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PRESTO DI MATTINA
Il richiamo della Parola di Dio: risacca e balbettio di onde

Come bambini che non parlano ancora, sommersi da suoni che non comprendono e tuttavia tentano e ritentano di imitare, così si sta, balbettanti, la domenica dopo l’ascolto del vangelo. Una mareggiata di parole, onda dopo onda, si riversa sull’assemblea, lasciando in ciascuno il suono e, forse, non sempre il senso. Il rintocco pare però sufficiente a risvegliare il desiderio e l’attesa che si manifesti, una volta o l’altra, pure il senso, così da consentire a Colui che nella calca della folla sentì qualcuno toccargli di nascosto il mantello di rivolgere anche a noi le parole dette a una donna da dodici anni malata: «Figlia, la tua fede ti ha salvata, va in pace!» (Luca 8,43-48).

A messa si sta allora fiduciosi come bambini, come infermi che in quel balbettare, rimuginando dentro e fuori, sanno che nascerà la parola, che sgorgherà la sua luce che guarisce. La parola di Dio, il vangelo restano sempre gli stessi, affidabili e compassionevoli come il mare: «Tutto viene a noia, solo a te [mare] non è dato abituarsi, passano i giorni, e gli anni, e mille, mille anni» (Boris Pasternak). Non c’è tempesta che non si calmi, non c’è mare su cui non ritorni la bonaccia per la parola del maestro risvegliato. Non c’è minaccia o guaio nel vangelo che non si muti in un “venite, ritornate a me, affaticati e stanchi, con tutto il cuore”. L’onda invece, direbbe Marina Cvetaeva, non è mai uguale a se stessa e ritorna sempre, ma diversa, quasi fosse la mia onda personale, venuta apposta per me, la parola di qualcuno rivolta solo a me, in intimità, cuore a cuore.

Penso a Pietro e ai suoi amici quella volta che ospitarono il maestro sulla loro barca, come un pulpito di chiesa, un ambone all’aperto sullo sconfinato mare. Parlava a tutti, alla gente sulla spiaggia. Ma poi la parola del maestro si rivolse diretta proprio a Pietro, senza lasciare spazio a una generica risposta. Egli lo chiamò per nome – Simone che poi cambierà in Pietro – fiaccato da una notte di pesca infruttuosa, reti e mani vuote. Ma quel giovane rabbi non si accontentò: voleva lui, e gli chiese di ritornare al mare. Penso che si sentì allora come onda che muore sulla spiaggia. Un uomo venuto dalle alture di Nazaret, falegname per giunta, gli chiedeva di riprendere il largo, di rinascere “onda nuova”. Decise di fidarsi; di affidarsi come al vento le vele in mare a quella parola: «duc in altum», prendi il largo; e avendolo fatto riempì le sue mani e le reti di pesci da non credere. Una sorte identica – ne sono convinto – a quella di coloro che la domenica, divenuti uditori della parola, proveranno a pescare nell’immenso mare del vangelo.

Non ci è dato comprendere del vangelo tutte le parole che ascoltiamo; ma di stare attenti e di intenderne qualcuna almeno, questo sì. Come quando lo sguardo dalla riva vede arrivare le onde e qualcuna più distesa e coraggiosa arriva a bagnarci i piedi. Sentendola tiepida e invitante si fa qualche passo incontro ad essa, aspettandone un’altra e così, onda dopo onda, cresce l’irresistibile richiamo del mare: risacca e balbettio d’onde. All’improvviso un tuffo, e si prende il largo senza sapere chi è abbracciato per primo, tu o l’onda. Così accade con le parole del vangelo.

O come quando da bambino passavo per i campi a giugno, e le spighe indorate e brunite al sole sembravano tutte ugualmente belle, tutte in una, una in tutte, e dopo uno sguardo grato passavo oltre. Poi, una volta, in un ondeggiare di messi alla brezza di terra – quella leggera aria che ritorna durante le ore del giorno fino a sera a sparpagliate un poco i ranghi delle spighe – mi accorsi spuntare tra le cime ondeggianti, sorpresa, i petali scarlatti di un papavero. Allora mi fermai, attendendo che il vento ne scoprisse un altro e poi un altro ancora. Ed insieme a quei piccoli rubini, si palesarono pure intensi lapislazzuli, i fiordalisi, coronati di un blu come il mare nel suo profondo di mistero che non puoi mai dire per intero. Così, allo stesso modo, non allo sguardo ma all’udito, capita talvolta di comprendere l’inesprimibile: il venire a te della Sua parola, inaspettata, ma pure attesa. Bernardo di Chiaravalle cistercense ricorda che il Padre, per farsi comprendere da noi, ha “abbreviato”, ristretto, riavvicinato a noi il suo Verbo (Verbum abbreviatum). Quella medesima Parola, che per la sua estensione riempie il cielo e la terra, nel suo farsi carne, la Parola indicibile del Padre, si è resa dicibile nelle nostre parole e voci umane: Gesù, la Parola “più breve” del Padre.

Come in ogni parola proferita abita lo spirito di colui che l’ha enunciata, così la brezza dello Spirito, la sua rugiada, che dimora tra le pagine del vangelo, trasforma la domenica mattina quelle parole scroscianti, balbettanti, quelle parole imperiture, vaganti per l’assemblea liturgica in una parola rivolta e risuonante in ognuno che ascolta: una parola anche per te.

E scopriamo così che anche Dio balbetta per amore nostro. Lo ricorda Gregorio Magno: «Egli ci viene incontro sempre nelle acque basse e in quelle profonde. Dio si è abbassato per elevarci e la Scrittura non ci innalza se non abbassandosi al nostro umile linguaggio. “La parola di Dio si proporziona alla nostra debolezza; come uno che parla al suo piccino e, per farsi capire, si adatta a balbettare come lui…Si può paragonare la Parola di Dio a un fiume, dalle acque basse e ora profonde: così basse che può attraversarle un agnello, così profonde che vi può nuotare un elefante»  (Commento a Giobbe A Leandro, 4 CCL 143,6). Scrive papa Francesco: «Servono persone che sappiano far emergere dagli sgrammaticati cuori odierni l’umile balbettare: «Parla, Signore» (1 Sam 3,9). Servono ancora di più coloro che sanno favorire il silenzio che rende questa parola ascoltabile» (Discorso, 16 settembre 2016).

E così anche tu, la domenica, ricominci a custodire il silenzio. E poi a balbettare quella parola ineffabile; parola inesprimibile, farfugliata, come quella dei bambini quando continuano a tartagliare cose incomprensibili, suoni indecifrabili, un “non so che”, e proseguono determinati e indefessi perché hanno intuito che in quel groviglio, nella inafferrabilità di quei suoni vi è una parola rivolta a loro, un seme di parola nascosto, una lontanissima e ancora invisibile stella, luce ancora in viaggio nello spazio siderale, che verrà presto come luce aurorale nella notte di Babele.

La notte non è vuota. Contiene il nostro desiderio che le parole vengano alla luce. Così la fede è quel balbettare notturno, in ascolto fiducioso del germinare della parola e del suo battito balbettante, del senso raccolto in essa: «nella notte del senso germina l’Aurora della parola» (Maria Zambrano). Prima della proclamazione del vangelo – che va ascoltata e non letta nel foglietto – mi rammento della preghiera di Anselmo di Aosta nel suo Proslogion (Colloquio): «Orsù dunque, Signore Dio mio, insegna al mio cuore dove e come cercarti, dove e come trovarti. Signore, se tu non sei qui, dove cercherò te assente? Se poi sei dappertutto, perché mai non ti vedo presente? Insegnami a cercarti e mostrati quando ti cerco: non posso cercarti se tu non mi insegni, né trovarti se non ti mostri. Che io ti cerchi desiderandoti e ti desideri cercandoti, che io ti trovi amandoti e ti ami trovandoti».

Poeti e mistici. Maria Zambrano si interroga sul balbettio: «Cos’è che chiamiamo balbettare? Cosa si intende per balbettio? Qualcosa che non arriva a dire nulla per insufficienza della parola, o qualcosa che dice tutto per l’immensità dell’amore e del timore, per la prossimità della presenza anche solo intravista? Ed esiste anche il balbettio che sbarra il passo al pianto, che ne interdice la nascita, che annuncia il pianto reprimendolo: allora è il singhiozzo. Il singhiozzo, il più profondo e ampio tra gli umani dire, quello che, nel migliore dei casi, li abbraccia tutti. Nell’interiorità più profonda del regno del singhiozzo, e del pianto, e del gemito, abita talvolta il nucleo, il seme indissolubile, della parola stessa… Il balbettio dell’appena nato si sofferma alla vista di questo che presentito già nello stato nascente, dentro lo stesso balbettare. Quel “un no se qué que quedan balbuciendo” (Giovanni della Croce). Quel “non so che” che resta sospeso, che si sprigiona tanto dai gemiti più profondi come dalle parole più nitide e trasparenti… L’Aurora stessa balbetta, come tutte le creature, un regno di luce e colore, di spazi non esistiti, di tempi popolati da non si sa cosa», (Dell’Aurora, 90-92).

Giovanni della Croce modulando il suo Cantico spirituale sul Cantico dei cantici pure lui allude a un «non so che», a un «balbettio». Sono le parole di coloro che parlano dell’Amato all’amata che lo cerca invano: «Dove ti sei nascosto, Amato? Sola qui, gemente, mi hai lasciata!». Ma queste parole risuonano come un presagio che accresce il suo soffrire; è un parlare che non fa capire: fa solo presentire e desiderare: «E quanti intorno a te vagando, di te infinite grazie raccontando, ravvivan così le mie ferite, e me spenta lascia non so cosa, ch’essi vanno appena balbettando», (strofa 7,9-10). L’amore resta così impaziente, desiderante e ferito per qualcosa che non c’è ancora. E non bastano certo quei frammenti incerti di parole per acquietare il cuore. È un “dire” che non è ancora un “dirsi”, faccia a faccia. Nel disvelarsi degli occhi e nell’udire il dischiudersi lieve delle labbra, solo allora sarà sanata la ferita dell’amata come da «fiamma che consuma, ma non da pena» (Strofa 38).

Di balbettio infine racconta pure Martin Buber in una storia: «Rabbi Levi Isacco arrivò un giorno a una locanda dove alloggiavano molti mercanti che andavano a un mercato. Il luogo era lontano da Berditschew e così nessuno conosceva lo zaddik. La mattina presto gli ospiti vollero pregare; ma poiché in tutta la casa si trovò un unico paio di tefillin, l’uno dopo l’altro se li cinsero e dissero in fretta la preghiera per passarli a un altro. Quando tutti ebbero finito, il Rabbi chiamò a sé due giovani; voleva chiedere loro qualcosa. Essi si avvicinarono, egli li guardò serio negli occhi e disse: “Ma, ma, ma, va, va, va”. “Che volete?” esclamarono i giovani, ma non ebbero altra risposta che i medesimi suoni confusi. Lo presero allora per un pazzo. Ma egli parlò loro: “Come, non capite questa lingua? Eppure poco fa avete parlato a Dio così”. Per un momento i giovani tacquero, turbati, poi uno disse: “Non avete visto un bambino nella culla, che ancora non sa articolare la voce? Non avete sentito come fa ogni genere di rumori con la bocca: Ma, ma, ma, va, va, va? Tutti i saggi e i dotti del mondo non lo possono comprendere. Ma quando arriva la sua mamma, essa sa subito che cosa vuoi dire”. Quando il Rabbi di Berditschew sentì questa risposa si mise a danzare dalla gioia. E quando negli anni seguenti, nei «Giorni terribili», in mezzo alla preghiera s’intratteneva, come era suo uso, con Dio, soleva raccontargli questa risposta» (I racconti dei Hassidim, 191 192).

 

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]  

PAROLE A CAPO
Franco Stefani: “Magia” e altre poesie

“La poesia è qualcosa di oscuro che fa luminosa la vita”.
(Pier Paolo Pasolini)

 

Magia

È di sera, quando le ombre
tagliano la vita come coltelli
e il silenzio è un macigno
che divento piccolo, piccolo
per nuotare tra le onde dei tuoi capelli
e addormentarmi sul tuo seno

 

Appennino

Alberi. Vento tra i rami.
Sinfonie. Assoli. Controcanti.
Crepitio di legni spezzati
da passi incauti.
Trilli, fischi, cinguettii.
Nel bosco più fitto
si smorzano i raggi del sole.
Pigolii. Semioscuro
silenzio di cattedrale.

 

Dell’isolamento

A Mark Strand

Passo ore al buio, questa stanza mi separa
dalla vita che fuori scorre in qualche modo.
Qui dentro si può fissare il nulla.
Non voglio preoccuparmi se arriveranno le ombre,
se il sole se ne andrà senza aloni dorati,
se il dolore mi tormenterà di nuovo,
se vedrò il futuro nella sua feroce verità.
Penso a quante illusioni mi restano,
a quanti artifici potrò ancora utilizzare,
a quali maschere indossare,
a quale flauto di Pan suonare
quando cadrà la neve. 

 

Languidamente

Languidamente
il tuo giovane corpo attende
lo scendere di questa sera ferrarese
che con movenze viola ci sorprende
lentamente

Nell’aria c’è musica
e un lieve profumo di tigli
tutto troppo perfetto, forse:
un ricordo o un’illusione

L’importante, bella dagli occhi neri
è che tutto scorra, che tutto accada
dolcemente.

Franco Stefani è nato e vive a Cento (Ferrara). Giornalista professionista, scrive versi da molti anni. Ha curato il volume “Io spero che non faccia più il terremoto” (Minerva, 2009) dedicato al sisma che ha colpito l’Abruzzo. Tra i suoi più recenti libri, “Tre sguardi in uno” (Pendragon, Bologna, 2015) e “Istanti” (Genesi Editrice, 2019), che comprendono testi poetici e racconti brevi.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui] 

PANDEMIA E FANTASIA

Oggi 5 dicembre 2020 arrivo un po’ distratto in salotto, pronto a demolire l’imponente fascio di giornali che mi occupano parte della mattinata e che consumo tra letto e poltrona.
Mi accorgo che c’è qualcosa di nuovo nell’aria e il mio sguardo si dirige al tavolino, dove fa pompa di sé un grande mazzo di tulipani. Ma…. ecco che li vedo muoversi, assumere pose strane dentro il vaso verde; poi mi s’illumina la mente. Per forza! Sono tulipani GIALLI e la loro danza emblematizza una data: da domani siamo in ‘zona gialla’. In studio sento però un brontolio sommesso, che proviene a sua volta dal grande mazzo di gigli bianchi che profuma lo stanzone. E dicono “Sempre ai meno importanti è data l’occasione di gioire. Noi nobili mai siamo presi in considerazione”.

Freneticamente i giacinti, sparsi per tutta la casa, fanno il tifo: quello che si riserva a Maradona. Al proposito il mio silenzio su quella perdita va almeno spiegato. Il ‘Divo Diego’ e la sua scomparsa non mi producono in verità alcun significativo sussulto. Invano gli ‘intendenti’ con citazioni dotte – specie quelle che si riferiscono nell’antichità alla divinizzazione di atleti tramite la poesia –  cercano di farmi recedere da quella posizione, anche se suffragata dall’essere, e lo ripeto, da sempre forse l’unico che mai abbia assistito a una partita di calcio, o anche di averla vista integralmente in tv.

Mi distraggo tuttavia nei servizi televisivi a rivedere le immagini della mia adorata Napoli, perdendomi tra le botteghe di san Gregorio Armeno, ripercorrendo con la mente i luoghi di tanta felicità sperimentata: i Bassi, la Galleria, Piazza Dante, Spaccanapoli. E qui il ricordo si fa vivo e urgente. Per un tempo ragguardevole ho viaggiato con i miei cognati e, se la meta era ogni anno la Francia, andammo spesso anche nella mia amatissima Napoli. Qui, per caso, scoprimmo un hotel a Posillipo dal nome invitante: Paradiso. Ci demmo un appuntamento in quanto io ancora guidavo e loro ci raggiunsero il giorno dopo su una macchina appena comprata. La notte stessa il portiere ci avvisò che ‘purtroppo’ avevano tentato il furto, che era stato spaccato il finestrino posteriore e altre amenità, tanto che mio cognato fu obbligato a passare la notte in macchina. Ma il luogo era incantevole e in altre occasioni, quando ad esempio mi recavo a Lipari, era d’obbligo una sosta di un giorno o due nell’amata città. Ma ormai il Paradiso ci veniva negato. Scoprimmo che era diventato il quartier generale di Maradona e che c’era una fila ininterrotta di prenotazioni per recarsi in quell’hotel. A questo punto si sommi la mia indifferenza al calcio, l’essere tenuto lontano da un posto amato e potrete fare la somma di come il nome di quel potente era per me oggetto di stizza.

Frattanto notizie strane arrivano portate dalla stampa nel mio rifugio popolato di fiori. Finisco con sempre più entusiasmo la recensione al magnifico libro di Gigliola Fragnito La Sanseverino, che ancora mi riporta a Napoli, mi esibisco in conferenze on line che mi gettano nel panico per l’uso di questo strumento particolarmente inadatto alle mie capacità, anche se, non so per quale aiuto, forse del mio tecnico formidabile Saint–Laurent, sembra che sappia cavarmela abbastanza bene.

Oggi poi leggo sulla stampa che è indagato il vicesindaco della mia città a seguito di un esposto del rappresentante dei radicali ferraresi Mario Zamorani. Quello che però mi colpisce di più è il nome dell’avvocato che porta avanti l’esposto: Longobucco. Non mi sembra vero, eppure quel cognome è quello di un paese che ho visitato e che è lo stesso dove sono nati e vissuti amici carissimi. Mi attivo e – potenza della storia meravigliosa e affascinante della nostra nazione – mi si dice che nel tempo andato ai bimbi accolti in orfanotrofio veniva dato il cognome del paese da cui provenivano. Uno per tutti Cosenza. Così la storia dei cognomi si inserisce sulla ancor più complicata vicenda testimoniata dall’ebraismo, per il quale da zone ben precise di Marche, Emilia, parte della Lombardia e della Toscana, assumevano i nomi di città e paesi: pure della mia. E così Ferrara, Cosenza, Ravenna, Rimini, Pesaro e anche Longobucco indicano città e dinastie, luoghi e persone.

Mi si domanda come passerò il Natale, visto che è un dovere totale e irrinunciabile fare a meno della riunione familiare. Rispondo “noi due” tra caterve di piante, fiori e panettoni (ne ho scoperto uno fatto da un’azienda ferrarese che è un miracolo di bontà!) dischi, e film d’antan. Uno spasso. Ci siamo dati per le feste i nomi dei due cagnolini che sono entrati in famiglia da poco: zio Benny e zia Frida. I piccolini suoneranno i campanello e nell’androne troveranno una capanna, dove dentro ci sono i regali portati da babbo Natale. Nuovo suono di campanello e attraverso il microfono ci faremo gli auguri fra i ‘bau bau’ dello zio e della zia.

Se lo ricorderanno nel tempo e dalla pandemia sorgerà incantata la fantasia.

FERRARA SI CONFRONTA SUI NUOVI PAESAGGI MIGRATORI
Un convegno che diventa piazza dell’amicizia sociale

Meno male che il numero 19 è ancora possibile associarlo  a eventi straordinariamente belli come il Convegno Franco ArgentoCulture e letteratura dei mondi. Si è tenuto venerdì 4 dicembre grazie  all’impegno costante del CIES Ferrara e della Associazione Cittadini del mondo, con la collaborazione del Comune di Ferrara e dell’IT “V.Bachelet” e con il  patrocinio del MIUR. Il titolo: Nuovi paesaggi migratori.
Si è tenuto nella forma del collegamento su piattaforma Youtube, ma dico subito che è stato possibile percepirlo non come un evento “a distanza”, al contrario. Si sono avvicendati relatori di provenienza, età e formazione culturale diversa: tutti generosi nel far sentire la loro voce e le parole, tutti capaci di coinvolgere gli uditori come attirandoli dentro uno spazio comune, dematerializzato ma palpabile. Ho provato entusiasmo.

Ora vorrei andare con ordine e dare conto della impeccabile conduzione di Paolo Trabucco e degli interventi, anzi mi verrebbe la tentazione di scrivere gli atti del Convegno. Non ho qui lo spazio per farlo e non è detto che ne darei il resoconto più efficace. Alessandro Manzoni insegna: ha evitato di scrivere un secondo libro, pienissimo di ragionamenti, obiezioni e risposte alle obiezioni sul suo I Promessi Sposi, nella convinzione “che di libri basta uno per volta”.
Mi allineo e decido di riportare i momenti che mi hanno entusiasmata. Tanto, il convegno è stato una fucina di idee, di dati rigorosi e di scenari sulla contemporaneità, una rete di pensieri liberi che mi fanno muovere dentro a una piazza ideale. In qualunque punto avvenga il mio ingresso, qualunque sia il percorso che faccio dentro la piazza posso assorbirne le voci e portarle a mia volta in giro caricandole di altre conoscenze, di aspettative e di speranza. Potrebbe essere intitolata all’orizzonte semantico del Convegno e chiamarsi Piazza dell’amicizia sociale. Ci potrei incontrare due insegnanti che hanno, il primo creato, il secondo animato le precedenti edizioni del Convegno: Franco Argento e Alberto Melandri.

Ascolto l’intervento dell’antropologo britannico Iain Chambers, autore tra gli altri del testo Paesaggi migratori, uscito in Italia una prima volta nel 2003 e di nuovo nel 2018, a cui si ispira il titolo del Convegno. La parola migrazione è utilizzata da lui  in modo ampio e libero: la migrazione non riguarda solo il nostro presente, è fenomeno antico, allo sguardo esperto del relatore risulta essere un elemento centrale nella formazione della modernità. La migrazione non segue e non ha seguito soltanto le rotte dall’Africa verso l’Europa, ma linee di movimento diverse e direzioni di marcia opposte a quelle che ci dicono gli stereotipi da cui siamo bendati. L’esempio che fa Chambers riguarda l’Algeria,  dove nel secolo scorso si erano trasferiti circa un milione di stranieri, tra cui numerosi nostri connazionali.
Algeria, così come Tunisia e Libia,  significano Mediterraneo, quel Mare Nostrum che da due millenni almeno viene mappato sulla base di categorie culturali ed economiche eurocentriche. Chi ha diritto di definire, di narrare la storia del Mediterraneo? Perché non superare l’ottica del colonialismo e attivare punti di vista differenti, restituendo simmetria al potere della narrazione, e riconoscendo per esempio alla lingua araba la legittimità di leggere l’assetto attuale di questa area del mondo? E poi, insieme alle lingue e alle letterature, quali mondi e quali integrazioni possono mettere in luce le altre arti! Quale viatico per leggere la complessità del nostro presente. Scorrono sul video immagini di danze, ascoltiamo un brano musicale intenso.  Mentre avverto che la voce e la musica della cantautrice palestinese Kamilya Jubran non mi sono familiari, penso che lo possono diventare.

Intervengono alcuni studenti del Liceo Carducci e più tardi altri del Liceo Ariosto e dell’Istituto ITI Copernico. Scopro che ‘gli Ariosti’ sono di una classe meravigliosa che ho lasciato due anni fa. Ora sono in quarta e li ritrovo sempre sensibili e preparati. Sono commossa, ma questa è un’altra storia.
Qui tutti i ragazzi che parlano sono informati, intensi e propositivi. Riportano l’attenzione al mondo che ci è più vicino, alla nostra provincia, alla nostra città, al Quartiere Giardino sul quale sono stati pubblicati due testi: la Guida turistica e Il viaggio in un quartiere multietnico. Nei loro interventi  sondano le cause della integrazione difficile tra ferraresi e immigrati, forniscono dati ma soprattutto aprono nuovi scenari in cui le differenze sono fonte di ricchezza per la comunità. Espongono le tante attività svolte negli ultimi tre anni da classi di ogni ordine di scuola, da circa mille studenti del nostro territorio. Raccontano le loro esperienze di incontro e di scambio con giovani come loro, con giovani stranieri carichi di storie. Come Kelvin, che viene da una città del Brasile e a Ferrara ha frequentato i corsi del Centro per l’istruzione degli adulti. Kevin propone di rivalutare il Quartiere Giardino anche attraverso le attività artistiche; come lui i ragazzi dell’ITI Copernico sembrano essersi messi d’accordo con Chambers e si esprimono cantano un pezzo rap di cui hanno composto il testo, un intenso testo poetico.

Si alternano ai giovani altri relatori esperti. Resto colpita dal taglio che Federico Faloppa ha dato al suo progetto Beyond the border, dove il concetto di confine viene presentato come uno spazio complesso che non coincide con la linea di frontiera comunemente intesa, ma comprende le aree in cui sostano le persone che migrano, le condizioni in cui vivono nel momento del passaggio, le azioni di controllo su di loro, le sovrapposizioni di lingue e di culture in movimento. I confini sono inoltre di vario tipo: ci sono confini visibili, quelli tracciati sulle carte geografiche, e confini che non si vedono, come quelli interni alle società, segnati per esempio dalle isoipse socioeconomiche.
Ce ne sono nella stessa città di Ferrara, come è emerso dalle parole degli studenti, e separano non solo i ferraresi rispetto agli immigrati ma anche i ferraresi tra loro.
I confini sono altresì studiati da Faloppa  come luogo di interrelazione, come spazio sociolinguistico della intermediazione. Quante lingue parlano correntemente molti migranti, che andrebbero valorizzate e condivise; quanti cartelli scritti in più lingue nei punti di passaggio tra un paese e l’altro, sulle barriere che i migranti cercano di superare mentre sono in fuga da guerre e violenze. Osservo le immagini di individui aggrappati a grappoli alle reti che li separano dalla loro meta, dal paese a cui vorrebbero accedere. Sono senza individualità e senza nome.

Sono flussi, ci ricorda Tahar Lamri: un’altra parola tutt’altro che innocente con cui sono designati. Da chi? Dalla lingua corrente con il suo appiattimento lessicale, dalle testate di alcuni giornali e da altri media. Occhio ai media, allora. Ecco i contributi del gruppo che si è costituito a Ferrara  nel 2010 per costituire un osservatorio sulle discriminazioni verso gli stranieri  che appaiono sui giornali e sugli altri mezzi di comunicazione. Ritrovo Adam e Shazeb: quanta strada hanno fatto le loro indagini sugli stereotipi, sulle fake news, sui titoli dei quotidiani che demonizzano i migranti; quanti incontri nelle scuole, quante pubblicazioni. L’ultimo loro report si occupa di etnic profiling, cioè della tendenza delle forze dell’ordine a intensificare i controlli sulle persone che appartengono a minoranze etniche. In questo periodo Covid, i giornali si sono occupati spesso dei controlli effettuati a causa della emergenza sanitaria; spesso questi controlli sono  mirati sugli stranieri e finiscono per includere i loro documenti e i permessi di soggiorno, come evocando il binomio immigrato uguale contagio.

Eppure, come anche Ibrahim Kane Annour ribadisce col suo stile accorato, sono migranti anche gli svizzeri, i canadesi o gli statunitensi che vengono in Italia. La migrazione resta il sintomo inevitabile degli squilibri tra le aree del pianeta, smettiamola con lo stereotipo del migrante che viene dall’Africa e magari porta con sé il pericolo di malattie. I migranti portano altresì nuove risorse, contribuiscono alle economie dei paesi di arrivo, hanno diritto di esserne parte come cittadini a pieno titolo.

Poi parla Nader Gazvinizadeh: è graffiante come lo ricordavo e attorno alla sua voce il silenzio sembra rapprendersi in una concentrazione totale su di lui. Ha ascoltato con attenzione tutti i precedenti interventi e dice agli studenti e ai giovani di Occhio ai media: per ognuno di voi ci sono migliaia di schiavi che lavorano nelle campagne del sud. Va guardata in faccia la realtà: il problema non è il razzismo, lo sono i crimini fatti in nome del razzismo. Dice: ammetto di essere razzista e per questo devo conoscere e combattere il mio razzismo; a questo scopo devo usare il mio coraggio, non per sbandierare il principio di uguaglianza e fuggire con ciò la diversità.
Come ha detto Chambers, le differenze possono coesistere in uno spazio senza separazione. I confini nel progetto illustrato da Faloppa sono aperti, sono porous borders.

Non posso non riportare almeno le fonti seguenti:
SITO CIES Ferrara: comune.fe.it/vocidalsilenzio/index.htm
Ultimo report di Occhio Ai Media [Vedi qui]

  • Iain Chambers, Paesaggi migratori: cultura e identità nell’epoca postcoloniale, Meltemi editore, 2003 e 2018
  • AAVV, Il giardino del mondo. Viaggio in un quartiere multietnico di Ferrara, Este Edition, 2020
  • AAVV, Il Quartiere Giardino di Ferrara. Guida turistica. Edizione multilingue, Este Edition, 2019

INCERTI TRA PASSATO E PRESENTE
Da Gutenberg a Galileo: la nostra eterna diffidenza verso il Nuovo

Ci racconta Socrate, nel Fedro di Platone, che per Thamus, sovrano dell’Egitto, la scrittura ideata dall’ingegnosa divinità Theuth, anziché sapienza, avrebbe inculcato nell’uomo il germe della dimenticanza. I segni estranei della scrittura erano destinati a produrre solo dei portatori di opinioni, anziché dei sapienti. Mito che riecheggia timori e pregiudizi nei confronti di tutto ciò che per l’uomo è nuovo, che l’uomo non ha ancora sperimentato. Di fronte alle tecnologie e alla scienza prende il sopravvento la parte più primitiva del nostro cervello, la diffidenza, come la repulsione innata verso i rettili.

Ma è che il nuovo, nel senso di modus, di moderno ci scuote nelle fondamenta. Paradigmi e strutture mentali vengono rivoluzionati, il pensiero di prima non è più quello di dopo, neppure le abitudini e le condotte. C’è sempre qualcuno che si affatica a tradere, a trascinarsi dietro la tradizione da consegnare ai tempi nuovi, perché il distacco da ieri non produca l’abbandono della sapienza consolidata, a prescindere dalla sua utilità.
Il nuovo produce accelerazioni, più avanza, più si genera rapidamente. Il secolo breve di Hobsbawm, tra catastrofi, frane e ideologie malate, ha assistito a rivoluzioni nel campo delle tecnologie e della ricerca scientifica mai così impensabili e numerose. Scienza e tecnologia hanno rivoluzionato i nostri paradigmi, le nostre modalità di ragionamento, i nostri approcci con la realtà e con il sapere.

In un secolo abbiamo assistito al sopravvento delle automobili e degli aerei, dei trasporti veloci, fino ai viaggi interplanetari, allo sviluppo della cinematografia, all’avvento della radio e della televisione, sino alle nuove tecnologie informatiche, alla scoperta di cure e vaccini che ci hanno consentito di sconfiggere malattie mai prime debellate, di migliorare la qualità della nostra vita e di prolungarne la durata. Siamo il prodotto di rivoluzioni culturali che hanno inciso sul nostro modo di essere e di pensare e tutto lo abbiamo vissuto come il risultato naturale del progresso, frutto delle ricerche e del genio umano. Una umanità avventurosa nei secoli passati, che ora pare aver paura di se stessa, che ha perduto l’entusiasmo della conquista, come se si fosse sconfitta da sola. La gara con la vita è sospesa, il mito prometeico relegato in soffitta. Diffidenti di noi e degli altri siamo precipitati nel sospetto che tecnologia e scienza siano alleate in un progetto di manipolazione biologica, di mutazione genetica, di controllo delle nostre esistenze, di sfruttamento degli individui, di limitazioni delle libertà personali.

L’uomo si ripete. Il mito di Theuth e Thamus ci racconta delle resistenze nel passare dall’oralità alla nuova tecnica della scrittura: farmaco del ricordo o inibitore della memoria? Così l’avvento della stampa: tecnologia di controllo o tecnologia di libertà? Sarà proprio la stampa della Bibbia che consentirà a Lutero di sperimentare la più grande forma di libertà che l’umanità abbia mai conosciuto: la libertà di pensiero.
Per non parlare della tecnologia del cannocchiale di Galileo che ha portato alla rivoluzione di tutto il sapere, affrancando la conoscenza dalla dittatura delle sacre scritture.

Siamo divenuti schizofrenici. Da frenetici compulsatori di telefonini e computer, al sospetto che le protesi delle nostre vite quotidiane ci si possano rivoltare contro. Abbiamo coniato i ‘nativi digitali’ e la ‘generazione zeta‘ per prenderne le distanze e nello stesso tempo nascondere i nostri sensi di inferiorità. Scordandoci che, noi figli della cultura libresca, dei testi, delle scritture e degli alfabeti, siamo stati gli dei creatori degli idoli di queste ragazze e ragazzi, noi che veniamo dal secolo passato. Pare quasi che misconosciamo le nostre creature, che vogliamo liberarci dalle nostre responsabilità, come se ci fossero sfuggite di mano, scatenando effetti che non avevamo conteggiato. E mentre crescono le cattedrali del digitale, noi ci ritiriamo nelle nostre antiche chiese a contemplare quanto era bello giocare a pallone in mezzo alla strada, anziché trascorrere le giornate a messaggiare col telefonino, o di fronte al desktop del personal computer.

Spendiamo parole di retorica sulla didattica in presenza per quanto manca, condanniamo la didattica a distanza, scordando che quella roba lì l’abbiamo inventata noi del secolo scorso. Non la chiamavamo didattica a distanza, la chiamavamo Telescuola. Un progetto formativo innovativo con quattro milioni di ascolti giornalieri, che dal 1958 al 1966 ha consentito il completamento del ciclo di istruzione obbligatoria ai ragazzi residenti in località prive di scuole secondarie.
Perché, non era forse didattica a distanza Non è mai troppo tardi? A fronte dell’elevato analfabetismo nell’Italia degli anni ’60, le quotidiane lezioni del maestro Manzi hanno permesso a un milione e mezzo di italiani di conseguire la licenza elementare.

Allora il problema non è la didattica a distanza che comunque è una soluzione, il problema invece siamo noi. Lo scriveva uno dei pensatori più originali del Novecento, Vilém Flusser, nel suo La cultura dei media. Viviamo in un mondo che non è più sinonimo di progresso, ormai non racconta più storie e vivere in esso significa smettere di agire.
È possibile che l’avvento della pandemia abbia dilatato questa sensazione, ma l’impressione è che a scomparire siano sempre più i pensieri, le intelligenze, le idee e le riflessioni. La capacità di immaginare domani possibili, un’impotenza a cui pare incatenato il nostro tempo.

La crisi di valori alla quale spesso ci appelliamo, non è una crisi etica, ma una crisi di significato, di significati condivisi. Non sappiamo deciderci a compiere il passo definitivo, incerti tra il nostro mondo di testi, di scrittura alfabetica, di logiche matematiche, ancora del secolo scorso, e il nuovo mondo della tecnologia e dei suoi valori, il mondo delle generazioni che non vengono dal nostro lontano, ma dal nostro vicino, quello a cui ancora guardiamo con dissimulato sospetto.
Da questo stallo dovrebbero liberarci la cultura, la scuola e le università, ma anche loro di fronte al nuovo non stanno dando il meglio di se stesse, prigioniere del passato faticano a scavallare il secolo.

Dalla parte del torto, un po’ di lato

Una donna speciale Lidia durante tutta la sua lunga vita. Ci mancherà: tanto. Pubblico con piacere e commozione questo ricordo dell’amico Piergiorgio Paterlini.
(Effe Emme)

di Piergiorgio Paterlini

Di lei, della carissima Lidia Menapace, portata via dal Covid-19 non importa a che età, sempre troppo presto e davvero tristemente, sentirete dire e leggerete, e avrete già sentito dire e letto, tutto il bene possibile.

So che non dovrei scriverlo, ma non ci riesco. Non solo eravamo molto amici, ma ci volevamo un bene dell’anima, un  affetto forte e più ancora allegro. E io tutta la vita, fin da ragazzino, da questo affetto senza compiacimento mi sono sentito scaldato (a partire da quel diventare ex-cattolici che non era poi una faccenda tanto semplice). E adesso ho più freddo di ieri.

Perché lei sapeva trasmettere affetto, ma era anche sempre tosta, e implacabilmente ironica, una cosa che io amavo infinitamente. Una di quelle rare persone che – non si sa bene come facciano – riusciva a non farti pesare il dolore nel momento stesso in cui te lo raccontava senza sconti e senza alcun falso pudore.

Non lo dovrei scrivere, che eravamo così amici, perché cosa ve ne importa, a voi lettori? Nulla. Giustamente. E non sto mica usando lei, e la sua morte, per parlare di me, tanto meno per vantarmi o crogiolarmi nell’anedottica. E perché lo diranno, lo hanno già detto, lo stanno dicendo a migliaia.

Mi fa piacere?

Sì e no.

Le manifestazioni d’affetto per una persona cara scomparsa commuovono sempre. E che lei avesse tantissimi amici e tantissime persone che le volevano bene è assolutamente vero.

Ma io ne ho già beccati tanti, in queste prime ore di lutto, falsi e bugiardi e ipocriti.

E questo mi fa male e mi fa incazzare e non ho voglia di farlo passare così.

Allora scriverò una sola cosa di lei, una soltanto ma che che sono sicuro – purtroppo – non leggerete mai, da nessun’altra parte.

Se c’era da far fuori qualcuno, in un partito, in un giornale, in un’organizzazione… lei state sicuri era la prima. Se c’era da scegliere fra lei e un altro/a, era l’altro/a che passava davanti e spesso che le passava proprio sopra. Più volte di quanto potreste immaginare, è successo.

Perché è scoprire l’acqua calda che c’è il potere e i ci sono i giochi di potere e le classi e i privilegi e chi frequenta e chi non frequenta anche nelle “sinistre”. Allora sappiate che lei, in questo nostro mondo, era una di quelle che non frequentava e non contava. Non era nata abbastanza bene. Né sposata abbastanza bene. Nonostante l’intelligenza, la cultura, la storia personale, il coraggio, la dedizione, non era mai stata ammessa nel salotto buono della rivoluzione. Poi non era vittimista e ha fatto, questo è vero, a dispetto di tutto e di tutti, una montagna di cose buone e belle nella sua pienissima vita.

Cento anni dalla parte del torto, cara Lidia, con allegria, con ironia, dalla parte del torto come molti di noi, orgogliosamente, ma… anche un po’ di lato, in terza fila, che gli altri posti erano già tutti occupati da persone più importanti di te. Scusa, cara compagna, sei brava, ma… fatti un po’ più in là, per favore.

Quelli che senza tante cerimonie l’hanno sempre scansata, abbiano un po’ di pudore, oggi, nella loro triste retorica, mentre la piangiamo con lacrime che non sono di coccodrillo.

Pubblicato su Nuvole, il blog di Piergiorgio Paterlini [Vedi qui]

LE PAROLE PROIBITE:
Tassa Patrimoniale

Ci sono alcuni temi, addirittura alcune parole, che in questo Paese, per il pensiero unico mainstream, sembra non si possano neanche pronunciare. Una è la parola tassa patrimoniale. E’ bastato che alcuni parlamentari, in testa Fratoianni e Orfini, presentassero un emendamento alla legge di bilancio su un’ipotesi di tassa patrimoniale, che peraltro si potrebbe discutere dal punto di vista tecnico e politico, per far venire giù l’ira di Dio.
Lasciamo stare le destre, per cui ogni imposizione fiscale è una bestemmia, ma qui non c’è da stupirsi, visto il blocco di interessi che rappresenta. Anche Renzi occhieggia a quel mondo, o perlomeno – diciamo così – è decisamente sensibile alle sirene confindustriali. Ma sentire Di Maio affermare che così si danneggia la classe media – esempio fulgido di ignoranza o di tentativo di intorbidire le acque – e il PD, che dice che loro non c’entrano niente con quest’estemporanea iniziativa, lascia un po’ interdetti. Comunque, almeno in questa fase, l’obbiettivo di bloccare il tutto non è riuscito, visto che dapprima la Commissione Bilancio della Camera dei Deputati aveva dichiarato l’emendamento inammissibile con una motivazione incredibile, “per carenza o inidoneità della compensazione”, ossia sostenendo che esso avrebbe prodotto una scopertura finanziaria, per poi doverlo riammettere.

Mi sono chiesto da dove deriva quest’accanimento pregiudiziale contrario anche solo a voler discutere dell’imposizione patrimoniale. Una prima risposta è che non si vuole neanche minimamente togliere il velo alle spaventose e crescenti disuguaglianze esistenti nel Paese. S
Sempre per stare alla ricchezza, che riguarda il patrimonio immobiliare e finanziario degli individui e non va confuso con il reddito degli stessi, al 1° semestre del 2019 essa ammontava a ben 9.279 miliardi di €.  Secondo i dati della Ong Oxfam, Il 20% più ricco degli italiani deteneva quasi il 70% della ricchezza nazionale, il successivo 20% era titolare del 16,9% del patrimonio nazionale, mentre il 60% più povero possedeva appena il 13,3% della ricchezza del paese. Il 10% più ricco della popolazione italiana (in termini patrimoniali) possiede oggi oltre 6 volte la ricchezza della metà più povera della popolazione.
Guardando il vertice della piramide della ricchezza, il risultato è ancora più sconfortante: il patrimonio del 5% più ricco degli italiani (titolare del 41% della ricchezza nazionale netta) è superiore a tutta la ricchezza detenuta dall’80% più povero.
E non è tutto: tra gli inizi dei primi anni 2000 e il primo semestre del 2019, le quote di ricchezza nazionale netta detenute dal 10% più ricco degli italiani e dalla metà più povera della popolazione hanno mostrato un andamento divergente. La quota di ricchezza detenuta dal 10% più ricco è cresciuta del 7,6%, mentre la quota della metà più povera degli italiani è lentamente e costantemente scesa, riducendosi complessivamente negli ultimi 20 anni del 36,6 per cento. Ancora: nel 1995, nel nostro Paese, il 10% più ricco della popolazione concentrava nelle proprie mani circa la metà della ricchezza netta, mentre nel 2016 questa quota ha superato il 60 %.

La seconda ragione di quest’occultamento risiede nel fatto che il PD, peraltro in compagnia della gran parte dell’esperienza socialdemocratica europea, di fronte alla crisi del Welfare State, si è lasciato ammaliare ed egemonizzare dal pensiero neoliberista degli ultimi decenni, provando al massimo a temperarne i suoi eccessi più estremi. Che, in tema di tassazione, ha predicato con successo che il livello della tassazione era troppo alto, che ciò ingenerava inefficienze nel sistema economico, e che lasciare ai ricchi risorse importanti avrebbe comportato un suo ‘gocciolamento’ ( il famoso trickle-down) verso la popolazione più povera, per cui i benefici economici elargiti a vantaggio dei ceti abbienti avrebbero favorito l’intera società, comprese la classe media e le fasce di popolazione meno abbiente.

In realtà, per fortuna, in altri Paesi, si discute, eccome, dell’imposta patrimoniale. Il governo spagnolo, seppure con una modalità discutibile,  l’ha introdotta nella recente legge di bilancio, fissando un prelievo dell’1% sui patrimoni superiori a 10 milioni di €.
Persino negli Stati Uniti, si ragiona sulla proposta di Sanders. Essa è una proposta radicale: far pagare l’1% a chi possiede più di 32 milioni di dollari di patrimonio, con un’aliquota crescente fino all’8% per chi possiede più di 10 miliardi di dollari. Secondo le stime tratte dal sito di Sanders, la misura consentirebbe di accumulare oltre 4.000 miliardi di dollari in 10 anni, riducendo in modo sostanziale la concentrazione della ricchezza negli Stati Uniti.
Per stare all’Italia, un semplice e grezzo calcolo matematico ci dice che, applicando un prelievo con un’aliquota dell’1% sul 5% più ricco della popolazione ( altro che ceti medi!), si potrebbe arrivare ad un gettito molto consistente, superiore ai 30 miliardi di €. Un bel contributo per ridurre le disuguaglianze, ottenere risorse senza indebitarsi per finanziare un Piano straordinario per il lavoro, trainato da investimenti pubblici, provare a costruire una traiettoria positiva per uscire dalla crisi sanitaria ed economica che ci affligge, uscire dai politicismi e dagli interessi di bottega che sembrano essere la natura più profonda del dibattito politico in corso.
Ma forse è chiedere troppo: ci basterebbe, più modestamente, sviluppare una discussione trasparente, impegnata e capace di stare al merito delle questioni, senza demonizzazioni o silenzi imbarazzati.

Richiamo all’ordine!

Appena iniziato il lockdown di marzo, una mia amica mi invia un messaggio per invitarmi a seguire un webinar gratuito sul metodo di studio di Massimo De Donno (ideatore del corso Genio in 21 Giorni). Il primo punto che disse, lo step numero zero per uno studio efficace senza perdita di tempo, fu: metti in ordine la scrivania. Eh già, un ambiente ordinato significa molto per la nostra capacità di concentrazione. Allora mi è tornato in mente quando, da adolescente, ho reagito ai periodi più critici riordinando la mia camera; cercavo l’equilibrio interiore, ma quello esteriore poteva diventarne uno specchio, o aiutarmi a trovarlo. In effetti, scegliere la disposizione degli oggetti stimola il senso critico: questo mi serve o lo butto? E qual è il posto più funzionale per questo?…
Ho scoperto che per i monaci buddhisti mettere in ordine ha un grande valore ed è una forma di meditazione. Ordine significa anche scegliere di seguire una regola, di rivestire un ruolo (penso alla Chiesa cristiana quando dice “ordinare sacerdote”, “l’ordine dei frati”, ecc).
Per quel che mi riguarda, posso confermare che sistemare la scrivania mi ha aiutato a studiare meglio. Non solo: pormi degli obiettivi da appuntare su un’agenda la domenica per la settimana successiva, e la sera per il giorno dopo pure hanno aiutato molto la mia persona e formazione. Credo che l’importante sia non cadere al lato opposto del caos, ossia un formalismo troppo rigido: organizziamo sì le giornate, ma lasciamoci anche scombinare i piani se serve! A volte è molto meglio così!

Il Microfestival chiude l’edizione 2020 con Anna Martellato ed Heman Zed

Due incontri con l’autore concluderanno il Microfestival delle storie, edizione 2020. La scrittrice veronese Anna Martellato mercoledì 9 dicembre alle 21 presenterà Il nido delle cicale (Giunti), intervistata da Riccarda Dalbuoni. Giovedì 17 dicembre alle 21, lo scrittore padovano Heman Zed, autore di Zodiaco street food (Neo edizioni) dialogherà con il vicesindaco di Polesella Consuelo Pavani. Gli incontri del Microfestival riprenderanno a gennaio con nuovi autori e altrettante storie da raccontare.
Sinossi Il nido delle cicale di Anna Martellato. Che cosa faremmo se un giorno scoprissimo che la nostra vita è un castello di sabbia e che nulla di quello che abbiamo costruito è autentico? Succede a Mia, compagna di Alessio, architetto di successo a Stoccarda. Per seguirlo, lei ha rinunciato a tutto, anche ad avere figli. Finché un giorno scopre che Alessio le ha nascosto una verità impossibile da accettare. Mentre tutto precipita, Mia torna dopo vent’anni di assenza nella grande casa di famiglia, sulle sponde del lago di Garda, dove abita la madre Vittoria, una donna eccentrica e autoritaria che vive cristallizzata nel passato e che Mia ha allontanato da sé molto tempo prima, a causa di un grave trauma familiare. Ma qui rivede anche Luca, il ragazzo diventato uomo di cui era innamorata da adolescente.
Sinossi Zodiaco street food di Heman Zed. I tempi cambiano e anche la malavita è costretta a correre ai ripari. Romeo Marconato, ex affiliato alla Mala del Brenta, un dono di sicuro ce l’ha: capire l’aria che tira. Con una moglie che detesta, un figlio problematico e il villone padovano, ha costruito un business ai limiti della legalità con il suo Zodiaco, un franchising di furgoni per panini – uno per ogni segno zodiacale – lungo la statale tra Padova e Venezia. C’è poi il super chef Vitiello, star televisiva del programma “The Simple Cook”, e i suoi autori, in crisi creativa per il format della prossima stagione. E c’è una mina vagante: lavora come cameriera a “L’ultimo Doge”, e suo malgrado nasconde un’estrazione decisamente diversa. Ma è Romeo Marconato il perno centrale, il motore di tutto. A lui, re incontrastato dello street food a basso costo e dalla dubbia qualità, i vecchi trascorsi riserveranno una succulenta occasione, il punto è capire se sarà in grado di fronteggiare un intreccio di eventi ben oltre la sua portata.

Per informazioni: microfestivaldellestorie@gmail.com
messenger: microfestival delle storie.

PER CERTI VERSI
A te

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
[Qui]

A TE

Torre
Una giraffa
Golosa delle foglie
Nuvole grigie
Imbevute di luci
Forse i tuoi capelli
Erano sui ponti
Come lucchetti
Chiusi negli addii
Il foulard del colore di una
Una collana
Di silenzi
Gli occhi
Trafitti
Dallo spazio

Uno squarcio
Di topazio

SCHEI
Ci vorrebbe Arsenio Lupin

Qual è lo scopo della politica economica? Secondo alcuni economisti lo scopo è redistribuire reddito e opportunità di crescita togliendo a chi ha troppo e dando a chi ha poco. E’ un concetto talmente semplice che sembra appartenere al diritto naturale prima che all’economia. Eppure l’influenza che questi economisti esercitano sull’andamento dell’economia è largamente minoritaria, se guardiamo allo stato delle regole che governano il mercato dei capitali e l’imposizione fiscale nel mondo. E parliamo del nostro mondo, quello dove le persone si possono spostare da un paese all’altro ma entro certi limiti: ci sono paesi dove non puoi andare se non hai già un contratto di lavoro prefirmato, oppure al massimo se non hai una occupazione stabile ci resti con un permesso temporaneo, dopodichè o ti trovi un lavoro fisso o sciò. Se poi sei un “extracomunitario” e pretendi di venire a vivere in un paese comunitario senza che un datore di lavoro, senza averti mai visto in faccia, ti abbia già firmato un contratto, sei un irregolare o un clandestino. Quindi esiste la “libera circolazione degli esseri umani”? La risposta è: dipende. In generale, no.

Viceversa, se voglio spostare soldi da un paese all’altro dove le tasse che pago su quei soldi sono inferiori o inesistenti, lo posso fare (lo fanno anche i Presidenti di Regione, avete presente?). Se voglio intestare un patrimonio mio in modo che sia praticamente impossibile risalire al fatto che è mio, lo posso fare liberamente. Se voglio trasferire la sede legale e fiscale della mia azienda in un cosiddetto paradiso fiscale (ce ne sono anche in Europa), per pagare meno tasse (e sottrarre gettito al mio paese), lo posso fare. Quindi esiste la “libera circolazione dei capitali”? Eccome se esiste.

Un economista di nome James Tobin nel 1972 propose una tassazione sugli scambi internazionali al fine di diminuire le fluttuazioni dei tassi di cambio, prelevando una piccola aliquota (mezzo punto percentuale) ad ogni cambio da una valuta ad un’altra, e scoraggiando la speculazione.

In un articolo scritto nel 2001, lo stesso Tobin precisava che già John Maynard Keynes avanzò l’idea di un’imposta sul profitto. Tobin rilanciò nelle “Janeway Lectures” a Princeton l’idea di Keynes in una nuova veste, sotto forma di un’imposta volta a colpire in lieve misura le transazioni sui mercati valutari con l’obiettivo di stabilizzarli attraverso la penalizzazione delle speculazioni a breve termine: si era all’inizio degli anni ’70, all’indomani dell’abolizione degli accordi di Bretton Woods, accordi che fino a quel momento avevano garantito la parità dollaro/oro e limitate oscillazioni dei tassi di cambio. Tobin intendeva “gettare sabbia nel meccanismo della speculazione e del dominio dei mercati finanziari”.

Tobin fu insignito negli anni 80 del Premio Nobel per l’economia, che assomiglia sempre più ad una medaglietta da mettere all’occhiello dei perdenti di successo. L’ipotesi di adozione di una versione estesa della Tobin Tax, applicata anche alle transazioni azionarie, è fallita. In Svezia la tassa venne introdotta nel 1984 per poi essere abolita nel 1991. Nel 2011 la Commissione Europea presentò un progetto per l’introduzione della Tobin Tax al fine di armonizzare le diverse forme di tassazione sulle transazioni finanziarie presenti in alcuni stati membri dell’Unione: naturalmente non se ne è fatto nulla. In Italia una piccola tassazione è in vigore dal 2013: colpisce il trasferimento della proprietà di azioni e di altri strumenti finanziari, con un’aliquota dello 0,2%, ridotta allo 0,1% in caso di trasferimenti che avvengono in mercati regolamentati.
L’aliquota si applica al valore della transazione, inteso come “saldo netto delle transazioni regolate giornalmente relative al medesimo strumento finanziario e concluse nella stessa giornata operativa da un medesimo soggetto “: ne consegue che in caso di operazioni di acquisto e successiva vendita (e viceversa) chiuse in giornata la Tobin Tax non viene applicata. Peccato che ormai tantissima speculazione avvenga in questo modo(esempio: acquisto mille azioni della società xy e entro la fine della giornata le vendo tutte e mille; il saldo netto è zero, quindi niente imposta)

Regolamentare e tassare la speculazione sul denaro ricorda la lotta tra doping e antidoping: una volta che trovi il modo di individuare una sostanza proibita, il crimine al servizio della performance ha già trovato una sostanza nuova che i test scopriranno cinque anni dopo, e così via. Il male arriva sempre prima del bene. E il bene è anche poco furbo: annuncia la sua battaglia ben prima di combatterla, e così facendo la perde in partenza. E’ quello che succede ogni volta che in Italia qualcuno cerca di colpire le rendite di capitale(mobile o immobile): si agita la “patrimoniale” come se fosse una muleta, gli oppositori soffiano dal naso come il toro alla vista del panno rosso, solo che in questo caso non muore il toro, muoiono la muleta e il torero.

Quelli che osteggiano la cosiddetta “patrimoniale” sollevano le seguenti obiezioni: 1.prima andrebbe riformato il valore delle rendite catastali, che è vecchio e non attuale. 2.perderemmo gettito fiscale e liquidità preziosa, perchè con un click sul computer si possono spostare i soldi all’estero o con poche abili manovre creare un trust che renda oscuro il proprietario dei beni da tassare. 3.la proposta prevede di togliere l’IMU sugli immobili non di lusso, quindi non ha copertura finanziaria, e farebbe perdere entrate fiscali. Ebbene: 1.se venisse aggiornato il valore delle rendite catastali gli immobili ad essere tassati(che rimarrebbero comunque quelli di pregio) sarebbero molti di più, quindi il gettito fiscale aumenterebbe (ma sospetto che molte delle case degli “oppositori” verrebbero coinvolte,  e qui risiede la vera ragione dell’obiezione); 2. tutto vero, purtroppo. Ma chiedete agli obiettori se sarebbero favorevoli ad una tassa transnazionale sull’esportazione di capitali o sull’occultamento di patrimoni. Vi risponderebbero che sarebbero misure liberticide, che vanno contro la libera circolazione dei beni. Finchè sono i beni a circolare, la libertà deve essere totale; 3.infatti gli oppositori vogliono continuare a fare in modo che lo Stato possa incassare montagne di denaro dal cosiddetto “ceto medio” che loro dichiarano di difendere, lasciando una tassazione ridicola (in proporzione) per le proprietà di notevole valore.

La realtà è che una tassa sui grandi patrimoni, mobiliari e immobiliari, si scontra con una legislazione mondiale che difende i ricchi e tartassa i poveri e il ceto medio; laddove per ceto medio si intendono le persone oneste, o comunque quelle che, per amore o per forza, non possono nascondere nulla al fisco. Lì il fisco è spietato ed occhiuto, mentre è cieco quando si tratta di scovare i grandi trust o gli evasori totali – che, paradossalmente, potrebbero non pagare nulla sulle loro irrintracciabili ricchezze proprio mentre incassano un reddito di cittadinanza. La realtà è (anche) che un sistema di capitali liberamente trasferibili senza barriere, di transazioni speculative libere da ogni imposizione se chiuse entro la giornata, in effetti rischia di togliere molta base imponibile a misure del genere, che in sè sarebbero sacrosante.

E’ anche vero che per fare certe cose (nascondere i propri beni o spostarli in paradiso) ci vuole un po’ di tempo. Purtroppo, quando certe misure si annunciano, o compaiono sotto forma di emendamento, svanisce l’effetto sorpresa e si lascia a questa gente il tempo di organizzarsi. L’unico modo per farla funzionare è batterli sul tempo e prenderli alla sprovvista, con un bel provvedimento immediatamente in vigore che consideri i valori ad una certa data, e prenda ai ricchi per dare ai “poveri”, esattamente come faceva Robin Hood. Non sarebbe comunque una redistribuzione equanime, perchè il già nascosto e sommerso resterebbe intoccato. Del resto, nemmeno Arsenio Lupin pretendeva di cambiare il mondo, ma nel suo piccolo era un ladro gentiluomo.

PRESTO DI MATTINA
L’elogio dell’umiltà

Magnificat anima mea Dominum perché ha guardato all’umile sua serva, innalzandola con gli umili: «L’universo è il tuo stelo,/ fiore della poesia,/ profumo del creato, Maria/ e ravvivi nei cuori/ che disperavano di Dio,/ la fiamma dell’amore./ L’umile tua purezza/ ti rese madre di tutti,/ e volgesti ogni lacrima/ in nostalgia di bene» (Agostino V. Reali, Primavere, Ferrara 2002, 102).

Quella di Maria è l’umiltà dell’aurora, quella, «che se ne sta rannicchiata direbbe Maria Zambrano – nascosta in un grano di luce». Maria più dell’aurora «è il velo della bellezza senza lacerazione, dell’amore senza degrado della purezza, della purezza accesa». Anche Maria, come l’aurora, ha le sue notti: «Quelle notti in cui l’amore senza nome e senza figura avvolge e rigenera l’universo intero, che appare allora senza distanza, lucente, ma di una luce che non ferisce. Quando la luce ha smesso di essere una ferita e l’amore si rivela per ciò che è… Si direbbe la sorgente stessa da cui nasce l’Aurora e insieme il compimento della sua promessa, questa notte dell’Aurora: sorgente che lascia sempre, in chi l’ha gustata, una minima goccia di acqua luminosa, in qualche angolo oscuro della notte del cuore. Notte e fonte che fa sentire che tornerà, ormai per sempre», (Dell’Aurora, 18; 128 129).

Maria è donna dell’avvento, che ha nel cuore l’urgenza della venuta di Cristo e con gli occhi scruta negli orizzonti della propria vita il suo volto albeggiante. Salomone chiese a Dio la sapienza e gli fu concessa; Maria non chiese nulla è fu piena di grazia.

L’Immacolata dice l’integrità, l’interezza, la pienezza del dono che Dio fa di sé nel figlio. Dono incondizionato, grazia irreversibile che anticipa in Maria una smisuratezza di innocenza, quale condizione preveniente per poter ospitare l’Innocente: colui che non abbandona l’uomo in balia del male, che restituisce al colpevole l’innocenza, al nemico l’amicizia, tutto solleva e accoglie nelle proprie mani.

Smisuratezza di intimità è l’Immacolata: mistica aurora di colui che è intimo al Padre come la luce al sole; intimo a noi come un figlio nel grembo di una madre; come il vecchio padre sulle spalle del figlio, come un amico che muore per l’amico. L’intimità innaturale e mirabile di un raggio di luce che non va oltre pur trapassando il cristallo, che resta iridescente arcobaleno anche quando cala la notte.

Quella di Maria è l’umiltà dell’amore, scaturita da quell’eccesso di grazia e di fontale innocenza che l’ha preservata dal chiedere qualcosa. Ma l’ha custodita anche dal timore di quell’abisso di umiltà a cui Dio l’ha chiamata, di quel suo volere a tutti i costi farsi piccolo con i piccoli, umile con gli umili, povero con i poveri, uomo tra gli uomini. È l’angelo Gabriele a rassicurarla subito: «non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio». La tua umiltà ha trovato spazi larghi in quella di Dio, che l’ha fatta traboccare. È il suo santo Spirito, infatti, che l’ha cinta con l’intimità della sua ombra: umiltà d’amore. Lo stesso Spirito che discenderà sul Figlio nel battesimo, e si abbassò vivificante già nella creazione ed errante nel deserto con il popolo dell’alleanza. Lo Spirito di Pentecoste, che scende sul Vangelo dei dodici, sul pane e sul vino, per renderli vivi della vita del Signore. Colui che come unzione profumata consacra i battezzati; che si riversa su tutto ciò che è piccolo, fragile, oscuro, freddo, claudicante, piangente sudicio, sviato, per raddrizzare, lavare, consolare, fortificare, riscaldare, illuminare, rinfrancare, innalzare, e generare in lei, Maria, quella grazia singolare che è il Cristo, l’umiltà di Dio resa visibile in un volto, tangibile nelle sue mani e udibile nella sua Parola fatta carne, l’unigenito Figlio Gesù, l’amato, pieno di grazia e di verità (Gv 1, 18).

Ricordando le parole di Gesù (“Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei non entrerete nel regno dei cieli”), Papa Leone Magno si domanda «Ma come potrà abbondare la giustizia se la misericordia non trionfa sul giudizio? A chi ama Dio è già sufficiente sapere di essere gradito a Dio, a colui che ama; e non brama ricompensa maggiore dell’amore stesso» (Discorso, 92). Ecco l’umiltà d’amore, in Maria. Quella di Dio precede sempre, e da essa scaturisce come da fonte cristallina, da immacolata neve, l’elezione di innocenza primigenia di Maria. E di qui poi la nostra, pure noi amati per primi, prima di ogni macchia ed ogni rovinosa caduta, scelti e amati da Dio: pre-destinati ad essere figli nel Figlio e dunque ad essere «santi e immacolati al suo cospetto nella carità» (Ef 1,4).

Anima innamorata è Maria. Immacolato cuore. Cuore a cuore con il Figlio suo. Una tale sovrabbondanza di intimità che Giovanni Eudes la descrive così: «Come dal cielo e dal seno del Padre, è uscito senza tuttavia uscirne (“Excessit, non recessit“), del pari il cuore di sua Madre è un cielo dal quale è uscito in modo tale che ci è sempre rimasto e ci rimarrà sempre».
L’umiltà di Gesù rivela dunque quello che c’è nel cuore di Dio.

Se infatti il Compassionevole non va in cerca della smarrita; se il Misericordioso non attende il prodigo; se il Giusto innocente non porta su di se l’ingiustizia; se il Fedele e il Verace (così l’Apocalisse chiama Gesù Cristo, «il testimone fedele, il primogenito dei he ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue») non riscatta l’infedeltà resistendo fedele, la menzogna rimanendo innocente e la cecità illuminandola; e se il Liberatore non affranca la libertà e il disamore come «un virgulto e come una radice in terra arida», facendosi servo, umiliando se stesso, obbediente fino alla morte e alla morte di croce, allora il Figlio non si è incarnato e non è nato da Maria. Il regno di Dio non è annunciato, la sua prossimità mai giunta, il perduto non è ritrovato, e colui che è morto non tornerà in vita. Così l’umiltà di Dio celata nel suo cuore si è manifestata nella carne umiliata di Gesù, prima nascosta nel grembo fecondo di Maria e venuta alla luce nella natività, poi tutta raccolta nel cuore già trafitto del Padre da cui è scaturita la grazia immensa della risurrezione dai morti: il crocifisso risorto nasce per sempre alla vita nel cuore di Dio Padre.

L’Immacolata, umiltà senza macchia, è così presenza che annuncia l’aurora di un mondo nuovo, quello nato dal sangue di Cristo. Così canta al modo di un preludio l’inno pasquale della liturgia delle ore: «Torna alla casa il prodigo, splende la luce al cieco; il buon ladrone graziato dissolve l’antica paura. Gli angeli guardano attoniti il supplizio della croce, da cui l’innocente e il reo salgono uniti al trionfo».

Una meditazione poetica di Gerard Manley Hopkins paragona Maria all’umile «aria che respiriamo». Un’aria che fa la differenza con l’aria soffocata e spenta di questo nostro faticoso tempo:

Selvatica aria, aria materna al mondo,
che d’ogni parte mi proteggi,
ricingi ogni ciglio e capello;
tu che penetri il Più soffice, morbido,
il più fragile ago di un fiocco di neve;
ben composta aria
che filtri, colmi la vita
di ogni più minuscola cosa;
necessario, inesausto,
almo elemento;
mio più che cibo e bevanda,
mia vivanda ad ogni istante;
tu mi rammenti
Colei che non soltanto
nel grembo raccolse e nel seno
l’infinità di Dio,
rimpicciolita nell’infanzia,
e diede nascita, latte e tutto il resto,
ma in ogni nuova grazia s’incinge:
Maria Immacolata,
che a noi discende:

In verità, la misericordia ci veste
come ci veste l’aria:
lo stesso è di Maria,
molto più per il nome.
Ella, ruvida tela, prezioso manto,
ammanta il colpevole globo,
dacché Iddio ha dato alle sue preghiere
di dispensare la provvidenza;
è più che dispensatrice, è la stessa elemosina
e gli uomini hanno parte della sua vita
come la vita ha parte dell’aria.

Nuove Betlem ove egli nasce
Sera, meriggio e mattino;
Betlern o Nazaret,
dove gli ordini attingano,
come respiro, più Cristo
a schernire la morte;
il quale, così nato, un nuovo sé
e un migliore me diviene
in ognuno e ognuno più rende
figlio, dove tutto è compiuto
nella pienezza del tempo
di Dio e di Maria.
Ma guarda di nuovo in alto,
come l’aria è azzurrata;
fermati là dove tu possa levare
la tua mano al cielo:
ricca l’aria, ricca lambisce,
empie la mano tra dito e dito.
Ma da un cielo così colmo, carico,
intriso di zaffiro,
la luce non ha macchia.
Vedi, non le reca offesa.
Sono giorni di cristallo azzurro,
quelli in cui ogni colore riarde,
ogni forma, ogni ombra si rivela.
È tutto un azzurro: ma l’azzurro
cielo ritrasmetterà perfetto
il sette volte e sette volte
colorato raggio, senza alterarlo.
E se un tenero fiore aliti
su cose remote sospese
nell’aria, più bella
sol per quel soffio è la terra.

Aria materna al mondo, selvatica aria,
in te raccolto, in te avvolto,
prendi il tuo figlio, chiudilo nelle tue braccia.

(Stonyhurst, maggio 1883)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]  

La grattugia gialla

— Non c’è, — disse Marco accucciato davanti all’armadietto aperto, ispezionando l’interno con lo sguardo.
— Guarda meglio. Vedrai che c’è, — lo esortò Alessandra, ritta dietro di lui, con le mani sui fianchi.
— Non c’è, non c’è… — ribadiva Marco, spostando appena e in punta di dita le prime cose sul davanti.
— Cerca bene, sono sicura che c’è.
— L’abbiamo buttata.
— Impossibile! Era funzionante! Non vedi nulla di giallo?
— L’abbiamo buttata, non c’è!
— E quella cosa gialla laggiù? — fece Alessandra arcuando lo sguardo e scorgendo uno spiraglio giallo dietro una moka senza manico e una caraffa thermos mai-usata-ma-non-si-sa-mai nella parte più recondita dell’armadietto, a destra.
— Una cosa gialla, una cosa gialla… ah, quella là dietro, dicevi? — esordì Marco che fino all’ultimo aveva finto di non vederla. Fu costretto ad estrarre tutti gli oggetti in prima e seconda fila, inutilizzati da almeno dieci anni, lasciati lì a prendere polvere, come ripeteva sovente a sua moglie, sperando di sollecitarla a liberarsene. Sul pavimento radunò riviste, manuali da cucina e foglietti sparsi, tazzine, bicchieri e piatti scompagnati, contenitori e coperchi di tutte le dimensioni, accessori di robot da cucina ormai smaltiti, e: — Questa, intendevi? — domandò traendo fuori una grattugia in plastica.
— Ecco! Te l’avevo detto che non l’avevamo buttata! — esultò Alessandra, prendendola in mano e esaminandola quasi fosse una ceramica preziosa. — Ma senti che plastica! Senti com’è resistente! Non ne fanno più di così spesse! Questa è plastica che dura nel tempo, non si deforma e non si spezza, non come quelle di adesso che sembrano di vetro! — esclamava la donna, dando colpetti sulle spalle del marito inginocchiato e intento a reintrodurre nell’armadietto tutto ciò che aveva estratto, nel vano tentativo di ripristinare l’originario incastro.
— Sì, sì, ho capito, — borbottava Marco, pentendosi di non aver dato aria anche a quella “cosa”, come aveva fatto con tanti oggetti inutili che intasavano gli armadietti e i cassetti e con diversi soprammobili accatastati sulla credenza in sala che la donna si ostinava a conservare, quasi la loro perdita fosse inconcepibile. Invece, della loro sparizione (che lui attuava sottraendo un oggetto alla volta, meticolosamente) lei neppure se ne accorgeva e aveva solo il vago sentore che lì, una volta, ci fosse “più pieno”… — Ormai, — continuò il marito, — sarà talmente appiccicosa che dovrai buttarla.
— Buttarla? Scherzi? Basterà lavarla e funzionerà a meraviglia!
— Ma a cosa ti serve? Non avevi già una grattugia? — chiese l’uomo, mentre prendeva mentalmente nota degli oggetti crepati o inservibili.
— Devo macinare delle fette biscottate sbriciolate.
Marco si voltò a guardarla. — Fammi capire. Tutta questa fatica per tre fette biscottate?
— Quattro fette, — precisò lei. — Stasera faccio le cotolette. Mi serve il pangrattato per l’impanatura.
— E questo cosa sarebbe? — fece Marco alzandosi in piedi e esibendo una confezione di pangrattato della Mulirosso, estratto dall’armadietto pensile.
— Sì, lo so che c’era. Mi servirà anche quello. Farò un misto, così non si avvertirà quella punta di zucchero. Non farai mica lo schizzinoso, vero? Lo sai che non bisogna buttare via niente! Non te l’ha insegnato la mamma? Si buttano via solo le cose vecchie e rotte.
— In questo caso… — concluse Marco, afferrando la moglie per i fianchi e trascinandola verso la pattumiera.
— Stupido! — strillò Alessandra, puntando i piedi e divincolandosi. Poi, mugugnando, andò verso l’acquaio e incominciò a smontare la vecchia grattugia di plastica gialla, continuando a magnificarla, ricordando a gran voce quante volte l’aveva usata per tritare il pane secco. E le tante cotolette preparate quando, in tempi di stipendio magro e con due bambini in crescita, da due fette di petto di pollo ne ricavava quattro che, passate nell’uovo e impanate più volte, sarebbero diventate delle “signore porzioni” per accontentare occhi e stomaco — una furbata.
Mentre la moglie era di schiena all’acquaio, Marco si accinse a spazzare la “polvere dei secoli” uscita dall’armadietto insieme alle carabattole. E intanto pregustava la soddisfazione di scartare quelle cianfrusaglie di cui aveva preso nota — una alla volta, meticolosamente — nascondendole in cantina, per poi un giorno, senza farsi vedere dalla donna, caricarle nel bagagliaio dell’auto e portarle alla stazione ecologica. Qui sarebbero state avviate all’inceneritore oppure riciclate per ritornare in commercio sotto chissà quale forma. E già s’immaginava lo stupore della moglie, la volta che le avrebbe cercate e non più trovate. E la sua faccia tosta quando, all’accorata domanda di lei, avrebbe giurato e spergiurato, mano sul cuore, di non sapere assolutamente che “fine” avessero fatto. Il che — si giustificava candido — non sarebbe stata una bugia…

(Carla Sautto Malfatto – tutti i diritti riservati)

CONTRO VERSO
Infinite doglie

Ho conosciuto donne capaci di mantenere un pensiero autonomo e di sviluppare azioni di resistenza subendo violenza da decenni. Non pensavano che il marito potesse cambiare e neppure immaginavano una vita diversa. La protezione dei bambini e la riduzione del dolore erano i loro obiettivi, perfino quando chiedevano aiuto dopo un fatto particolarmente grave.

Infinite doglie

Sento ancora le doglie
e son più di dieci anni
perché essendo sua moglie
sono tanti gli affanni.
Tutto ciò che pretende,
tutto ciò che m’impone
e poi quando mi prende
e picchia senza ragione.

Le menzogne le ho dette
ogni volta al dottore
perché chi ci rimette
porta ancora il mio nome.
Poi due figli son nati
per errore o per forza.
Qui viviamo nel rischio.
Gli preparo una scorza
per sentire di meno
tutto ciò che si dice,
perché lui sia sereno
perché lei sia felice.

La ragazza è vivace,
si ribella a suo padre.
Se lui picchia non tace
e difende sua madre.
Il ragazzo è diverso
non ci posso contare.
Segue il padre perverso
che lo sa indottrinare.

Per lui il mondo funziona
nel suo modo migliore:
“Devi essere buona
o ti posso ammazzare.
Io ti strozzo, ti gonfio,
ti sotterro in giardino.
Posso vivere tronfio
e dire al nostro bambino
che noi maschi, tesoro,
non facciamo peccato
se teniamo al decoro
e ad un mondo ordinato”.

Così vivo tremando
trattenendo il respiro
anzi forse mi sbaglio
e davvero non vivo
ma li tengo nel grembo
(sarà pura illusione)
come fiori sul gambo
di una vecchia stagione.

Li difendo a mio modo
però non mi separo
e sorrido di rado.
Non illudo e non baro.
Perforato un orecchio
tutto il volto ammaccato
me lo dice lo specchio
lo sussurra il marito:

se una donna si arrende
e il marito lo coglie
si può sempre sperare
di fermare le doglie.

Che cosa è forza e che cosa è debolezza per una donna che vive con un partner violento e non ha vie d’uscita, non famiglia d’origine né amiche accanto, non il lavoro né altre risorse personali che la aiutino a sottrarsi, e neppure una stampella culturale che la induca a imporre il proprio diritto di essere rispettata? Sono casi, questi, terribilmente simili a una tortura protratta per decenni. Anche i meccanismi psicologici della vittima sono gli stessi.

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia  il venerdì. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Al cantón fraréś
Alfio Finetti: “Ill fiér”

L’attaccamento per il proprio territorio di Alfio Finetti, il nostro più celebrato cantautore dialettale, si esprime nel tratteggiare con ironia e leggerezza le fiere paesane locali. Lo stupore per le giostre, la musica a tutto volume, la confusione in piazza e nelle vie intorno, lo zucchero filato, le luci…
Negli ultimi versi il buonumore si stempera in lieve dispiacere.

 

Ill fiér

La fiera ad Santa Lùzia, Setémbar e Saη Piér
ill porta a Cupàr uη muć ad furastiér,
tra giòstar ultra-mudérni e grandi nuità
i guarda a bóca avèrta, tutt’incantasmà.

Putìη che i smagnùca al zùcar bumbaśà,
ragazéti in auto-pista, da tuti bersaglià,
la ròda panoramica, iη su com’è l’Cumùη,
l’arìva tant in alt, c’agh féda i pizùη!

Maràja ad cuηfusión, in Piàza e sul listón,
i bar j’è cucunà, a m’intrigh int uη cantóη:
– Edoardo, uη cafè négar, am arcmànd e fàmal bón!
Am l’éva bvèst un àltar, quand a sóη rivà al bancón.

Ill fiér gli’è tuti beli, purtàrgh i ragazìt,
ma a quéi più staśunà… agh vién i cavì drit;
i sóna tut’iηsiém, i disch tut difarént:
o at gh’à dla resisteηza, o at vién un azidént!

Gli’è uη spetàcul ill nòstar fiér, unór dla mié zità,
ma quela ad Santa Lùzia, lè propria scalcagnà,
se ti t’aη gh’à al paltò, at móri congelà,
parché a mità dizémbar, dill volt a gh’è giazà.

 

Le fiere (traduzione dell’autore)

Le fiere di Santa Lucia, Settembre e San Pietro / portano a Copparo tantissimi forestieri, / tra giostre ultra-moderne e grandi novità / guardiamo a bocca aperta, tutti incantati. /
Bambini che mangiucchiano zucchero filato, / ragazze in autopista, di tutti il bersaglio, / la ruota panoramica, in su come il Comune, / arriva tanto in alto, vi fanno l’uovo i piccioni! /
Moltitudine di confusione, in Piazza e sul marciapiede, / i bar sono strapieni, mi rannicchio in un angolo: / – Edoardo, un caffè nero, mi raccomando, fammelo buono! – /Me l’aveva bevuto un altro, quando sono arrivato al bancone. /
Le sagre sono tutte belle, portarci i bambini, / ma a quelli più stagionati… vengono i capelli dritti; / suonano tutti insieme, dischi differenti: / o hai della resistenza, o ti viene un accidente! /
Sono uno spettacolo le nostre fiere, onore della mia città, / ma quella di Santa Lucia, è proprio disgraziata, / se tu non hai il paltò, muori congelato, / perchè a metà dicembre, a volte c’è ghiacciato.

Tratto da: Alfio Finetti, Liana Medici Pagnanelli, Cupar, i so’ paes e la so’ zent, Quarto Inferiore, Pàtron, 1984.

Alfio Finetti (Ambrogio 1933 – Ferrara 2018)
Cantautore, cabarettista, narratore di barzellette, poeta; un uomo di spettacolo che ha fatto cantare, ballare, ridere grandi e bambini. Cantore con nostalgia del lavoro dei nostri vecchi, ha proposto i suoi show in teatri, sale, feste all’aperto, radio private, dalla Val Padana all’America del Sud, fra i ferraresi nel mondo.Da Met źó cal pui degli anni ’50, a Cocanil Story, Al condominio, fino Al re dla miseria, ha inciso dischi, audio video cassette, CD, DVD.
Ha pubblicato inoltre poesie in Do sfurca ‘d nus! (1982), Am tuliv dentar? (1982), Conoscere un città: Ferrara (198?), Arìva al domìla (2000), Altri suoi testi in Nòz d’arzént col nòstar bèl dialèt (2007), Al nòstar bel dialèt (2012).

Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui] 

Cover: Giostra, foto di Marco Chiarini

Niente di nuovo sul fronte della pandemia

Negazionisti, catastrofisti, complottisti, assertivi, sciacalli, profittatori, benefattori, assembramenti, dpcm, fake news, e tutto il restante glossario così familiare in questo momento: la descrizione di una fauna umana con le sue ferree e inamovibili convinzioni, ragionevoli o sballate che siano, i suoi comportamenti, i suoi orientamenti, che si destreggia nel mare impetuoso della pandemia, scatenando reazioni e affrontando conseguenze.
Non abbiamo inventato o scoperto niente di nuovo: è già tutto presente nei personaggi de I Promessi Sposi di Manzoni, tra le pagine dedicate alla peste del 1629-1630, da cui emergiamo tutti noi, umanità di allora e di adesso.
Ed ecco che don Rodrigo si fa beffe del morbo, pieno del suo ego e della sua convinzione di inattaccabilità, sbeffeggiando le vittime di sua conoscenza e dedicandosi ai bagordi, tra taverne e bevute, per poi inorridire e scendere dal suo piedistallo quando si scopre ammalato. Accusa strani malesseri, pesantezza di gambe, difficoltà respiratoria, caldo e arsura, “le coperte sembrano una montagna”. Il suo scagnozzo Griso, lo consegna ai monatti per derubarlo e portarlo al lazzaretto, e poi si ammala a sua volta, morendo.
Renzo, rifugiato nel Bergamasco, si ammala di peste e accetta la malattia con cristiana rassegnazione, in attesa di tempi migliori. Una volta guarito, l’epidemia diventa per lui, ricercato, l’occasione propizia per tornare nel Milanese in cerca di Lucia, eludendo la giustizia – era obbligatorio esibire la ‘bolletta di sanità’ per entrare in città – “perché essa ha altro di cui occuparsi”.
Fra Cristoforo vede nella peste motivo di sacrificarsi al servizio caritatevole del prossimo e muore nel lazzaretto in cui assiste i malati senza risparmiarsi.
Don Abbondio, che non si distingue sicuramente per coraggio e ardimento, considera la peste come una “scopa” che spazza via prepotenti e malvagi, perfettamente in linea con il suo comportamento gretto e meschino.
La madre di Cecilia è l’emblema della piena e consapevole accettazione del destino e della morte, alla quale consegna con compostezza e dignità Cecilia, se stessa e la figlioletta minore.
Per i monatti, che si aggirano con il campanello legato alla caviglia come lugubre avviso del loro passaggio, l’epidemia è solo un colossale affare su cui lucrare, una speculazione sul dolore e la sofferenza, sull’impotenza della popolazione, sulla debolezza della gente. Rubano, sottraggono, spremono, ricattano, estorcono, forti del potere che il ruolo conferisce loro, additati nella fantasia popolare come untori, propagatori del virus per prolungare l’epidemia e trarne vantaggio.
E poi c’è don Ferrante, nobiluomo milanese dal sapere enciclopedico cha va dalla letteratura alla storia e filosofia, passando anche attraverso la stregoneria, l’arte cavalleresca e l’astrologia. Nega che il contagio si propaghi da un corpo all’altro e attribuisce la pestilenza, agli influssi astrali, una congiunzione di Giove e Saturno, unita all’apparizione di comete. Dichiara inutili le indicazioni e istruzioni date ai cittadini, che considera fuorvianti dalla sua incrollabile posizione di intellettuale senza dubbi e tentennamenti. Rifiuta ogni precauzione e finisce per ammalarsi, morendo nel proprio letto prendendosela con le stelle.
La sua ricca biblioteca, che rappresenta tutto il suo sapere, verrà portata a vendere lungo i navigli.
Don Gonzalo Fernandez de Cordoba, governatore di Milano, minimizza la pandemia e afferma che le truppe tedesche dei Lanzichenecchi, a cui era attribuita la diffusione del contagio, dirette dalla Valtellina a Mantova, fossero indispensabili e le preoccupazioni della guerra apparissero più pressanti dell’aspetto sanitario. Arriva addirittura a tollerare quello che noi definiamo oggi ‘assembramento’, il 18 novembre 1629, in occasione dei festeggiamenti e celebrazioni di piazza per la nascita del primogenito di re Filippo IV, senza alcun cordone sanitario.

La storia è piena di don Ferrante, personaggi senza scrupoli, una pletora di pseudo esperti che vogliono emergere. Anche oggi come allora, gli epigoni del nobile milanese alimentano l’ignoranza e la rabbia, la saccenza più pericolosa esercitata attraverso il loro armamentario fatto di post, video, rubriche, inquinando e attaccando ogni forma di attendibilità scientifica.
C’è anche un medico, nei Promessi Sposi, Ludovico Settala, ptotofisico. La folla di Milano lo aggredisce e infama con accuse infondate di diffondere il contagio per dare lavoro alla Sanità, tacciato di ‘persona portatrice di malaugurio’ dalla superstizione popolare.
Una processione di personaggi letterari che copre tutto lo spettro dei comportamenti umani nell’evento tragico: una lunga serie che ci ricorda anche oggi le nostre limitatezze, gli istinti primordiali latenti, l’incapacità di cambiare radicalmente spogliandoci dalle zavorre che ci tengono ancorati agli aspetti meno edificanti del nostro essere uomini.

PAROLE A CAPO
Anna Maria Bolletta: “Ridere con te” e altre poesie

“La poesia non è un senso, ma uno stato, non un capire, ma un essere”
(Cesare Pavese)

  

RIDERE CON TE

Quando rido con te
io vivo.
Mi solletichi il cuore…
E penso che sì,
la vita è bella,
nonostante il dolore
che pesa sulle spalle,
il singhiozzo
che preme in gola
e il rumore
che esplode dentro
il mio silenzio.
Mi basta ridere con te…
E quell’elastico
che mi stringe i polsi
si allenta,
le mie vene
ricominciano a pulsare,
le mani a stringere,
toccare e amare.
Ogni carezza
l’annido sul tuo viso
mentre di baci
ti imbocco il sorriso.

 

TIMIDEZZA

Quanti argini deviano emozioni
trattengono il fiato,
mozzano parole,
impediscono sguardi.
Quanti desideri rimangono disseminati
in un tempo informe
che li lascia in balia del vento,
indefiniti.
Eppure vorrei
che t’arrivasse quel che sento.
Eppure vorrei che i miei occhi
fossero specchi
di tutti i sogni che ho paura di dirti,
perché ci sei tu.
Perché ho timore che t’accorga
di ciò che provo,
ma al tempo stesso lo vorrei.
Vorrei sentissi le carezze
che ho negli occhi quando ti guardo.
Vorrei sentissi le parole d’amore
che ho dentro,
quelle che ripeto
ogni volta che ti sogno,
le stesse che cadono a terra
come petali sfioriti
insieme ai miei occhi timidi.
Vorrei sentissi di quanta carne
è fatto il mio desiderio
quando t’immagino sulla pelle.
Guardami le labbra mentre ti parlo,
perché prima che io abbassi lo sguardo,
ti avrò già preso dentro di me.
Ed è lì che resterai,
nel mio respiro più profondo.

 

E POI BACIAMI

Parlami della tua tristezza…
Quella che leggi tu solo
nel fondo del bicchiere
che giri fra le dita.
Quel poco vino che rimane,
che mai si sbilancia,
che mai è incline alla speranza,
parla di te e dice la verità.
E allora bevila tutta d’un fiato
e poi baciami.
Mesci nella mia bocca le tue lacrime
intrise di malinconia.
Sarà più lieve il tuo tormento,
meno amara la tua tristezza,
diluita dalla dolcezza
delle mie labbra.

 

Anna Maria Bolletta (Perugia)
Ha pubblicato una prima silloge “Una piuma sul cuore” edita nel 2018 (Ed. Youcanprint) e poi una seconda dal titolo “Nuda come la pioggia” (Ed. Youcanprint, 2020).

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui] 

Vite di carta /
Il carcere, il gorgo e la seconda voce dell’anima

Vite di carta. Il carcere, il gorgo e la seconda voce dell’anima

Di mercoledì ho fatto la spesa al mercato del mio paese, come sempre. Anche oggi ho avuto incontri brevi, saluti frettolosi, la visione istantanea di altri passanti: è il massimo della socialità nel periodo Covid color arancione in cui ci troviamo.

Tutti mascherati, tutti intenti a fare acquisti con le solite frasi fatte, pronte a scattare per tenere un po’ di conversazione: il virus di qua e di là, avete sentito quanti stavolta e via dicendo. Sono parole che dimentico in fretta, ormai le sento come abusate e consumo la minaccia che è in loro proprio ripetendole. Non so se accada anche agli altri, a me la paura così esternata e tante volte esibita fa meno effetto.

La novità è che oggi, tornando a casa con il grappolo delle sporte appeso alle mani, ho parlato per la prima volta con uno che il virus se l’è preso. La prima volta. Mentre lui nel giardino di casa sua, a cinquanta metri dal mio, camminava a zig zag per scaricare la tensione e doveva dirlo a qualcuno che l’esito del tampone era arrivato pochi minuti prima ed era finalmente negativo. Sono passata io e ho condiviso la sua gioia. Mi ha detto che non è stato male e che i sintomi sono stati pochi e leggeri, però si è sentito isolato dal mondo, bloccato e recalcitrante tra le mura di casa per dieci giorni.

Ho pensato al gorgo. Il male che il mio malcapitato vicino di casa percepiva come esteso in orizzontale, come una espulsione all’estrema periferia della sua vita, lontano dalla quotidianità e dal lavoro a cui è tanto attaccato, a me è sembrato esteso in verticale, come un gorgo che l’ha portato giù verso la solitudine e il buio. Ora, ha ragione nel dire che il virus gli ha ridotto lo spazio vitale e lo ha fatto rimanere in casa come in un carcere.

Credo tuttavia che lo svilupparsi del male e del bene lungo una linea verticale resti una dimensione costante nella percezione di ciò che ci accade: “Sono un po’ giù  in questo periodo” ti dice il tuo interlocutore e tu per dargli coraggio gli rispondi con un “Cerca di stare su, vedrai che le cose miglioreranno”, che è frase usuale, ma la dici con sbrigativa sincerità.

Alle spalle ci sono le coordinate dell’educazione che abbiamo ricevuto, di matrice cattolica per la stragrande maggioranza di noi; poi siamo andati  alla scuola superiore, abbiamo aperto la Divina Commedia e ci siamo messi a imparare a memoria le dieci parti in cui è diviso l’Inferno, una voragine a forma di cono, che sprofonda sotto il suolo di Gerusalemme, fino al centro della terra.

Le dieci parti che formano la montagna del Purgatorio, altissima e isolata nell’opposto emisfero delle acque; infine siamo saliti nei nove cieli che ruotano intorno alla terra, raggiungendo il decimo  infinito spazio dell’Empireo, che è pura luce divina. Dal basso verso l’alto. Dal buio alla luce.

Nel racconto Il gorgo di Beppe Fenoglio, apparso per la prima volta in rivista nel 1954, il male è nell’acqua del fiume Belbo in un punto preciso, “dietro un fitto di felci”, lucido come “la pelle di un serpente”. In quel punto il narratore, che ha nove anni ed è il più piccolo dei suoi fratelli, ha capito che il padre vuole andare a morire, per la disperazione di essere povero e disgraziato, con la penultima figlia morente. In quel punto l’acqua tira giù e annega.

Questo testo di Fenoglio l’ho cercato e letto di recente, con le aspettative al massimo. Perché? Perché lo ha ripreso Sandro Veronesi nel suo recente romanzo Il colibrì, che ha vinto il Premio Strega 2020. Lo ha ripreso in un toccante capitolo alla metà del libro, poi ha citato apertamente Fenoglio nei Debiti finali, le pagine in cui riporta i testi a cui ha fatto riferimento, quindi ringrazia le persone che lo hanno sostenuto.

Ora io cito lui e dei Debiti riporto proprio le righe iniziali: “Innanzitutto, il capitolo intitolato Ai mulinelli: non è semplicemente ispirato al racconto Il gorgo di Beppe Fenoglio, ne è una cover vera e propria. C’è una perfezione in quel racconto, probabilmente il più bello che sia mai stato scritto in lingua italiana, che sarebbe scomparsa limitandosi ad appropriarsi dell’idea che lo ha generato, senza riprodurne anche lo schema”.

Il più bel racconto che sia stato scritto nella nostra letteratura: meglio tardi che mai, me lo procuro e lo leggo. E’ piuttosto breve, non arriva a due pagine. Poi vado a cercare nel capitolo Ai mulinelli di Veronesi e scopro che è davvero stato fatto un calco.

Prima di tutto è stata ripresa l’idea: nel Gorgo il figlio più piccolo salva il proprio padre, che ha deciso di suicidarsi. Negli anni della guerra di Abissinia, anni di miseria, la famiglia del narratore aggiunge agli stenti la disgrazia della malattia della figlia:

“Deperivamo anche noi accanto a lei, e la sua febbre ci scaldava come un braciere, quando ci chinavamo su di lei per cercar di capire a che punto era. Fra quello che soffriva e le spese, nostra madre arrivò a comandarci di pregare il signore che ce la portasse via; ma lei durava, solo più grossa un dito e lamentandosi sempre come un’agnella”.

Quando il padre dice che scende al fiume Belbo per voltare le fascine che hanno preso la pioggia, solo il figlio piccolo capisce “che andava a finirsi nell’acqua” e allora lo segue, e la sua presenza cocciuta spinge il padre a mettersi al lavoro col forcone, abbandonando colpo dopo colpo il proposito di gettarsi nel fiume.

Nel romanzo di Veronesi è il protagonista a seguire la sorella, decisa a gettarsi in mare in una sera d’estate, e così a salvarla con la sua presenza piena di amore fraterno. In secondo luogo Veronesi ha mantenuto lo schema compositivo del racconto: un personaggio si avvia a piedi per andare a morire e uno della famiglia gli si attacca alle costole per impedirglielo.

Ci sono un’andata e un ritorno: all’andata l’aiutante viene scacciato più di una volta; al ritorno, quando il tentativo di suicidio è ormai fallito, la coppia ritrova il proprio atavico legame di affetto. “E’ la combinazione di candore e di disperazione che…rende così naturale” il racconto. L’immagine conclusiva in entrambi i testi è quella altrettanto naturale del pollice che gratta la testa al bambino salvatore “tra i due nervi che abbiamo dietro il collo”.

Anche le parole sono le stesse.
Dopo il cammino in discesa verso il gorgo della morte, ecco la risalita insieme verso casa.

Poi, aggiungo io, c’è la scrittura di Fenoglio. L’ho trovata ancora una volta di una bellezza! Così scabra, così piena di realismo e insieme vibrante di emozione. La concentrazione dei significati nelle frasi brevi, l’innocenza del parlato hanno superato ogni mia aspettativa. E’ un bambino che racconta col suo linguaggio ingenuo, così distillato da ricordare le poche parole che sa dire Rosso Malpelo. E’ una lingua tenace, che esprime la fatica della vita e insieme la sua comprensione. E’ compatta in modo totale: non una sola parola si potrebbe togliere dal testo, non ne occorre una in più.

Lo dico con le parole che ha usato Andrea Zerbini nel suo articolo La seconda voce dell’anima uscito su questo giornale il 21 novembre 2020: “la lettura non è mai un monologo, ma l’incontro con un altro uomo, che nel libro ci rivela qualcosa della sua storia più profonda e al quale ci rivolgiamo in uno slancio intimo della coscienza affettiva, che può valere anche un atto d’amore…Un libro può diventare così la seconda voce della propria anima”.

Comprendo leggendo Zerbini che “l’intera Bibbia può considerarsi allora una conversazione in itinere. L’invito permanente all’ascolto, all’incontro e al dialogo: per tentare alleanze; per formare amicizie; per ricercare quel santo Graal di quell’ultima cena, che ha visto nella condivisione del pane e del calice, un comunicare nell’agire e nel patire, il simbolo reale di quell’amore così grande da spingersi a dare la vita per gli amici”.

Comprendo che nella “biblioteca interiore” di cui parla Zerbini, i libri siano voci di un unico grande libro, in cui “Dio impiega diversi traduttori” per il dialogo con i suoi figli.
Accolgo queste bellissime parole nella mia visione laica della biblioteca del mondo e mi faccio piccola ancora di più. Ancora mi basta avere trovato le parole da dire sulla piazza, mi bastano quelle che il mio vicino di casa ha ricevuto da me e quelle che ho ascoltato da Fenoglio e da Veronesi per gioire insieme.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

I DIALOGHI DELLA VAGINA
A DUE PIAZZE – Luogo di conflitti o di soluzioni?

Che luogo sono le due piazze? Quello spazio intimo serve davvero a risolvere, avvicinare, abbandonare? Per Nickname è un campo dove gli istinti semplificano e mettono tutto a posto, Riccarda invece si chiede se ci sia poi così bisogno di risolvere.

N: Le due piazze sono il luogo in cui, spesso, i conflitti si risolvono. Mi ha sempre colpito come gli esseri umani riescano a complicarsi la vita con la loro parte razionale, che è ciò che dovrebbe elevarli dal resto delle specie animali, e riescano a semplificarsela tornando alle loro pulsioni istintuali, che sono ciò che li accomuna alle altre specie animali. Naturalmente la mia è una domanda, seppur implicita. Come (quasi) sempre, non riesco a dare una risposta.

R: Non so se nelle due piazze i conflitti si risolvano o solo si stemperino, alleggerendosi un po’. Non credo neanche i conflitti di coppia si risolvano con la razionalità, anzi, quella è ancora più dirimente, ciascuno mantiene le proprie ragioni anche solo per puntiglio. Le due piazze sono, credo, l’unico spazio fisico comune dove non si ha nulla addosso e la ragione per un momento tace. Sei così convinto che i conflitti vadano risolti? Forse lo scontro arriva quando c’è bisogno di allontanarsi un po’ e riprendersi in altri luoghi, con altre parole, magari senza parole.

N: Ci sono situazioni e persone con le quali il conflitto deve deflagrare, perché quella deflagrazione eviterà l’esplosione globale. Ci sono situazioni e persone con le quali il conflitto deve essere circuito, proprio come si farebbe con un incapace, perché si è troppo avanti e l’esplosione è stata assorbita da una implosione. Nel primo caso le due piazze sono una specie di sublimazione della lotta. La chimica animale trasforma il conflitto in gioco di ruolo. Nel secondo caso, le due piazze sono già in un altro luogo.

R: Conflitto, deflagrazione, esplosione…mi chiedo se questa lotta tu la stia facendo con qualcuno o contro te stesso.

E voi? Come considerate le due piazze? Spazio di gioco o terreno di scontro?

Potete scrivere a parliamone.rddv@gmail.com

LA CITTA’ VUOTA

La città è un palcoscenico vuoto, i suoi attori si sono ritirati. Sembra di vivere un film che credevamo appartenere solo alla fantascienza. Coprifuoco e sirene spiegate delle autoambulanze. Ognuno è solo, fuori dalla scena, perché la regola è la distanza tra noi e tra noi e i luoghi che eravamo soliti frequentare.
Era necessario fare l’esperienza della lotta alla contaminazione per scoprire l’evidenza che in tempi normali sta ogni giorno sotto i nostri occhi ma che non vediamo.

L’ha scritto Edward Glaeser, autore del Trionfo della città: “Dobbiamo liberarci dalla tendenza a considerare le città come l’insieme dei loro edifici, e ricordare che la città reale è fatta di carne, non di calcestruzzo”. Quella carne che il virus insidia e spaventa, quella carne il cui brulicare oggi ci manca.

Nel 2011 l’Unione Europea, con il documento Le città del futuro. Sfide, idee, anticipazioni, traguardava al 2020 scrivendo che: “Guardare avanti – a tutti i livelli – e sviluppare idee sulle città del futuro diventa sempre più importante. Sarà infatti lo sviluppo delle nostre città a determinare il futuro dell’Europa.”
L’Europa muoveva dalla convinzione che l’urbanizzazione dell’esperienza umana fosse il fenomeno dominante la realtà del nuovo millennio.

Del resto Francisco Javier Carrillo, presidente del World Capital Institute, introduceva il suo Knowledge cities, pubblicato nel 2006, con queste parole: “Nel 1980 meno del 30% della popolazione umana totale era urbanizzata, ora la popolazione mondiale che vive nelle città supera il 50% ed è destinata a diventare il 75% entro il 2025, una percentuale già raggiunta dalla maggior parte dei paesi sviluppati. Quindi, l’urbanizzazione definitiva dell’umanità sta avvenendo proprio ora, dopo 40 mila anni dalla comparsa della nostra specie.”

Ancora, nel 2018, solo due anni fa, il Revision of World Urbanization Prospects delle Nazioni Unite riportava che in Italia vivono in città sette persone su dieci e che la corsa verso le zone urbane era destinata a continuare, anzi ad accelerare, tanto da prevedere che entro il 2050 anche nel nostro Paese l’80% delle persone vivrà in città.

Poi arrivarono il Covid e lo smart working a sconvolgere statistiche e previsioni.
Siamo un popolo in decrescita, secondo i dati Istat del Rapporto sul territorio 2020, nel 2018 -2,1 per mille, mentre nell’insieme l’Unione europea è cresciuta del +2,1 per mille.
Non siamo neppure particolarmente amanti di urbanesimo e di urbanizzazione, nel nostro paese l’incidenza della popolazione urbana sul totale nazionale è inferiore di otto punti alla media dell’Ue e di oltre dieci punti rispetto a Francia, Spagna e regno Unito.

Le città si spopolano, ma contemporaneamente cresce il magnetismo degli ipermercati, come potenti poli di attrazione ai confini urbani. Cattedrali dei non luoghi dove celebrare i riti del consumo. Pure gli ospedali, come i grandi magazzini, sono divenuti a loro volta ‘non luoghi’ di cura, che includono ed escludono corpi anonimi, la cui unica identità è la malattia. Corpi da manipolare in sale ipertecnologiche da personale appositamente paludato.

Gli occhi stanno fotografando quello che non avevano mai fotografato prima. Una esistenza che ci sembra altra dalla nostra, sequenze che crediamo appartenere solo a questo tempo sospeso, che poi, pensiamo, scompariranno, saranno lontane dai nostri quotidiani, dalle nostre angosce, dal nostro dolore.

Eppure è questa la vera immagine della vita, non quella che fino a ieri non volevamo vedere.

Ma la minaccia della contaminazione ci consente anche di sottrarci a questo incubo, di fuggire portandoci appresso il nostro smart working, ci legittima a vivere l’immagine virtuale del nostro essere, quella che ci possiamo disegnare e che ci aiuta a schivare la vista di quella reale.

Si lascia la città, la sua spoliazione, i suoni acuti delle sirene, per disperdersi nei villaggi, in nome della distanza, del contatto salutare con la natura, della purificazione e depurazione. A scrivere il nostro ‘Decameron’ connessi a banda larga, a lavorare smart che fa molto smart, a intrecciare relazioni dalla nostra bolla rifugio chattando sui social.

E non ci rendiamo conto di cosa sta per accadere. Che la lotta contro il male ci lascerà cambiati, ma non come avremmo immaginato. Forse sconfiggeremo il nemico, ma non ne usciremo vittoriosi.

Lontano dalla città se possibile, dove star bene con se stessi e con la natura, con appresso il nostro lavoro, che ci chiede di lavorare ma non di partecipare, l’assenza anziché la presenza, di farci da parte, di ritirarci come tante monadi tra loro distanti. Essere attivi allo smart working, ma lasciare fare ad altri la predisposizione del nostro futuro, quello che sarà dopo il Covid.

Non ci rendiamo conto delle conseguenze di abbandonare il campo e che il campo potrà non essere più quello di prima, perché anziché presidiarlo abbiamo lasciato che altri lo potessero occupare.

Di fronte alla minaccia è forse umano il ‘ritorno al sé’, al grembo materno, al rassicurante focolare domestico. Ma l’illusione della fuga come liberazione, come ritorno al paradiso perduto,  lascia alle spalle la disgregazione sociale e umana, apre la strada ad ogni incognita. La politica viene meno, se abbandoniamo la polis e il suo agorà, se decidiamo di sottrarci al pubblico per privilegiare il nostro privato. Viene meno la civitas e la cittadinanza con i suoi diritti e doveri. Dal distanziamento potremmo uscire ritrovandoci senza città e senza territorio, abitanti un paese di luoghi, privati del cuore della vita politica, sociale, economica e culturale.

GOOGLE? IN GIRO C’E’ DI MEGLIO
Le piattaforme collaborative free/open source

Ghiotte piattaforme collaborative
L’anno in salsa Covid 2020 ha visto esplodere l’uso di piattaforme per il lavoro collaborativo (a fianco a servizi di posta elettronica, motori di ricerca, social networking, etc).
Tra di esse, un esempio non a caso è la serie di servizi Google suite, che si è fatta spazio in settori strategici di interesse nazionale come Educazione, Ricerca e Sviluppo. Questo, nonostante le criticità evidenti legate a fare ospitare dati di importanza strategica e commerciale a server di un paese straniero (e non uno qualunque, ma il gigante conclamato della sorveglianza di massa). Scelta per niente ovvia, se si osserva che paesi con tasso di alfabetizzazione informatica ben più elevato del nostro (vedi Francia, Germania, …) si sono orientati verso sistemi sviluppati a livello “nazionale”, o di tipo free1/opensource, con server sul proprio territorio.
In questo articolo non voglio scagliarmi contro sua maestà Google, ma dare qualche ragione ed evidenza che esiste di molto meglio. A maggior ragione, se abbiamo a cuore diritti fondamentali come quelli all’autodeterminazione, all’esistenza di una sfera privata, nonché la sicurezza e l’autonomia nazionali.

Più mondi possibili
Quando si parla di sviluppo ed uso di software free/open source, è importante rendersi conto che il mondo a cui è abituato tipicamente l’utente Microsoft-Google è solo uno di quelli esistenti. In esso: l’azienda prepara un software che mi vuole convincere a usare, io pago la mia copia (in denaro o scambiandola con dati che verranno usati per influenzare i miei comportamenti), ricevo una licenza del software/servizio, mi vengono imposti degli aggiornamenti fino al momento dell’obsolescenza programmata del software/hardware (e sottratti molti dati personali), fine dei giochi.

Quanto al prezzo. Nonostante il costo di duplicazione del software sia quasi zero, il costo associato a ogni licenza è costante e indipendente da quante ne siano state vendute. In sostanza si paga per avere il permesso di usare un software già esistente, sulla base della disponibilità a pagare degli utenti.

Free software, non caramelle
Esistono anche altri modi di sviluppare relazioni proficue tra produttori e utilizzatori di software.
Un esempio è quello del software free. I programmatori/l’azienda che sviluppano un software lasciano libero di accesso al suo codice. Così, i suoi (potenziali-) utenti/programmatori interessati a particolari funzionalità dello stesso software, ne testano alcune parti (per sicurezza informatica, comfort, funzionalità) e forniscono agli sviluppatori indicazioni preziose su come il software potrebbe essere modificato. Tale prolifica commistione arriva al punto che i due ruoli possono anche in parte scambiarsi. L’utente non acquista una licenza del software (che è a libero accesso) e non rinuncia alla propria privacy (avvallando quella sottile e impalpabile erosione dell’autodeterminazione che oggi domina internet). La dinamica collaborativa e di feedback permette all’azienda di risparmiare sui costi di sviluppo e agli utenti di procurarsi strumenti più adeguati ai loro veri bisogni.
Il business delle aziende/sviluppatori a tempo pieno è spesso basato sulla vendita del supporto tecnico (solitamente a grandi aziende ed amministrazioni pubbliche), oltre che  possibili donazioni. Oppure, nel caso di  piattaforme online, dagli abbonamenti ai server che ospitano il software in questione. In altre parole, si paga per l’uso dell’infrastruttura e il supporto tecnico ricevuto, cioè per il costo di produzione del bene.

Se vi chiedete quale sia la portata del fenomeno Free/Open Source, basti sapere che buona parte (se non la maggior parte) del software disponibile online è proprio di questo tipo.

Un esempio
Preambolo e ragioni a parte, vi presento una tra le più attive piattaforme sviluppo di software collaborativo a me note: Nextcloud.
Nextcloud è una piattaforma per il lavoro collaborativo Free Open Source, ospitata su oltre 250mila servers nel mondo, tra i quali, ad esempio, una parte del settore Ricerca e Sviluppo pubblico francese. Essa contiene decine di applicazioni diverse tra loro, che vanno dalla posta elettronica allo stoccaggio e sincronizzazione su cloud dei propri dati, agli applicativi per videoscrittura, chat, calendari, gestione economica, organizzazione del lavoro, ….
Nextcloud non vende istanze dei propri servizi (ma vi fornisce i nomi di aziende e servers referenziati che lo fanno al posto suo). D’altra parte, idea geniale, Nextcloud propone in vendita servers (anche di piccola taglia e costo) con tutti i servizi Nextcloud pre-installati, in modo da permettere il “self-hosting” dei propri dati (ospitarli su un proprio server), e di coloro che partecipano alla stessa piattaforma collaborativa.

Conclusione
Questo mostra, con uno tra tanti esempi possibili, che un altro modello di sviluppo non solo è possibile, ma sta là fuori ad aspettarvi.

Note:
free software non significa software “gratuito”. Da manuale, un software si dice free quando rispetta quattro “libertà essenziali”: 1) di essere usato nel modo e per gli scopi che l’utilizzatore desidera; 2) la libertà di studiare e modificare il funzionamento del programma, il che implica libero accesso al codice sorgente; 3) la libertà di ri-distribuire delle copie del programma; 4) la libertà di poter distribuire a terzi copie del programma modificato.

Cover: con licenza CC0 1.0 Universal (CC0 1.0) Public Domain Dedication

Guenda

Io sono Guenda. Sono la sorella più grande di Ines e Bella, le due sorelle biondissime che gestiscono il bar Ghepardi a Cremantello. I miei genitori, Giovanni e Ester Ghepardi, sono molto conosciuti a Cremantello perché hanno sempre abitato là, per un periodo nella vecchia casa di campagna della nonna Adelina e, più tardi, in una casa ristrutturata in centro al Pase.
Io non abito a Cremantello, come il resto della mia famiglia, ma abito in un convento a Carpino Solano, un piccolo borgo sulle colline Toscane.
Sono una suora Carlottina scalza. Suor Guenda. Le monache Carlottine scalze sono suore di clausura che hanno fatto voto solenne e costituiscono il second’ordine dei frati Carlottini scalzi. Si dedicano principalmente alla preghiera contemplativa, vivono sempre in convento e i contatti con le persone esterne sono rari e mai improvvisati.

L’ordine delle Carlottine scalze ha una lunga storia.
Nel clima di generale riforma  del mondo Cattolico sancito dal concilio di Trento (1515-1582) le monache Carlottine del monastero di San Ramondo diedero inizio ad una attività riformatrice tesa a restaurare il rigore della primitiva regola dell’ordine. Nel 1570 un gruppo di monache riunite a San Ramondo, ispirandosi alla riforma scalza introdotta da Pietro Talamone dell’ordine Ottoniano, decise di fondare un nuovo monastero di tipo eremitico.
Il ‘breve’ che autorizzò la fondazione fu firmato a Roma il 12 Febbraio del 1572 ed il convento, intitolato a San Leopoldo venne eretto a Carpino Solano il 26 Luglio dello stesso anno.

Arrivando ai nostri tempi nel 2010 le Carlottine scalze erano presenti in 78 nazioni. I monasteri dell’ordine erano 786. Le religiose erano complessivamente 10.679.
Io sono una Carlottina scalza che ha fatto i voti perenni da 15 anni. Porto sempre una lunga veste nera.  Anche il velo è nero, mentre il soggolo e il frontino sono bianchi candidi.  Passo le mie giornate in preghiere, partecipo alle funzioni religiose e vivo momenti di meditazione individuale nella mia cella. Oltre a questo io e le mie consorelle ci occupiamo del nostro convento, del giardino, dell’orto e lavoriamo alla preparazione di icone sacre che vendiamo e il cui ricavato serve per il sostentamento del convento e per opere di beneficienza.

Ricordo sempre i miei parenti nella preghiera: Mamma e papà Ghepardi, le mie sorelle Ines e Bella, le mie cugine Del Re e anche Albertino e Gina Canali, i bambini che abitavano in via Santoni Rosa a Pontalba, di fronte alla casa delle mie cugine.
Ogni tanto qualcuno di loro mi scrive perché vuole il parere di una suora su qualche questione che riguarda la sua vita, oppure per raccomandare le mie preghiere  per qualche buona causa di loro interesse, per la salute di qualche persona a loro cara. Qualche volta mi è anche capitato che qualcuno mi abbia scritto per chiedere una grazia di tipo più generale come la pace nel modo, la fine di qualche guerra o l’abolizione della pena di morte (devo dire che queste ultime richieste sono molto rare anche se molto gradite).

L’ultima lettera a cui ho risposto è stata quella di Gina Canali. Così mi ha scritto Gina.
Cara Suor Guenda, spero tu stia bene. Raccomando le tue preghiere per i miei cari e per la mia salute che non è delle migliori. Ti ricordo sempre nella preghiera e spero che la tua vocazione non incontri mai alcun momento di offuscamento. Ti scrivo perché ultimamente ho una pena nel cuore. Ho conosciuto un collega di Albertino che si chiama Luigi. Lui mi piace molto, ma io sono vecchia, ho cinquantasei anni e un figlio grande che però abita ancora con me. Luigi mi ha chiesto di uscire una sera con lui a mangiare una pizza. Ma io non ho accettato. Non si sa mai cosa può succedere dopo e io non ho ancora deciso se posso lascare che lui mi piaccia oppure no. Inoltre, come tu ricordi bene,  io vivo a Pontalba, un paese di duemilacinquecento abitanti  in cui tutti sanno ‘tutto di tutti’, questo sarebbe per me un’ulteriore problema. Finirei sulla bocca di molti pontalbesi per almeno qualche settimana. Le male-lingue del paese arricchirebbero quell’uscita in pizzeria di non so quali stranezze e misteri e, alla fine, io rischierei di trovarmi in uno stato di apprensione che rovinerebbe subito tutto. Ti prego quindi di darmi il tuo parere su cosa fare con Luigi, prometto che ascolterò i tuoi consigli e che mi comporterò di conseguenza”.

Beh, ho sorriso. Il problema di una cena con pizza è molto lontano dalla quotidianità di una suora di clausura. Eppure non è la prima volta che mi arrivano lettere di questo tipo. Mi torna in mente quando ero piccola. D’estate andavo a Pontalba con Bella e Ines. Stavamo a casa della zia Anna e giocavamo tutto il giorno con Costanza, Rachele e Cecilia. Eravamo una banda di sei bambine: tre bionde, due more e una rossa. Non passavamo inosservate. Oltre a noi sei, in via Santoni c’erano molti altri bambini: Tiberio, Camilla e Carlo Ragni. Alessandro, Libero, Giovanni, Vittoria ed Enrica Bartone. Gina, Albertino e Sergio Canali. Con tutti questi bambini giocavamo la sera a palla bollata, rialzo, nascondino, campana e a qualche altro gioco bizzarro inventato al momento.
Era bellissimo.
Via Santoni è una via in pendenza con delle rientranze e anche un vicolo che da lei diparte. C’erano molti posti in cui nascondersi, in cui aspettare la penombra per poi uscire improvvisamente dal rifugio temporaneo, correre alla tana, picchiare contro il muro e gridare a squarciagola: “Liberi tutti!”. Ora mi ha scritto Costanza che i bambini di via Santoni sono molti meno, stanno tutti su un carretto che Albertino ha ereditato da un suo amico. Li porta in giro per farli divertire. Alla sera nessuno esce nella via a giocare. Non si sentono più voci di bambini che gridano: “Rialzo!” “Tana libera per me!” “Tana libera per tutti” “Arimo” oppure le famose conte fatte per scegliere il malcapitato che poi doveva contare fino a cento prima di cercare tutti. “Pomodoro, larincia, larancia, quanti giorni me ne conta, me ne conta solo tre. Tocca tocca proprio a te!”. I pochi bambini che abitano adesso in via Santoni Rosa, stanno sempre in casa. I genitori non li fanno uscire di sera. Hanno paura che succeda loro qualcosa. Sono cambiate le regole di convivenza, non è più previsto che i bambini possano giocare da soli per strada, men che meno di sera. I genitori considerano questa modo di giocare che per noi era normale, pericoloso, “non si sa mai quel che può succedere a dei bambini che giocano per strada …

Torno al presente, alla mia cella e alla lettera di Gina. Prendo un foglio di carta e una penna nera. Mi metto a scrivere.
Cara Gina. Sono contenta di aver ricevuto la tua lettera. Prego sempre per te, per la tua salute e per la tua serenità. Io sono una suora e non posso uscire a mangiare la pizza con nessuno. Ma tu non sei una suora! Una pizza è una pizza, che male vuoi che faccia? Non ti devi preoccupare di quello che dicono i pettegoli. Anzi fai così: a chiunque si permetta di dirti qualcosa rispondi “Ho ascoltato un consiglio di Suor Guenda, è stata lei a scrivermi di andare ogni tanto a mangiare una pizza. Ve la ricordate la ragazzina bionda cugina delle Del Re? Ora è una suora di clausura, ma noi ogni tanto ci sentiamo.” Che divertimento! la prossima volta che mi scrivi mi devi descrivere che faccia hanno fatto i pettegoli di turno. Ti saluto cara Gina, ti auguro ogni bene e prego sempre per te, perché quando sarà il tuo momento il Signore ti possa accogliere nel più alto dei cieli. Amen.”

Piego a metà il foglio, lo metto nella busta e mi fermo un attimo a ripensare a Via Santoni. Ai bambini che siamo stati, alle diverse strade che abbiamo intrapreso. Poi mi avvio verso la cappella del convento per le preghiere comunitarie. Ritrovo subito la luce e di questa mi compiaccio.

 

SCHEI
L’oro di Diego

L'”oro di Dongo” è il tesoro, fatto di gioielli, lingotti e bigliettoni in valute diverse, sequestrato a Mussolini ed altri gerarchi dal convoglio in fuga fermato a Dongo, provincia di Como, il 27 aprile del 1945. Pare che il grosso del bottino, al quale anche la popolazione locale ha attinto al passaggio in una sorta di improvvisata espropriazione proletaria, sia finito nelle mani della brigata partigiana e poi dei comunisti comaschi e infine sia stato utilizzato per comprare la storica sede del PCI a Botteghe Oscure.

L'”oro di Napoli” è il titolo di un film a episodi del 1956 diretto da Vittorio De Sica. Si tratta prevalentemente di spaccati della vita napoletana, rappresentata attraverso i mattatori della tragicommedia partenopea, da Totò a Peppino De Filippo a Sophia Loren a Tina Pica.

Mi permetto di associare arbitrariamente le due definizioni, perchè la mescolanza dei temi inclusi in entrambe mi sembra attagliarsi come una facile profezia all’immediato futuro post mortem di Diego Armando Maradona da Lanus. Il prevedibile e pittoresco (ma non così superficiale come appare da fuori) psicodramma neopagano di Napoli, città d’adozione del Pibe, è già in corso. L’assalto alla diligenza del suo inquantificabile patrimonio è in realtà iniziato da tempo, mentre lui era in vita, ma da ora in poi si trasformerà in una sanguinosa faida tra parenti ufficiali e ufficiosi, consanguinei originari e riconosciuti, figli legittimi, legittimati e spuntati come funghi nel bosco dopo una notte di pioggia (sarei pronto a scommetterci). Per non parlare della corte dei miracoli che lo circonda da anni, professionisti para o pseudo della medicina e del diritto e della finanza e del fisco e della droga, destino che accomuna tutti i semidei tossici, da Elvis Presley a Michael Jackson a Prince a Whitney Houston. E’ impossibile per questa categoria di persone che ben presto, nella vita, escono dal mazzo dei normali esseri umani, sfuggire all’abbraccio mefitico e soffocante dei consulenti/portavoce/eccetera, ognuno dei quali ricava un reddito più che sufficiente a vivere bene dal proprio unico cliente, che quindi sarà molto difficile contraddire. Quando sei circondato da adulatori non riesci più a riconoscere la franchezza in un rapporto. Peggio: la vivi con fastidio. Quello che è onesto è il primo ad essere licenziato, perchè ti dice in faccia le cose che non vuoi sentirti dire. Alla fine chi ti vuole bene davvero lo allontani, e ti tieni i cattivi consiglieri, quelli che ti danno sempre ragione anche quando fai delle cazzate, che non ti dicono “stai lontano da quella merda” ma che la merda, alla bisogna, te la procurano.

Non ho conosciuto personalmente Maradona, come del resto tutti coloro che ne scrivono. Non comprendo chi dice che lo stiano facendo “santo”, perchè finora non ho letto un solo articolo che ne abbia oscurato i difetti e le mancanze. Comprendo ancora meno chi, non conoscendolo, si permette di dire che era una persona pessima. Sono andato a curiosare tra i moralizzatori da tastiera e, tra quelli più o meno noti, ho trovato chi mi aspettavo di trovare: gente che predica bene e razzola male. Mi limito a dire che vorrei vedere uno qualunque di loro, di noi, alle prese con un talento sovrumano, un dono che viene direttamente dal cielo, nel senso che il cielo o Dio sembra avere scelto proprio noi, per crudeli e imperscrutabili ragioni, per portare a termine un compito il più ambizioso – e noi sappiamo di essere i soli a poterlo compiere, perchè noi abbiamo quel dono, e nessun altro. Vorrei vedere uno qualunque di noi alle prese con un dono così prodigioso, un superpotere, che però vale solo in un campo della vita. In tutto il resto, ce la dobbiamo cavare con la nostra mediocrità, inadeguatezza, bassezza, dabbenaggine, fragilità. Stan Lee e la sua combriccola alla Marvel, su questa dicotomia del supereroe con superproblemi, ci hanno costruito sopra il profilo psicologico di tutti i più celebri personaggi della loro scuderia di carta.

Dentro di te convive questa divaricazione, mentre il resto del mondo pende dalle tue labbra anche se leggi la lista della spesa, sentenzia usando le tue parole e le rende aforismi sacri, anche se erano stronzate dette da ubriaco delle quali nemmeno ti ricordi. E soprattutto, il resto del mondo ti è costantemente addosso, ti alita addosso il suo amore e la sua invadenza. Sempre. Sempre.

Se qualcuno pensa che sia facile vivere così, vada a vedere come hanno vissuto, di chi si sono circondati e come sono morti artisti di enorme talento come quelli sopra citati. E’ chiaro che se hai un talento sovrumano in una di quelle discipline nelle quali si proiettano le aspettative di miliardi di umani, tutto si amplifica: la celebrità, il denaro e la pressione. Se invece ce l’hai in un campo che interessa a pochi, puoi cavartela. Se non interessa a nessuno, infine, sarai ignorato (condizione esistenziale fonte di una sofferenza acuta, uguale e contraria all’eccesso di pressione).

Se hai un talento sovrumano nel gioco del calcio, diventi più famoso di Gesù Cristo. Se sei anche nato in Sudamerica e ti porti dentro, e dietro, l’ ancestrale religiosità magica del tuo popolo, allora sei Gesù Cristo. Però tu sai chi sei. Lo sai, di non poter essere all’altezza di una cosa così enorme, che non è vincere il Mondiale di calcio con la tua Argentina, no: quello lo sai fare e lo puoi fare, perchè si trova dentro la tua zona di comfort. Sai anche di essere, spesso, capace di orribili bassezze, che ti rendono tragicamente umano e profondamente attrattivo per la letteratura, anche quella nobile, che intinge volentieri la penna nelle debolezze e nelle fragilità della superstar. Tu però intanto, ci sono giorni in cui ti abbruttisci fino a farti schifo. I buchi della tua anima li riempi con le opere d’arte che ti vengono facili, perchè hai un superpotere. Quando non lo puoi usare, devi coprire il buco con qualcos’altro.

Lui lo ha riempito con la cocaina. Credo abbia fatto del male prima di tutto a se stesso. Del resto non ha voluto essere un modello per nessuno, anche se il mondo lo ha innalzato al rango di semidio. E come spesso accade a questi semidei loro malgrado, ha tenuto il male per sè e per le persone cui voleva più bene, e al resto del mondo, al “pubblico”, ha donato quel bene, che nel suo caso è stata la bellezza. Non tanto la bellezza di un gesto atletico o tecnico, ché se si fosse fermato a questo sarebbe stato “solo” un grande campione. La bellezza di cui è stato capace ha molto più a che fare con l’arte che con lo sport. La differenza tra un grande gesto sportivo e un’opera d’arte sta nella sensazione di vertiginosa meraviglia che ti lascia addosso. Una sindrome di Stendhal, che lui stesso definiva “le sensazioni celesti date dalle arti”, al punto da perdere l’equilibrio mentre cammini, e per un istante rimanere preda di un capogiro mistico. E capita proprio a te, che nel resto dei tuoi giorni passi per essere un inguaribile, ateo, cinico materialista. Ecco, per me è questo l’oro di Diego.

In copertina: elaborazione grafica di Carlo Tassi

PER CERTI VERSI
Altrove

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
[Qui]

ALTROVE

Ritira le tue labbra
Dalla spiaggia
Del mio sguardo
Uno di quelli
Al liquore
Che sai
Come granelli di sabbia
Muti nell’acqua
Bianca
Esangue
Eppure viva
Come mai
Viva è stata
Tra le rocce
Rosse
I massi sporgenti
I pini appesi ai fili
Le radici
Dell’avorio

Lasciami solo
Con i miei passi
I miei castelli
Nel refettorio
Del mio asilo
Sai che sono esule
Passami a trovare ogni tanto
Salutami con un gesto
Con un sorriso
E respira
Con la mia anima
All’unisono
Respira
Che io ti sento
Cosi vivo inaudito
Senza morire
Che io ti senta
Ti possa sentire
All’unisono

Respira

Spesa sexy a Detto Fatto:
come la Rai ha celebrato la Giornata contro la violenza sulle donne

Il canone lo paghiamo con la bolletta della luce. Così, per non rimanere al buio, siamo tutti abbonati alla Rai. Per decreto.
Che la Rai sia un servizio pubblico, non ci crede più nessuno. Ci siamo rassegnati (quelli che ancora lo accendono il televisore) a prendere quello che passa il convento. Che, tranne poche e rare eccezioni, è roba dozzinale, di seconda o terza mano, becchime e melassa. Pochissima intelligenza e zero fantasia. In quasi 70 anni di vita la Rai, grazie anche al corpo a corpo con i canali commerciali, invece di migliorare sembra peggiorata. (meglio togliere il sembra)..

A tutto questo ci siamo abituati da un pezzo. Eppure a volte succede che mamma Rai riesca ancora a stupirci. E a farci arrabbiare: parecchio.

Così, con un tempismo impressionante, capita che il 25 novembre, nella ricorrenza della Giornata Mondiale della lotta contro la violenza sulle donne (sappiamo dell’aumento impressionante dei femminicidi nel tempo del Covid) il popolare contenitore Detto Fatto su Rai 2, mandi in onda un lungo siparietto sulla spesa Sexy. Una “superpuntata” promette la conduttrice, dove siamo guidati (e guidate) da una modella in abiti super succinti e gambe al vento. I destinatari della lezioncina tacchi a spillo si suppone siano le moderne massaie italiane che vanno a fare la spesa al supermercato. Sottinteso: far la spesa è roba da donne, non da uomini.
La testimonial-istruttrice tacco 12 brandisce il carrello della spesa, sorride, ammicca, ancheggia, si avvicina allo scaffale, si esibisce in pose provocanti: “Ecco, fate così, non così”. Scelta tra il pubblico, un’allieva un po’ impacciata ripete con diligenza le mosse dell’insegnante, cerca di imparare come usare il corpo “per far girar la testa al maschio”.

Spesa sexy a Detto Fatto, si chiama proprio così. Mi hanno segnalato il video che sta girando con successo su Youtube e ho fatto fatica a crederci – chi ha voglia di indignarsi e arrabbiarsi lo trova [Qui]. Agghiacciante!  Per fortuna, sotto il video, fioccano i commenti che condannano il sessismo e l’esposizione della donna oggetto. Ma mi domando: possibile che nessuno ai piani alti intervenga per bloccare il programma? E perché Youtube e gli altri social non cancellano il video?
E mi rispondo, con tristezza: già, siamo in Italia, qui le donne son sempre mamme, mogli, amanti, massaie, belle fighe, femmine, angeli e puttane.

PRESTO DI MATTINA
In cammino per edificare la città dell’uomo

L’anno liturgico dispiega dentro l’anno civile, senza coincidere con esso né per l’inizio né nella fine, il cammino di un popolo che, di domenica in domenica, si raccoglie nell’ekklēsía, l’assemblea cristiana, convocata e radunata dalla Parola di Dio, per essere poi inviata a testimoniare quella Parola nella propria vita.

Riattualizzandolo nel presente, esso ripercorre lo stesso cammino di Gesù, il suo esodo verso la Pasqua generativa di operosa speranza e di corresponsabilità fruttuosa, con l’intento di edificare la città dell’uomo in assonanza con quella verso cui sono protesi lo sguardo e il cuore. È questo il senso profondo non solo dell’anno liturgico ma di ogni domenica, in cui siamo chiamati a partecipare al memoriale della Pasqua, lasciandoci orientare dalla forza dello Spirito del Risorto verso il compiersi dei giorni e la domenica senza tramonto. Al pari dei quarant’anni nel deserto, l’anno liturgico traccia dunque un cammino, percorrendo il quale ciascuno di noi riesce a conoscere ciò che ha nel cuore (Dt 8, 2), ma al tempo stesso gli è dato conoscere quello che Dio ha in serbo nel proprio cuore. Ricorda infatti Gregorio Magno: «Disce cor Dei in verbis Dei» («Impara il cuore di Dio nelle Parole di Dio» Lettera 31).

L’anno liturgico si è da poco concluso. Lo abbiamo lasciato alle spalle con la festa che celebra Il Pantocrator (colui che tiene tutto nelle proprie mani), figura tipica dell’arte bizantina che ben rappresenta Cristo, Re dell’universo, “tutto in tutti” (Col. 3,11). Il nuovo anno liturgico è così anticipato rispetto all’inizio dell’anno nuovo civile di quattro settimane, durante il quale siamo chiamati all’attesa. Come la nascita del sole è preceduta dall’aurora, così la nascita di Gesù è preannunciata, per i cristiani, dal tempo aurorale dell’Avvento che, sollevando a poco a poco il sudario della notte, disvela i significati nascosti.

Sotto questo profilo, la celebrazione del Cristo Re dell’universo è paragonabile ad un passante di valico, ad un confine, che trattiene e attira insieme, transito dal vecchio evo a un tempo nuovo, da una fine verso un nuovo inizio, perché ‒ come ci ricorda l’Apocalisse ‒ «Colui che sedeva sul trono disse: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose”» (Ap 21,5). La novità, si badi, non scaturisce dal ciclo temporale, ma da un dispiegarsi lungo l’intero anno dagli eventi che hanno segnato la vita di Cristo, rivelando un rovesciamento di paradigma: «Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore» (Mt 20,26). Siamo così chiamati a lasciarci istruire dalla logica del Vangelo e dalla vicenda storica di Gesù di Nazaret. A partire dallo stile del suo “regnare”, che in lui si esprime, non già come dominio, ma come servizio sino all’estremo della donazione della propria vita (Regnavit a ligno Deus): «Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio. Ti ho formato e stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre» (Is 42,1).

Il vangelo della scorsa domenica, l’ultima dell’anno appunto, riportava la parabola del giudizio universale. Più che descriverci l’evento inquietante del giudizio ultimo, spiegandoci come sarà, la parabola pone il cristiano di fronte a Cristo, qui ed ora, ricordandogli le sue responsabilità di ospitalità ed accoglienza verso gli altri, oggi. Un invito a vigilare, a scorgere quella regalità umile del Servo del Signore che riveste i panni degli “insignificanti”: uomini e donne del nostro tempo, nei quali è intriso, senza rendersi riconoscibile, il Cristo affamato, assetato, nudo, straniero, prigioniero, ammalato. Rivestito dell’umanità dei “marginali” e postosi nelle periferie geografiche, istituzionali, religiose, esistenziale del suo tempo, Egli è diventato un uomo di confine, lui stesso marginale, umiliato, estromesso dalla città. Ma così facendo, condividendo la sorte del più umile tra gli uomini, egli, per la sua compassione, ha attraversato la soglia della morte, ritrovando la propria vita perduta nelle mani del Padre. Non solo allora: ma di continuo anche oggi Egli ritorna ‒ prima della sua venuta definitiva ‒ nelle sembianze di uno sconosciuto, affinché la sua umanità presente e viva nella carne «dei suoi fratelli più piccoli» venga di nuovo accolta, sfamata, rivestita, visitata, ospitata. Così quel giorno, quando verrà nella sua gloria, mostrando il suo volto glorioso anche a coloro che non lo hanno riconosciuto e nondimeno hanno praticato il comandamento umanissimo del suo amore, egli li inviterà: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il Regno» (Mt 25,34).

L’evangelista Matteo sviluppa il suo vangelo sullo sfondo di cinque grandi discorsi. Con essi Gesù maestro svela ai discepoli i misteri del Regno dei cieli. Nel primo discorso, quello in cui Gesù proclama le beatitudini sul monte, la sua prima parola è “Beati” (cap. 5). Nell’ultimo, con cui Gesù termina il suo insegnamento sul Regno, quello detto escatologico, sulle realtà ultime, la prima parola che il Figlio dell’uomo veniente nella sua gloria pronuncia è “Benedetti” (cap. 25). Matteo ha posto così la sua comunità alla scuola della Parola di Gesù, ricordandone l’efficacia generata nel praticarla. Chi non la pone a base della propria vita sarà come una casa senza fondamenta; mentre chi la vive, come una casa fondata sulla roccia, resisterà anche alla tempesta. Se con le beatitudini abbiamo la promessa e l’anticipo della prossimità di Dio al suo popolo ‒ mediante l’esserci di Gesù, con gli “insignificanti” i poveri, gli afflitti, i miti, i perseguitati, incontrati strada facendo ‒ nei “benedetti” si compie quella promessa che coinvolge tutti coloro che non si sono sottratti, anche solo in ragione della propria umanità, a farsi prossimo dell’altro. Promessa e compimento.

Un testo paolino può aiutarci a ripercorrere la parabola “contromano”, a cominciare cioè dalla fine. Scrive Paolo: «Nessuno di noi vive per se stesso». Chi vive per se stesso, praticando un’esistenza respingente ed escludente l’altro, si sentirà ripetere dal Figlio dell’uomo le sue stesse parole, quelle da lui pronunciate passando oltre, senza fermarsi davanti a chi lo supplicava: «Via, lontano da me». La parabola vuole pertanto risvegliare la coscienza di chi l’ascolta, il quale si sente giudicato dalle sue stesse parole, al fine di provocare un cambiamento di atteggiamento e una presa di responsabilità in ordine al fatto che ci si salva solo insieme: chi trattiene la vita per sè la perde, chi la perde la ritrova dice Gesù. Possibile che non comprendiamo? Se paragoniamo la vita all’aria, l’essere cristiani impone di seguire la dinamica della respirazione: per inspirare di nuovo devi espirare, lasciar andare, perdere l’aria che trattieni. All’apparenza sembra che si perda qualcosa di vitale come l’aria, ma è la sola condizione per poter vivere. Trattenendo il fiato, non c’è speranza di vita: si muore.

Le altre parole di Gesù, «Venite benedetti», ricalcano invece quelle pronunciate da coloro che si sono fatti ospitali verso i fratelli più piccoli e, sentendoli come una benedizione, hanno detto loro: “venite avanti, entrate, c’è posto anche per voi”. Una ospitalità che suscita stupore e meraviglia in coloro che sono abituati ad essere respinti ai margini; la stessa gioiosa meraviglia che pervaderà coloro che alla fine scopriranno di aver accolto in quei piccoli il Figlio dell’uomo.

L’apostolo Paolo fa seguire alle parole «nessuno vive per se stesso» queste altre: «Se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore» (Rm 14,8). L’appartenenza al Signore consiste nell’aver preso parte alla sua vita nascosta nei più piccoli, a prescindere dall’averlo incontrato e riconosciuto nella fede oppure no. Tale appartenenza si attua ogni volta che la nostra umanità prende la forma di una “pro-esistenza”, espressione coniata dal teologo Heinz Schürmann per indicare l’apertura della vita di Gesù agli altri, che nella morte ‒ con il suo affidarsi al Padre e il perdono rivolto ai suoi uccisori ‒ raggiunge il culmine della sua ampiezza. In questa sconfinatezza ed eccedenza di amore egli rivela l’unità profonda di destino dell’uomo e di Dio, dell’infinito nel finito: il Dio con noi, chiamato nel Natale, l’Emmanuele.

E da domani, inizio dell’Avvento, proveremo a cercarlo sul quel confine incipiente che non è limite ma porta ‒ un “vado” ‒ lo stesso dell’aurora che chiama al senso e ne è l’accesso, quello del suo originarsi e del suo compiersi come amore, praticando il quale si potranno ritrovare i nomi dei luoghi, dei volti e delle cose: il lontano vicino, l’estraneo fratello. Scrive Maria Zambrano: «L’Aurora appare distesa, seminata come un germe che irrompe nell’oscurità. Appare, a colui che la attende o la spia, innanzi tutto come una linea, come un confine che divide; linea che separa offrendo, creando insieme abisso e continuità. La linea dell’Aurora tanto attesa non è già l’Alba. L’alba comincia a fondersi a fuggire quasi, offrendo l’immagine lieve di tutto un regno, di qualcosa di ineccepibile; mentre l’Aurora, che ha risvegliato il germe dell’illimitato e dell’ardente, ci appare come un limite, un confine che ci arresta e ci chiama in modo ineludibile. L’apparizione dell’Aurora unifica i sentire trasformandoli in senso, reca il senso la sua origine e la sua finalità» (Dell’Aurora, 27).

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CONTRO VERSO
Filastrocca delle lacrime e dei naufragi

Poche volte mi sono discostata dalle storie di bambini e famiglie conosciuti in udienza oppure attraverso la cronaca. Questa è una di quelle volte.
Scritta dopo il naufragio del 18 aprile 2015 nel quale hanno perso la vita tra le 700 e le 7000 persone, la filastrocca resta attuale e il punto non è il numero di vite uccise.

Filastrocca delle lacrime e dei naufragi

Son gocce dentro al mare.
I sorsi più salati
li voglio dedicare
a quelli mai arrivati.

Al bimbo che cercava
un posto per studiare,
all’uomo che sognava
un luogo per campare.

Piango per 700,
per 7 o 7000
piango per ogni uomo
stipato in quella fila

di volti martoriati
di corpi ormai perduti
di sogni naufragati
di figli sconosciuti.

Piango per il più orrendo
di tutti i bastimenti,
un barcone tremendo
di compaesani deficienti

perché chi si separa
anche dalla pietà
mi sta rubando l’aria
e non lo voglio qua.

Portatemelo via
in Libia o in Tunisia,
costretto su un barcone
d’incerta destinazione.

In gita in mare aperto
o a spasso nel deserto
di giorno, e notte e giorno
col dubbio del ritorno.

Adesso chiedo scusa
dei versi esagerati
ma non mi sembra un merito
se è qui che siamo nati.

O forse ve l’ho detto
sommersa dal disagio
di constatare l’uomo
perduto nel naufragio.

Scartare la paura
affondare l’odio
Rifiutare la paura
bombardare l’odio
Fermare la paura
Navigare l’odio
Annichilire la paura
Trasformare l’odio

Chi perde la vita nel Mediterraneo fa naufragio, ma non è il solo

PAROLE A CAPO
Monica Zanon: “Ritorno” e altre poesie

“Una poesia ragionevole è lo stesso che dire una bestia ragionevole.”
(Giacomo Leopardi)

  

Ritorno

Hai ricominciato ad abitare i miei pensieri
con le chiavi in tasca
hai bussato alla mia porta,
l’uscio s’è aperto da solo
(non è mai stato chiuso)
in un chiacchiericcio di idee libere
al tuo ritorno.

Dalla silloge “Un tempo assente” – Le Mezzelane CE (Ancona, 2019)

 

In fondo alla radice dei tuoi occhi

Ti vengo a prendere con quel camper
coperto di foglie e nuvole:
dammi la mano e le paranoie.
In fondo alla radice dei tuoi sogni,
dove si nasconde la tigre,
là, nei tuoi occhi io ti vedo.

Dalla silloge “Nella mia selva sgomenta la tigre” – Le Mezzelane CE (Ancona, 2018)

 

Come foglia e albero

Non mi sono fermata per il timore
di perdere per strada quei pezzi
che, dentro me, s’erano rotti.
Come foglia d’autunno intrepida,
mi sono lanciata alla ricerca
dello sconosciuto che mi abita.
A tratti
sento l’aria umida
a tratti il nulla,
senza il calore e la linfa del mio albero.
Ma io sono quell’albero e
la mia corteccia è scavata già,
segnata dalle sconfitte e dalle rinascite.

Dalla silloge poetica fotografica “Difettosa” – YCP (2015)

 

Monica Zanon, in arte Moka (1982). Il Lago Maggiore è la chiave di lettura dei suoi umori. Durante gli studi tecnici ha incontrato la Poesia e grazie a lei ha trovato il suo modo di comunicare. La parola poetica è necessaria per comprendere se stessa e il mondo. Vita e Poesia sono inscindibili. Nel 2014 ha fondato l’Associazione Licenza Poetica, insieme ad alcuni amici. Crea e collabora all’organizzazione di eventi letterari. Ha diverse pubblicazioni all’attivo, sia personali che collettive. Cura il suo sito personale (www.mokaend.com) e la collana digitale di poesia de Il Babi Editore che uscirà nel 2021.

 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia.
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