susseguivano io non ero solo. Ogni essere, vicino o lontano, mi parlava. “Perché questo bambino non è mai infelice?”. Ero pieno di vita, mi permeava. Stavo imparando. Da mille vite, da mille forme traevo forza e linguaggio. Tante verità e la bellezza di quel coro inusitato. Erano voci senza significato, all’inizio. Poi cominciai a discernere le forme più semplici della struttura, le vibrazioni comuni, le imperfezioni, i balbettii. E con loro i significati presero forma. Ascoltavo i cervelli produrre sforzi, consumare energia, distruggere la maggior parte di ciò che costruivano. Con quel ronzio incessante comune a uomini ed animali, che si spegne solo con la morte e che finisce sempre in un ululato lontano che scuote la mia mente, ma che ho imparato ad ignorare.
Mi limitavo ad ascoltare, ma ascoltare non è il verbo giusto. Non per ciò che si intende tra gli umani, e nemmeno voce, o una qualsiasi altra parola legata all’udire, rende ciò che provavo. Non ci sono parole, perché non c’era suono. Io ero sordo, completamente. Quando mi tagliavano la pelle delle palpebre vedevo tra nuvole rossastre i volti delle persone, le loro labbra muoversi. Sentivo il ribrezzo che si manifestava nei loro cervelli in scariche potenti, dal ritmo accelerato a cui si associava un odore dolciastro. Quando mi picchiavano, per farmi tornare in casa o per farmi mangiare, i loro cervelli producevano esiti che ora definisco infantili: tanta energia bruciata per la formulazione di poche scariche dirette, potenti, ma brevissime. Da tempo avevo imparato a schivare i loro colpi, spostandomi un attimo prima che i loro pensieri si formassero completamente e facessero funzionare i muscoli. Questa mia capacità li sconcertava. Capii così che il mio potere non era una cosa normale, che per loro il mio spostamento era inspiegabile. Magico, come dicevano. Allora mi facevo colpire, per non sconvolgerli e per poter imparare.
Imparare dalle botte. In quei momenti le mie palpebre sbattevano, i miei occhi vedevano la luce e io cercavo di posizionarmi verso il viso di colui che mi colpiva, orientandomi con i primi colpi. Se ero fortunato potevo vederne le labbra e associare le scariche neuroniche ai loro movimenti. In breve entrai nel loro gioco e ne imparai le regole. Da quel momento potevo sentirli parlare. Fino a quando non impiantammo i giocatori cerebrali lo sforzo del tradurre fu sempre molto grande: dopo un po’, associare scariche e parole mi stancava e lasciavo fluttuare l’elettricità, riposandomi nel suo ronzio.
Ormai potevo ascoltare le persone intorno a me esprimersi in quello che, per loro, era l’unico linguaggio possibile. Le persone del villaggio erano tutte molto semplici, il loro dialetto era costruito per il lavoro della terra, con mille termini per identificare le qualità di un campo, di un raccolto, di un seme. I loro pensieri erano tranquilli, partecipavo al loro dolore per la morte di un parente, alla gioia per una nascita. Insomma l’unica nota stonata ero io.
Una notte, quando avevo ormai dieci anni, fui svegliato da una scarica che mi riempì la mente per la sua potenza. Un urlo che conteneva un codice che non avevo mai percepito, un gioco al quale non avevo mai giocato. Era il profumo, il colore di una radiazione nuova, eppure conosciuta. Dopo qualche minuto tutto tornò ad essere permeato solo dai sogni del villaggio. Nei giorni seguenti pensai a lungo a quello strano rumore. Arrivai alla conclusione che doveva essere stato generato da una mente non umana, oppure da un’altra mente come la mia. Questo pensiero mi arrivò inaspettato, come una folgorazione. Fino a quel momento non avevo mai pensato di poter far parte di un gruppo. Ero sempre stato l’unico. L’unico a salvarsi, l’unico deforme, l’unico a sopravvivere oltre l’infanzia. Insomma l’Unico, senza storia e senza possibilità di costruire un futuro.
Essere considerato un vegetale può essere vantaggioso, a volte. Restavo al sole o all’ombra, non importava. Avevo tutto il tempo per cercare di comprendere l’evento che era accaduto. Il primo squarcio nella mia vita, a parte quelli che mi venivano inferti quotidianamente alle palpebre.
Alla fine decisi che fosse un segnale. Mi concentrai su questo fatto, e su di esso scommisi il mio futuro. Mi allenai per mesi, per cercare di imitare quella sequenza che si era scolpita nella mia corteccia cerebrale. La analizzai scomponendola nelle sue frequenze elementari e, man mano che la elaboravo, mi sembrava sempre più qualcosa di famigliare. Erano solo quattro segnali trasmessi in sequenza, ma con un livello di potenza tale da rendere il messaggio completamente distorto. Lo ripulii dalle frequenze spurie, ogni sinusoide divenne perfettamente leggibile. Erano solo lettere del linguaggio umano: N – I – K – E. Era il mio nome. Era il nome che gli Elfi avevano voluto darmi e da quel momento la mia vita ebbe uno scopo. Io sarei divenuto uno di loro.
Subito dopo li cercai. Li cercai come potevo cercarli nelle mie condizioni, concentrandomi sulle frequenze del mio nome e lanciando energia nello spazio intorno a me. Non sapevo nulla di loro e non sapevo quasi niente di me. Il mio sistema di trasmissione mentale era rudimentale, ma era anche l’unico che conoscessi e potessi usare. Dopo mesi di tentativi il mio cervello si riempì di colori, di suoni, di immagini che si sovrapponevano velocissime. Sotto le mie palpebre martoriate, fasci di fosfeni si inseguivano ininterrottamente. Il mio cervello riceveva senza capire, stordito da giorni di bombardamento. Mi accorsi alla fine che nessun filtro si confaceva a quel frastuono. Smisi di cercare un significato in quell’abisso di informazioni. Mi lasciai trasportare dal flusso che mi attraversava. Cominciai a capire che il senso stava nel tutto. Ciò che mi veniva trasmesso era la summa dello scibile, della natura e della scienza, dell’arte e dell’istinto animale. Ciò che ne risultava erano emozioni allo stato primigenio, erano i talenti dell’universo che per me, intrappolato in quella forma pseudo-umana, prendevano il nome di: amore, terrore, odio, bellezza, stupore. Il terrore era essere dentro l’ignoto e dentro la sua bellezza cangiante che mi abbagliava. La bellezza era tutto ciò che era stato e che chiedeva di essere ancora.
Era ciò che era stato e che chiedeva di essere ancora. Era la presunzione dell’esistere, non dell’uomo, ma dell’universo intero.
Mi chiamarono o fui io a immaginarmi i loro messaggi? Il cambiamento era comunque alle porte, prese la forma dell’ufficiale sanitario e del suo computer portatile con il quale trasmetteva i miei dati vitali direttamente al laboratorio di ricerca. Per anni ero stato controllato periodicamente, ma per la prima volta i risultati dei miei esami venivano trasferiti, in tempo reale, al laboratorio. Posarono i sensori sul mio cranio e immediatamente fui nell’altro sistema, dove le leggi della fisica e della chimica sono talmente presenti da sembrare inesistenti. Nei pochi minuti durante i quali rimasi collegato ai sensori il mio corpo esplose nella rete, lasciai tracce elettroniche di me ovunque. Non solo, la mia capacità di interpretare i giochi linguistici mi permise in quei pochi minuti di svelare il gioco del computer e della rete. Da quel momento mi bastò concentrarmi su quel gioco, scoprire il giocatore a me più vicino e attraverso di lui proiettarmi nella rete.
Il giocatore più vicino era un pluviometro, installato sopra il tetto della casa del capo villaggio. Proprio sopra la mia testa. Quell’oggetto fino a quel momento muto divenne allora il mio ponte verso l’universo. Viaggiai insieme alle gocce di pioggia in modo altrettanto virtuale, sospinto dall’energia fornita da un piccolo generatore fotovoltaico.
Il resto è conosciuto. E se io sono qui oggi è perché in voi ho rivisto la mia storia. Allora io ero solo, oggi i Mastodonti possono aiutarvi.
Nella sala spoglia ogni suono si interruppe. L’uomo seduto nella posizione di meditazione mantenne il capo chino, accanto a lui un cane. Dietro, due Mastodonti con il volto nascosto dal casco.
La voce riprese.
– Il mio nome è Nike e questi sono i Mastodonti. Erano bambini come voi, e come me erano stati colpiti dalle radiazioni e abbandonati al loro destino di dolore e di morte. Dentro di loro, però, ardeva una forza vitale inusitata. Volevano competere, sognavano di vincere. Ho fatto di loro dei combattenti, ho creato una stirpe invincibile, ho reso me e loro bellissimi e immortali. Ciò che non esisteva, ora è: gli Elfi sono tra noi.
Così dicendo si alzò in piedi e mostrò alla telecamera il suo corpo e il suo volto. A un suo cenno i due Mastodonti si tolsero il casco.
I ragazzi rimasero senza parole. Avevano seguito il lungo discorso di quell’uomo, apparso all’improvviso all’interno del monitor tra una mossa e l’altra di Tragonbell 2, e ora videro i volti dei tre uomini irradiare una luce azzurrina, che rendeva impossibile distinguerne esattamente i lineamenti: ma ai loro occhi, questi sembrarono perfetti. Il corpo dell’uomo chiamato Nike appariva come scolpito nella quercia e i suoi movimenti senza sforzo, con una coordinazione perfetta.
– Chi sei? – fu l’unica cosa che riuscirono a pensare, in un silenzio scandito dai loro battiti.
– Un giorno un uomo fece un esperimento: prese un pezzo di corda lungo un metro, lo tese orizzontalmente all’altezza di un metro e lo fece cadere una, due, cento volte. Ogni volta la corda cadeva in modi diversi, pur partendo da condizioni iniziali apparentemente simili. L’uomo concluse che una variazione impercettibile di una qualsiasi delle variabili che governavano la caduta influenzava irrimediabilmente il volo della corda e la posizione che avrebbe assunto al suolo. Era impossibile misurare le variazioni, era impossibile addirittura elencare tutte le variabili. Ciò che accadeva non poteva essere spiegato dalla scienza, ciò che accadeva era Arte. Ebbene, io sono colui che sa dove cadrà il metro.
Ora voi sarete come me.
Nella stanza si materializzarono i due Mastodonti, accompagnati dal cane. Uno dei due scese dalla moto e, accarezzando il cane, disse gentilmente: – Dovete seguirci.
Amed e il suo compagno presero posto sul sedile posteriore e le moto attaccarono rombando la strada.
Intorno il deserto stringeva d’assedio la città, ma si avvertiva nel vento un lontano profumo di mare.

SCHEI
La morte in banca, parte seconda

“Cambiava umore con facilità estrema, i giudizi e i commenti degli altri lo trovavano più indifeso e contribuivano ad aumentare il suo smarrimento. Tutto era forse accaduto troppo in fretta e bisognava ricominciare da capo. Ma ora che erano cadute tante premesse, non aveva più una meta e niente che ne colmasse l’assenza; adattarsi gli sembrava una resa, la sua crisi non poteva finire così. Trovava assurda la sua vita, ritornava su certe constatazioni con una fissità che lo stancava e gli faceva talvolta desiderare di evadere, di tornare a muovere, di distrarsi”. Questo estratto, tratto da “La morte in banca” di Giuseppe Pontiggia, primo romanzo aziendale italiano, potrebbe attagliarsi allo stato d’animo di un neo assunto di studi classici alle prese con un mondo calcolante e meschino, abbracciato per necessità; ma anche di un piccolo neo ristoratore che, causa epidemia, vede il suo sogno imprenditoriale ucciso sul nascere, e la banca trasformarsi da assistente a spietata, indifferente matrigna.

Per una volta Antonio Patuelli, presidente dell’ABI(Associazione Banche Italiane), non parla solo pro domo sua quando dice: “Il primo meccanismo che con l’arrivo del Coronavirus non può funzionare è quello che tecnicamente viene definito ‘calendar provisioning‘, insieme alla nuova definizione che è stata proposta per il ‘default’. Un combinato disposto micidiale per l’economia e i cittadini. Le regole pensate prima della pandemia non possono essere fatte valere adesso, come se tutto fosse normale. Ne va della salute non tanto delle banche quanto dell’economia in generale, della vita di tutti noi. Dei cittadini che investono, delle aziende, piccole o grandi che siano. Secondo la definizione in vigore tra un mese e mezzo, cade in default chi ha un debito arretrato di 90 giorni, anche per soli cento euro. Se si tratta di aziende il limite sale a 500 euro, in ogni caso bassissimo. È un meccanismo micidiale soprattutto in epoca di pandemia perché chi accusa quel ritardo finisce per essere inserito nella lista dei cattivi pagatori, con tutto quello che ne consegue. È evidente che tutto ciò in periodo di pandemia finirebbe per strangolare l’economia”.

E’ la vigilanza BCE il fulcro del sistema, ed è quella che può far partire la macchina che cambi le regole e le adatti alla guerra pandemica in corso. Dal 2018 a capo dell’organo c’è Andrea Enria, economista italiano, proveniente dall’Autorità Bancaria Europea (EBA). L’AD di Mediobanca, Alberto Nagel, conferma che le norme che impongono accantonamenti piu’ rapidi sui crediti deteriorati, eliminando la discrezionalita’ e portando a svalutare i NPL di un terzo ogni anno, comprese le inadempienze probabili, i cosiddetti UTP(unlikely to pay), sono “… applicate alla situazione post-covid, come una bomba atomica”.  Poi aggiunge che ha fiducia in Enria, che è uno con cui si può parlare. Lo speriamo tutti, e non perchè le silhouettes di Nagel e Enria siano particolarmente rassicuranti: anzi, vedere le loro foto mi fa correre un brivido lungo la schiena, perchè mostra la siderale distanza tra loro, la loro vita, e la nostra. Tuttavia esistono, a volte, top managers e massimi decisori economici che risultano all’altezza dei momenti storici, e questo lo è, senza ombra di dubbio. La nostra fiducia in loro non può riporsi nel fatto che possano in qualche modo “mettersi nei nostri panni”. Questo non è possibile. La nostra fiducia in loro (Andrea Enria, Christine Lagarde) deve riporsi nel fatto che siano ben consapevoli che la montagna di denaro e privilegi e, per carità, responsabilità sulla quale sono seduti sta già smottando. Se questa montagna franasse, loro sarebbero gli ultimi a fallire in senso economico, essendo in cima alla scala, ma i primi a fallire in senso storico, e questo potrebbe essere un colpo mortale per il loro ego. Dobbiamo confidare nella loro egocentrica e disperata capacità di non passare alla storia come i più ricchi del cimitero: quel cimitero sociale che non sarebbero stati in grado di scongiurare.

 

Al cantón fraréś: Dó màdar, dó fiòli…
La figura materna vista da due autrici

La figura materna vista da due autrici ferraresi.

La prima, Graziella Vezzelli, rivede la mamma indaffarata e sporca di bianco o di nero; ne rivede le mani premurose nelle faccende di casa, negli affetti, nel lavoro. E riassapora nel ricordo carezze e baci.
La seconda, Graziella Rossi, pur consapevole della difficile vita della madre vissuta tra patimenti, fame e guerra, confessa in un canto dolente il proprio bisogno di tenerezza, mai appagato.

Ill to maη
Am li arcòrd ill to maη, mama,
sémpar svelti e alźiéri,
come sparpài sóra ‘η źardìη
mai stufi ‘d vulàr.
Sémpar sicuri, int ill caréz
e int al lavór.
Am li arcòrd, impgnà,
con gùcia e fil par arpźàr
pagn unèst e puvrìt,
o intrigà int la tié dla roca a filàr
par tèsar tela ‘d burazìna
ruvida come la vita d’i to temp.
A li rivéd iηfarinà
par impastàr pan o gratìn,
e tinti ad calìźan,
tra i cavdùn dal camìη,
par atizàr al zòch
quand al calàva ‘d vampa.

Ill to maη, mama,
am par ad sentirli aηcora
tramèz ai mié cavì
par farm ill tréz,
o sóra la mié front
par misuràr la fiévra,
e ill to dida freschi
sóta al mié barbùz ad putìna
par alzàram la faza
e darm uη baś.


Le tue mani
(traduzione dell’autrice)
Rammento le tue mani, mamma, / sempre svelte e leggere, / come farfalle in un giardino / mai stanche di volare. / Sempre sicure, nelle carezze / e nel lavoro. / Le ricordo, alacri, / con ago e filo rappezzare / abiti poveri e onesti, / o alle prese con la rocca, / tessere, filando, tela grezza, / ruvida come la tua vita vissuta. / Le rivedo bianche di farina / lavorare pane o pasta, / e nere di fuliggine, / tra gli alari del camino, / per attizzare il ciocco / di legno che s’andava spegnendo. /

Le tue mani, mamma, / mi pare ancora di sentirle / tra i miei capelli / per farne trecce / o sulla mia fronte / se scottava, / e le tue dita fresche / sotto il mio mento di bimba, / a sollevarmi il volto / per darmi un bacio.

Tratto da: Nuove voci della mia terra, premio letterario nazionale “Bruno Pasini”, Ferrara, Festina Lente, 2014.

Graziella Vezzelli (Portomagggiore 1936 – 2012)
Commerciante di abbigliamento intimo, conduceva il negozio “Graziella” a Portomaggiore. Ha pubblicato la raccolta poetica Grap ad Stéll (2007). Altre sue poesie sono inoltre presenti nelle antologie  dei concorsi dialettali nei quali ha ricevuto numerosi premi e segnalazioni.

 

 

 

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At jér dura
At jér dura
mai ‘n abràz,
surìś póchi e mai uη baś…
che mi ‘m arcòrda.

At jér dura
parché la vita niént l’at ha sparamià:
fam, miseria, guèra e smaηgaηlà;
t’jé rastàda seηza mama a nóv ann
e a diéś, sùbit a zarcàrt al pan,
iη meź ai spròch a spigàr,
a sédaś iη fabrica a lavuràr.

At jér dura
A źnóv ann t’ha pèrs al prim putìn
e, al témp dal “fàssio” e dl’oli ad rizìη,
con mié pàdar su iη muntagna,
t’andàvi, ad nòt, a rubàr iη campagna
ill patàch e al furmantón d’i fituàri
e al zùcar dl’”Eridania” sui binari.

At jér dura
La par ‘na fòla, la par… fantasciéηza
ma ‘na fòla indóv ti, mama, at iéri al león
ach difendéva la so tana co’ i uηgióη;
‘na dòna ch’ha fat la “Resisteηza”
e, al gióran dla vitòria,
lè córsa in piazza a far la stòria.

At jér dura
Al benèsser l’è rivà
coi cavì griś e la traηquilità;
ma i ann int ha briśa viηcà,
la scòrza la t’è vaηzada
e, sol coη la bóca, at fasévi qualch ridàda.

At jér dura
Adès che t’aη gh’jé più, purtròp,
adès che più al témp al pasa
e più am vién al gróp,
adès ch’a jò capì tut, finalmènt,
an pós più dìrat quél ch’a sént
e a spandrév tut i mié baiòch
par védar al surìś int i tò òć.
At jér dura!

Eri dura (traduzione dell’autrice)
Eri dura / mai un abbraccio, / sorrisi pochi e mai un bacio… / che mi ricordi. /
Eri dura / perché la vita niente ti ha risparmiato: / fame, miseria, guerra e manganellate; / sei restata senza mamma a nove anni /e a dieci, subito a cercarti il pane, / in mezzo ai campi a spigolare, / a sedici in fabbrica a lavorare. /
Eri dura / A diciannove anni hai perso il tuo primo figlio / e ai tempi del fascismo e dell’olio di ricino, / con mio padre su in montagna, / andavi, di notte, a rubare in campagna / le patate e il frumento degli affittuari / e lo zucchero dell’Eridania sui binari. /
Eri dura / Sembra una fiaba, pare… fantascienza / ma una favola dove tu, mamma, eri il leone / che difendeva la sua tana con le unghie; / una donna che ha fatto la “Resistenza” / e, il giorno della vittoria, / è corsa in piazza a fare la storia. /
Eri dura / Il benessere è arrivato / coi capelli grigi e la tranquillità; / ma gli anni non ti hanno piegata, / la scorza ti è rimasta / e, solo con la bocca facevi qualche risata. /
Eri dura / Adesso che non ci sei più, purtroppo, / adesso che più il tempo passa / e più mi viene il magone, / adesso che ho capito tutto, finalmente, / non posso più dirti quello che sento / e spenderei tutti i miei soldi / per vedere il sorriso nei tuoi occhi. / Eri dura!

Tratto da: Scrittori dialettali di casa nostra : terzo concorso letterario “Mario Roffi” in vernacoli provinciali, a cura  della Circoscrizione via Bologna, Ferrara, Comune di Ferrara, 1999.

Graziella Rossi (Ferrara 1940 – 2012)
Capufficio al Comune di Ferrara, appassionata lettrice di gialli e di fantascienza, componeva rime e zirudele in occasioni conviviali. Partecipando a concorsi dialettali ha ottenuto lunsinghieri riconoscimenti. Autrice di Piera, autobiografia romanzata stampata in proprio.

Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui] 

Cover: Maternità (particolare), pastello di Laura Govoni.

PAROLE A CAPO
Giovanna Panzolini: “Lo specchio di Luna” e altre poesie

“La libertà è come la poesia: non deve avere aggettivi, è libertà”
(Enzo Biagi)

 Lo specchio di Luna

Persa in una magica luna che lascia i riflessi ondeggiare nel lago.
Sembra cullata dal debole vento, così come il tempo culla il cerchio dei miei lontani ricordi di te.
Si sfumano, e quando penso di poterli afferrare si perdono, senza toccare la riva.
Nei riflessi, la luna si specchia.
Illumina le notti più scure e sussurra: ”Continua a brillare, nonostante tutto”.

 

Quel soffio

Non sapevi volare leggera,
ma passavi le tue giornate a tentare il volo.
Non riuscivi a dipingere il mondo,
ma ne coloravi gli angoli oltre i confini.
Non potevi cantare la gioia,
ma continuamente la spargevi.
Non fuggivi dalla tristezza,
anzi, la abbracciavi.
E tra le nuvole, avvolta dalla nebbia,
aspettavi paziente quel Soffio
che ti avrebbe fatto atterrare
tra le braccia aperte della Vita.

 

Sono vivo

In un morbido calar del sole,
fiducioso attendo il respiro della notte.
Un tetto di stelle a cullare i miei sogni,
la mente decisa a soccombere al cuore.
Nel giorno combatto una battaglia tra mille disfatte,
nel buio mi arrendo ai ricordi d’amore.
E scende una lacrima in questo vuoto di te,
che corri sulla tua vita mentre ti seguo in disparte.
Lontana sorridi e questo mi basta:
io sono vivo, il cuore batte.

Giovanna Panzolini (Viterbo, 1972)
Ha partecipato a diversi concorsi letterari e corali, tra i quali si menziona: “Scrivendo 2020” (Kubera Edizioni) ottenendo il riconoscimento di merito e l’inserimento di una breve silloge poetica nell’antologia del concorso. Ha recente pubblicato una raccolta dei suoi scritti dal titolo “Nei passi dell’Anima”, PAV Edizioni.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia.
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

BIBLIOTECHE AL TEMPO DELLA PANDEMIA
A ogni lettore il suo libro, a ogni libro il suo lettore

Ci voleva forse il Covid per rendersi conto fino in fondo quanto le biblioteche siano realtà trascurate, forse addirittura sconosciute alla classe politica italiana.
Non è un caso che nella serie dei dpcm che dettano via via le disposizioni per zone gialle, arancio e rosse, le biblioteche non sono mai chiamate con il loro nome, ma messe in fondo alla lista, dopo i musei, tra “gli altri istituti di cultura di cui all’articolo…”.
Da dove viene questa incultura, questa ignoranza, questa indifferenza verso le biblioteche? Probabilmente i nostri politici (ed ahimè, su questo risulta difficile distinguere la destra dalla sinistra) non frequentano punto qualcuna delle migliaia di biblioteche sparse per tutto il territorio nazionale. Non hanno cioè nemmeno un’idea di che patrimonio rappresentino.

A volte anche i numeri sono importanti. Il sito dell’ICCU (Istituto Centrale per il Catalogo Unico) [Vedi qui]  riporta l’anagrafe ufficiale delle biblioteche italiane: 11.920 le biblioteche censite (ma il totale generale supera le 18.000 unità), 6.246 sono le biblioteche di enti territoriali (quelle che chiamiamo biblioteche di pubblica lettura) e oltre 1.000 quelle universitarie.
La maggioranza dei Comuni italiani dispone di una o più biblioteche pubbliche. Certo, più al Nord e al Centro rispetto al Sud Italia, ma a guardar bene la presenza delle biblioteche ha un carattere capillare. Una rete diffusa e interconnessa che negli ultimi cinquant’anni non ha smesso di crescere. Credo di più delle stazioni dei Carabinieri che ultimamente hanno pensato (male) di chiudere in tante realtà periferiche.

Solo le scuole sono più numerose delle biblioteche. E, sia detto per inciso, le scuole hanno storicamente condiviso con le biblioteche la medesima disattenzione e indifferenza da parte dei nostri governanti.
Rimane il fatto – per questo i numeri sono importanti – che le biblioteche rappresentano un presidio culturale davvero diffuso, nelle metropoli come nelle città e nei piccoli borghi, nei centri storici come nelle periferie urbane e nei piccoli comuni montani.

Cosa fare di questo grande patrimonio? Come utilizzarlo al meglio? Forse occorrerebbe capire meglio cosa già sono in tanti casi e cosa dovrebbero essere, a cosa e a chi dovrebbero servire  le biblioteche. Cominciando dal nome. Alcuni (io non sono tra questi) suggeriscono un nome ‘aggiornato’ ai tempi, di chiamarle ‘mediateche’, visto che i supporti su cui viaggiano informazioni e cultura si sono moltiplicati. Occorre però scavare più a fondo, raggiungere ed esprimere la vera anima delle biblioteche. Maria Stella Rasetti, direttrice Biblioteche e Archivi della città di Pistoia (sul quotidiano il manifesto dello scorso 8 novembre) chiama le biblioteche “Cittadelle della democrazia”. E scrive della sua realtà: “in una biblioteca del genere (e per fortuna non solo in questa) il «miracolo» va oltre il tradizionale ambito della lettura, per estendersi a uno stare insieme che crea comunità: una comunità che non fonda i suoi legami sulla comunanza delle radici, ma che trova il senso di sé nel voler condividere il futuro. La biblioteca è per definizione luogo del meticciato, della condivisione, della «conversazione», per usare una espressione cara a David Lankes, professore di biblioteconomia americano, che ha sviluppato una specifica teoria sulle biblioteche innovative”.
Non tutte, ma molte delle biblioteche pubbliche italiane hanno ormai fatto proprio questo DNA. Tranne alcune a questo preciso compito preposte, le biblioteche non sono un luogo di conservazione, ma un luogo di incontro (una agora) e un terminale assistito dove si cercano e si scambiano informazioni: Per le biblioteche – per quello che sono e per quello che potrebbero essere – ricordo una bella definizione di Everardo Minardi: “agenzie della democrazia informativa”.

Se è vero che la pandemia non può sospendere l’esercizio della democrazia, la chiusura delle biblioteche pubbliche che i vari dpcm stanno generalmente imponendo, risulta un fatto grave.  Le biblioteche non producono Pil, ma garantiscono l’esercizio della democrazia. Per questa ragione, dal mondo dei bibliotecari – loro sì conoscono la natura e le potenzialità dei presidi bibliotecari – si sono levate da più parti contestazioni e proteste.

La stessa presidente dell’AIB (Associazione Nazionale Biblioteche) Rosa Maiello così scrive il 6 di novembre ai ministri della Repubblica: “Se le biblioteche sono risultate essere – come noi crediamo di poter affermare – tra i luoghi pubblici più sicuri e raccomandabili dove recarsi, potremmo capire l’utilità di una indicazione prudenziale a non consentire il servizio di consultazione in sede, o a effettuare una valutazione caso per caso secondo le caratteristiche della sede e l’entità prevista dell’affluenza. Ma non comprendiamo perché impedire anche il prestito dei volumi, gestito con tutte le dovute cautele a tutela della salute degli operatori e del pubblico e ferma l’ovvia condizione che la biblioteca sia in grado di assicurarle. In questo modo si privano non solo studenti e ricercatori delle fonti necessari per progredire nei loro studi (perché le biblioteche sono strumenti essenziali per l’effettività del diritto allo studio e del diritto alla ricerca), ma tutti i cittadini e in particolare quelli socialmente ed economicamente più svantaggiati di un servizio essenziale, e il tutto proprio in una delle fasi più dure e difficili della loro esistenza.”

Ma tant’è, oggi dobbiamo registrare che, da Aosta a Ragusa, le biblioteche hanno dovuto chiudere le porte al pubblico. Rimane allora da usare bene fantasia e creatività (e tanti bibliotecari e lettori sono già impegnati in questo senso) e sviluppare servizi alternativi per non lasciare i cittadini utenti privi del servizio. Leggo di tante iniziative in tante regioni e città d’Italia: non solo ‘libri su prenotazione’, ma anche ‘libri d’asporto’, ‘libri nel cortile’, ‘libri a domicilio’ e altre virtuose invenzioni.
Se l’utente non va (non può andare) in biblioteca, la biblioteca può e deve andare a casa dell’utente. Secondo il celebre adagio: “ad ogni lettore il suo libro, ad ogni libro il suo lettore”.

DIARIO IN PUBBLICO
Il problema della problematica

Tra le ferree catene del covid-19 alcune sembrano particolarmente salde.
Ecco allora che con moto sinuoso e strisciante le nostre vite vengono invischiate in una serie di problemi che un sciagurato travolgimento delle parole e l’assoluta incuria rivolta verso la lingua italiana assume agli onori del dire questa parola, ora in assoluto la più usata, che trionfalmente si è incastrata come espressione della vita di tutti i giorni assumendo la forma particolarmente odiosa di problematiche. Nessuno se ne salva; perfino illustri italianisti e storici della lingua. Chi l’esprime con la perfezione assoluta è il comico Maurizio Crozza quando imita il dottor Luigi Locatelli e naturalmente il professor Alberto Granzillo. Non è che questa sia una questione di poco conto. Se ne veda la spiegazione nell’Accademia della Crusca:

“Molte persone, della più varia provenienza geografica (da Gamalero a Udine, da Padova a Ragusa, passando per Perugia, Firenze, Ancona), si sono rivolte alla redazione per segnalare l’uso sempre più frequente e indiscriminato della parola ‘problematica’ come sostituto di ‘problema’. La percezione di chi scrive è che si tratti di un ‘abuso’, di un uso ‘scorretto’, ‘arbitrario’; il ‘nuovo  lemma’ viene giudicato ‘inutile e bruttino’: ‘disturba’ e ‘sa molto di politichese’. Ci viene chiesto di esprimere un parere in proposito e di illustrare se le due parole ‘problema’ e ‘problematica’ siano effettivamente sinonimi, quale sia il significato proprio di problematica, se questa parola possa essere usata e in che senso.”

Risposta

“….In tutti questi casi, l’occorrenza di ‘problematica’ si caratterizza non come scelta denotativa, in relazione al significato che si vuole veicolare, ma come scelta di registro: la parola ‘problematica’ viene selezionata al posto di ‘problema’ non perché sia più precisa o più adatta al contesto, ma perché, per chi la usa, assume una connotazione ‘alta’, ‘formale’, che consente una presa di distanza dall’italiano comune e sembra quindi garantire un innalzamento di livello rispetto alla lingua d’uso quotidiano.”

La stessa cosa potrebbe essere applicata a tema-tematica e ancora ad una serie di aggettivi-sostantivi come fragile/i da riferirsi a persone anziane e/o malate seriamente.
Ricordo in tempi lontani come l’accoppiata temi/problemi fosse di uso frequente ma sicuramente l’uso tecnicamente e scientificamente più alto di problematica ha reso il lemma particolarmente indicato in tempi di corona-virus.

Nelle lunghe giornate che trascorro talvolta a scorrazzare tra programmi televisivi che mi promuovono indignazione e sconforto e altre che appaiono, almeno nell’informazione corrette, alcune mi prendono alla gola, come impensabili modi d’essere e di esprimersi di persone che non mi paiono far parte della mia educazione culturale o etica. Per non far nomi le terrificanti vicende esposte in un programma in cui dopo aver sentito incredibili casi polemici un ‘vero’ giudice’ assolve o punisce gli imputati; un’altra dove personaggi (forse) famosi si lanciano in danze fantasiose giudicate da una serie di personaggi il cui tacere è (sarebbe) bello che li rendono celebri l’espace d’un matin.

Naturalmente alcune reti televisive e programmi di attualità ti riportano alla consapevolezza di una dignità dell’informazione pubblica degna di un tale nome. Poi ecco apparire la chioma slavata del perdente Trump tra inni e tripudi dei non rassegnati, o il bel viso di Kamala Harris tra altrettanti balli e contorcimenti poiché gli USA storicamente sono così.
Allora per un momento mi rendo conto che loro potranno sì essere il paese più potente del mondo, ma il contesto storico di chi scrive queste note può scegliere di applicarsi a produrre recensioni di libri colti, o addirittura vedersi affidata l’analisi di un libro che narra le avventure di una straordinaria figura: Barbara Sanseverina, ava di una mia cara amica che ne ha scritto la storia e poi ricordare che a pochi chilometri di distanza, o addirittura dietro l’angolo di casa mia a Ferrara, la sapiente organizzatrice di giochi erotici dirigeva feste per nobili e potenti per poi perdere la vita su di un palco, decapitata non dalla mannaia che si usa per gli umani, ma con il ‘mannarino’ che si usa per gli animali mentre il boia la sculaccia, lei 64enne, a sedere nudo per attirare l’entusiasmo della folla. E di questa signora bella e lasciva Gigliola Fragnito ha scritto la storia, ricordando anche l’innamoramento che di quella donna ebbe Stendhal che la elevò a figura ideale nella Chartreuse de Parme.

Devo ammetterlo. Essere considerato sprezzantemente radical-chic mi riempie di entusiasmo, anche se questa dizione e (forse) il conseguente atteggiamento elitario-culturale sempre più tramonta in una città, la mia Ferrara, che inesorabilmente scivola nella banalità e nella noiosità. Eppure solo pochi anni fa, precisamente nel 2003, questa città fu assunta in Europa a modello di una Renaissance singulière. E non è stato di poco conto .
Ora ci si limita a presentare una rassegna di pittori mediocri che fanno audience, i cui frequentatori possono apparire gli scafati che hanno trovato-ben coadiuvati-il modo di ‘tirarsela’ e di essere à la page. Si gira ansiosamente per il centro vuoto inseguito da colori che virano al rosso, quel colore da evitare, che ricorda un altro rosso, quando chi lo indossava come divisa era indicato qual mangiatore di bambini.

E il compulsare numeri, morti, ricoveri produce la famosa ‘ansia’ che non ci dà pace che in una intelligente nota Aldo Grasso sul Corriere della sera del 15 novembre così commenta, invocando rimedio alla depressione e situando la situazione in “una via di mezzo tra chi suggerisce di non drammatizzare e chi ti getta nell’angoscia! Spingono alla depressione perché con il lockdown non si potrà nemmeno uscire a prendere una boccata d’ansia”.
Questo timore lo trovo irreprensibile!!!

E mentre ancora una volta la divina Martha Argerich, assieme a Seiji Ozawa, mi porta nell’iperuranio suonando il piano concerto 2 di Beethoven, penso con tristezza alle così limitate esigenze dei miei concittadini, connazionali, umani tutti, che si accontentano di piccole sfide, di egoistiche esigenze, di soddisfare soprattutto la ‘panza’ non solo per ricevere cibo. E mi convinco a resistere, a mettere in atto ciò che mi si chiede dalle mascherine al distanziamento, al limitare le uscite. Poi mi affretto alla piazza e trovo la libreria chiusa. Attimi di sconcerto. E’ chiusa perché troppo grande e potrebbe produrre assembramenti…. Non commento, ma nel triste ritorno a casa trovo una scatola nascosta dietro il computer. Piena di libri comprati e non letti. E’ una festa tra la mai letta Principessa Casamassima di Henri JamesIl Ghetto interiore di Santiago Amigorena.

Resta solo così di concludere con un titolo di un capitolo del libro di Francesca Boari Animula blandula, che presenterò in videoconferenza al Libraccio il 23 novembre alle 18.30, che mi coinvolge e a cui per ora non so rispondere: Gli asini preferiscono la paglia all’oro“. E’ un frammento di Eraclito.
Dovremmo anche noi creature laboriose preferire alla movida il raccoglimento nelle nostre case? Penso di sì.

Per leggere gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

ALFABETO SIMENON
L’inventore di Maigret raccontato da Alberto Schiavone e Maurizio Lacavalla

“Se esiste il pianeta Simenon infatti, è donna. E una donna non è semplice da spiegare con una sola linea dritta”. Nella prefazione ad Alfabeto Simenon (edizioni Bd), Alberto Schiavone entra già nell’opera che con parole e immagini regala al lettore cosa è stato uno degli scrittori più complessi e ammirati del Novecento. Alfabeto Simenon, che esce oggi in libreria, è il ritratto a fumetti dell’inventore di Maigret e di una personalità mai paga e riposta in romanzi, racconti, articoli. Alberto Schiavone, autore di Dolcissima abitudine (Guanda), Ogni spazio felice (Guanda), La libreria dell’armadillo (Rizzoli) e Maurizio Lacavalla, premiato fumettista, hanno ricreato la vita, le ossessioni, i viaggi nel mondo e dentro la propria inquietudine che non si assopirà mai, di Simenon illuminando, attraverso la citazione della sterminata produzione bibliografica, l’uomo, l’artista, il marito, il figlio, il padre che è stato.
I ventisei capitoli e le altrettante lettere dell’alfabeto si intingono nella vita dello scrittore che è riuscito a raccontare di sé e dell’umanità, della società e degli ultimi, della madre e delle numerose amanti. Il pianeta Simenon è vasto da esplorare, ma con le parole di Alberto Schiavone e le immagini create da Maurizio Lacavalla, l’alfabeto con cui leggerlo si fa strumento: Camilleri, Fellini, e poi Colette, Gide ci parlano di Simenon e noi lo possiamo guardare da vicino con la lente di chi lo ha conosciuto, con le riflessioni di chi lo ha commentato e con ciò che lui stesso non ha mai negato di sé. Alfabeto Simenon miscela romanzi e racconti e li supera: lo scrittore è dentro e oltre ai suoi testi pubblicati, è una vita che indaga, ricerca, ha dipendenze e simbiosi con gli ambienti e le vicende narrate.
Grazie ad Alfabeto Simenon, conosciamo come è nato Maigret, qual è stato il metodo cadenzato, preciso, mai interrotto con cui i romanzi sono nati, e il lessico sempre alla ricerca della parola giusta e diretta. È lo stile Simenon, insomma, che nella sua eleganza asciutta non cerca mai di stupire, non ne ha bisogno.
Alfabeto Simenon sarà presentato in diretta Facebook dalla pagina di Ferraraitalia e del Microfestival delle storie venerdì 20 novembre alle 21. A dialogare con gli autori Alberto Schiavone e Maurizio Lacavalla, Riccarda Dalbuoni e il fumettista Biagio Panzani.

Dove soffia lo Spirito del mondo

Magari non lo chiameremmo così, ma di qualcosa che ci dica che la nostra vita, e quella di tutti, ha un senso sentiamo il bisognoNon vorremmo ripetere con Macbeth: “Life’s but a walking shadow, a poor player, that struts and frets his hour upon the stage, and then is heard no more. It is a tale told by an idiot, full of sound and fury, signifying nothing”La vita è solo un’ombra che cammina: un povero istrione, che si dimena, e va pavoneggiandosi sulla scena del mondo, un’ora sola: e poi non s’ode più. Favola raccontata da un’idiota, tutta piena di strepito e furore, che non vuol dir niente.

Hegel vede lo Spirito del mondo e ne scrive all’amico Niethammer il 13 ottobre 1806. “Ho visto l’imperatore – quest’anima del mondo – uscire dalla città per andare in ricognizione; è davvero una sensazione meravigliosa vedere un uomo siffatto, che, concentrato qui su un punto, seduto su un cavallo, si protende sul mondo e lo domina… Da giovedì a lunedì progressi così grandi sono stati possibili solo grazie a quest’uomo straordinario che è impossibile non ammirare”.
Non è un’infatuazione. Nell’opera che sta scrivendo, La fenomenologia dello Spirito, riappare chiaramente, per quanto il linguaggio del filosofo lo permetta. La Rivoluzione francese illumina e conclude il vecchio ordine. “Il graduale sgretolamento, che finora non alterava la fisionomia della totalità, viene infine interrotto dal sorgere del sole che, come un lampo improvviso, fa apparire in un colpo solo la struttura del nuovo mondo”. Termina così il confronto doloroso tra “il regno della cultura” e il “mondo della fede, il regno dell’essenza”. Questo processo dello Spirito prevede il passaggio dalla Francia alla Germania, “allora lo spirito, prima estraniato completamente entro sé, abbandona questo territorio della cultura e giunge in un’altra terra, nella terra della coscienza morale”.
La rivoluzione può degenerare nell’anarchia e nel terrore perseguendo un’utopia. “La libertà universale non può produrre nessuna opera e nessun atto positivi, e le resta soltanto l’attività negativa. La libertà universale è soltanto la furia del dileguare”. Fortunatamente c’è chi (Napoleone) rimuove la realtà “in modo universale – e quindi per tutti – riproducendo un altro mondo, un altro diritto, un’altra legge e altri costumi, al posto di quelli esistenti”. Le masse, passata l’ubriacatura giacobina, “ritornano a un‘opera particolare e limitata: proprio per questo, però, ritornano alla loro realtà sostanziale.”

Pure Adorno lo vede, in altra forma nel frattempo assunta, e ne scrive nel 1944 citando le V2, Vergeltungswaffe 2, precursore tedesco di tutti i missili balistici. “Come il fascismo, le V2 sono lanciate e senza soggetto nello stesso tempo. Come il fascismo, uniscono la massima perfezione tecnica alla cecità assoluta. Come il fascismo, suscitano il massimo terrore e sono perfettamente vane. Ho visto lo Spirito del mondo, non a cavallo, ma alato e senza testa: e questo confuta, nello stesso tempo, la filosofia della storia di Hegel”. Nessun progresso è assicurato. Adorno l’ha visto mutarsi in regressione proprio “nella terra della coscienza morale”, annuncio di catastrofe per l’intera umanità. La dialettica, il momento negativamente razionale, non apre ad alcuna positività futura. Di fronte al male, che appare invincibile, si pone l’esigenza di resistenza e opposizione, che il pessimismo sull’esito non ferma. A sorreggerla è la tensione verso una realtà altra e migliore, intravvista nei momenti più felici della storia.

Nel 1946 Napoleone ritorna in un’annotazione di Aldo Capitini a proposito delle vicende del Partito d’Azione. “Studi La Malfa la situazione italiana più sotto lo strato politico… vedrà che in Italia non può svilupparsi un Roosevelt o un Napoleone della politica. In Italia bisogna animare una sinistra, trasferire là tutti i fermenti e gli elementi del rinnovamento perché là sia la socialità e libertà e religiosità, perché là sia una capacità creativa pari a quella, immensa, del passato italiano”.

Nel 1947 un allievo di Capitini, Silvano Balboni, scrive sul settimanale socialista da lui diretto un pezzo del quale mi piace riportare qualcosa. “Pestalozzi e Napoleone. Una nuova educazione per un’umanità nuova. Quando Pestalozzi arrivò a Parigi con la Consulta Elvetica, si volle che Napoleone avesse l’occasione di parlare un momento con l’illustre educatore, ma Cesare aveva altro a cui pensare. ‘Non ho il tempo di occuparmi dell’abc’, disse spazientito. Raccontando con arguzia l’episodio, nel suo dialetto zurighese, Pestalozzi concludeva: ‘Ebbene, se io non ho visto Napoleone, neanche lui, dopo tutto, mi ha visto’. È un episodio eloquente sulla differenza dei due metodi, quello del dittatore che vuole organizzare l’ordine umano dall’esterno con la forza e quello del giardiniere spirituale che vuole svilupparlo dall’interno coltivando nell’uomo, ancora bambino, il senso dell’armonia con l’amore. Anche oggi usciamo da un periodo durante il quale Cesare ha cercato di foggiare l’Europa a colpi di bombe e con le torture… Pestalozzi non voleva più chiese che elevano le debolezze dei governati e le peggiori ingiustizie dei governanti al di sopra del vangelo, né scuole praticanti un’educazione meccanica e preoccupate solo della memoria, né stati basati su registri e rapporti senz’anima, redatti da funzionari di ghiaccio”.

A proposito dello spirito universale e della chiesa, nel 1957, in “Discuto la religione di Pio XII” (subito all’Indice) Capitini torna al tema. “Una delle cose prime è di non far fare una brutta figura a Dio; meglio, se no, non nominarlo. Quel tale che disse di aver visto, in Napoleone, lo Spirito universale a cavallo, non lo disse certamente con tutta la calma e il rispetto dovuti”. Forse Pio XII non fa di meglio. Nella “Sertum laetitiae” ai vescovi degli Stati Uniti del 1939 è scritto: “Dio, che a tutto provvede con consigli di suprema bontà, ha stabilito che per l’esercizio delle virtù e a saggio dei meriti vi siano nel mondo ricchi e poveri”. Come noto i vescovi d’America (non solo loro) sono convintissimi di ciò. Meno convinto è Capitini sull’esercizio delle virtù. “Nel pensiero di Pio XII credo che si tratti, per esempio, della carità da parte dei ricchi, e della non invidia da parte dei poveri”. E neppure condivide l’opinione che grazie alla differenza “si possano saggiare i meriti, il valore maggiore o minore delle persone”.

“Quel tale” disinvoltamente citato è stato oggetto di approfondito studio da parte di Capitini. La realtà come si presenta è da lui anche più nettamente avversata e criticata di quanto faccia Adorno. Nel suo pensiero è l’esigenza di una radicale tramutazione di una realtà inadeguata. Può venire solo dall’aggiunta nonviolenta “con spirito e metodo proprio, all’opposizione verso la presente società”. Il senso che cerchiamo, solo un pensiero e una pratica alla nonviolenza ispirati potrebbero, forse, farcelo intravvedere.

Questo articolo è recentemente apparso sull’edizione in rete della storica rivista del Movimento nonviolento [www.azionenonviolenta.it] 

SPIONI E DIDATTICA A DISTANZA

Col favore del Covid pare che si moltiplichino le specie aliene. Sembra che un popolo di occhiuti spioni stia colonizzando i device degli studenti.
Sono il popolo dei Proctor, provenienti dal pianeta digitale Proctoru, che si scrive con due occhi di gufo sopra la “u”, come una compagnia di security, di vigilanza, una di quelle ditte che installano i sistemi d’allarme antifurto.
Non si tratta di Proctor, il personaggio immaginario della serie cinematografica di Scuola di polizia, leccapiedi e tonto, ma neppure di qualcosa che non gli assomigli. Perché i Proctor sono vigilantes, censori, sorveglianti, godono a beccarti in flagrante sbirciata e a fare subito la spia.

Importato dalle università anglosassoni il Proctor è quello che vigila sulla regolarità degli esami a distanza, verifica che gli studenti non imbroglino. L’insegnante, che a casa nostra è ricorsa al fai da te facendo bendare le sue studentesse, evidentemente, poco pratica di digitale, non era a conoscenza del brulicare in rete di Live Remote Proctoring, software che in tempo di lockdown stanno facendo la fortuna dei loro distributori.

Per le sessioni d’esame di giugno anche le nostre università hanno fatto ricorso al popolo dei Proctor. L’Università statale di Milano dedica una pagina web per fornire istruzioni a quegli studenti che intendono sostenere l’esame a quiz online. Sono invitati a installare sul loro computer l’estensione Proctorio Chrome Extension, oltre a rispettare precise regole e una serie di restrizioni da parte del sistema di controllo remoto. Per l’intera durata della prova, alla faccia della privacy, vengono registrate le informazioni relative alle periferiche, a programmi, funzioni, azioni e dati. Nessuna persona può essere presente nell’ambiente d’esame. Vietato prendere nota su carta e rivolgere domande al proctor remoto. Proibito allontanarsi dalla propria postazione durante l’esame, ogni necessità deve essere espletata precedentemente, al fine di evitare problemi di validità. Durante l’esame guai distogliere gli occhi dallo schermo, ciò potrebbe essere interpretato dal severo proctor spione come tentativo di consultare materiale non autorizzato e potrebbe essere motivo di annullamento dell’esame, anche dopo la fine dell’esame stesso.

L’occhio vigile del censore noterà e bloccherà ogni voce di sottofondo, ogni attività sospetta relativa all’utilizzo di programmi non consentiti, dump dello schermo, tentativi di screen sharing con altri soggetti, sia direttamente, sia in background. Se necessario è possibile dialogare con il proprio proctor, ma solo in inglese, questo del resto è scontato visto che da noi simili software ancora non si producono. Proctor Exam pubblicizza la propria piattaforma con la quale è possibile sostenere un esame in qualsiasi momento e da qualsiasi punto della terra, tramite appositi ‘Organismi di Certificazione’.

Come sempre alla fine la realtà supera la fantasia. Il grande fratello è in ritardo sul millenovecentoottantaquattro, solo perché tecnologicamente si è più raffinato. Al momento pare più un gioco di astuzie tra nativi digitali, che smanettano dall’infanzia e docenti che non sono smanettoni e che per tutelarsi ricorrono a software come Proctorio, utili a colmare gli svantaggi del digital divide tra generazioni.
Non viene la voglia di salutare i progressi della tecnica, quando la tecnica viene usata come modo di raggirare la propria ignoranza, la pigrizia a pensare, pensare ad esempio che forse progresso tecnico e arretratezza culturale cozzano tra loro, che non è detto che le nuove tecnologie debbano servire un modo vecchio di intendere l’istruzione, sempre uguale a se stesso da secoli, dalla penna d’oca ai computer. Si fatica a non notare la discrepanza.

L’esamificio che propone il popolo dei Proctor in rete è quanto di più deteriore vi possa essere, ancora di più degli esamifici tradizionali delle nostre scuole e dei nostri atenei. Il Proctor Exam è una bestia vorace che si nutre solo di item, non dà spazio alle competenze, non c’è posto per spiegare il proprio ragionamento, per formulare un dubbio, per esprimere un commento, una nota a margine, per quel lavoro del cervello che i quiz uccidono.

Complice il lockdown, è l’attacco alle teste ben fatte di Morin quello che si va compiendo con la didattica a distanza, non per colpa delle tecnologie, ma per responsabilità di chi le usa, per responsabilità di chi avrebbe dovuto provvedere a far crescere una cultura della formazione totalmente nuova nelle modalità e negli strumenti. Non usare le tecnologie come il bidello in classe quando l’insegnante non c’è, le tecnologie come ripiego, al servizio di un’idea di istruzione che sta offrendo il peggio di sé.

Tanti sono gli impiegati dell’istruzione, ma pochi sembrano essere i professionisti. Non è sufficiente dire no alla didattica a distanza, se questa è la brutta copia della didattica in presenza. Occorre che qualcuno si faccia sentire e dica come è necessario lavorare, del resto, se nel corso della storia della nostra scuola sono avvenuti cambiamenti, questi sono sempre nati dal suo interno e la politica non ha potuto che prenderne atto.

Per leggere tutti gli articoli della rubrica La Città della conoscenza, la rubrica di Giovanni Fioravanti, clicca [Qui]

OCCHI IGNARI:
gli scherzi notturni di windows

Francesco Reyes

Oggi mi sono svegliato e, come diverse altre volte, ho trovato il mio computer acceso.

Occhi ignari
Windows aveva deciso di aggiornarsi nella notte. Per sua disgrazia (di Windows), il mio computer è impostato con un “double boot”, cioè la possibilità scegliere con quale sistema operativo avviarlo, Linux (scelta automatica) o Windows (se richiesto dall’utente). Windows tenta spesso di modificare aspetti software del computer, lontano dagli occhi ignari del proprietario, con collegamenti a internet e aggiornamenti notturni, che a volte lo portano a multipli riavvii consecutivi. Prima di spegnersi automaticamente, prima del mio risveglio. Nel mio caso, il poveretto si è trovato bloccato da un riavvio impostato di serie su Linux.

Il mio computer?
Riavvio la macchina in Windows e… sorpresina! Il sistema mi annuncia orgogliosamente che mi ha messo a disposizione l’ultimo aggiornamento di Microsoft Edge (un navigatore per internet), il quale si avvia automaticamente e si frappone tra me e l’uso del computer. Mi propone di un tour dell’applicazione obbligatorio. Per riuscire a interromperlo sono costretto a forzarne la chiusura da Gestione attività (Ctrl +Alt + Canc).
L’espropriazione del computer non si ferma qui. Decido di rimuovere l’applicazione, per la quale installazione sul mio computer non ero stato consultato. Ma il pulsante “Disinstalla” risulta disattivato da Installazione Applicazioni. Apparentemente c’è una lobby dentro il mio computer più influente di quello che sono io, che, scioccamente, mi credo ogni volta proprietario di questa macchina sottomessa a voglie di terzi.

Autodeterminazione
Credo di aver esitato abbastanza. E’ il momento che la faccia finita con questo sistema operativo. Nel anno 2020 penso che l’umanità (e io come sua parte) meriti poter gestire autonomamente il proprio computer. E’ il momento che adotti definitivamente un Linux (come peraltro già fanno 2 dei miei coinquilini).
Buona autodeterminazione a tutti

PER CERTI VERSI
Bianco Venezia

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
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BIANCO VENEZIA

Tu sei il bianco
Dei cristalli
Di Murano
I gialli spasimanti
Dei suoi autunni
Le nebbie a mezz’asta
Nella laguna
Come se i colori
Fossero morti
Per un’ora
Senza luna
Sei il bianco
Di Burano
E il lenzuolo
Che stendi sul mare
Tappeto che cola
Sulle calle
Incolore
E Venezia vola
Vola
Verso il Catai
Il suo amore
È come il mare
Non dorme mai

SCHEI
Il Profumo dei soldi (pignorati)

Alessandro Profumo è l’amministratore delegato di Finmeccanica (ora Leonardo-Finmeccanica), la prima industria italiana di armi, elicotteri, sistemi di difesa. E’ per dimensioni la terza azienda d’Europa del settore. Il Ministero dell’Economia ne detiene circa il 30%. Un colosso, che non può che essere amministrata dal colosso degli AD. Profumo, appunto. Un uomo talmente potente che si potrebbe credere sia l’eponimo del celebre romanzo di Patrick Suskind “Il Profumo”, appunto, laddove si legge: “Il profumo ha una forza di persuasione più convincente delle parole, dell’apparenza, del sentimento e della volontà. Non si può rifiutare la forza di persuasione del profumo, essa penetra in noi come l’aria che respiriamo penetra nei nostri polmoni, ci riempie, ci domina totalmente, non c’è modo di opporvisi.“

La potenza persuasiva che Unicredit ha dispiegato, piazzando alla clientela durante gli anni della sua reggenza migliaia di contratti per strumenti derivati, evoca davvero il potere del profumo e dell’uomo che ne porta il nome. Alessandro Profumo, infatti, dal 1997 al 2010 è stato Amministratore Delegato del Gruppo Unicredit, che sotto la sua guida è passato da 15.000 a 160.000 dipendenti. Finora la fedina penale di Profumo (che non può essere immacolata, perchè per un manager del suo livello il casellario giudiziale è una tacca del curriculum) contava una condanna a sei anni e mezzo di reclusione (in primo grado) per aggiotaggio e falso in bilancio ma, inopinatamente, non per la gestione Unicredit ma per quella di Monte dei Paschi – è passato anche da lì, dal 2012 al 2015. Adesso la procura di Bari ha rinviato a giudizio Profumo e Ghizzoni (suo diretto successore alla poltrona di AD Unicredit) per la bancarotta fraudolenta dell’azienda Divania, una eccellenza nella esportazione di divani negli Stati Uniti, saltata in aria non per problemi industriali, ma – stando all’accusa – per il dissesto finanziario legato all’andamento in perdita di oltre 200 contratti derivati sottoscritti dal 2000 al 2005 con Unicredit.

Ma cosa sono i “derivati”? Per spiegarlo attingiamo alla fonte derivati.info (un sito con questo nome lo saprà cosa sono, no?): “i derivati non sono titoli muniti di un proprio valore intrinseco bensì derivano il loro valore da altri prodotti finanziari ovvero da beni reali alla cui variazione di prezzo essi sono agganciati: il titolo o il bene la cui quotazione imprime il valore al derivato assume il nome di sottostantei derivati possono assolvere tanto ad una funzione protettiva (ossia di copertura) da uno specifico rischio di mercato quanto ad una finalità meramente speculativa. Nel concreto, non può negarsi che sui mercati finanziari globali i derivati si siano affermati soprattutto quale mezzo di speculazione.” . Eh no, nel concreto non può negarsi che la finalità speculativa (per la banca) abbia nettamente prevalso sulla finalità di copertura da un rischio (per il cliente). Sarebbe infatti curioso che centinaia di aziende private e persino di Comuni abbiano perso milioni di euro per tutelarsi da un rischio. Se ne deduce abbastanza facilmente che lo strumento è stato venduto come copertura da un rischio, ma ha funzionato come fonte di guadagno per la banca e di perdita per il cliente. Non ci spingiamo al punto di dire quello che peraltro tutti pensano: ovvero che ab origine la maggior parte di questi strumenti erano tecnicamente congegnati per far guadagnare la banca e far perdere il cliente. Sta di fatto che questo è quanto è successo, perlomeno nel caso di Divania, azienda che – stando alla Procura di Bari – andava bene, ed è saltata per aria proprio per l’impossibilità di saldare il gigantesco debito accumulato nei confronti della banca (Unicredit) a seguito di una successione di contratti per derivati che l’hanno condotta sul lastrico. Alla faccia della copertura del rischio.

Ma questo non è un articolo di approfondimento finanziario. Mi interessa di più mostrare due caratteristiche di certo top management italico. La prima è la capacità di espandere un business puntando al massimo guadagno possibile (per gli azionisti) a scapito degli altri portatori di interessi, ovvero clienti e dipendenti. I clienti vengono sostanzialmente raggirati con il racconto fasullo della funzione di uno strumento finanziario, che finiscono per sottoscrivere (e quindi formalmente le carte sono spesso in ordine, anche se nel caso Divania sono emerse anche diverse irregolarità formali) ma di cui non hanno capito nulla. La scarsa consapevolezza ed educazione finanziaria della clientela, anche istituzionale, è indubbiamente una concausa di queste pratiche farlocche, ma questo non esclude, anzi aggrava, la responsabilità di chi spinge, con ossessiva pressione, la sua struttura commerciale a collocare in massa certe fregature. La seconda caratteristica di questi capitani d’industria e cavalieri del lavoro (Profumo è stato insignito anche di tale onorificenza) è l’attitudine a risultare nullatenenti, o a nascondere il proprio patrimonio dietro paraventi e coperture che rendono spesso impossibile aggredire le ricchezze, perchè risulta improbo rintracciare le strade oscure attraverso le quali le ricchezze hanno viaggiato fino a rendersi irreperibili. A conferma di ciò sta la circostanza che la Procura di Bari ha disposto il sequestro conservativo dei beni degli imputati, per garantirsi i futuri risarcimenti in caso di condanna dei quattordici banchieri sotto accusa, e nel caso di Profumo cosa ha trovato? Che non risulta intestatario di alcun immobile. Un uomo che ai bei tempi guadagnava circa 9 milioni di euro l’anno e che è andato via da Unicredit con una buonuscita di 38 milioni (di cui due, bontà sua, dati in beneficenza) non risulta proprietario nemmeno di un bilocale al Lido delle Nazioni. Quindi alla procura non è rimasto altro che pignorare il quinto dei suoi emolumenti, dal momento che a lui non è intestato niente che abbia delle fondamenta, nemmeno una prima casa o un garage. Che è un esito quasi comico, visto che la cosiddetta “cessione del quinto” è lo strumento di elezione delle classi meno abbienti per accedere alla possibilità di acquistare una macchina o una televisione.

La cosa più sconfortante è che questo modo di generare profitto, questa determinazione nel vessare la struttura commerciale, spingendola a piazzare prodotti in maniera malandrina pena l’emarginazione dal consorzio lavorativo, l’isolamento, il trasferimento punitivo, questa weltanschauung viene premiata. E passi, se venisse premiata solo dai padroni privati che lucrano dalle spregiudicate e disinvolte gesta di cotanti amministratori. Il fatto è che questi signori vengono chiamati dallo Stato alla guida delle più strategiche industrie pubbliche, o a prevalente capitale pubblico, del nostro Paese. Infatti, Profumo è stato chiamato a “risollevare” le sorti del Monte dei Paschi di Siena e proprio durante la sua Presidenza lo Stato è diventato azionista della Banca (che dal 2017 è detenuta per due terzi dal Ministero dell’Economia e Finanze), e attualmente è l’Amministratore Delegato di una delle maggiori industrie italiana a partecipazione statale: Leonardo-Finmeccanica, detenuta al 30% dal MEF. La grottesca “consolazione” è che adesso gli tocca lasciare il quinto del suo stipendio come capita a noi comuni mortali, che ci indebitiamo per cambiare la macchina o sostituire gli infissi di casa. Con la fatale differenza che il suo stipendio non è quello di un comune mortale, ma gliene basterebbero quattro quinti per comprarsi casa su Marte, se solo non fosse allergico al mattone.

PRESTO DI MATTINA
La Bibbia: una storia di storie

Il volto nelle parole è un libro del critico letterario Ezio Raimondi, che contiene nella premessa una felice citazione di Italo Calvino: «Chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d’esperienze, d’informazioni, di letture, d’immaginazioni?».

Si inizia così un viaggio alla ricerca di noi stessi, in un faccia a faccia con l’altro, per decifrarne esperienze ed immaginazioni. È una ricerca volta a trovare quel senso che ogni corporeità racchiude: la forma di una spiritualità che si configura attraverso le parole. L’obiettivo è quello ri-trarre, nel senso di tirar fuori dal testo, con il racconto che procede in avanti, come ogni storia, i volti rinchiusi nel passato. Estrarli dalle pagine per farli transitare oltre, attraverso il passante del presente, nell’orizzonte del futuro. Là dove cioè la memoria del passato diventa generativa di nuove invenzioni, creatrice di nuove parole, come diafanie velate di altre spiritualità affioranti dalla materialità dei testi: altri volti da rischiarare.

Tutto ciò rievoca in me la figura dei ‘passatori’ di un tempo, coloro che aiutavano ad attraversare i fiumi o le frontiere. Tali non sono forse anche gli abitanti del passato, i loro testi, traghettati sulla barca del presente di chi li legge, e rilasciati sulla sponda di un altro mare sconosciuto?
Non è solo un’esigenza estetica, quella del passatore che scorre le pagine delle opere per godere di altre voci, immagini, notizie. La sua è anche un’urgenza ‘estatica’: far uscire la vita, la propria e l’altrui, divenuta stretta. Sciogliere di nuovo la libertà di un’esistenza segregata, di un libro chiuso, di una voce prigioniera del silenzio o di un volto velato dall’oblio. Il processo estatico è autenticamente liberatorio solo se diventa responsabilità per gli altri, se è proteso verso un ‘noi’, uno spazio in cui condividere quel patrimonio spirituale comune che s’incrementa nella misura in cui ce ne spossessiamo donandolo.
Gli ‘altri’ che attendono una risposta sono gli anonimi lettori ,traghettati da un libro all’altro per quel patto sottinteso stipulato con l’autore. È così che anche le parole, rivedendo la luce negli occhi del lettore, diventano parole estatiche. Quante volte infatti ri-nasce una parola? Tutte le volte che viene letta.

Scrive Claudio Magris nell’introduzione a Il volto nelle parole: «[Enzo Raimondi] vede e parla con le opere che incontra, le riporta in vita, in un dialogo incessante che restituisce loro un volto e una voce… la [sua] vita stessa appare intessuta, quasi formata dalle esistenze incontrate nei libri o nella realtà – che si incrociano con essa e in essa. “…Ogni [suo] esercizio interpretativo è un racconto”. L’interpretazione è un divenire che trasforma il passato e pure chi lo interpreta: gli eventi dietro l’interprete che li considera “sono nello stesso tempo ombra del suo spazio interiore”» (Il volto nelle parole, Bologna 1988, 8).

Leggendo questi testi non ho potuto non pensare all’aspetto letterario e narrativo della stessa Bibbia. Che ha generato letteratura, perché è essa stessa grande letteratura, una storia di storie, tanto che potremmo dire: “In principio era il racconto”. Non per caso si narra in un antico midrash (in ebraico da dārash investigare, ricercare, studiare, interpretare, narrare) che «Dio ha creato gli uomini perché Egli – benedetto sia – adora i racconti». Per questo non deve sorprenderci che sia proprio nelle storie della Bibbia che Egli abbia scelto di nascondersi, per essere da lì cercato.

Per il vero, solo da poco tempo si è iniziato a parlare di interpretazione narrativa della Bibbia, di un Dio come soggetto e ispiratore di un racconto in cui vicende, personaggi e storie ritornano dal passato solo grazie ai loro lettori. Viene così a generarsi un’alterazione, una via di uscita. Il testo stesso tracima in nuovi spazi, percorre nuovi territori; si contamina con altre immagini, si confronta con differenti situazioni trasformandosi in nuovi ulteriori racconti. Si pensi all’imponente romanzo di Thomas Mann, Giuseppe e i suoi fratelli, in parallelo al testo biblico delle storie familiari della Genesi.

Da una storia nasce una proliferazione di altre storie: o meglio una ‘storia altra’. Uno spin-off si direbbe oggi nel gergo televisivo; un episodio, una vicenda umana, un evento derivante in modo imprevisto da un’azione o da una situazione interna od esterna al racconto, scaturita da una trama precedente, come da talee nuovi germogli. Papa Gregorio Magno avrebbe spiegato il termine spin-off, riferito alla Bibbia, dicendo che «la Scrittura cresce con chi la legge». Così ogni testo ed anche la Bibbia non va compresa come un punto di arrivo, ma nel suo carattere prospettico, nella possibilità di dare vita ad altre storie. Essa è, nella felice espressione di Northrop Frye, «il grande codice», generativo di cultura e letteratura che ha influenzato profondamente gli stili e i modi di pensare ed agire dei popoli che ha incrociato (Il grande codice. Bibbia e letteratura, Milano 2018).

L’interpretazione narrativa si prende a cuore la ‘lettura’ del testo biblico. Ciò che la interessa non è tanto la Bibbia come documento ma come ‘monumento’ (da mònere = ricordare, far sapere). E questo è possibile solo se un lettore rigenera il ricordo e, nella lettura, fa rivivere la storia, diventandone così testimone. Per questo i rabbini dicono che la Torah ha settanta volti: per sottolineare che non c’è un solo modo di interpretare il testo biblico, ma tanti quanto sono i possibili lettori, i quali, non diversamente da un martello che colpendo la roccia ne fa scaturire scintille, producono una molteplicità di interpretazioni e di sensi.
Come non ricordare, a questo proposito, il lavorio incessante di ruminazione della sacra Scrittura a partire dai Padri del deserto, e poi l’operosità diuturna di tutti gli altri frequentatori e interpreti della sacra Pagina nel medioevo fino ad oggi?
Tutti, ciascuno a suo modo, cercatori del volto nascosto tra le parole di quella storia che li farà a loro volta narratori di buone novelle.

Fu il francescano Nicola di Lira (1270-1349) che, dando forma a tradizioni più antiche nell’interpretazione scritturistica, promosse il ritorno al senso letterale nella lettura e nello studio della Bibbia, senza dimenticare il suo significato nascosto, spirituale. Riprendendo un celebre distico di Agostino di Danimarca, egli seppe così formalizzare i quattro sensi di lettura del testo biblico. Si parte dal “senso letterale”: la lettera insegna i fatti, la storia; poi il “senso allegorico”: l’allegoria insegna ciò che devi credere; ed ancora il “senso morale” ti insegna come comportarti; ed infine il “senso anagogico”, ovvero ciò che sta oltre, al di là, che ti insegna a cosa devi tendere; è il “senso spirituale”, l’esperienza di intimità generata dall’incontro col mistero dell’Altro nascosto nel testo.

Questi differenti significati che si incontrano nella lettura hanno dato origine a quell’esercizio che è detto Lectio divina. È la preghiera liturgica fatta con la Parola di Dio. La lettura delle Scritture porta ad un dialogo con esse, per incontrare colui che, attraverso le Scritture, parla ancora oggi ed invita a fare esperienza della sua amicizia. Il Concilio ha esortato ad apprendere «la sublime scienza di Gesù Cristo» (Fil 3,8) con la frequente lettura delle divine Scritture. “L’ignoranza delle Scritture, infatti, è ignoranza di Cristo [Girolamo]» (Dei Verbum, 25).

La Lectio divina è così un percorso di lettura segnato da varie tappe. Si passa da un luogo ad un altro, avvicinandosi sempre di più al luogo dell’incontro. Un itinerario simile a quello descritto da Teresa d’Avila nel Castello interiore: partendo dalla porta del castello che è l’invocazione che ci venga aperto; si passa poi, di dimora in dimora, attraverso una esperienza sempre più profonda della propria umanità e interiorità, che crescono nella relazione all’altro, fino a giungere ed avere parte alla sublime umanità del Cristo. Dall’esteriorità della lettura del testo (lectio) si entra dentro al testo e tramite la meditazione (meditatio) dentro sé stessi. Meditare corrisponde a misurare, soppesare, accostando pensiero a pensiero sino a scoprire il significato di un parola alla luce di un’altra. È come lavorare di notte o percorrere una galleria oscura: alla fine si vedrà la luce, qualcuno ci viene incontro. Nella terza tappa, che prende la forma di un dialogo orante (oratio), si intrecciano parole e silenzi, domande e risposte, suppliche o rendimento di grazie: una preghiera dialogante: nella prossimità di una voce il riconoscimento di una presenza. Si giunge così a contemplare l’altro nel testo (contemplatio) come invitati a prendere posto, introdotti in uno spazio dentro la pagina, una dimora segreta, la cella del vino di cui parlano il Cantico e Teresa: è l’esperienza della intimità, di quel legame dell’amore che libera l’amore. Si sta non come una cartolina o un santino in un libro d’ore. L’intimità dell’amore è piuttosto simile alla condizione della scrittura in pagina: nero e bianco, diversi e distinti, ma intimamente uniti.

Una domanda: “Che cos’è che trasforma la lettura in preghiera, il lettore in discepolo alla mensa della Parola del Maestro interiore?” Un movimento: apri e leggi; vieni e vedi.

Un anno a Trafoi con i ragazzi della parrocchia in una sosta, lungo un ghiaione, mi misi a raccogliere sassi, come se cercassi nello scaffale in biblioteca. Poi le nuvole coprirono tutto, ovattando l’intorno di silenzio e mi ritrovai d’improvviso in una biblioteca di pietre: sassi neri, squadrati, rigati di bianco ai lati, come libri e quaderni di pietra. Biblioteca della montagna! Diari silenti che narravano l’evoluzione e la storia del mondo! Anche breviari filettati d’argento, che pregavano dentro il suo groviglio e il suo dolore. Solo lo sguardo penetrante del desiderio la coltre nebbiosa, in perseverante attesa di qualcuno, come goccia dopo goccia che scava le pagine di pietra, arriva ad aprirle. Solo il cuore che ascolta il silenzio le comprende e le prega.

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]  

CONTRO VERSO
La mamma che non vuole stare senza

La mamma che non vuole stare senza

Ci sono donne che non riescono a staccarsi dal partner violento. Sono troppo prese dalla relazione, sperano di aiutare “lui” a cambiare, sono convinte che i figli non stiano soffrendo e restano lì, si lasciano fare del male ancora un anno, tre, dieci… a volte una vita intera.

Il papà le dà le botte
Lei lo cerca giorno e notte
Sputi e insulti per contorno
Lei lo invoca notte e giorno

Le ha spaccato qualche dente
“Questo? È stato un incidente”
La minaccia col coltello
“Il mio uomo è forte e bello”

Le arrovescia la credenza
Lei non vuole fare senza
Poi le dice: “Amore mio”
E lo vede come un dio

Le hanno detto: “Venga via”
Lei risponde: “È casa mia”
“Quando è amore non fa male”
“La mia vita cosa vale?”

E del bimbo nella culla
non importa proprio nulla.

Sul più grande che va a scuola
lei non dice, lui sorvola

Lui minaccia… poi piú nulla.
Resta un bimbo nella culla.

Ho conosciuto donne che sceglievano di non separarsi per non togliere un padre ai propri figli. E donne che sceglievano di separarsi per non imporre le violenze ai propri figli. A volte erano le stesse donne, a qualche anno di distanza. In breve si direbbe che i bambini sono un rinforzo, quasi un paravento, per la scelta che la donna vuole seguire innanzitutto per se stessa, perché non sempre è pronta per tagliare con una relazione, accettarne il fallimento. È tutto umanissimo e vero. Resta il fatto che i bambini sono esposti alla violenza assistita e a volte subita. Qualche volta mi è sembrato che fossero l’ultimo dei pensieri.

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia  il venerdì. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

CIO’ CHE IL COVID-19 CI HA PERMESSO DI VEDERE MEGLIO

Siamo in Novembre ed è arrivata la seconda ondata di Covid-19. La situazione è più o meno la stessa di questa primavera: ospedali in affanno, medici sotto stress, circa quattrocento morti al giorno. Rispetto a questa primavera il virus non è più solo delle regioni del Nord, ma sta attraversando tutt’Italia; nel frattempo i posti in terapia intensiva sono quasi raddoppiati, sono stati assunti più di 30.000 tra medici e infermieri.

Questa malattia ha accelerato alcuni processi di forte trasformazione sociale che stanno attraversando tutto il mondo occidentale e, più in generale, tutta la terra.
Tra le dirette criticità scoperchiate dal ‘maledetto virus’ mi viene da citare per prime:

1- Le disfunzioni del sistema sanitario.  La riforma del titolo quinto della costituzione (delega alle Regioni della gestione della sanità pubblica per il territorio di competenza) e la privatizzazione della sanità hanno determinato una situazione a macchia di leopardo in tutta la penisola. Si sono create alcune disfunzioni di sistema che ora vedono tutti: depotenziamento delle attività di prevenzione, depotenziamento della medicina di base, forte ricorso ai pronto-soccorso per qualsiasi evenienza, forte ricorso ad ambulatori privati.

Il sistema di accreditamento delle aziende private, che di fatto doveva movimentare il sistema d’offerta sanitaria e quindi migliorare la qualità dell’offerta complessiva delle prestazioni sanitarie erogate e garantite, ha incontrato tre grossi ostacoli:
il sistema di convenzioni attraverso il quale il sistema statale/regionale riconosceva al privato sufficienti requisiti per essere considerato alla stregua del servizio pubblico, e quindi erogare le stesse prestazioni attraverso i DRG (diagnosis-related group/raggruppamento omogeneo di diagnosi), non è riuscito a decollare con sufficiente rigore e trasparenza;
Le aziende private hanno continuato a considerarsi tali e, salvo rare eccezioni, ad erogare prestazioni ‘convenienti’ per loro. Ad esempio: ci sono moltissime cliniche private che non hanno il pronto soccorso (il rapporto costi/benefici relativo alla gestione dei pronto soccorso è molto sbilanciato sul versante costi, per non dire che in molti casi va in perdita);
– Il terzo tema riguarda l’aziendalizzazione delle ASL. Da quando le ASL sono diventate vere e proprie aziende (con tanto di pareggio di bilancio come obiettivo) hanno, da una parte ‘razziato il territorio’, deprivando, ad esempio, tutta le gestione dei servizi sociali che faceva capo ai Comuni; dall’altra hanno imposto al sistema una gestione dei servizi socio-sanitari di competenza quasi esclusiva dell’ASL, mentre il sistema prevedeva in origine una concertazione degli interventi e delle risorse attraverso delle cabine di regia ASL/Comuni.

Il sistema che vediamo ora ha iniziato la sua trasformazione circa 20 anni fa su impulso della Lega Nord di Bossi, dei forti interessi economici che nelle regioni del Nord riguardavano la gestione degli ospedali, delle spinte riformatrici dei legislatori (Nazionali/Locali) che, pur animate da buone intenzioni, hanno bucato l’acqua.

Ciò non toglie che: abbiamo ancora un sistema sanitario universale che garantisce le prestazioni di base a tutti, abbiamo ancora degli ospedali e dei reparti di eccellenza che ci invidia tutto il mondo, la nostra classe medica è molto preparata e competente. Dal nostro sistema sanitario (anche così com’è ora) gli altri Stati possono tutt’ora imparare molto. Anche questo fa riflettere.

2- La messa in discussione di una idea di ‘democrazia’ che ha dominato nel mondo occidentale per almeno 50 anni. Democrazia  (dal greco antico: δῆμος,  démos, “popolo” e κράτος,  krátos, “potere”)  significa “governo del popolo”, ovvero sistema di governo, in cui la sovranità è esercitata, direttamente o indirettamente, dal popolo, generalmente identificato come l’insieme dei cittadini che ricorrono a strumenti di consultazione popolare (es. votazione, deliberazioni ecc..). Il sistema democratico è messo in discussione per due ordini di motivi:
– non ci si riconosce più nei sistemi di rappresentanza così come codificati, cioè non ci si sente più rappresentati da nessuno. Classica è l’affermazione: “Non voto nessuno, così se sbagliano io non centro niente”.
Non ci si riconosce più nell’idea che un “governo del popolo” sia una “buona” e auspicabile forma di governo. Da qui molte derive: dal riproporre le oligarchie dei nobili, alle forme di autoritarismo, in cui i poteri si concentrano su una sola persone. Questa ultima tendenza dà ragione dello stato di insicurezza e preoccupazione in cui si trova la popolazione. La storia insegna che in tutti i momenti di forte crisi ‘sociale’ riemergono in maniera prepotente le spinte all’autoritarismo.

3- Un individualismo smodato. Ogni persona pensa per sé. Non c’è più condivisione e poca solidarietà. All’origine di questo ripiegamento sul ‘sentire privato’, che sembra una brutta caratteristica del tempo attuale, ci sono ragioni e giustificazioni e, per fortuna, si registrano anche dei segnali in contro-tendenza che sono il nocciolo di tutte le nostre speranze. L’individualismo smodato è legato a una perdita di ‘valori’ e a una assoluta mancanza di ‘fiducia’, non solo nelle istituzioni Statali o sovra-Statali, ma anche in altre nostre istituzioni fondanti: i sistemi amministrativi territoriali, le Onlus, le Fondazioni, le Ipab, perfino la parrocchia e la famiglia. Un sentire di continua preoccupazione e continua incertezza per il futuro (non c’è più certezza di avere un lavoro, di avere chi ci cura, chi ci accudisce, chi pregherà per noi) hanno portato a questo ripiegamento sull’individualismo, che è all’origine di tutti i nostri mali. Senza un tessuto sociale solido che prevede disponibilità, altruismo e fiducia tutte le società sono destinate a scomparire. Trovo che il tema della fiducia sia sempre fondante. Senza una rete fiduciaria semi-stabile e riconosciuta/riconoscibile qualunque sistema relazionale naufraga nel mare dell’indifferenza e annega. Siccome la parola ‘fiducia’ è spesso usata a sproposito, credo sia necessaria una chiarificazione semantica, che ci permetta di circoscrivere dei comportamenti all’interno di una cornice di significato quasi-univoco, che possiamo utilizzare per ragionare anche in maniera ‘teorica’ su questo concetto (ma anche sentimento e comportamento), di cui si è persa la vera valenza e la conseguente consapevolezza dei suoi effettivi risvolti.

La fiducia è l’aspettativa di un atteggiamento/comportamento/evento ‘positivo’ messa in opera da un attore sociale. L’attribuzione di ‘positività’ può investire il comportamento di un singolo individuo, così come quello di un gruppo o di un sistema sociale.
La positività di tale atteggiamento/comportamento/evento è decisa dal soggetto che compie l’azione di attribuzione di fiducia ed è coerente con la sua aspettativa di riduzione della complessità sociale, con il suo orientamento etico, con la sua idea (in costante ridefinizione) dei corollari che può avere il concetto, di per sé astratto, di ‘verità’.

La fiducia può essere riposta nei confronti di una singola persona e nei confronti di un sistema sociale. La fiducia ha quindi una dimensione ‘personale’ che si concretizza nel fidarsi di un’altra persona. Questo tipo di fiducia presuppone due premesse: la ‘familiarità’ intesa come caratteristica di una relazione (in senso più olistico di un mondo) che conosciamo e di cui riusciamo, almeno in parte, a prevedere gli sviluppi e la ‘conoscenza della storia’ intesa come conoscenza di ciò che è successo come elemento esplicativo, anche se non meccanicistico, di ciò che succerà.

Oppure la fiducia ha una dimensione ‘sistemica’ dipende cioè dal fatto che dei sistemi sociali diventino stabili grazie alla comunicazione intersoggettiva. Sistemi stabili riducono la complessità del mondo e permettono alla fiducia di passare dalla personalità singola al sistema, riponendo aspettative sulla correttezza e prevedibilità delle regole di funzionamento dello stesso. Un tipico esempio di sistema stabile è la scuola. Tale sistema permette di passare dalla fiducia nel singolo (es: l’insegnante di matematica) alla fiducia nel sistema stesso (scuola), in quanto permette di prevedere ciò che succederà, grazie al fatto che esistono regole codificate, chiare e rigide che determinano in larga misura le conseguenze che molte azioni avranno (se un professionista impiegato a scuola si presenta ubriaco verrà allontanato; se uno studente presenta i sintomi di una malattia infettiva, verrà riaccompagnato a casa; se succede un incendio si evacuerà la scuola secondo il piano più volte simulato, se il preside va in pensione verrà sostituito da un altro, e così via …). L’eccezione alla regola è costituita da ciò che si considera anomalo o nuovo, cioè quel possibile dell’accadere che non è ‘riducibile’ in senso sociale.

Questo è un tema sul quale riflettere, questo è il tema centrale di questo nostro mondo confuso.

Oltre a tutto ciò che il Covi-19 ha scoperchiato con grande vigore, esistono anche alcuni problemi che riguardano tutto il mondo e che si interfacciano direttamente con quanto sopra-scritto: i cambiamenti climatici, la crescita demografica esponenziale, il “sistema finanza” che pervade tutto e che relega la politica in una dimensione locale, depotenziata, di grande insofferenza e litigiosità.

C’è quindi speranza per il futuro? C’è sicuramente ed è legata alla fiducia che sapremo creare, costruire, ricostruire e mantenere.

PAROLE A CAPO
Noemi De Lisi: “La stanza vuota”

“La poesia non tollera ipotesi, ma solo l’evidenza dei miracoli.”
(Gianfranco Contini)

X

Mia madre aveva il vizio di mordersi le dita quando soffriva
le macchie rosse sulle mani erano il suo rimprovero, la mia colpa.
In inverno la casa era fredda e tremava sotto i diluvi crollandoci addosso
lei indossava i guanti di lana: “Ho le mani di un cadavere” si lamentava.
In quella stagione mai potevo sapere del suo dolore e mi tormentavo.

Così per calmarmi prendeva le vecchie lettere del nonno e me le leggeva
la carta sembrava disfarsi sotto i suoi occhi, la voce era lenta e lontana.
Cominciavano tutte con: “Mia adorata!” parlavano di guerra, di strani pensieri:
“tornerò, non stare in pena. Tu continua a parlarmi anche se non mi vedi”
“tu sei intatta e bianca come un foglio. Su di te rimango come una firma”
“mi sono ferito a una gamba. La cicatrice non si vede ma ora zoppico”.
Una volta le sfilai via le lettere dalle mani inguantate e le feci a pezzi:
“Le so a memoria, non le sopporto più!”.
Lei guardò i brandelli caduti sul pavimento, strizzò la faccia in un sorriso:
“Hai ragione. Avevano stancato anche me”.

La sera poi si addormentò e io accanto al suo letto non mi davo pace
guardavo le mani di lana, sembravano finte non sembravano sue
e sotto le immaginavo sane, bianche perché lei non mi aveva mai mentito.
Quando il suo respiro fu profondo, lentamente cominciai a sfilare un guanto
lo tirai via: per primo apparve il polso poi il resto, la mano nuda, gelida.
E sul dorso, sul palmo, le dita erano livide, rosse come dopo un lungo applauso.
(Dalla sezione “Io e mia madre”)

 

XIV

Mi ricordo di ogni cosa se la scrivo: Ti ho riconosciuta, Anna. Eri tu.
Tu vivi nelle lettere del tuo nome, e il colpo di polso accanto alla frase
è il punto che ho dato, il segno dove tu finisci, dove io dimentico.

Ogni giorno ti salutavo, mi presentavo come la prima volta: “Mi chiamo così”.
E tu mi tiravi i capelli, mi mordevi la faccia, mi chiamavi bestia, piangevi.
“Perdonami”, ti dicevo, e tu scuotevi la testa, sconvolta, esausta, inorridita.
Non sapevo più dirti come avessi dimenticato tutte quelle cose:
le mie parole sulle tue mani, la cicatrice sul mento, il nome di tua madre.
Non potevo dirti: “È vero, ti ho scordata.”

“Devi sempre farmi arrabbiare. Ma è tutto uno scherzo… non è vero?”
“È tutto uno scherzo”, ripetevo sfregando i denti.
E tu mi sorridevi arrossita, sospirando lenta una mano sul petto.

Tornavo a casa, e quando mia madre si addormentava, accendevo il lume.
Cominciavo a premermi l’unghia dell’indice sul braccio, sul petto, sul collo;
facevo dei piccoli graffi ordinati: quando passavo il dito erano bianchi, poi rossi.

Lo facevo quando ero solo, anche se era un dettato e tu la voce.
I segni formavano delle parole, più premevo, più rimanevano: Anna sei tu.
Era il tuo nome per dirmi ogni volta, il tuo nome al posto del mio.
(Dalla sezione “Io e Anna”)

 

XXVI

Accendevamo le sigarette all’unisono in un gioco di fumo
e sputavamo per terra i pezzi di tabacco rimasti in bocca,
lo facevamo con gesti molli, in silenzio, ricordandoci.
C’era un lamento da soffocare in fondo alla calma:
“Ti ricordi quando ci raccontavamo tutte quelle cose?”
“Lo stai facendo di nuovo. Stai muovendo gli occhi in modo strano.”
“Scusa. Non me ne rendo conto. È così brutto da vedere?”
Ci sforzavamo di ricordare da dove venisse quel rumore,
ci spogliavamo a vicenda per cercarne i segni e rimanevamo delusi.
A ricordare, ci sembrava di inventare qualcosa che non era stato,
eppure quel tonfo era vero: scendeva, ci attraversava, ci finiva.
E buttavamo gli occhi a terra, ci chinavamo, ci graffiavamo le dita
per raccoglierlo. Nello slancio di quella ressa ci toccavamo
per sbaglio, per non perdere quello che avevamo lasciato.
Ed era nel tocco improvviso l’urto di tutta la nostra storia:
“Ti ricordi di quando stavi per cadere e ti ho preso?
Per afferrarti, ti ho slogato un braccio,
tu hai gridato e mi sono spaventato.
Ti sei rannicchiato sul marciapiede,
tenevi il braccio storto vicino al petto.
Mi sono chinato per sederti accanto.
Non dicevi niente, siamo rimasti muti,
tanto non avremmo potuto parlare
con tutto quel rumore addosso.”
(Dalla sezione “Noi”)

Poesie tratte da “La stanza vuota” (Ladolfi Editore, 2017)

Noemi De Lisi (Palermo, 1988)
Nel 2017 ha esordito con la raccolta di poesie “La stanza vuota” (Ladolfi Editore) vincitrice del Premio Solstizio Opera Prima, menzione speciale della giuria al Premio Città di Acqui Terme e al Premio Under 35 Terre di Castelli, finalista ai premi Carducci, Cetonaverde, Maconi, e altri. Le sue poesie e prose poetiche sono apparse su Nuovi Argomenti, Blog RAI Poesia di Luigia Sorrentino, Poetarum Silva, Formavera, Atelier, ecc. https://linktr.ee/noemidelisi

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia.
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I DIALOGHI DELLA VAGINA
A DUE PIAZZE – Tanto per cambiar…

A due piazze fra Riccarda e Nickname che si è accorto di avere cercato di cambiare l’altro. Un errore di cui ammette tutto, anche la difficoltà di cambiare se stesso. Ma poi, dal dolore si può uscire?

N: Uno degli errori che ho commesso è stato cercare di cambiare la persona con cui stavo. Le persone sono come sono. Non siamo noi, per quanto importanti, che possiamo cambiarle. Tanto meno farle diventare come noi o come noi vorremmo che fossero. L’impronta non la diamo noi. Noi arriviamo dopo. È più facile cambiare noi stessi che cambiare gli altri, e già cambiare noi stessi è difficilissimo.

R: Ribalta la cosa. Come ti sei sentito quando qualcuno ha provato a volerti diverso? O magari solo chiederti un ritmo più veloce di quello a cui tu solitamente viaggi? Tu hai risposto che le cose le vuoi fare con i tuoi tempi e le tue cadenze perché solo così puoi riuscirci. E non sei cambiato perché qualcuno te lo ha chiesto, ti sei trovato a un certo punto della vita a guardare indietro e ti sei visto lontanissimo. Ma non lo sai nemmeno tu quale sia stato il punto esatto del cambiamento. Non è definibile, è un processo di cui il motore sei tu. Non ho capito una cosa, cosa vorresti cambiare nell’altro? Un atteggiamento, un’abitudine, una risposta che sei stanco di sentire, cosa?

N: Non vorrei cambiare nulla, tranne il fatto di voler cambiare l’altro. Cerco di imparare dagli errori commessi. Quanto a me stesso: se mi guardo indietro mi vedo lontano da dove sono ora. Sono cambiate le mie aspettative, i miei desideri. Prima volevo uscire dal dolore, adesso voglio provare anche il piacere.

R: Credi si possa uscire dal dolore a piè pari come da una buca o da un inciampo? Una giravolta e si è saltati fuori? Se così fosse, il dolore stesso non avrebbe un senso che è quello di rimanerti sempre un po’ addosso, ma non tanto, solo nella forma di un ricordo, di un monito o di un odore sgradevole che ti fa cambiare direzione.

Cosa ne pensate della pretesa di cambiamento che avete subito dagli altri o che vi siete accorti di fare verso qualcuno?

Potete scrivere a parliamone.rddv@gmail.com

QUEL PARADIGMA CHE ABBIAMO ADDOSSO
e l’incapacità di guardare con occhi diversi

Ragazzotto, sui banchi di scuola ad apprendere il latino, nulla mi tormentava di più che portare a memoria i paradigmi dei verbi irregolari: fero, fers, tuli, latum, ferre; volo, vis, volui, velle; eo, is, ivi(ii), itum, ire e tutti gli altri. Divenire, volere, andare, paradigmi della vita, paradigmi dell’emigrazione.
A scuola non ce lo avevano insegnato che il paradigma ce lo abbiamo addosso e che tutto dipende da come coniughiamo la vita. Ancora ci è difficile apprendere a coniugare i paradigmi irregolari della nostra esistenza.

“La vita non vive”, dichiara l’epigramma con cui si apre Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa, di Theodor Adorno. Non più la grande etica, ma l’etica minima, non più la gaia scienza, ma la triste scienza. Non abbiamo sconfitto la miseria né ieri né oggi. Le letture della gioventù che si infervorava a immaginare di lottare per tempi nuovi che non sono mai venuti, di una generazione che neppure ha saputo celebrare il funerale alle sue utopie.
Tutto ripercorre il pentagramma dodecafonico di Schönberg in un sistema in cui le regole del tonale sono saltate. Tanti Pierrot Lunaire che non si accorgono di essere immersi in un mondo di incubi.

Pare che la vita non ci accompagni, ma ci preceda sempre, sia costantemente un passo più in là di dove ci troviamo. Ormai le nostre protesi digitali ci aiutano ad inseguire una vita irraggiungibile, in cambio ci offrono ologrammi in quantità. Dosi narcotizzanti che impediscono d’accorgersi che siamo parte della macchina, ingranaggi a nostra volta, incapaci di agire da soggetti.

La vita, come scriveva Adorno del secolo che ha conosciuto due conflitti mondiali, il fascismo e il nazismo, è diventata apparenza, la dissoluzione del soggetto, senza che un nuovo soggetto sia nato nel frattempo dal suo grembo.
Il ventunesimo secolo
anziché diventare il secolo della conoscenza come aveva promesso, è divenuto il secolo delle malattie, il male di vivere ha prodotto la sua trama di infezioni.

Sovranismo, la minaccia dell’altro, le isole da difendere, i muri da costruire, i confini da presidiare. La modernità promessa dall’illuminismo ancora annega nell’irrazionalità, nell’ignoranza e nei fanatismi. Gli dei hanno preso il posto degli uomini, non solo quelli delle confessioni, anche quelli delle religioni laiche predicate dai devoti guardiani della tradizione, dei propri territori, delle proprie arroganze e presunzioni.
I nostri gesti si sono fatti brutali e spietati nell’indifferenza dell’ordinarietà che compone il bozzolo delle nostre esistenze tutte coniugate alla prima persone singolare del presente.

Ancora non sapevo da ragazzo che “paradigma” era una promessa di cambiamento.
Sono i paradigmi a cambiare il panorama della conoscenza e, proprio come all’epoca di Galileo costretto all’abiura, è al cambiamento di paradigma che continua la resistenza del nostro tempo, di quanti non s’avvedono d’essere pianeti con gli altri pianeti che muovono le loro orbite intorno al sole.
Ma la malattia del presente è la povertà di pensiero, la debolezza nel mettere insieme sistemi di pensiero capaci di vincere il tempo, contesti valoriali, prospettive da fare proprie. L’indeterminatezza e la pochezza dominano la nostra epoca di vita da spendere più che da vivere. La tirchieria dei giorni anziché la generosità del tempo. Si sono consegnate le chiavi della polis ai mediocri, ai contratti e ai notai, alle contingenze e ai rattoppi, privandola del respiro lungo del cambiamento. Tutto è provvisorio nell’urgenza  di riparare le lacerazioni, ci sta l’ambiente, ci sta la sostenibilità, ma non c’è posto per l’altro.

Siamo sempre al Finale di partita, quello di Beckett, a combattere tra l’assoluta mancanza di senso e l’altrettanto assoluta necessità di trovarlo.
Ciò che sconforta è che siamo giunti a questo punto della storia con le armi spuntate, con le nostre ideologie da riporre negli archivi del tempo, con occhiali che ci hanno impedito di vedere, col continuare a coltivare il passato per risanarci col balsamo della memoria e delle illusioni tradite. È quel cercare senso dove il senso non si produce più. Dove il senso non serve più alla comprensione. Ora alla conoscenza si guarda con sospetto nel nuovo secolo che in nome della conoscenza si era aperto. Più nessuno è portatore di un paradigma capace di ribaltare le nostre coscienze, di conquistare l’intelligenza, di rimettere al centro l’umanità degli uomini e delle donne.
Tutto si confonde e si omogeneizza nel mito del popolo con il diritto di respingere il cammino dell’altro che si mette in viaggio. Viandante della vita a modo suo, mentre noi difendiamo i luoghi in cui ci siamo accomodati.

Per leggere tutti gli articoli della rubrica La Città della conoscenza, la rubrica di Giovanni Fioravanti, clicca [Qui]

DAL VECCHIO AL NUOVO
La crisi della democrazia nell’era della complessità

E’ ora di incominciare a capire che siamo nell’era della complessità e che si è concluso il tempo della specializzazione esasperata. Questo non vuol dire che tutto l’accumulo di nozioni e della conoscenza enciclopedica sia inutile, anzi sarà il serbatoio da cui si potranno attingere le informazioni utili alla lettura e alla comprensione della realtà complessa, per poter rifondare la società, superando le insufficienze e gli erronei comportamenti, che hanno prodotto questa insostenibile realtà.

La novità governativa che sottolinea una nuova consapevolezza da parte della Presidentessa della Commissione europea Ursula Von der Leyen è l’aver intitolato Next Generation EU il progetto di finanziamento europeo in risposta a questa emergenza. Cioè non ha detto cosa, ma perché progettare e finanziare iniziative europee da parte dei singoli governi che ne sono i destinatari e quale dimensione queste debbano avere, cioè: almeno Europee.

Questa situazione ha accelerato la crisi della democrazia, che era già in atto nell’ormai consunta struttura democratica basata sullo scontro frontale fra forze dell’opposizione e forze di governo; in questi mesi il governo ha dovuto difendersi dai continui attacchi dell’opposizione, che hanno minato in questo modo l’autorevolezza delle scelte fatte e sottratto tempo e creatività al compito di costruire un progetto di fondazione di una nuova società, come richiede la crisi ecologica e la conseguente crisi sociale ed economica dovuta alla pandemia.

Non ha senso che, dal giorno dopo che si è eletto un governo, l’opposizione si senta legittimata ad affermare “da ora lavorerò perché questo governo cada”, come se i propri elettori vivessero in una realtà parallela, in una vita sospesa e non facessero invece parte dell’intera comunità del paese.

Queste due grandi crisi universali, ecologica e sociale, hanno sottolineato definitivamente che la terra è una per tutti e che l’umanità tende ad un’unica direzione. Da qualsiasi punto partano le società umane esse tendono a migliorare le proprie condizioni di vita e di sviluppo, espressione di una sempre maggiore libertà dalle necessità di pura sopravvivenza, fino all’espressione delle proprie caratteristiche individuali. Oggi è sempre più evidente che nessuno si salva da solo e che le scelte compiute dai singoli ricadono e coinvolgono, nel bene e nel male, l’umanità intera.

La pandemia ha messo in evidenza che i due ambiti che meno venivano considerati e che sono stati oggetto di tagli e impoverimento, perché considerati sacrificabili all’altare del PIL, sono i pilastri su cui si fonda la forza della società democratica: la cultura e il suo sviluppo e la salute e la cura della persona, per un continuo miglioramento della qualità della vita. Questi pilastri sono il fondamento della società democratica, perché riguardano il valore della persona umana e quindi la loro natura è complessa ed in continua evoluzione. Per questa ragione si tratta di argomenti che non possono essere affrontati per settori e ambiti separati, ma necessitano di una visione di pari complessità e lungimiranza.

Non si può quindi scindere la sfera dell’educazione della persona e del cittadino dalla sfera dell’espressione artistica e dei luoghi di fruizione di queste espressioni, come non si può separare il mondo della formazione dai luoghi della ricerca fino alla sua applicazione. Non si può sentir dire da Patrizia Asproni, Presidentessa di ConfCultura, che se non moriremo di Covid moriremo di “PEC”, per non essere in grado di accedere ai finanziamenti stanziati a sostegno di questo comparto.

La salute non si può separare dalla qualità della vita, in tutti i suoi momenti e in tutti i suoi aspetti, dalla nascita alla maturità, come pure dalla dimensione della singola persona, alla dimensione di comunità. Non si può accettare che il maresciallo Marco Diana – morto per le conseguenze del contatto con i proiettili all’uranio impoverito durante campagne militari all’estero e che ha dovuto lottare per far riconoscere la sua malattia come professionale – debba affermare in punto di morte: “Non so se è peggio il cancro o la burocrazia.” I funzionari statali dovrebbero, sentendo queste parole, essere i primi a vergognarsi profondamente e domandarsi il senso del loro impiego.

Una classe politica, che accomuna in un unico provvedimento e senza alcuna distinzione i cinema e i teatri alle sale bingo e da gioco, mostra quantomeno la sua incapacità di valutazione delle priorità, e l’appiattimento della lettura della realtà all’unico aspetto della produttività economicistica. Una classe politica che non si affretta a cancellare le complicazioni burocratiche che soffocano sia la democrazia che la capacità imprenditoriale dei cittadini, mostra per lo meno la sua impotenza rispetto al potere delle varie corporazioni, come quella dell’impiego statale, che sono state usate in modo clientelare in tempi di crescita del benessere e che adesso mostrano tutti i limiti di una struttura che si è moltiplicata per legittimarsi su una logica di controllo e di divieti.

Questo momento di crisi, la cui soluzione si basa su cittadini responsabili dei loro gesti e consapevoli del loro valore perché parte di una comunità più ampia, ha messo in evidenza il vero limite strutturale dell’organizzazione burocratica, che con la scusa dell’uguaglianza fonda le scelte sui protocolli dei loro deresponsabilizzando gli organi istituzionali e il singolo cittadino delle conseguenze dei loro comportamenti e delle loro scelte.

C’è bisogno di creare una cultura che dia valore alla persona, come fondamento concreto di una società che vuole dirsi umana. Bisognerebbe cogliere l’occasione per creare una nuova realtà politica come l’Europa Unita, riqualificando il concetto di democrazia in grado di governare il territorio e che abbia come scopo lo sviluppo di una società ecologica, che abbia come finalità la qualità della vita in ogni sua forma e non il Prodotto Interno Lordo.

Non sarebbe ora, quindi, di cogliere questo momento come occasione per darci gli strumenti per uscire dal disorientamento e dall’attuale senso di sconforto e di depressione, puntando sul nuovo anziché aggrapparsi al vecchio?