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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


LETTERA APERTA AL SINDACO DI FERRARA: ORA BASTA!

di Mario Zamorani

Signor sindaco,
lei ha scritto: “Clandestini, violenti, spacciatori e bivaccatori seriali, che altro non fanno che rendere meno sicura la nostra città, non possono pretendere alcun diritto, devono solo tornare da dove sono venuti. Per noi non sono né risorse né persone da integrare a nostre spese. Sono solo un tumore da sradicare” (vedi link).

Le sue sono parole di odio e di disprezzo senza precedenti per la loro gravità nei confronti di persone che in gran parte sono “gli ultimi e i disperati” della Terra. Pensiamo in particolare a clandestini e bivaccatori (chiunque siano questi ultimi). E anche chi delinque ha diritto a un giusto processo, non alla gogna. Lei e il Diritto siete alternativi.

Per la legge il sindaco rappresenta il Comune e lei in quanto sindaco rappresenta tutti i ferraresi.

Non siamo più disposti a tollerare in silenzio parole di odio e di disprezzo da lei o, come avviene con allarmante frequenza, dal suo vicesindaco.

Ha superato il limite. Non ci rappresenta più.

Mai un sindaco di Ferrara era caduto così in basso con parole tanto violente. Un clandestino non è un tumore da sradicare. La cultura del diritto dello Stato liberale e lo Stato di diritto e democratico garantiscono che tutti i cittadini abbiano diritti come indicato dalle leggi e dalla nostra Costituzione, dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea; non sono tumori da sradicare. Mai, chiunque essi siano e qualunque sia il loro comportamento. Semmai è lei che dovrebbe essere allontanato dall’alto incarico che ricopre per le sue parole.
Dalla criminalizzazione del clandestino a quella della persona con diverso colore il passo è breve, forse inesistente; poi verrà criminalizzato ogni “diverso” e giù siamo su quella strada: forse non lo sa ma lei è già fuori dalla storia dell’Occidente e dalle sue conquiste di civiltà.

Anche Papa Francesco, rivolgendosi a cattolici e non, sostiene che dobbiamo tutti creare un radicale cambiamento nelle nostre società e che è necessario rifiutare “tutte le ingiustizie che oggi cercano la loro giustificazione nella ‘cultura della scarto’- una malattia ‘pandemica’ del mondo contemporaneo”. E aggiunge che bisogna dare voce ai “senza voce”. E tra questi ultimi indica
“migranti, rifugiati e sfollati, che vengono ignorati, sfruttati, violentati e maltrattati nel silenzio colpevole di molti”. E il suo non è silenzio, la sua è istigazione attiva.

Con le sue parole lei ha posto se stesso fuori dalla cultura giuridica dello Stato di diritto e ha fatto precipitare Ferrara, che lei dovrebbe rappresentare, nella barbarie.

Crediamo fermamente che la grandissima maggioranza dei ferraresi abbia queste sensibilità e che quindi lei non parli a nome dei ferraresi, ma a nome di alcuni odiatori. Lei è venuto meno all’onore che deve contraddistinguere le persone che ricoprono incarichi istituzionali.

Ora basta! Non siamo più disposti a tollerare parole di odio e di disprezzo! Quindi le chiediamo di smentire le sue stesse parole e di chiedere scusa a tutti i ferraresi. Se non lo farà da qui potrà partire la riscossa della città democratica.

Per firmare la petizione vai a; https://www.change.org/p/alan-fabbri-sindaco-di-ferrara-lettera-aperta-al-sindaco-di-ferrara-ora-basta

Nulla accade per caso

“Nulla accade per caso”.
Ce lo ripetiamo come mantra consolatorio davanti agli insuccessi, con un fondo di speranza compensatoria in ciò che seguirà, oppure lo diciamo con convinzione intrisa di felicità, nel caso di un successo. Caso? Energia? Destino? Tentiamo di dare risposte razionali a quegli eventi non pianificati o attesi che irrompono, tentando di scoprire e rendere manifesti i fili invisibili che uniscono luoghi e persone, circostanze e fatti ma tutto resta inspiegabile: accade e basta.
Nel 1950 Gustav Jung formulava la ‘Teoria della sincronicità’, asserendo che il vincolo tra più avvenimenti che sembra casuale, nasconde un profondo significato per la persona che lo vive, costituendo una forte esperienza con valore simbolico. Sono fatti che accadono spesso, compaiono all’improvviso, inaspettati, e molto spesso cambiano il corso della nostra vita. Non esistono le coincidenze con collegamento causa-effetto: esiste un’intima connessione che unisce l’ambiente, l’inconscio collettivo che accomuna tutti gli esseri umani, la singola persona, e bisogna fidarsi e affidarsi all’istinto per aprire le porte della sincronicità, sgomberando pensieri e atteggiamenti rigidi, cinici e rinunciatari. Tutto è collegato, le cose fluiscono, una dopo l’altra, in un ambiente in cui tutti sono connessi: possiamo prendere decisioni, operare scelte, porci obiettivi ma poi gli eventi interferiscono, l’inaspettato si manifesta scompigliando, orientando altrove.
In letteratura troviamo frequentemente situazioni sincroniche senza le quali la narrazione non avrebbe senso o si appiattirebbe su una realtà poco credibile, perché la vita reale stessa è fatta di eventi voluti e pianificati intercalati con fatti e accadimenti indipendenti da una nostra consapevole scelta razionale.
Nei ‘Promessi Sposi’ (1827), di Alessandro Manzoni, Renzo e Lucia vengono sballottati tra numerosi scherzi del destino, e quello che doveva essere un matrimonio senza complicazioni, diventa un’epopea intensa. Fra’ Cristoforo indirizza Lucia verso l’Innominato, il quale tradisce le aspettative di don Rodrigo; ogni personaggio deve fare i conti con il ‘caso’, il ‘destino’, la sincronicità, l’interdipendenza dei fatti. “Se non fosse successo quello, non si sarebbe arrivati a questo…” .
In ‘Il nome della rosa’ (1980), il celebre romanzo di Umberto Eco, il giovane Adso da Melk, discepolo di Guglielmo da Baskerville, trova i brandelli di libri e pergamene dopo l’incendio alla biblioteca dell’abbazia e li considera come tesori sepolti nella terra da salvaguardare e studiare con amore. “[…] Come il fato mi avesse lasciato questo legato. Più rileggo questo elenco e più mi convinco che esso è effetto del caso. Ma queste pagine incomplete mi hanno accompagnato per tutta la vita che da allora mi è restata da vivere, le ho spesso consultate come oracolo […]”.
Nel ‘Decameron’ (1350-1353), di Giovanni Boccaccio, apparente disordine e casualità sembrano prevalere nelle storie dei personaggi delle novelle, che compaiono slegate e distanti l’una dall’altra. Ma Boccaccio riesce a dar loro un ordine, una gerarchia, un senso, rifacendosi a volte al volere divino, altre alla capacità umana.
Italo Calvino, nel romanzo ‘Il castello dei destini incrociati’ (1969), usa una tecnica combinatoria per eliminare il disordine di tutte le trame possibili da percorrere e sviluppare. Parte da un mazzo di tarocchi le cui carte vengono distribuite su un tavolo e tutto diventa un gioco di combinazioni in cui il significato di ogni carta dipende dal posto che essa occupa nella successione di carte che la precedono e la seguono.
Dagli incroci che si formano, prendono vita le storie. In ‘Insonnia d’amore’ (1993), di Nora Ephron, Sam, vedovo inconsolabile, decide di trasferirsi con il figlioletto Jonah da Chicago, che gli ricorda ogni momento la giovane moglie, a Seattle. Il bambino, che vive la solitudine e sofferenza del padre, si rivolge a una radio facendo conoscere la loro storia e cominciano ad arrivare numerosissime lettere da pretendenti di ogni dove. Tra esse, quella della romantica giornalista Annie Reed di Baltimora, che il bambino ha estratto tra decine e decine. A molti altri inaspettati eventi, seguirà un appuntamento a New York tra Sam e Annie. “Non è incredibile? Prendi milioni di decisioni e un sandwich ti cambia la vita” esclamerà la protagonista, convenendo che nell’universo, minuscole variazioni portano ad evoluzioni inattese.
Laura Barnett in ‘Tre volte noi’ (2016), ci consegna due personaggi e due storie parallele che improvvisamente si incrociano. E’ il 1958, Eva e Jim, due studenti di Letteratura e Giurisprudenza a Cambridge, si incontrano inaspettatamente a causa di un cane sfuggito al padrone e un chiodo che fora la gomma della bicicletta della ragazza, intenta a schivare l’animale. Jim accorre in aiuto, e da quel momento tutto cambia. Eva lascia che il giovane entri nella sua vita, lascia un fidanzato in grado di permetterle un futuro nel mondo degli scrittori,  e tutto prenderà una traiettoria nuova che durerà tutta la vita, malgrado altre trame possibili.

Caso e necessità si intrecciano nelle nostre vite e non si tratta di destino ineluttabile né accidentalità, se vogliamo leggerne il messaggio. Ci piacerebbe, a volte, tornare indietro dopo un fatto, rimettere le lancette dell’orologio all’inizio per vedere altri scenari, altri effetti, altre opportunità ma i ‘se’ e i ‘ma’ sono sterili se non cogliamo l’importanza di ciò che è già accaduto. Possiamo solo vivere nel presente, con le nostre certezze e le nostre sliding doors, con uno sguardo attento attraverso le porte aperte e un atteggiamento plastico nel coglierne  messaggi e opportunità.

 

GLI ALLEVATORI DI SPERANZE
Per la giornata mondiale degli insegnanti

Oggi è la giornata mondiale degli insegnanti,
so che ci sono cose molto più interessanti
ma visto che c’è in giro più di un ignorante
anche questa dovrebbe essere importante.
L’insegnante è un operaio di conoscenza
e di quella sete non riesce a stare senza.
L’insegnante è un coltivatore di progetti:
prova a creare l’intero con dei pezzetti.
L’insegnante è elettricista della relazione:
collega i fili alle radici della Costituzione.
L’insegnante è un allevatore di speranze:
con cura prova ad accorciare le distanze.
L’insegnante è un ricercatore di bisogni:
insegna a tutti a pescare i propri sogni.
L’insegnante preferisce il ponte al muro:
lavora per unire ed è muratore di futuro.
L’insegnante vede il passato, l’oggi, il domani;
non vede studenti. Solo persone: esseri umani!

N.d.r. 5 Ottobre: Giornata Mondiale degli Insegnanti

Il ritorno di Mary Poppins e di Costanza

Oggi torno, vedrò da lontano la mia casa, entrerò dalla porta e ritroverò mia madre, mia sorella, i suoi due figli più piccoli che giocano in cortile. Oggi torno sulle ali del vento come ha sempre fatto Mary Poppins (la protagonista di un libro e un film famosissimi che parlano di una tata sui generis e dei bambini che accudisce). Così canta Bert lo spazzacamino amico di Mary: “ Vento dell’est/la nebbia è là…/Qualcosa di strano/fra poco accadrà./Tempo difficile/capire cos’è…/Ma penso che un’ospite arrivi per me …” Oggi la persona che torna sono io.
Bello assomigliare anche solo vagamente a Mary Poppins quando  arriva con l’ombrello nero aperto, usato come uno striminzito paracadute in grado di muoversi nel vento e di atterrare in maniera perfetta. Un arrivo gradito a Bert, ai bambini Banks, agli abitanti di Viale dei Ciliegi. Davvero bello abitare in un viale che ha il nome di un albero che  fiorisce in maniera spettacolare, dà frutti succosi, dolci e coloratissimi, fornisce ombra, ripara.

Anche io ritroverò un Bert che assomiglia un po’ a quello del film.
Nel film lo spazzacamino Bert è l’amico preferito di Mary Poppins. Quando il tempo è bello, disegna con il gesso ritratti e paesaggi, quando piove vende fiammiferi ed è conosciuto come “L’uomo dei Fiammiferi”. Ogni tanto fa anche lo spazzacamino,  professione per cui è molto amato (dagli altri protagonisti del film/dalle persone reali che lo guadano). Mary Poppins va in giro con Bert nel suo secondo giovedì di riposo. Bert è anche un amico dei bambini Banks e degli altri residenti di Viale dei Ciliegi. Inoltre si prende cura di Albert, lo zio di Mary Poppins, e dà consigli al signor Banks.

Una saga familiare per bambini, divertente, a lieto fine. Una storia che racconta una magia: Mary che arriva col vento dell’Est, sulle ali del vento.
Io non torno in viale dei Ciliegi, torno in via Santoni Rosa. La signora Santoni era una partigiana che aveva un nome di battaglia: Nuvola. Qualcosa di atmosferico c’è comunque, le nuvole stanno in cielo e vengono spostate dal vento.
Il mio Bert si chiama Vittorio, Vito per gli amici. E’ un personaggio qui a Pontalba. I suoi genitori erano di Vicenza. Si è trasferito qui quando aveva dieci anni, solo lui e suo padre, sua madre è rimasta a Vicenza alcolizzata e tristissima. Dopo qualche anno è morta. Credo che per il piccolo Vito sia stata una liberazione. Un conto è pensare una mamma ammalata e trasandata che arranca in qualche città del nord Italia, un altro è pensarla in cielo che cena con gli angeli. Un orfano sereno, il piccolo Vito. Siamo diventati subito amici e lo siamo tutt’ora. Quando mi sono ammalata lui è sempre venuto a trovarmi, anche se ero pallida come un cadavere. Facevo impressione e, proprio per questo, non veniva quasi nessuno a farmi visita. Ma lui non ha avuto paura, ha affrontato quella malattia come se fosse anche un po’ sua e questo è stato per me molto salutare. Veniva al pomeriggio e faceva un po’ di chiacchiere, poi se ne andava. Quando incontrava mia madre le chiedeva sempre come stavo e appena era possibile tornava a trovarmi. Poi sono guarita e abbiamo ricominciato a ridere. E’ una delle specialità di Vito, sa far ridere. Fa imitazione di personaggi locali che sono degne della prima serata di Rai1: la sua vicina di casa, la preside della scuola media, suor Lucrezia,  Mirella. Ridono tutti. Inoltre gesticola, parla a voce alta e continuamente, va a zonzo in bicicletta cantando, a volte parla da solo. Vive da solo. Pulisce tutta la casa da cima a fondo appena può. E’ un patito dell’ordine.
Vito è gay. Non ha un fidanzato, dice che sta bene da solo, che ne ha passate abbastanza, che non riuscirebbe più a condividere le sue giornate con qualcuno. Ormai è abituato così e gli piace così. Ha un orto, una casa grande, un gatto bianco, una bicicletta elettrica e tantissimi cd. E’ un appassionato di musica, Edit Piaf è uno dei suoi miti.

Oggi tornerò a casa sulle ali del vento come sa fare Mary Poppins e porterò una valigia di regali. Dalla mia borsa uscirà quel che piace a loro, alle persone che amo. Per mia madre ci sarà un grande libro pieno di storie fantastiche e misteriose. Per i bambini due biciclette nuove, per Rebecca i roller, per mia sorella un vestito, per mio cognato una tromba, per Vito non so, forse un libro di ricette. Gli piacciono le torte. Tutti ciò uscirà dalla mia borsa esattamente come quando, da quella di Mary, esce un lampadario, un armadio, una bambola, il succo di mirtilli e il suo fantomatico ombrello nero con il manico fatto ad uccello. Chissà se alla mia famiglia piaceranno i miei regali. Secondo me sì, sono i loro desideri annunciati, sono aspettative che diventano realtà.

Il mio di oggi è un ritorno a tutto ciò che è normale, prevedibile, sicuro, accogliente. Un ritorno che sa di favola, eppure è reale.
Oggi aprirò la porta di casa, abbraccerò tutti e rideremo insieme della vicina di casa che mangia caramelle di nascosto, si colora le unghie di rosso, si veste sempre nello stesso modo, parla in maniera velocissima e aspira alcune lettere. Molto facile da imitare, Vito lo sa fare benissimo. Le imitazioni sono una delle sue grandi abilità e ha insegnato anche a me. Hanno accompagnato tutta la nostra infanzia, le facciamo ancora. Vito è magico quasi quanto Bert. Nonostante un’infanzia difficile si può diventare degli adulti responsabili, gentili e coraggiosi, altruisti e pasticcioni. Ha un lavoro, sempre quello da molto tempo, dice che i cambiamenti non gli piacciono, che ama la sua “normale normalità”.
Oggi ritroverò chi mi ha aspettato, dimenticherò per un po’ l’ansia, mi fermerò con loro e ricorderò che le uniche cose importanti della vita sono le persone che ti aspettano sempre, che ti hanno aiutato sempre, che sanno farti ridere perché sono anche un po’ bizzarre e originali, anticonformiste e determinate. Un ritorno speciale. Una giornata limpida e un ombrello nero che fa da paracadute. Un ritorno sulle ali del vento. Sembra una storia, una Mary-Costanza atterra in via Santoni Rosa. Apre la borsa e la magia è già là.
Supercalifragilistichesperiralidoso,supercalifragilistichespiralidoso, supercalifragilistichespiralidoso”.

 

PER CERTI VERSI
A Juliette Greco

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
[Qui]

A JULIETTE GRECO

Non riposare in pace
Non mi interessa
Voglio ancora la tua voce
Rosa nera dei cortili
Musa
Di questa nostra esistenza
Dolce tormentata
Le foglie sono morte
E rinascono
Come la libertà
Che hai strenuamente cantata
Non riposare in pace
Canta
Disturba la nostra indifferenza
Scuotici
Continua
Non finire
Fammi vibrare il tempo
Per l’eterno
Ci sarà tempo

PRESTO DI MATTINA
Quale Riforma per la Chiesa di oggi: ri-dare forma alle relazioni ecclesiali

«La parola non farà che tirarsi dietro altre parole, le frasi altre frasi. Così il mondo intende definitivamente imporsi» (Ingeborg Bachmann, A voi, parole (1961), in Poesie Parma 1978, 155). Un effetto trascinamento, quello descritto da Bachmann, che mi ricorda l’esperienza vissuta dalle donne nella chiesa: salite in cattedra e chiamate a insegnare alle comunità cristiane, esse si sono tirate dietro l’una con l’altra, coinvolgendo le donne altre donne.

Se ne trova conferma aprendo il sito del Coordinamento delle Teologhe Italiane (www.teologhe.org), dove ho trovato l’indicazione di un libro che racconta la storia e l’iconografia del monastero di sant’Anna a Foligno. Vi si narra di un gruppo di donne terziarie francescane che, invece della clausura, scelsero la via della testimonianza del vangelo per le strade della città, accanto alle persone bisognose. Non lasciarono scritti, ma il loro ‘magistero’ fu impresso negli affreschi che commissionarono. Tra questi, emblematico quello che raffigura una inconsueta immagine di Maria bambina che insegna ai dottori nel Tempio e quella del piccolo Gesù che viene circonciso da una donna; come a dire lo stile del loro porsi come discepole di Cristo.

Il CTI valorizza e promuove in prospettiva ecumenica gli ‘studi di genere’ in ambito teologico, biblico, patristico, storico, favorendo la visibilità delle teologhe nel panorama ecclesiale e culturale italiano e sostenendo le donne che desiderano dedicarsi allo studio della teologia. Così ho seguito in streaming le relazioni del recente seminario di coordinamento delle teologhe: Riformare si può, che ha tematizzato la possibilità di un cambiamento di rotta a condizione di “ri-dare forma” alle relazioni ecclesiali. Nessuna riforma dei procedimenti istituzionali potrà mai essere raggiunta infatti se non è preceduta e accompagnata dal rinnovamento della coscienza delle relazioni reciproche tra i cristiani, e se la Chiesa non inizierà a cogliersi anzitutto come luogo di relazioni fraterne e sororali. Ma la conversione della coscienza non basta. Così questa deve avviare pratiche e istituzioni che facilitino tali relazioni: quelle fra chiese locali, tra ministri e laici, uomini e donne, poiché nella simbolica del Corpo di Cristo la chiesa non potrà essere tale a prescindere dalla concretezza dei rapporti e dal coinvolgimento di genere. I cristiani, infatti, sono soggetti organici, collettivi, reali di questo corpo e vivono le loro relazioni in forza di uno spirito comune che anima il corpo e lo rende agente secondo le particolarità di ogni parte. Non già dunque come tante vite semplicemente accostate l’una all’altra, ma generando un’unica indifferenziata esistenza che si distingue – come ci ricorda l’apostolo Paolo alludendo alle membra del Corpo – solo per i diversi doni che lo spirito dona a ciascuno.

La via da percorrere ci viene indicata nel capitolo 18, 1-4 di Matteo, là dove si ricorda un assillo dei Dodici che continua a echeggiare anche oggi nella chiesa: «Chi è il più grande nel Regno dei cieli?». Un interrogativo raggelato dalla risposta di Gesù che, nello spirito del Vangelo, replica: «se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete… chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli». Il vero è infatti che ‘farsi grandi’ costituisce per il cristiano una contraddizione che lo rende incoerente di fronte al vangelo che vuole testimoniare e nell’ambito della Chiesa una malattia mortale, che scardina la comunione ecclesiale e fa ammalare il corpo terreno di Cristo. Così la ricerca della grandezza diventa lo scandalo, l’inciampo di ogni serio tentativo di riforma della realtà ecclesiale. Al contrario il farsi piccoli libera e attiva dinamiche spirituali di crescita, creando la premessa paritetica di una reale osmosi (Cfr. Nicoletta Gatti, Perché il «piccolo» diventi «fratello»: la pedagogia del dialogo nel cap. 18 di Matteo, Tesi Gregoriana PUG, Roma 2007).

Come quella volta che dalla ferita del costato trafitto del crocifisso, il suo essere diventato il più piccolo di tutti, scaturirono sangue ed acqua, simbolo del battesimo e dell’eucaristia che determinarono la nascita della chiesa, così anche oggi la rinascita della chiesa chiede un’altra ferita: una ferità d’umiltà. Ce lo ricorda un testo poetico di Agostino Venanzio Reali, che fa luce sui differenti atteggiamenti e pratiche invalsi tra i cristiani: taluni generativi di un disamore disgregante proteso verso il nulla; altri, scaturiti da una “ferità d’umiltà”, e quindi capaci di rompere il cerchio del clericalismo e del maschilismo ecclesiale, che mortificano e frenano la costituzione del popolo di Dio attraverso l’unica e autentica dignità di cui vantarsi, quella derivante dal battesimo, generativa di sororità e fraternità: «C’è chi bruca il fior di loto,/ chi la morte chi il nulla./ C’è chi tenta imporre limiti,/ i propri, all’infinito./ C’è chi approda al buio silenzio,/ alla fine assoluta./ Pochi ormeggiano se stessi/ alla roccia di Cristo,/ perché pochi amano/ la ferita d’umiltà./ E tu avresti per tutti/ luce e calore. Aiutaci/ a rompere il cerchio/ del nostro disamore» (Primaneve, Castel Maggiore BO 2002, 87).

Ri-formarsi deve essere dunque una prassi costante se si vuole continuare a vivere anche per la Chiesa; essa non ha mai stata un’identità statica, monolitica, e la fede non si è mai identificata con un modello di società, di cultura; incarnandosi in esse ha poi saputo andare oltre, facendo tesoro di quanto recepito e vissuto, così come accade nelle età della vita di una persona e nello sviluppo di una società che si evolvono. La forza che ha permesso alla chiesa di non identificarsi o sottostare a imperativi ideologici, a classificazioni culturali, a modelli sociali del passato sono stati lo spirito e l’evento conciliari (Ad gentes 22); oggi l’invito ci viene dall’esortazione apostolica Evangelii Gaudium che costituisce l’avvio di un processo di riforma della mentalità e delle prassi ecclesiali nelle relazioni ad intra e ad extra della chiesa.

In particolare il concilio Vaticano II – non diversamente da quanto sta provando a fare anche papa Francesco – ha messo un freno al clericalismo, che riduce l’azione della chiesa a ciò che possono fare solo i “chierici”, generando così una frattura nel popolo di Dio con i laici. Provoca grande danno la convinzione di molti “clerici” che tutto ciò che è essenziale per la vita della chiesa sia posto nelle loro mani. Il risultato è una chiesa suddivisa in docenti e ‘discenti’, con i primi resi miopi e autoreferenziali dal compito del ‘dare’, e inconsapevoli delle preziosità che potrebbero ‘ricevere’ e generarsi da ogni vita di fede. È proprio per scongiurare questo rischio che il Concilio ha voluto recuperare la categoria di popolo di Dio, e con ciò la massima dignità di tutti i battezzati, indicando chiaramente nella reciprocità di tutti i ministeri – al modo della diversità delle membra di un corpo – la struttura portante della Chiesa: nella quale anche il ministero ordinato deve essere al servizio, e non in posizione di potere, rispetto al ‘sacerdozio comune’, cui sono chiamati tutti indistintamente i fedeli in ragione del loro battesimo.

Non meno dannoso, per la chiesa, e poi il maschilismo che la pervade, tanto più quando ne vengono sacralizzate le dinamiche. Eppure, Gesù seppe vivere la sua mascolinità senza generare maschilismo, come esperienza umana parziale, non ponendosi in una posizione dominante, ideologica, ‘onnipotente’ rispetto all’altro che incontrava – donne, bambini, emarginati, ammalati, stranieri; accogliendoli come un dono, compagni di viaggio, compagnia del Regno che non si impone ma viene fiducioso come il granello di senape e il lievito nella pasta. Rifuggendo da ogni logica di dominio lo stile di Gesù fu quello farsi da parte, farsi piccolo, riaprendo spazi all’altro, ri-dandogli la parola, la vista, il cammino, la liberazione dal male; così facendo, non andarono perdute la dignità e la grazia racchiuse nei piccoli presi da lui a immagine del Regno dei cieli e a modello per i discepoli. Basta leggere il vangelo per cogliere quanto dirompente sia stata, per l’epoca, l’azione di contrasto ed educativa esercitata da Gesù verso la mentalità discriminante dell’epoca, presente nei suoi stessi discepoli e quanto esplicita fosse stata la volontà di conferire pari dignità alle donne che incontrava: fermandosi, parlando con loro e ricevendo dalla loro stessa fede e cura, una comprensione più ampia di se stesso, della sua umanità e missione e della prossimità di Dio, tanto da esultare di gioia nello Spirito santo. (Lc 10,21)

Serena Noceti docente di ecclesiologia in un incontro a Ferrara ci aveva ricordato che «il processo di riforma si svolge a tre livelli: quello dell’autocoscienza collettiva (una conversione condivisa nel modo di guardare la realtà); quello del cambiamento dello stile interno, delle modalità delle relazioni e della figura esterna (cosa viene percepito); quello delle modifiche strutturali, organizzative. Non si tratta di dedurre da un’idea forme e strutture. Ciò che fa sorgere la riforma è la discrepanza tra le strutture esistenti e i desideri dei soggetti; tra ciò che viene detto e ciò che viene fatto; tra le strutture formali e quelle informali. Quando la discrepanza diventa evidente, la riforma diviene possibile».

E questo può avvenire non a partire da un’idea e men che meno da una teoria, ma attraverso l’elaborazione e la proposta di narrazioni di storie vissute che evochino esperienze significative, già praticate o almeno desiderate. Storie narrate in una molteplicità di forme, capaci di intercettare le diversità che si incrociano sulla soglia o sul confine ecclesiale, rese visibili da ‘testimoni narranti’, i cui racconti siano capaci di innescare non tanto un pensare comune quanto una vita comune, vissuta insieme a partire da quelle storie esistenziali: «Storie – direbbe Serena Noceti – non assertive ma performative, che fanno quello che dicono, ovvero in grado di attivare delle dinamiche e dei processi». Così ho pensato ad una storia di sinodalità: Polenta conviviale. Un racconto africano narrato da don Alberto Dioli quando era missionario in Congo. È il racconto di una vecchia tartaruga che riuscì a superare, là dove i grandi animali della foresta avevano fallito, con stile sinodale, le prove che Dio aveva richiesto per darle in sposa la figlia.

«Tanto tempo fa Dio viveva con gli uomini sue creature. Egli aveva una figlia molto bella e volle darla in moglie a qualcuno che fosse degno di lei. Egli disse: colui che riuscirà a cucire questo vestito lungo 300 metri sposerà mia figlia. L’elefante si presentò per primo e ricevette da Dio una lunga pezza di stoffa. Si mise al lavoro immediatamente. Ma non aveva ancora terminato i primi tre metri che si scoraggiò, abbandonò il lavoro e partì senza neppure prendere congedo. Il leone pretese di riuscire, ma non fece meglio dell’elefante. Arrivarono gli altri animali della foresta, ma non ebbero migliore fortuna. Una vecchia tartaruga, informata della disavventura toccata ai suoi fratelli animali, disse: “Che posso fare per sposare questa bella ragazza?”. Dopo aver riflettuto a lungo prese un grosso recipiente, vi nascose dentro 299 tartarughe, lo richiuse con diligenza e si mise in viaggio. Strada facendo incontrò il vecchio elefante. “Dove vai figliolo?” chiese l’elefante. “Caro padre, rispose la tartaruga, ho saputo che Dio ha una bella figlia da maritare e io vorrei essere il fortunato che la sposa”. L’elefante rise di gusto: “Abbiamo fallito noi grandi e forti, riuscirai tu piccolo come sei?”. Rispose la tartaruga: “Non rinuncerò prima di aver tentato!” … E continuò il suo viaggio verso il villaggio dove Dio abitava. Anche gli uomini, avendo saputo lo scopo del suo andare, fecero i loro commenti definendo la tartaruga: animale stolto e presuntuoso. Quella sera ebbe da mangiare e da dormire. La mattina dopo Dio le diede la pezza di stoffa di 300 metri. Allora essa distribuì le tartarughe lungo i 300 metri e a ciascuna assegnò ago, filo e … un metro di lavoro da fare. Cucirono, cucirono talmente bene e senza rumore che prima del tempo stabilito il lavoro era finito e la gente credeva che la tartaruga avesse fatto tutto da sola. L’animale trionfante portò allora il lungo vestito a Dio, tra la meraviglia generale. Dio allora diede ordine di uccidere 300 galline e di preparare 300 piatti di bugali (il bugali è una specie di polenta fatta con farina di manioca e tiene il posto del nostro pane alla mensa dell’africano). Quando tutto fu pronto disse che la tartaruga doveva mangiare tutto quel cibo nello spazio di un’ora, altrimenti non avrebbe visto la sposa. La tartaruga distribuì ancora il cibo tra le sue 299 compagne e dopo mezz’ora il bugali era finito. Dio allora diede alla tartaruga la bella figlia come sposa e per tre giorni e tre notti la foresta risuonò di canti e di suoni di festa. Insegnamento: anche i piccoli e gli ultimi possono riuscire … se stanno uniti».

PAROLE A CAPO
Roberto Paltrinieri: “Ulisse” e altre poesie

“La poesia, il sublime mezzo per il quale la parola conquista lo spazio a lei necessario.”
(Stéphane Mallarmé)

 

LA DANZA DEI MESI PERDUTI

Ballano visi luminosi
la danza dei mesi perduti
tornati a riprendersi
il tempo passato
Li vedo dai vetri di scuola
ascoltare voci appena gridate
mentre arrivano
insieme ad acri profumi
sorrisi d’incanto
quasi accennati
gettarsi giù dalle scale
in una corsa sfrenata
per scappare più in fretta
inseguiti
dalla Vita

 

I FIGLI

Nuovi soli
nuove lune
sono i figli
Mai andati via
mai stati qua
Portati dentro
come fragili sogni velati
perduti fuori
nell’ illusione faticosa
del nostro desiderio
Quasi scomparsi
appesi al seno della Vita
riconosciamo
commossi
tracce del nostro profilo
nella loro andatura

  

SUL FILO

Non ci sono
nel mio domani
giorni sempre uguali
ma improvvisi
salti mortali
Cammino ancora
sul filo tirato
nel vuoto profondo
dondolandomi
come un bimbo
a cavalcioni del mondo

 

ULISSE 

Sono in viaggio
oramai da tanto tempo.
Dentro di me
ho visitato città
attraversato mari lontani
conosciuto gente la più diversa.
Adesso sono stanco
Vorrei un porto dove fermare
la mia anima.
Vorrei scendere a terra
Non so se ritroverò la via di casa
La casa non è un posto
è un destino
E il destino
nessuno lo conosce
neppure gli dei
Ma è tutto ciò che ho

Roberto Paltrinieri (1958), docente di scuola superiore a Ferrara, collabora con Ferraraitalia scrivendo articoli di ordine filosofico-sociale e da oggi… con le sue poesie.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. 
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C’era una volta: XX Settembre 1870

Sarà il 150° ma mi sembra ci sia una maggiore attenzione della stampa alla ricorrenza del 20 Settembre 1870: fine del potere temporale dei Papi e del regno più antico d’Europa. Festa nazionale fino al 1930, è sostituita dalla festa per i Patti lateranensi l’11 febbraio, ora solo una celebrazione civile. Il 20 settembre non è nulla. Forse meglio così.

Mi è piaciuta la scelta di Radio 3. Ha affidato allo storico Vittorio Vidotto il racconto della cronaca della giornata a partire dalle 6 del mattino fino alla tarda serata, con aggiornamenti nei diversi orari.

Tra i tanti articoli, speciali e supplementi segnalo due interventi di padre Sale su la Civiltà cattolica. In essi tratta la fine del potere temporale dei papi e la festa, poi abolita, della presa di Roma. Fino all’ultimo il Papa appare convinto che l’occupazione di Roma non ci sarà. La caduta del regno pontificio, l’umiliazione del Papa ha un impatto durevole nella coscienza dei cattolici osservanti. La situazione è sanata solo con il Concordato del 1929. La festa, nella data non casuale dell’11 febbraio, sostituisce quella del 20 Settembre proclamata da Francesco Crispi nel 1895.

Vi sono osservazioni interessanti sull’uso politico delle festività civili/religiose nel tempo. L’abolizione delle due “opposte” feste del 20 settembre e dell’11 febbraio riaffermerebbe il carattere laico dello Stato. Aggiungo solo che mantengo un’idea della laicità un po’ più ampia.

Proprio la permanenza del Concordato, pur con i correttivi apportati, resta un ostacolo alla miglior convivenza di aderenti a religioni diverse o a nessuna. Del resto l’omaggio della Chiesa al Duce, nell’occasione proclamato “Uomo della Provvidenza”, ci dice molto del legame tra regimi autoritari. Un legame ancor oggi letale in Europa e fuori. La data voluta per la firma l’11 febbraio è la stessa dell’apparizione a Lourdes. Nel 1858 la Madonna in persona conferma “Io sono l’Immacolata Concezione”, il dogma da Pio IX proclamato l’8 dicembre 1854.

Il 25 marzo del 1861 Cavour ricorda che senza Roma capitale l’Italia non si può costituire e la Camera impegna il Governo a riunire Roma al resto del Paese. Cavour muore il 6 giugno e tempestivamente la Civiltà Cattolica si rallegra della scomparsa dell’artefice massimo della sventura d’Italia: “egli stava per istendere la mano a quella Città fatale… Ed ecco che quella mano già da un mese è inaridita!”. Il Papa dal canto suo si prepara ai tempi nuovi con l’enciclica Quanta cura e il Sillabo contro tutto il progresso umano e la libertà di coscienza (1864), e facendosi proclamare infallibile dal Concilio Vaticano il 18 luglio 1870. Deve avere anche fatto almeno un miracolo visto che è stato beatificato da Giovanni Paolo II.

In una cosa certamente si sbagliavano, reazionari e democratici: a proposito del potere della scuola per l’emancipazione della popolazione, dai primi temuta e dai secondi auspicata. Pio IX scrive a Vittorio Emanuele II, 3 gennaio 1870, “per pregarla a fare tutto quello che può affine di allontanare un altro flagello, e cioè una legge progettata, per quanto si dice, relativa alla istruzione obbligatoria. Questa legge parmi ordinata ad abbattere totalmente le scuole cattoliche e soprattutto i Seminari. Oh quanto è fiera la guerra che si fa alla Religione di Gesù Cristo! Spero dunque che la V. M. farà sì che in questa parte almeno, la Chiesa sia risparmiata. Faccia quello che può, Maestà, e vedrà che Iddio avrà pietà di Lei. Vi abbraccio nel Signore”.

Allora l’analfabetismo in Italia sfiorava l’80%. Ora è debellato. A tutti la scuola insegna a leggere, scrivere, fare di conto. Tuttavia, secondo ricerche internazionali, solo il 20% della popolazione adulta italiana possiede gli strumenti indispensabili per orientarsi con efficacia e in modo autonomo nella vita di tutti i giorni. Il restante 80% se sa leggere e scrivere lo fa con difficoltà e solo per brevi elaborati, ha difficoltà nell’analisi di un grafico o addirittura non sa fare niente di tutto ciò. Lo constatiamo quotidianamente. Masse adoranti, composte non solo di analfabeti funzionali, seguono le peregrinazioni elettorali della coppia Giorgia e Matteo, come, nella mia giovinezza, quelle della Madonna pellegrina. Il confronto me le fa quasi rimpiangere.

La scuola pubblica non ha imparato la lezione di una pluriclasse condotta dal prete Lorenzo Milani.

So che il tema della laicità è proposto da ristrette minoranze e che la struttura dei rapporti con la Chiesa resta quello fissato dal fascismo. Quindi occorre insistere. Ma se c’è un elemento che caratterizza questo tempo è l’incremento della diseguaglianza, mentre ci sarebbero i mezzi per assicurare esistenza libera e dignitosa, sempre più largamente. Invece non si fa la guerra alla povertà, ma ai poveri. A denunciarlo con forza, a indicarne le cause, a prospettare vie d’uscita non vedo esponenti politici particolarmente impegnati. Il fallimento dell’esperienza “comunista” ne ha visto la maggior parte ripetere come un mantra TINA (There is no alternative). L’ordoliberismo è accolto con entusiasmo o rassegnazione. Dopo Abolire la miseria di Ernesto Rossi non ho visto avanzare alcuna proposta seria al riguardo. Contro la società dello scarto si alza invece la voce di Papa Francesco, che non rimanda al giudizio universale l’esigenza di giustizia e libertà.

Con questi pensieri, anche quest’anno, sono andato alla collocazione della corona d’alloro alla lapide che a Ferrara ricorda la data. Da anni la promuove Mario Zamorani. È un’occasione per incontrare persone care. C’è pure mia figlia. Sento, non solo io, l’immenso vuoto lasciato dal carissimo Davide Mantovani, storico del Risorgimento e compagno dai banchi del Liceo. Sento pure la sua sottile presenza. L’amico Luigi Pepe conclude, con parole che condivido, un breve e incisivo scritto per la ricorrenza Porta Pia 150 anni dopo. “Oggi, dopo il Concilio Vaticano II – con questa Civiltà cattolica e con questo Papa, aggiungo io – sembra essere venuto il momento della condivisione di obiettivi comuni di pace e di amicizia, tra persone di diverse fedi e posizioni politiche. Non lasciamoci sopraffare dalle nuove istanze autoritarie che vogliono dividerci per dominarci. Non prevalebunt”. We are the 99%, siamo il 99%, siamone consapevoli.

Questo articolo è apparso con altro titolo anche sull’edizione in rete della storica rivista del Movimento Nonviolento [www.azionenonviolenta.it]

Cover: Breccia di Porta Pia, 20 settembre 1870 (Wikipedia Commomns)

MICROFESTIVAL DELLE STORIE
A Polesella incontro con Giulia Cuter e Giulia Perona autrici di ‘Le ragazze stanno bene’

Microfestival delle storie: incontro con Giulia Cuter e Giulia Perona autrici di Le ragazze stanno bene. Tra gli eventi in calendario, anche laboratori per bambini e C’era una volta la fossa Polesella

Voci di donne giovani, libri, street art e visite al territorio per un altro fine settimana con il Microfestival delle storie. Sabato 3 e domenica 4 ottobre, a Polesella il programma degli eventi abbraccia tutte le fasce d’età: i più piccoli potranno creare un parco di sciarpe con la tecnica del ‘yarn bombing’ (sabato 3 ottobre alle 15, giardini della Fossa in via Gramsci), mentre gli adulti potranno assistere alla presentazione del libro Le ragazze stanno bene (edizioni HerperCollins) di Giulia Perona e Giulia Cuter che, alle 17.30, in sala Agostiniani dialogheranno con Giorgia Brandolese. Domenica 4 ottobre alle 10, da via Gramsci, partirà in bicicletta la visita, guidata dall’associazione Polesella cultura e territorio, alla scoperta del centro storico e della sua conformazione urbanistica mutata nel tempo.

Scheda degli eventi

Un parco di sciarpe sabato 3 ottobre dalle 15, giardini della Fossa via Gramsci. Attraverso la scoperta dello yarn bombing come particolare tecnica di street art, capace di mettere insieme tradizione, genio e colore, bambini e genitori avranno a disposizione un parco nel quale scegliere il proprio albero di riferimento e decorarlo utilizzando semplicemente forbici, vecchi gomitoli di lana, le mani e la fantasia. Adulti e bambini andranno a caccia dei giusti colori e abbinamenti per rendere ancora più speciale l’albero del quale si prenderanno cura; impareranno a riconoscerne la specie e, a fine giornata, sapranno darle un nome.

Prenotazione per il laboratorio Un parco di sciarpe:
https://www.eventbrite.it/e/biglietti-un-parco-di-sciarpe-121500985719?fbclid=IwAR2fhz4eeaM0gL8w2e0xQMXWDkLNJJms01Tb3hxjc4fyJT_LDlgSq4Grme8

Le ragazze stanno bene con Giulia Cuter e Giulia Perona, sabato alle 17.30 in sala agostiniani, evento in presenza con le autrici e Giorgia Brandolese. Sinossi del libro: Le ragazze contemporanee non vogliono più essere le spose sottomesse degli anni Cinquanta, tutte casa, cucina e marito, ma nemmeno le femministe arrabbiate degli anni Settanta, con i loro falò di reggiseni e l’odio per i maschi. Ci sono invece molte altre cose che le ragazze contemporanee sono già: donne in carriera, politiche impegnate, esseri umani indipendenti nella gestione del proprio corpo e della propria vita sentimentale e sessuale. Come non rimanere prigioniere dell’uno o dell’altro modello? È possibile, oggi, non rinunciare al femminismo ma nemmeno alla femminilità? Ripercorrendo alcune fra le prime volte più significative nella vita di ogni bambina, ragazza e infine donna, le autrici, creatrici del podcast Senza rossetto, dipingono un mondo e un momento storico, il nostro, in cui le questioni ‘femministe’ sono diventate ormai quotidiane, e non si deve più temere di non esserne all’altezza.

Prenotazione per la presentazione de Le ragazze stanno bene:
https://www.eventbrite.it/e/biglietti-giulia-cuter-giulia-perona-microfestival-delle-storie-121501657729?fbclid=IwAR2COKMmPBSyzvVJ7p-gEsa-v6irPijDH-HlnGUWInYL7ZDyZhg0D-u2Bt4

C’era una volta la fossa Polesella, domenica 4 ottobre alle 10 da via Gramsci, ritrovo gelateria Polo nord. Aggirandosi nel centro storico di Polesella, è impossibile non cogliere una insolita conformazione urbanistica disposta su più livelli altimetrici. Quale sarà il motivo? Forse non molti sanno che Polesella era attraversata sino al 1951 da un’importante via di comunicazione fluviale, la Fossa di Polesella, che metteva in comunicazione il Po con il Canalbianco. Oggi che fine ha fatto? Perché non esiste più e cosa c’è al suo posto? Queste e molte altre domande potranno trovare una risposta durante la visita guidata nel centro storico del paese.

Prenotazioni per la visita C’era una volta Polesella:
https://www.eventbrite.it/e/biglietti-cera-una-volta-la-fossa-polesella-121504961611
Il programma completo degli eventi del Microfestival di ottobre su www.microfestivaldellestorie.it
Per informazioni: microfestivaldellestorie@gmail.com, messenger: microfestival delle storie.

Vite di carta /
Ancora maschere (e mascherine)

Vite di carta. Ancora maschere (e mascherine)

Ci ho proprio azzeccato. Come lettrice, intendo. Sono arrivata a pagina 290 del romanzo di Sandro Veronesi Il colibrì ed è rispuntato fuori il personaggio carsico di Duccio Chilleri: vestito di un abito nero piuttosto malandato, col volto pieno di grinze e i denti gialli, con la schiena curva e l’aspetto complessivo di un vecchio.

Nel numero scorso dicevo di questo personaggio che mi ricorda Rosario Chiarchiaro, il protagonista de La patente, novella e atto unico di Pirandello. Entrambi portatori di iella. Questo Duccio rispunta fuori, dicevo, e ammette di essere  diventato uno iettatore di mestiere, proprio come Rosario. Di averlo fatto per poter sopravvivere al disdoro generale e poter guadagnare, portando iella a pagamento. Come Rosario.

Poi nelle pagine  finali del romanzo ho trovato l’elenco delle citazioni e dei rimandi ad altri testi; di solito si chiamano Ringraziamenti ma Veronesi, che li svela con piacere (il piacere di mostrarsi in qualità di lettore), li definisce Debiti.

E’ stato come consultare le soluzioni che sulla Settimana enigmistica sono stampate in fondo al giornaletto e bisogna rovesciare le ultime pagine per leggerle. Mi sono sentita confortata per averci visto giusto a mettere in coppia Duccio e Rosario. Sì, ma quanti altri rimandi non ho colto.

Capisco ogni volta di più che il ruolo del lettore dà molto da fare, soprattutto quando l’autore, come in questo caso, spazia tra i libri di un universo letterario di grande spessore. Viene fuori alla fine che ha consapevolmente intrecciato alle sue alcune figure e situazioni di altre galassie narrative. Come piacerebbe a Calvino, ha incrociato i destini di personaggi provenienti da libri diversi. Non a caso il suo protagonista, ‘il colibrì’ Marco Carrera, è un abile giocatore di carte!

Quello che mi preme qui richiamare è il peso della ‘maschera’ che portano addosso i due iettatori, una ‘maschera-destino’, che essi incamerano per sopravvivere.

Mercoledì scorso al mercato del mio paese ho visto moltissimi di noi indossarne una, una ‘mascherina’ devo dire; io stessa esibivo quella chirurgica che dal lato esterno è azzurra. Inoltre sui banchi di molti venditori erano in bella mostra altri modelli di mascherine anti Covid leggere e colorate.

Ho cominciato a percepire quanto rendessero diverso il paesaggio della piazza. Mascherine ovunque, in movimento sui volti delle persone, oppure ferme in esposizione, in attesa di essere acquistate. In un banco accanto al settore per adulti ho notato tutto un repertorio di mascherine per bambini, una buona prova di astuzia commerciale e fantasia. C’erano infiniti colori e disegni sui piccoli rettangoli di stoffa, ‘lavabile’ diceva una cartello; c’erano i personaggi dei cartoni animati che i bambini seguono sui cellulari, sui tablet o alla tv.

La mascherina come parte del nostro look. Mi viene in mente la foto che agli inizi dell’estate circolava sui social e mostrava ‘il trikini’: un coordinato per la spiaggia formato dal classico due  pezzi più un terzo pezzo, la mascherina. Dobbiamo riconoscere che, associata così all’idea di bellezza e di glamour, essa porta con sé un significato più leggero, allude a qualcosa che ci viene dato in termini di immagine e non a ciò che il Covid ci ha fin qui tolto: sicurezza, libertà e altri paroloni.

L’immagine che diamo di noi stessi, però, va incontro ai suoi rischi.
Diciamo che incontrando la gente del paese mercoledì ho visto tre diverse reazioni.

C’è chi ti riconosce al primo sguardo e ti apostrofa con sicurezza, come se la mascherina non costituisse un paravento, ma un biglietto da visita. Come fosse un fattore che aumenta la leggibilità della tua persona. Come farà? Saprà riconoscere i gesti o i vestiti, la corporatura, i capelli. Io credo che il portamento sia ciò che ci svela.

Il secondo modo di incontrarsi è invece indeciso. Ci si guarda e si accenna a proseguire, poi quando la distanza interpersonale (che veniva chiamata “sociale” durante il lokdown) diventa quella giusta, le battute da una parte e dall’altra sono più o meno queste: “Ah, scusa, sei tu. Mi pareva, ma poi non ero sicura”. “Anch’io ti guardavo, ma con queste mascherine non si conosce più nessuno”.

Il terzo è presto detto: vedi la persona che ti conosce evitare il tuo sguardo e, complice una leggera distanza da te, accelerare il passo. Non ti ha proprio vista. Oppure sa che per colpa della mascherina sei meno in evidenza nel suo raggio visivo e questo costituisce una scusante, è un piccolo alibi che le permette di tirare diritto.

Letteratura vieni avanti. Porta i tuoi personaggi di carta, i Chiàrchiaro e i Chilleri, con le maschere che sono state stampate sul loro volto. Ci è utile osservarli e chiederci se un analogo destino riguarda anche noi. Ma certo, mi sento di rispondere. Chiàrchiaro è uscito dalla penna del suo autore nel 1911, Chilleri dopo oltre un secolo nel 2019 e ci ha trovati ancora affezionati ai pregiudizi, alle opinioni comode, che è faticoso mettere in discussione.

Nel numero 12 del 26 settembre il quotidiano Domani  apre la prima pagina con l’articolo La legge del più forte: omofobia in presa diretta, firmato da Jonathan Bazzi, uno degli autori finalisti all’ultimo Premio Strega col romanzo Febbre.

Dopo aver riportato l’ennesimo episodio di omofobia ai danni del suo compagno, Bazzi afferma di avere provato anche sulla propria pelle che “la cultura omotransfobica è rigogliosa e trasversale, gode di ottima salute”,  per cui “i corpi dei non allineati sono esposti ai sinistri di un sistema che si ritrova ovunque”, anche nelle strade di Milano nel 2020, dove il suo compagno è stato pesantemente insultato da un gruppo di adulti. L’auspicio, con cui chiude l’articolo, è che in Italia si arrivi presto a una legge contro misoginia e omotransfobia che ponga le basi per “una ristrutturazione culturale ed emotiva del paese”.

Se ora torniamo alle mascherine al mercato del mio paese, senza dimenticare gli effetti drammatici di cui parla Bazzi, è per cercare di stare al gioco e chiederci dove ci conduce l’indossarle quando siamo nel mondo. Caso numero uno: dicevo che siamo subito riconosciuti e apostrofati. La mascherina sembra non influire nel “gioco delle parti”; rimaniamo quelli di prima (con la maschera legata all’idea che gli altri si sono fatti di noi, alla ‘forma’ che ci assegnano, naturalmente!) e l’esserci coperti il volto col nero oppure con altri colori resta un fatto di look.

Caso numero due: c’è indecisione nel reciproco riconoscimento. In questo caso la combinazione di maschere e mascherine si complica, perché sotto la mascherina che ognuno di noi vede nell’altro ci possono essere due individui diversi, con la forma che è stata loro assegnata da prima. Viene almeno raddoppiato l’ ‘effetto spiedo’ (io lo chiamo così) con cui infilzo l’individuo che a prima vista non riconosco, dotato di una forma che ancora non gli ho assegnato se non in un primo veloce abbozzo, e l’individuo che dopo un attimo metto a fuoco, la cui forma viene subito fuori e si aggiunge alla sua immagine di ora.

Ultimo caso: siamo riconosciuti ma bypassati. Il gioco delle parti trionfa: se ti va puoi contare tutte le possibili combinazioni. L’altro non ti ha riconosciuto e ha tirato diritto, segno che la tua forma ti ha nascosto (merito della mascherina?), azzerandoti per lui. E tu che idea ti fai di lui sulla base di questo comportamento? L’altro ti ha riconosciuto e tuttavia ha tirato diritto, segno che in questo momento non vuole saperne di te, oppure per problemi suoi non riesce a fermarsi per un saluto. Se non vuole saperne di te, domandati in che cosa la tua forma lo ha respinto. Se invece ha problemi suoi, devi riconsiderare la forma che tu gli hai assegnato, e arricchirla o confermarla alla luce del comportamento di oggi.

Possiamo fermarci qui. Il gioco si è fatto cerebrale, come Pirandello insegna. Tuttavia è un gioco e non può che stuzzicare i nostri pensieri, affascinarli con la possibilità così ampia delle combinazioni.
Un ultimo pensiero mi attraversa: se mercoledì prossimo indossassi ‘una mascherina non allineata’, per esempio con colori sgargianti e piume svolazzanti ai lati, quale terremoto si produrrebbe nello scacchiere delle mie relazioni con le altre persone presenti al mercato?
Rispondere cercando la/e soluzione/i nelle righe precedenti o aggiungerne di proprie.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

VOTI A PERDERE, COME TE LI RICICLO

“«Come fate a parlare con tanta calma, dopo essere andato con la testa in un fosso?» domandò Alice mentre lo trascinava per i piedi e lo stendeva su un monticello di terra accanto alla riva. Il Cavaliere sembrò sorpreso per questa domanda. «Che importa dove si trova il mio corpo? – egli disse. – L’importante è che la mia mente lavori lo stesso. Anzi, più volte vado a testa in giù e più invento nuove cose»”. È Lewis Carroll, Nel mondo dello specchio.

Evidentemente noi stiamo sempre ben ritti sulle nostre zampe di bipedi, perché siamo speciali nel rincorrere il già visto, l’usato sicuro.

L’ultima performance del gattopardesco genio italico riguarda i voti a scuola. In tempi in cui l’ibrido è tornato di moda anche nella didattica, ecco che ti scopro l’ibrido docimologico: voti numerici a metà anno, giudizi alla sua conclusione.
Per cui, se qualcuno s’era mai illuso di una svolta storica compiuta da grilli parlanti e pdiessini in sonno, ha dovuto immediatamente scuotersi dalla meraviglia, perché la promessa abolizione dei voti nella scuola primaria dei bambini dai sei ai dieci anni, era solo una ‘sola’. Uno zelante consigliere della ministra ha fatto presente che il decreto con cui  si sarebbe dovuto celebrare il funerale della valutazione numerica, almeno per i più piccoli, altro non era che una farsa affidata al sofistico burocratese dei nostri azzeccagarbugli. Sì, perché la legge con la quale sono stati introdotti, al posto dei numeri, giudizi disciplina per disciplina recita: “valutazione finale”. Capirai, stabilire quando la valutazione inizia e quando finisce è oggetto di speculazione filosofica per il ministero dell’istruzione, così poiché, come ci hanno insegnato i nostri padri latini, in aurea mediocritas, il gioco è fatto: voti e giudizi convivono, per non smentire la prassi della scuola italiana, esperta nel tenere insieme antico e moderno  in modo da non cambiare nulla.

In un’epoca ormai lontana nel tempo, correva l’anno 1977 del secolo scorso, per mano di una ministra dell’allora aborrita Democrazia Cristiana i voti erano stati aboliti. Anni di fermenti pedagogici quelli, che con i decenni a venire andranno esaurendosi, sempre più ostacolati  e aggrediti da striscianti controriforme. Quel provvedimento di legge nasceva sulla spinta di maestre e maestri aderenti al Movimento di Cooperazione Educativa che si rifiutavano di dare i voti e di compilare le pagelle.

Leggere Freinet, prendere in mano i libri di Mario Lodi e di Bruno Ciari non avrebbe guastato alla cultura dei ministri che si sono succeduti alla guida del dicastero della Pubblica Istruzione, recentemente divenuto dell’Istruzione Nazionale, con un infelice retrogusto da regime.
Se fossimo in grado di stare ogni tanto a testa in giù come il cavaliere di Alice, forse ci renderemmo conto che non c’è niente di più stupido dei voti. Il compito di quei numeri dallo zero al dieci dovrebbe consistere nel misurare il sapere, alunno per alunno, come il metro di un sarto.

Voglio proporvi la conversazione che Gregory Bateson intrattiene con sua figlia, una bambina delle scuole elementari.

Prende l’avvio dalla domanda che la figlia rivolge al papà: – Papà, quante cose sai? –
La prima risposta va a peso: – ..so circa un chilo di cose… –
La ragazza ribadisce che gli ha chiesto per davvero quante cose sa, vuole, dunque, un calcolo numerico.
Il papà replica: -..il mio cervello pesa circa un chilo e penso di usarne circa un quarto…Quindi diciamo due etti e mezzo.
La ragazza incalza: – Ma tu sai più cose del papà di Johnny? Sai più cose di me? –

Bateson racconta: ” […] una volta conoscevo un ragazzino in Inghilterra che chiese a suo padre: “I padri sanno sempre più cose dei figli?” e il padre rispose: “Sì”. Poi il ragazzino chiese : “Papà chi ha inventato la macchina a vapore?” e il padre: “James Watt”. E allora il figlio gli ribatté: “Ma perché non l’ha inventata il padre di James Watt?”.
Il papà fa osservare alla figlia: -…che il sapere è tutto intrecciato insieme, o intessuto, come una stoffa, e ciascun pezzo di sapere è significativo o utile solo in virtù degli altri pezzi,…-

Questa osservazione che è già stata di Goethe, il famoso telaio, porta la bambina a osservare che allora se il sapere è una stoffa non si potrà contare ma si può però misurare in metri! Bateson osserva che ci sono diversi generi di sapere e che questo sistema di misurare il sapere non consente certo di misurare ‘il sapere sul sapere’. Perché non si possono mescolare i pensieri. Il sapere non si può contare, perché contare è aggiungere semplicemente una cosa all’altra. E per i pensieri come per il sapere questo non lo si può fare assolutamente.

Misurare il sapere è dunque come voler riempire d’acqua un secchio bucato. Pretendere poi di misurarlo nelle bambine e nei bambini è una delle tante violenze perpetrate dalla divisione in graduatorie e dalla smania di gara della società degli adulti, quella stessa che porta i genitori a litigare alle partite di calcio dei loro figlioli.

Ci dovremmo preoccupare che a cinquant’anni di distanza stiamo ancora a discutere delle cose di ieri, dell’involuzione che ci separa da allora. Nel 1974 Mario Lodi pubblica Insieme. Giornale di una quinta elementare. Scrive nell’introduzione: “ In questi ultimi anni molti educatori sono passati dalla critica al libro di testo al rifiuto della sua adozione e del suo uso. Con questo atto responsabile hanno quindi rifiutato anche il metodo della scuola autoritaria selettiva fondata sulla lezione da studiare e da ripetere, sul voto e sulla bocciatura. Si sono perciò impegnati a realizzare , all’interno della scuola ufficiale, una scuola diversa che valorizzi il patrimonio ora sprecato delle capacità individuali da utilizzare per sé e per gli altri, contrapponendo all’individualismo egoistico e quindi alla competitività  della scuola e della società attuale, i valori che dovrebbero essere alla base di una società nuova, umana.”

Non è poi necessario mettersi a testa in giù come il cavaliere di Alice, c’è qualcuno che l’ha già fatto per noi, cercando di guardare alla scuola da un’altra prospettiva. Invece dovremmo vergognarci, questo sì,  non solo di aver rubato il futuro alle nostre ragazze e ragazzi, ma anche di avergli trafugato il passato.

Mick Hucknall: il cantante con il rubino in bocca

Mick  Hucknall è il frontman dei Simply Red, gruppo soul-pop fondato dallo stesso Hucknall nel 1984 e tutt’ora in attività. In venticinque anni il gruppo ha venduto cinquantacinque milioni di dischi e raggiunto dei successi clamorosi. Alcuni loro singoli come “Holding Back the years” e “If you don’t know me by now”  hanno scalato le hit mondiali e raggiunto i primi posti nella classifica Statuunitense Billboard Hot 100. Il loro quarto album “Stars” (1991) è uno degli album più venduti di sempre In Inghilterra.
Mick Hucknall è stato uno degli amori platonici della zia Costanza quando era una ragazzina e ora, che ha cinquant’anni, continua a considerarlo molto bravo. Ha una predilezione sfacciata per la voce di Hucknall che lei definisce calda, duttile, armonica, emozionante.

Una volta mia ha detto: “Rebecca mia, l’unica cosa che ti manca sono i capelli rossi come quelli di Hucknall”. A dir la verità a me i miei capelli piacciono così come sono, ricci e scuri. Io non li vorrei ricci e rossi. E’ lei che li vorrebbe così per me, perché continua a trovarli bellissimi.
La nonna Anna dice che quando la zia era un’adolescente aveva appiccicato un grande primo-piano di Hucknall  sul suo armadio. Una foto che è rimasta là per dieci anni e che lei guardava tutte le mattine.
Poi un bel giorno, l’ha staccata dall’armadio, ma non l’ha buttata nella spazzatura, l’ha bruciata con molta sacralità. La nonna Anna dice anche che quando la zia faceva l’università teneva sempre una foto di Hucknall in tasca, era convinta che le portasse fortuna. Raggiunta la Laurea anche quella foto è stata bruciata nelle fiamme del camino del nostro cortile.

Hucknall ha un rubino incastonato in un dente e, quando sorride, manda bagliori rossastri dalla bocca. E’ il rubino che intercettando piccoli fasci di luce, brilla intensamente.  Questo bagliore rosso che si vede quando canta fa molto scena e completa la “rossità” appariscente di questo conosciutissimo frontman. Ovviamente l’incastonatura del rubino non è stata una scelta casuale ma una precisa strategia studiata da esperti di immagine e realizzata con molta abilità.

Una volta ho chiesto alla zia: “ Perché Hucknall è il tuo cantante preferito?”
“Perché ha una voce morbida che scalda il cuore”.  Mi ha risposto.
In poche parole ha riassunto molto bene il senso di questa  predilezione  che  dura da una vita.

Credo che a volte si creino delle strane relazioni tra noi e alcuni personaggi pubblici che nemmeno conosciamo. Proiettiamo su queste persone dei nostri desideri che trovano una strana realizzazione nella loro lontananza e assoluta indifferenza. Nell’assenza di relazione ci può stare qualsiasi fantasia, anche la più irrealizzabile. Del resto i “principi azzurri” sono tali solo fino a quando non li si conosce bene, non li si vede da vicino.
Penso che questo valga per molti personaggi dello spettacolo e in modo particolare per i cantanti. Intercettando dei sogni e permettendo loro di riprodursi senza infrangersi contro una realtà che li annienterebbe, diventano dei principi. Nella lontananza c’è l’impossibilità della trasformazione del desiderio in realtà, del bisogno in appagamento. Chi è “lontano” si concretizza nei nostri pensieri e desideri come qualcosa di inavvicinabile, irrealizzabile, come il ricettacolo che accoglie tutto ciò che vorremmo e non abbiamo, tutto ciò che ci piacerebbe e non vediamo, tutto ciò che non troviamo nella nostra quotidianità, nel procedere un po’ affannato che caratterizza i “giorni normali” della nostra vita.

Poi una bella voce è una bella voce e questo non è fantasia o sogno, è pura e semplice realtà. Una voce intonata, calda e sicura è una grande dote, la musica sa portare lontano, verso l’eternità, la sublimazione, la passione, l’amore.
Hucknall ha davvero una gran voce, lo dicono tutti, compreso mio padre  che è un professore di musica.
Adesso il super-Mick ha  anche  una  moglie  e  una  bambina  con  i  capelli  rossi come il fuoco.
L’’incredibile “rossità” di famiglia è riemersa. Chissà se la bambina canta e come lo fa. E’ una cosa che vorrebbero sapere migliaia di persone.

Una volta la zia ha insistito per farmi sentire “Live at the Royal Albert Hall 2011”, un album di BB King uscito nel marzo del 2012. L’album contiene la riproduzione del concerto tenuto al  Royal  Albert  Hall  il 28 Giugno 2011.
In questo concerto BB King propone alcuni dei suoi più grandi successi come: “The Thrill Is Gone” e “Guess Who”. Quella sera, oltre a BB, si sono esibiti su quel prestigioso palco alcuni grandi ospiti tra cui: Slash, ex membro dei Guns N’Roses, il chitarrista  Ron Wood membro dei Rolling Stones, Derek Trucks e sua moglie Susan Tedeschi e … senti senti: Mick Hucknall!
Ecco scoperto chi, secondo la zia,  ha trasformato questo concerto in una meraviglia, in una esperienza sensoriale unica, in un ascolto da suggerire a nipoti, parenti, amici, colleghi e vicini di casa. L’album  è bellissimo davvero. La zia con la musica non scherza. Ma ciò che fa la differenza è sempre lui: il cantante col rubino in bocca.

Nel luglio di alcuni anni fa eravamo tutti ad Alassio,  io e la zia stavamo camminando dopo cena sul lungomare, quando da un pianobar abbiamo sentito qualcuno intonare  “If you don’t know me by now” . La zia mi ha preso per mano e, cambiando direzione rispetto alla passeggiata che stavamo facendo, ha cominciato a spostarsi verso l’edificio dal quale proveniva la musica. Quando siamo state nei pressi del pianobar lei, con gli occhi lucidi e le guance rosse, ha individuato un muretto di fronte al locale dal quale uscivano le conosciutissime note. Ci siamo sedute sul muretto, non c’è stato nessun bisogno che mi spiegasse per quale motivo eravamo lì. Sono anch’io cresciuta con questa storia del rubino rosso incastonato nel dente.  Vicino a noi c’erano sedute altre persone che ascoltavano incuriosite lo spettacolo. Eravamo posizionati tutti in fila sul muretto, come tanti parassiti perché si sentiva benissimo e non si pagava nulla.
Ci siamo messe a guardare chi stava cantando. Era un ragazzo moro, piccolo, sorridente. Suonava la tastiera e contemporaneamente cantava.
La zia lo ha ascoltato un po’ e poi ha scosso la testa. “Sta rovinando la canzone” ha detto.
Subito dopo si è sfilata i sandali. Da uno dei due è uscito un piccolo sasso e la zia ha detto:
“Ecco perché sentivo male a un piede”.
Eppure per arrivare vicino al posto dove era situato il pianobar avevamo fatto una bella camminata, ma quando le era entrato quel sassolino nella scarpa?
“Zia ma quando ti è entrato il sasso nella scarpa?”
“Prima” mi ha risposto … ma prima quando? Non si sa.
Poi si è alzata dal muretto, mi ha preso per mano e ha cominciato ad allontanarsi dal posto dove eravamo sedute.
Allora le ho chiesto  a bruciapelo: “ Ti piacerebbe sposare  Hucknall?”
“No” mi ha risposto “Mi piacerebbe sposare la sua voce”.
Ma in realtà questo lei lo ha già fatto da molti anni e non se ne è proprio mai pentita. Evviva la “rossità”  indiscussa di questo cantante, le piace da matti.

SCHEI
Yes we can? No, we can’t: il mito della meritocrazia

Yes, we can è stato un cavallo di battaglia della retorica progressista che ha poderosamente accompagnato l’ascesa di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti. Intendiamoci, non ho la minima intenzione di accostare la sua figura, le sue idee e il suo tipo di comunicazione al profilo di Donald Duck Trump. Parto però da quel messaggio  pieno di fiducia nelle proprie possibilità che ha rappresentato la parola d’ordine della campagna di raccolta del consenso dell’avvocato di colore, partito da una vecchia Fiat Ritmo ed arrivato ad occupare per due mandati la poltrona della Casa Bianca, e che conosce ora il curioso contrappasso privato della depressione di Michelle Obama. Poi leggo un paio di articoli di Vittorio Pelligra, professore sardo di politica economica, che su Ilsole24ore affronta il tema della meritocrazia da una prospettiva anticonformista, e non posso fare a meno di guardarmi intorno. Intorno è pieno di persone e di vicende che smentiscono il racconto ottimista sulla possibilità di farcela con le proprie forze.

Mi guardo intorno e trovo, nell’analisi dal meritorio taglio divulgativo del professor Pelligra, la desolata conferma della ragione di tante storie di difficoltà sociale ed esistenziale che non trovano riscatto. Un ingegnere civile senegalese che fa l’ambulante tutta la vita, vendendo collanine ed elefantini portafortuna; un professore di inglese nigeriano che vende, da decenni, fazzoletti da naso agli avventori dei bar del centro; un professore di fisica siriano che svuota cestini della spazzatura per una ditta di pulizie. Sono esempi didascalici dell’irragionevole euforia contenuta nel messaggio “volere è potere”, pur nell’accezione politicamente corretta e screziata di lotta collettiva dello storytelling obamiano (e prima blairiano e poi renziano). Tuttavia, conosco l’obiezione. Questi sono esempi orizzontali, troppo schematici, sporcati dalla nazionalità di provenienza del venditore di accendini di turno. Potevano stare a casa loro, dove credevano di venire a stare, cosa pensavano di trovare?

Passiamo allora agli italiani. Prima gli italiani. Gli esempi verticali, in effetti, sono molto più interessanti. Un sociologo padano purosangue che deposita buste nelle buchette della posta di un paesello sull’Appennino; un laureato in filosofia che consegna pasti a domicilio in bicicletta; un dottore in archeologia che vende polizze assicurative ed è pagato a provvigione. Verticali perché? Perchè riguardano la popolazione indigena, e in questi casi per il blocco dell’ascensore sociale, che può durare tutta la vita lavorativa, non si può accampare la scusante della nazionalità, dell’ essere nati nella parte sfigata del mondo, dell’andare a cercare fortuna altrove che può incorporare il rischio di non trovarla mai. No. Qui parliamo di italiani scolarizzati. Ormai anche una laurea in discipline economiche o giuridiche non garantisce più uno sbocco coerente, nonostante la nostra sia la società del “pensiero calcolante” per dirla con Galimberti (e ancora prima Heidegger) e preferisca quindi chi si è specializzato nello studio del saper calcolare qualcosa.

Il mito della meritocrazia ha prosperato soprattutto a sinistra. L’art.3 della Costituzione italiana, al secondo comma, recita: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. E’ il principio di uguaglianza sostanziale, estensione del principio di uguaglianza formale: se non hai pari condizioni di partenza, non hai pari opportunità. Però – dice la Costituzione – la Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli economici e sociali per diminuire il divario di condizioni di partenza e quindi trasformare le dispari opportunità in occasioni pari per tutti. Dice anche un’altra cosa bellissima, all’art.34: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Eccola lì la parolina magica: il merito. Anche se sei privo di mezzi puoi arrivare in vetta, se te lo meriti.

Come fai a meritartelo? Una buona definizione del “merito” potrebbe essere: una combinazione di capacità e impegno. Se sono capace ed intelligente ma non mi faccio “il mazzo”, andrà più avanti di me qualcuno che se lo è fatto. Se mi impegno molto ma le mie capacità non sono eccezionali, farà più strada di me qualcuno che fatica come me, ma è più bravo. Sembra un discorso semplice, e anche giusto. In realtà il negativo di questa fotografia ha un contenuto socialmente e psicologicamente crudele: se, nonostante io pensi di essermi fatto il mazzo e di avere talento, il mondo non si accorge di me e mi lascia al palo, la colpa è mia. Sono un fallito. Ecco che il teorema meritocratico, che sembra in superficie equanime e “di sinistra”, diventa spietato quando una persona, nonostante ce la metta tutta, non “arriva”.

In Inghilterra Michael Young, scrittore, economista, progressista, lo aveva capito già nel 1958, anno di pubblicazione del suo romanzo “The rise of the meritocracy” (L’avvento della meritocrazia): la nuova società basata sul merito, frutto di una rivolta contro il sistema di istruzione classista britannico, nel suo libro finiva per accentuare le differenze anzichè annullarle. Il messaggio del romanzo non fu compreso, anzi fu equivocato, tanto che nel 2001 Young approfittò dell’ospitalità del Guardian per chiarire che chi aveva letto il suo romanzo in chiave ottimistica non aveva capito niente, perchè la società basata sul merito condannava all’emarginazione economica e sociale, anzi esistenziale, i “non meritevoli”.

Cosa c’è di sbagliato quindi nella meritocrazia? Le assunzioni di base. Cito testualmente il pezzo di Pelligra perchè lo dice benissimo: “Al fondo (la meritocrazia) si basa su due assunzioni, verosimili, ma false entrambe: la prima, che i meriti individuali siano evidenti, facili da identificare, classificare – tu più, tu meno – e da ricompensare. La seconda, falsa anch’essa, che il mercato, e, più in generale, la logica della competizione, sia il meccanismo più efficace nel riconoscere e premiare tali meriti”. La prima assunzione è falsa perchè la classificazione del merito si fonda su un criterio meramente “quantitativo”: quanti prodotti vendo, quanti risultati oggettivi porto. Sotto questo profilo è paradigmatico il caso dei carabinieri della caserma di Piacenza, premiati per il numero di arresti compiuti, salvo poi scoprire che questi arresti si basavano su un giro di minacce e confessioni estorte di cui la caserma costituiva la cupola. La seconda assunzione è ugualmente falsa: la logica della competizione infatti non è neutrale, perchè dipende sempre quale deve essere il traguardo di questa competizione. Se il traguardo è un valore deteriore, torniamo al punto di partenza.

Tra l’altro, in una società che non si è impegnata per inverare l’art.3 della Costituzione, e che di ostacoli economici e sociali ne ha rimossi pochi, mitizzare il merito finisce per far apparire chi lo celebra come classista, e per consegnare alla destra le moltitudini di persone che proprio questo miscuglio di mercato quantitativo e diseguaglianze di partenza ha reso scarti sociali, esclusi da posizioni di potere o privilegio o semplice dignità, pieni di rancore e risentimento proprio verso coloro che storicamente li dovrebbero rappresentare, e che invece ne certificano la (giusta, secondo un criterio meritocratico) emarginazione.

Forse qualcuno ha pensato che la meritocrazia fosse l’alternativa all’aristocrazia. Ma ancora oggi, chi ha accesso alle università migliori? Ancora oggi, chi riesce ad occupare i posti migliori? Ancora oggi, quale è il peso delle relazioni familiari, che ognuno di noi eredita come un patrimonio genetico? Sono tali e tante le variabili che sporcano il percorso, che drogano la corsa, che mitizzare la meritocrazia diventa un travestimento della riproduzione familistica della classe dirigente. Mi è impossibile non tornare a citare il prof. Pelligra: “Il problema, allora, non nasce quando desideriamo che la persona più capace diventi il neurochirurgo che vorremmo ci operasse nel caso ne avessimo bisogno, ma quando l’ideologia meritocratica rende più probabile, per il figlio di quel chirurgo, diventare quello stesso neurochirurgo per qualcun altro e quando questo, di conseguenza, rende più difficile ai figli di altri, indipendentemente dalle loro capacità, provare a diventare quello stesso chirurgo e, che, infine, questi privilegi ereditari vengano giustificati sulla base dei concetti di merito e demerito.”

Portando alle estreme conseguenze questo mito e rivestendolo di una “moralità” paracalvinista, che cosa ce ne facciamo dello Stato Sociale?  I capaci e meritevoli sono quelli che le cure e l’istruzione se li possono permettere, perchè gli schei che guadagnano sono il giusto premio per i loro sforzi e talenti. Gli altri, che si arrangino. In fondo, non se lo sono meritato. Bella idea di sinistra, non c’è che dire.

A questo punto si aprirebbe un fronte formidabile, per chi avesse la voglia di combattere. Cambiare il paradigma del merito. Rendere meritevole il lavoro di chi accresce il benessere collettivo, di una comunità che non sia la propria famiglia, il proprio azionista, il proprio amministratore delegato. Premiare coloro il cui lavoro porta un miglioramento sociale, collettivo, quando oggi il premio va a chi porta un plusvalore privato, individuale, riservato a pochi. Essere capace di far guadagnare, col proprio lavoro, dieci milioni di euro ad un CEO, non dovrebbe essere premiato quanto essere capace, col proprio lavoro, di alleviare le sofferenze degli anziani e dei malati di tutta una comunità. Invece attualmente è proprio il contrario: chi alimenta un profitto smisurato destinato a pochi viene “premiato”, chi contribuisce al benessere collettivo viene ignorato o addirittura bastonato (pensiamo ai lavoratori della sanità e della cura dei fragili). La sostituzione del premio al valore di mercato con il premio al valore sociale del proprio lavoro è una sfida che dovrebbe essere in cima all’agenda di chiunque affermi di lavorare per il progresso sociale.

The Autumn Stoned

Un’altra bella settimana se n’è andata, un’altra bella settimana che ci ha dato tante cose stupefacenti e più o meno imprevedibili.
Perché in fondo, chi avrebbe mai pensato che l’autunno sarebbe tornato a farci visita?
Chi avrebbe mai previsto che la Juve ne avrebbe fatta un’altra delle sue?
Chi avrebbe mai ipotizzato che il sì al referendum avrebbe acchiappato il 70%?
Ma soprattutto: chi avrebbe mai immaginato che Mauro Corona avrebbe sbroccato in diretta alla tv di stato dando della gallina a Bianca Berlinguer?
Io certamente no, e sfido chiunque altro a rivendicare le proprie scommesse su questa quaterna fenomenale.
Adesso di settimana ne inizia un’altra e io so già che ci possiamo aspettare anche di meglio, soprattutto in un anno come questo 2020.
Tutto proseguirà regolare, tranquillo proprio come quest’anno.
Buona settimana e cordiali saluti.

The Autumn Stone (The Small Faces, 1969)

DIARIO IN PUBBLICO
Ce l’hai la tessera?

Lentamente risorgo dai guai fisici per testimoniare questi momenti di funzione pubblica che, come già era accaduto in passato, ancora adesso, nonostante i cambi di amministrazione e altro, ripropongono l’immagine di “Ferara, stazione di Ferara” secondo l’antica abitudine.

Mi accorgo all’ultimo momento che la tessera elettorale è esaurita; quindi disciplinatamente il lunedì mattina prendo il taxi e mi dirigo all’Ufficio elettorale, dove da una parte stazionavano i richiedenti del documento e dall’altro si allungava una lunghissima fila dell’ufficio immigrazione. Esce il vecchietto disciplinatore degli uffici a cui bisogna rivolgersi e con aria seccata fa entrare due di noi e li indirizza a sinistra su per la scala. Ubbidiente mi accingo a salire i gradini e contandoli mi accorgo che sono 50! Sono appena reduce da una colica renale, ho un’età di diversamente giovane, perciò non era forse dovere indicare l’ascensore per scalare il piano? Inutile. Bocche cucite! A questo punto esplode la mia rabbia e all’annoiatissima impiegata, che mi guarda con disprezzo, urlo la mia indignazione. Silenzio. E, dopo avermi sbattuto il certificato nuovo, mi affida ad un altro burbero in camicia bianca, che si degna di accompagnarmi all’ascensore e farmi scendere. Inutile protestare dicendo che, al di là di ciò che mi serviva, la tessera era il documento necessario per esprimere la mia volontà democratica: ciò per cui mi sono battuto tutta la mia vita civile. Mentre uscivo ironicamente esprimo il mio ‘grazie’ per avermi aiutato a recuperare il documento. Il vecchietto soddisfatto mi risponde “ non c’è di che!”. Finalmente tronfio di avere i documenti prendo il secondo taxi e mi reco al seggio, naturalmente vuoto, con i giovani scrutatori ansiosamente pronti a esprimere al meglio il proprio dovere e compito, tra mascherine, lavaggi delle mani e distanziamento.

E nella mattina piena di sole m’avvio a piedi a casa, scrutando se dalla casa del nipote medico si avvertano segni di presenze animali, o se nel breve percorso ancora riconosco i pelosi della zona.

I risultati elettorali mi procurano una certa curiosità, non tanto per l’evidente tenuta del governo di alcune regioni-chiave che sembravano definitivamente perdute, quanto per l’oculatezza con cui i cittadini hanno votato. Un brivido mi coglie, quando penso come la Toscana potesse disconoscere la sua identità di sinistra. E non certo per Giani, che ben ho conosciuto e che trovavo eccessivo nelle sue spacconate anche in tempi lontani. Puoi dare fiducia a chi si è gettato per anni la notte di Capodanno dal ponte Vecchio in Arno per cosa? Ma al di là del mediocre Giani, quel che ha retto è stata la fondamentale supremazia del rosso in quella regione. L’avessimo persa sarebbe stato non grave, ma gravissimo. Almeno per me. Poi mi accingo a passare le lunghe ore a sentire i soliti noti a sproloquiare, a commentare, a giudicare. E le nottate con Mentana, Vespa, la Berlinguer, la Gruber, per citarne alcuni che ripetono all’infinito ciò che avevano enunciato domenica e ora mercoledì continuano a ripetere .

Nel frattempo arrivano decine e decine di libri su e di Pavese, che mi aiuteranno a pensare come attuabile la trasferta a Parigi in ottobre alla Maison d’Italie, l’ambasciata italiana, per degnamente commemorare i 70 anni della morte di Cesarito. In questo duro lavoro sono aiutato dall’altro pavesiano di ferro: Fiorenzo Baratelli che mi ha promesso di sollevarmi a prendere l’impresa. E non sarà facile rimuovere e collocare in scaffali atti all’uopo le centinaia di volumi. Ma già l’ho premessa che quella mèsse sarà un giorno tutta sua.

Infine una notizia importante mi comunica gioia e fiducia. La storica dell’arte Barbara Guidi, operativa a Ferrara, ha vinto la direzione del Museo Civico di Bassano. Una scelta tutta meritatissima, che stringerà sempre di più i rapporti tra Ferrara e Bassano, nell’imminenza delle celebrazioni del Centenario di Canova, che rappresenterà per me – se lo raggiungerò – il punto di arrivo del mio impegno sull’artista, in atto da più di 30 anni. Chissà.

E mentre riguardo il bellissimo numero di Studi Neoclassici che è ora in composizione quattro nomi mi ritornano in mente: Antonio, Cesare, Elsa, Giorgio.

I miei eroi di una vita.

PER CERTI VERSI
Amazzonia

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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AMAZZONIA

E’ difficile
Portare il cuore
Dove manca
Ci vuole tanto fiato
Lungo respiro
Un fazzoletto
Per le lacrime
Il ghiaccio in tasca
Per sopportare
Per reggere
Lo scempio
Vedere bruciare
Il nostro polmone
Quella foresta
Divorata dalle fiamme
Dalla arsura
Del crimine di stato
Dalla smania degli affari
E la strenua difesa
Dei suoi abitanti
Amazzonia

ITALO BALBO TRASVOLATORE IN MOSTRA:
la storia ridotta ad agiografia

Spiace, ma ahimè non sorprende, riscontrare una continuità di scelte e di temi fra la passata amministrazione di centro sinistra, guidata dal sindaco Tagliani, e quella attuale di centro destra retta da Alan Fabbri. Molti potrebbero essere gli esempi; mi limito a riproporre un argomento che non dovrebbe essere motivo di discussione, ma che invece continua ad essere tristemente attuale.

Nel 2013 l’Amministrazione Comunale bandì un premio, intitolato Riconoscimento Quilici, con l’intento di valorizzare e proporre come modello ai giovani ricercatori la figura di un antisemita esaltatore e propugnatore delle leggi razziali. Lo strumento fu l’Istituto di Storia Contemporanea, che avvallò con la sua autorevolezza scientifica una scelta che si poteva solo condannare.

Lo stesso Istituto si presta, ancora una volta, a giustificare e a promuovere la annunciata esposizione dedicata ad Italo Balbo trasvolatore.

L’operazione è sofisticata: si astrae un singolo episodio dalla carriera di un violento organizzatore dei fasci, responsabile, nelle nostre campagne, di distruzioni, incendi, assassinii, gerarca fascista e uomo del regime: se ne esalta la positività e si lascia che questa faccia opinione e contribuisca a quella opera di revisione del giudizio morale che non può essere accettata.

Nessuno vuole chiudere o impedire la ricerca storica, ma questa si fa non con esposizioni agiografiche, a partire dal tema, costruite con il materiale fornito dalla famiglia, ma con la ricerca, con convegni, con pubblicazioni che collocano i singoli episodi all’interno di un contesto. Lo attesta l’ampia bibliografia esistente.

Italo Balbo non ebbe il coraggio di dissociarsi pubblicamente dalla promulgazione delle leggi razziali e ne fu oggettivamente complice; tanto più grave la sua adesione in quanto, personalmente, non era antisemita come testimonia la amicizia con il Podestà Ravenna. Riproporne la figura in  termini positivi senza che le istituzioni vogliano rendersi conto del significato eversivo della proposta, senza che vi sia pubblico e diffuso dissenso, è triste segno di tempi che non fanno bene sperare, che si prospettano poco civili.

Cover: Tratto da Wikipedia commons: Monumento aos Heróis da Travessia do Atlântico , de Ottone Zorlini (1891-1967), em São Paulo, Brasile – fundo editado (sfondo modificato)

PRESTO DI MATTINA
Parole perdute e ritrovate

«La parola destinata a perdersi, così fuggevole nel suo rinascere costante, nella sua discesa e sùbita resurrezione… La parola – pietra che sorregge al costo di perdersi e di perderci, perché è istallata sulla fonte che anche di notte “butta e scorre”. E forse solo di notte, quando tutti i dire si placano, ed è possibile sentire il suo palpitare. Il palpitare inestinguibile di ciò che è vivo veramente» (Maria Zambrano, Dell’aurora, Genova 2000, 34 e 107). Questo ritrovarsi della parola ‒ nuovamente palpipante e viva nel suo perdersi, che è un rinascere come luce dalla notte, voce dal silenzio, vita dal sepolcro, come dall’inverno nuova primavera ‒ mi ha riportato alla memoria le parole perdute e ritrovate al Concilio Vaticano II, riemerse dai sotterranei della storia ecclesiale come un fiume carsico, come da lungo inverno.

Parole come «Regno di Dio; Popolo di Dio; Pastoralità; Sinodalità; Senso della fede dei fedeli; Segni dei tempi». Espressioni dimenticate da tempo riaffiorano dalla loro sorgente, e là le ritroviamo, dove sono nate, nel grembo dell’evento che le ha generate.
Così la volontà di ressourcement dei Padri conciliari, intenti a “riattingere alle sorgenti” cristiane della vita della Chiesa, ne ha animato il rinnovamento, dando vita a quella che fu per molti una rinnovata primavera nell’alternarsi discontinuo delle sue stagioni come fratture generative su cui si innesta il nuovo.

Occorre ribadirlo soprattutto in questo tempo di tensioni polarizzanti all’interno della Chiesa tra gerarchia e comunione, tradizione e profezia, dottrina e pastorale, istituzioni e carismi, conservazione e innovazione: il Concilio ha rappresentato bensì una novità rispetto al passato, ma senza ignorare la tradizione che lo ha preceduto, radicandosi in essa. Anzi, ha distinto tra la Tradizione con la con la “T” maiuscola, che è ciò che fa vivere la Chiesa, la linfa dello Spirito suscitatrice di nuove gemme e rami sull’albero e le tradizioni mutevoli nel tempo ciò che inaridisce, si secca e muore (cfr. Yves Congar, La tradizione e le tradizioni. Saggio storico, Roma 1964). Sicché, volendo ben si potrebbe affermare che l’ultimo Concilio è stato più rispettoso e fedele alla tradizione di quanto non lo fosse stato il Vaticano I, che si limitò, in sostanza, a risalire la corrente degli ultimi 150 anni della tradizione.

Ben oltre si è spinto invece il Vaticano II, risalendo dal passato prossimo al passato remoto se non remotissimo, sino alla Chiesa nascente. Fu una scelta profetica l’appello ecumenico di Giovanni XXIII dettato dalla necessità dell’unità di fronte alla divisione delle chiese, insieme a quella di riprendere il registro pastorale per rilanciare il dialogo con il mondo in vista dell’annuncio del vangelo; riscoprendo poi, nell’interrogarsi di Paolo VI «Chiesa cosa dici di te stessa?», l’identità più profonda, carismatica e missionaria della Chiesa “inviata ad gentes. Situandosi così coraggiosamente «all’opposto esatto di quella mentalità ‒ direbbe il teologo Giuseppe Ruggeri ‒ che ha avuto paura della vastità della tradizione globale della chiesa e ha preferito non mutare il tranquillo e ristretto equilibrio del passato prossimo. La novità principale del Vaticano II è piuttosto costituita dalla considerazione stessa della storia nel suo rapporto con il vangelo e la verità cristiana. Mentre per lo più nel passato si aveva consapevolezza che la storia vissuta dagli uomini fosse ultimamente indifferente per la comprensione del vangelo (parlo di “consapevolezza”, giacché “in realtà” non è mai stato così), la grande questione del concilio Vaticano II fu invece proprio qui, anche se le parole usate (pastoralità, aggiornamento, segni dei tempi) non furono subito lucidamente compresi da tutti… Per Giovanni XXII l’annuncio del vangelo era inseparabile dal riferimento alla storia» (Per un’ermeneutica del Vaticano II, in Concilium 1 (1999), 22-23). Di qui il profondo rinnovamento della Chiesa, scaturito ‒ come ricordava sempre Giovanni XXII ‒ non già da un mutamento del vangelo, quanto da una maggiore comprensione.

Una migliore comprensione che ha riguardato anche il mistero della Chiesa, non solo immaginata idealmente in un contesto sapienziale, ma colta qual è nella propria realtà storica ed esperienziale della sua missione profetica. Il paradigma sapienziale/dottrinale è stato così assunto e integrato dal linguaggio profetico, che è poi quello della storia, intento a comprendere il senso delle ‘rotture di soglie da cui ripartire’ ‒ siano esse piccoli o grandi avvenimenti ‒ di cui è fatta la trama del tempo.

Similmente, la struttura gerarchica della Chiesa è stata ricompresa in una dimensione comunionale all’interno del popolo di Dio in attuazione della propria vocazione battesimale e chiamata a formare con l’umanità la famiglia di Dio. Lungi infatti dal ridursi a un’istituzione da governare, la Chiesa non può che essere un luogo di relazioni umane, di sequela a Cristo, di fraternità, di reciprocità nel servizio, in ascolto, anzitutto dello Spirito di Cristo che la guida e, non di meno, dell’umanità in attesa del Vangelo della gioia. Un triplice sentire: Sentire cum Christo, sentire cum ecclesia, sentire cum mundo.

È dunque immersa nella storia che la Chiesa deve continuamente pensarsi e riformarsi – “Eccleasia semper reformada”: «la Chiesa peregrinante è chiamata da Cristo a questa continua riforma di cui, in quanto istituzione umana e terrena, ha sempre bisogno» (Unitais Redintegratio, 6) ‒ affrontando le concrete contraddizioni che quotidianamente sperimenta per (ri-)trovare di continuo la sua via di fedeltà al vangelo, inteso non già in termini prescrittivi, ma come stile di comunione tra tutti i battezzati: «Da questo riconosceranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35)».

Non sorprende allora che al Concilio si sia riscoperta la storia come “luogo teologico”, accanto alla scrittura santa e ai sacramenti. È nella storia, del resto, che Dio ha posto la sua tenda: proprio qui tra le case degli uomini, ove si fa conoscere come colui che fa proprie le vite delle sue creature, incrociando le sue vie, che non sono quelle degli uomini, con le nostre vie che è venuto a percorrere («un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione» cfr. Lc 10, 33).

È in questo modo che, al Concilio, ‘la verità del vangelo’ è stata interpretata e riaffermata attraverso ‘l’amore del vangelo’. Di qui la riscoperta ‘dell’ascolto della Parola di Dio’ non come in-formatrice e plasmatrice della dottrina, anche, ma primariamente quale legame che sancisce e tesse l’esistenza in alleanza, uno scambio, un mutuo riconoscimento tra un io un tu un noi, un tu che sta per tutti; un’apertura ospitale nella quale si dà e si prende la parola, in dialogo, cuore a cuore, mente a mente alleati, spalla a spalla per far riuscire la vita nella forma di un’intima comunione dell’uomo con Dio e degli uomini tra loro: «Impara a conoscere nelle parole di Dio il cuore di Dio», dice il papa Gregorio Magno.

Dentro la storia non si può che camminare insieme. Ecco allora riemergere la sinodalità ‒ che nel suo il significato primigenio, sun-odos, corrisponde a ‘strada con’, ‘camminare insieme’ ‒ la quale, come ci ricorda ancora Giuseppe Ruggeri, «è la categoria che traduce questo dinamismo della comunione, questa “somministrazione di ogni giuntura”, questa “energia di ognuno“. Essa è la “strada comune” che dobbiamo percorrere. Essa, nel rispetto dei doni di ognuno, è anteriore al bipolarismo clero-laicato» (G. Ruggeri, Sinodo di Noto).

La forma sinodale sembra allora ritornata a essere la dimensione essenziale, basilare della comunità ecclesiale: «Ciò che riguarda tutti deve essere dibattuto da tutti» (Giustiniano). Per Giovanni Crisostomo «la Chiesa ha nome sinodo». Non diversamente dalla Chiesa delle origini, informata al principio della sinodalità e della comunione, questi caratteri non possono che modellare anche il divenire della Chiesa in cammino, sino a plasmarne finanche la dottrina. Lo spunto trova autorevole avvallo nel pensiero di Gregorio Magno, il quale, nell’immagine quadriforme del Vangelo, faceva corrispondere i primi quattro grandi concili dei primi cinque secoli, volendo così attestare l’esistenza di una dimensione sinodale della “dottrina”, che non può non coinvolgere anche la liturgia, innescando un legame tra il momento eucaristico-sacramentale dell’assemblea e la sinodalità della vita ecclesiale (Cfr. Giuseppe Alberigo, Sinodo come liturgia, il Regno documenti, 13 207, 443).

Come concretamente praticare la sinodalità ce lo ha indicato Papa Francesco, che ha ripetutamente chiesto a tutte le comunità cristiane di esercitarsi e promuovere questo stile di partecipazione comunitaria sia nell’ambito pastorale sia in quello amministrativo.
Ha invitato così a fare esercizio sinodale declinando nella prassi due principi: “L’unità prevale sul conflitto” e “Il tutto è superiore alla parte” (EG 224 e 234). In particolare il primo ha come obbiettivo una comunione attraverso le differenze. La strada è «accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo». Il tutto con la grazia di quegli «operatori di pace» nel cui comportamento è dato riconoscere l’impronta evangelica (Mt 5,9).

Nel secondo principio si coglie invece la tensione tra la globalizzazione e la localizzazione. L’esercizio cui siamo chiamati è dunque quello di «allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi»: mantenersi così nel proprio piccolo, restando legati alle proprie radici, senza dimenticare però l’insieme in cui confluiscono e interagiscono tutte le altre parzialità.
Emblematico è allora, sotto questo profilo, il titolo che mons. Antonio Samaritani volle dare alla storia della nostra Diocesi: La Chiesa di Ferrara nella storia della città e del suo territorio. Desiderò così declinare insieme la storia della cittadinanza e quella ecclesiale, svelarne gli intrecci solidali e le forme di partecipazione della gente comune. L’uso del termine “sinecistico”, “coabitante”, a lui così familiare ‒ indicante il processo di una vicendevole convergenza tra diversi in un’unica realtà, in modi «distinti ma non dissociati», in uno scambio reciproco e convergente ‒ si prestava a evidenziare nella nostra gente uno stile e una vocazione ad abitare insieme pur salvaguardando o integrando meglio, non senza lotte, le singolarità e le tradizioni di quanti hanno avuto origine altrove. Una sinodalità autentica, che mons. Samaritani viveva in profondità, mettendosene al servizio con l’intento di favorire la creazione e l’emersione di una “storia al plurale”.

Il tempo che la luna impiega per riallinearsi e ricongiungersi con la terra e il sole è detto rivoluzione sinodica o mese sinodico, che sta a indicare il tempo che intercorre tra un novilunio e l’altro. Insomma, camminano insieme il sole, la terra e la luna, uniti nella differenza ma accomunati, pure loro, da un’esperienza di sinodalità.
È allora significativo che un’antica tradizione, nel suo linguaggio simbolico, definisca il mistero della Chiesa ‒ chiamata a riflettere la luce di Cristo sugli uomini ‒ come Mysterium Lunae. Anche guardando in alto tra le sfere celesti si trova allora conferma che camminare insieme è la legge che governa l’universo.

PRESTO DI MATTINA, la rubrica di riflessioni di Andrea Zerbini, torna tutti i sabati su Ferraraitalia. Per leggere gli articoli precedenti, clicca [Qui]

RIPARTE LA CAMPAGNA OSM (OBIEZIONE ALLE SPESE MILITARI)

da: Davide Scaglianti – Rete Lilliput Ferrara

Anche quest’anno Rete Lilliput Ferrara vi propone di aderire ALLA CAMPAGNA OSM (OBIEZIONE ALLE SPESE MILITARI). UN’AZIONE SEMPLICE PER UN GESTO CONCRETO DI PACE.

Il Paese è in ginocchio, la diffusione del COVID19 ha messo a nudo la grave insufficienza di fondi destinati alla Sanità, alla Scuola e alle spese sociali, occorrono tanti soldi e contemporaneamente assistiamo al vergognoso spreco di enormi risorse  stanziate  per le spese militari,(72 milioni di euro al giorno, ogni anno in aumento, ) per l’acquisto di armi strumenti di morte e a un incremento delle esportazioni (anche ai paesi coinvolti in conflitti armati es Arabia Saudita).
Tutto questo è assolutamente inaccettabile e oggi, l’adesione alla campagna rappresenta l’occasione per manifestare la propria indignazione e il rifiuto di questa logica e pretendere a voce alta che i sacrifici siano equamente distribuiti e coinvolgano con drastici tagli la produzione e il commercio delle macchine da guerra

L’adesione alla campagna Osm rappresenta anche un appoggio al disegno di legge di iniziativa popolare “Un’altra difesa è possibile” che è stata consegnata alla Camera con più di 53 mila firme nel 2015. Su questo argomento,  nel giugno scorso è stata presentata  una petizione Al Parlamento. Con i contributi raccolti viene finanziato il progetto “Adopt Srebrenica”

Ogni anno in Italia viene proposta la Campagna di Obiezione alle Spese Militari per La Difesa Popolare Nonviolenta. che si pone i seguenti obiettivi:
– Riduzione delle spese militari a favore delle spese sociali
– Cambiamento del sistema di difesa offensivo attuale in un modello difensivo non armato e nonviolento.( Difesa Popolare Nonviolenta)
– Approvazione di una legge per l’opzione fiscale, ovvero la possibilità per ogni cittadino di devolvere la parte delle tasse pagate allo Stato per il militare, per un modello di difesa non armato e nonviolento.

Alla campagna Osm può aderire qualsiasi cittadino/a che voglia concorrere alla costruzione di un’alternativa alla difesa armata e perché lo Stato costruisca percorsi coerenti per la Pace. Negli ultimi anni le spese militari sono in costante aumento e occorre cambiare modello di difesa e operare perché la Pace non sia pensata solo durante e dopo i conflitti, perchè la difesa non rimanga in mano solo ai militari, perchè lo Stato crei apparati per la Pace e un modello di difesa nuovo che difenda non gli interessi economici, ma le persone e la democrazia di un territorio

Le forme di adesione sono diverse, quella che viene qui proposta è la più facile da realizzare.
Come nodo locale abbiamo confermato la scelta di sostenere anche quest’anno il progetto di pace “Adopt Srebrenica”, seguito dalla Fondazione Langer, che ha come obiettivo l’ aggregazione dei giovani di Srebrenica delle diverse etnie presenti sul territorio, attraverso la diffusione di una cultura di gestione nonviolenta dei conflitti. Questa scelta consente alla Fondazione Langer di avere una continuità anche economica a sostegno del progetto e al territorio ferrarese di consolidare un legame con Srebrenica che dura da  anni.

Il percorso da seguire è molto semplice,  analogo a quello del 2019, quando abbiamo avuto 142 adesioni e raccolto 3380 euro.

Chi è intenzionato a confermare l’adesione alla campagna OSM  o ad aderire quest’anno per la prima volta è pregato di contattare i seguenti recapiti telefonici: 0532 52000 oppure  333 4985319.

Al cantón fraréś
Romano Baiolini: “L’ólma”

L’abbattimento di un olmo (ulmus campestris), pianta un tempo molto presente nella pianura padana, per Baiolini è motivo di riflessione sul rapporto fra l’uomo e la natura, sulla trasformazione del paesaggio. Quell’albero emanava forza, meraviglia, protezione. Un legame antico e profondo col mondo vegetale spezzato in nome di un po’ di raccolto in più.

 

L’ólma

Pr’uη pugn ‘d furmént,
par dó biétul iη più,
t’at jé ciamà cuntént:
l’ólma, cla grànda at à abatù.

La jéra ‘η riferimént viv,
l’as guardàva da sota iη su
e fadìga jéra cuntàr j’uślìη
ch’agh bazigàva o j’és al nid lasù.

Mi a l’amiràva iη siléηzi,
ch’agh fus mi sól o coη j’amìgh:
maravié dla natura, pina ‘d frid,
gnu su int la val, int al graη spazi!

Nisuη séva dir parché
l’as catés vèrs a la “Mòta”
o se qualcùη l’avìs piantà,
parché i la rispetés la źént d’una volta.

E cla ciòlda rùźna, a testa schiza,
η’jérla forse lì par na barca stràca?
Dòp la “Mòta”, la tèra quaś bianca,
ill ca’ ill jéra sól iη luntanàηza.

Zént ann l’agh éva e fórsi più,
no vént, no tempuràl o àltar,
uη cuntadìη? No! Uη bàrbar
al l’à abatù!

 

L’olmo

Per un pugno di grano, / per due bietole in più, / ti sei chiamato contento: / l’olmo, quello grosso, hai abbattuto./
Era un riferimento vivo, / lo si guardava da sotto in su / e faticoso era contare gli uccelletti / che vi bazzigavano o con il nido lassù. /
Io l’ammiravo in silenzio, / che fossi solo o con gli amici: / meraviglia della natura, piena di ferite, / cresciuto nella valle, nel grande spazio! /
Nessuno sapeva dire perché / si trovasse verso la “Motta” / o se qualcuno l’avesse piantato, / perché lo rispettassero i vecchi di un tempo. /
E quel chiodo rugginoso, a testa piatta, / non era forse lì per una barca stanca? / Dopo la “Motta”, il terreno quasi bianco, / le case erano solo a distanza. /
Cento anni aveva o forse più, / non il vento non il temporale o altro, / un contadino? No! Un barbaro / l’ha abbattuto!

Tratto da Luigi Vincenzi (a cura di), Nòz d’arzént col nòstar bèl dialèt, Ferrara, Tréb dal Tridèl, 2007.

Romano Baiolini (Jolanda di Savoia 1927 – Codigoro 2010)
Agronomo. Da sempre attento ed instancabile ricercatore del lessico e delle forme espressive del dialetto locale, ha pubblicato il Saggio di dizionario etimologico del dialetto ferrarese, Ferrara, Edizioni Cartografica, Ferrara, 2001. Ha aggiornato continuamente i suoi repertori avvalendosi della collaborazione di Floriana Guidetti e altri. Fra le sue opere successive: Vocabolario del dialetto ferrarese (2004), Vocabolario del lagotto (2005), Saggio di grammatica comparata del dialetto ferrarese (2005), Nuovo vocabolario storico-etimologico del dialetto ferrarese (2008).

 

Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui] 

Cover: L’olmo del Parco Massari, Ferrara. Foto di M. Chiarini (settembre 2020) 

PAROLE A CAPO
Drugo: “Da solo sul ring della vita” e altre poesie

“La poesia è resistere e tregua assieme, è aprire un varco nel futuro, è fantascienza.”
(Silvia Tebaldi & Gian Paolo Benini)

 

DA SOLO SUL RING DELLA VITA

Le corde del ring della vita
mi accolgono dolcemente
con la loro elasticità.
Mi ci appoggio
confidando nella loro resistenza.
L’avversario non c’è
l’avversario è l’altra parte di me.
Spero che l’arbitro
decreti la fine del match
prima che le corde si rompano
prima che noi due si finisca al tappeto.

 

EREDITÀ

Eredità non è fatta solo di cose.
La vera eredità è fatta
di sorrisi
di lacrime
di carezze
di sguardi
e di ricordi.
Ricordi che tu, mamma,
non hai più.
Ti sono stati rubati dalla malattia.
Non preoccuparti
ci sono qua io
a mettere ordine
nelle polaroid della tua vita.

 

PAROLE DI PIOMBO

Quando, da ragazzo,
ho cominciato a lavorare
nella tipografia di mio papà,
le parole erano di piombo.
Ma anche le parole di mio papà
erano di piombo.
C’era un rapporto ponderale
tra quello che componeva
e quello che diceva.
Oggi le parole
viaggiano leggere, anche troppo,
ma gli occhi e le orecchie
che le leggono e le ascoltano
non sono cambiati.
Attenti a scrivere parole leggere
che cadono anche loro,
come parole di piombo,
sulla e nella testa della gente.

 

Drugo, un’infanzia e una giovinezza vissute su una lingua di terra tra il Po e il mare. Una maturità che scopre la poesia e il gusto attraverso di essa di raccontarsi. Il Drugo lo puoi trovare la mattina presto appollaiato sui gradini della darsena che legge e scrive. L’acqua scorre e lui la ascolta, l’acqua lo riporta alla sua giovinezza, si conoscono bene, si parlano. La sera, poi, lo puoi incontrare al bar, mentre discorre di letteratura e filosofia , mentre racconta di sé e dei suoi, con lui ti puoi perdere, tra scanni vicini e continenti lontani. La sua poesia nasce così, dal contatto con la realtà della vita, dalla sabbia e dall’asfalto, dal piombo dei caratteri tipografici che allinea e inchiostra da sempre. Il Drugo non pubblica, diffonde la sua arte, solo tra chi gli è vicino, tra chi ritiene che possa apprezzare i suoi versi, i suoi racconti. Prima però deve averti guardato negli occhi, e aver riconosciuto in te una parte di sé.

La rubrica di poesia Parole a capo esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Vite di carta /
Lo jettatore

Vite di carta. Lo jettatore

Sto leggendo Il colibrì di Sandro Veronesi, come era nei miei programmi, soprattutto dopo avere ascoltato l’autore al Festivaletteratura a Mantova sabato scorso. Per le prime cento pagine mi sono lasciata andare a leggere semplicemente, cercando di assorbire il libro e basta. Però. Da stamattina non ce l’ho più fatta, mi sono dovuta fermare. E’ stato un personaggio, quello di Duccio Chilleri a darmi l’alt: in lui c’è un richiamo troppo forte a una novella straordinaria poi diventata atto unico di Luigi Pirandello, La patente.

Superati senza scosse i primi capitoli con i loro salti temporali, rinunciando a collegarli ad altri libri con gli stessi salti; superata la tentazione di verificare l’ipotesi che il libro sia organizzato non in ordine cronologico ma per temi come La coscienza di Zeno; mi sono dovuta soffermare su Duccio, il quale imperversa nel quinto capitolo e poi ritorna in Fatalities (1979), che è il numero 17.

Mi urgeva fare un bilancio, provvisorio si sa, sulle reazioni di lettura; ci ho riflettuto un momento e ho realizzato che questo libro è fatto di storie di persone che si intrecciano e non di oggetti, come era emerso sabato scorso a Mantova nel discorsetto di Veronesi sugli architetti che fanno gli scrittori.

E allora seguo la mia pista di lettura collaterale, va bene anche così; interrompo Il colibrì e scendo in studio ad acchiappare la copia dell’atto unico La patente, dove il protagonista Rosario Chiarchiaro fa la parte dello jettatore, che chiede di essere riconosciuto ufficialmente come tale e va dal giudice per ottenere la relativa patente.
Rosario e Duccio portano jella, ecco cosa li rende molto simili.

Di Duccio si dice al capitolo 4: “Era un ragazzo alto e sgraziato ma ugualmente dotato negli sport…Nero di capelli, sorriso cavallino, talmente magro da sembrare sempre di profilo, era accompagnato dalla reputazione di portare sfortuna” e da ciò era derivato il soprannome di “Innominabile”.

Tutto era nato negli anni dell’infanzia da un brutto incidente sugli sci capitato in gara a un bambino suo  avversario; a lui Duccio aveva predetto che si sarebbe fatto male cadendo. Poi si erano accumulati altri episodi negli anni della adolescenza e il risultato era stata la perdita delle amicizie, gli altri ragazzi “credevano davvero che Duccio Chilleri portasse iella”, “qualunque suo pronunciamento aveva la forza mistica di un anatema”. E’ “sbalorditivo”, ma alla fine degli anni settanta del XX secolo questo accadeva a Firenze.

Rosario Chiarchiaro ci trasporta invece nella Sicilia degli inizi del Novecento, quando ‘jella’ aveva una grafia diversa. Leggiamo la descrizione che ne fa Pirandello in una lunga didascalia che precede l’ingresso del personaggio sulla scena, nello studio del giudice D’Andrea che dovrebbe rilasciargli la patente di jettatore: “S’è lasciato crescere sulle cave gote gialle una barbaccia ispida e cespugliuta; s’è insellato sul naso un paio di grossi occhiali cerchiati d’osso che gli danno l’aspetto di un barbagianni; ha poi indossato un abito lustro, sorcigno, che gli sgonfia da tutte le parti, e tiene una canna d’India in mano col manico di corno”.

Chiarchiaro è un uomo maturo, è padre di famiglia; se si è conciato così è per disperazione. Da un anno vive in miseria con la moglie e le due figlie nubili, poiché ha perso il lavoro, è “fustigato da tutti, sfuggito da tutto il paese come un appestato”. Non gli resta che ricorrere alla giustizia e perciò sporge denuncia contro il figlio del sindaco e contro l’assessore Fazio, che hanno fatto gli scongiuri vedendolo passare.

Lo scopo, però, è di perdere la causa. Al giudice D’Andrea, che fatica a capire Chiarchiaro, spiattella le sue intenzioni: “Io mi sono querelato perché voglio il riconoscimento ufficiale della mia potenza. Non capisce ancora? Voglio che sia ufficialmente riconosciuta questa mia potenza terribile, che è ormai l’unico mio capitale, signor giudice!”

Alla parola “capitale” mi fermo e faccio il punto sul rapporto che lega questo personaggio al Duccio di sopra. Dunque entrambi patiscono la fama di portare sfortuna; in termini pirandelliani si direbbe che la società ha imposto loro una ‘maschera’, che li determina senza scampo. Ne risente il loro aspetto: anche Duccio subisce dal suo autore una descrizione espressionistica che sfiora la caricatura.

Vediamolo sempre al capitolo quattro: finita l’adolescenza sono bastati pochi anni per fargli cambiare aspetto. “Fisicamente era diventato alquanto impresentabile: quando parlava, una bavetta bianca aveva preso a raggrumarglisi negli angoli della bocca; i capelli corvini erano sempre più unti e forforosi; si lavava poco e il più delle volte puzzava”.

Ne risente il rapporto con gli altri, la cattiva nomea lo avvolge come una crosta. Solo Marco Carrera è rimasto amico di Duccio; egli ha anche elaborato una teoria sulla propria incolumità e l’ha chiamata “l’occhio del ciclone”. Secondo questa teoria, a mantenersi a stretto contatto con l’Innominabile non si rischia nulla, come accade se ci si posiziona al centro dei vortici ciclonici. Poi, con gli anni anche Marco si allontana da Duccio.

Il punto di svolta è l’incidente aereo che i due hanno evitato perché Duccio, preso dal terrore per il volo, ha preteso di scendere dal velivolo poco prima del decollo, non senza lanciare uno dei suoi anatemi ai passeggeri. In seguito alla caduta dell’aereo le vittime, le “fatalities” del titolo, sono 94. Marco resta travolto dal peso di questa tragedia, si tiene dentro le angosce che ne conseguono e il dubbio “circa un universo veramente attraversato da forze occulte, delle quali il suo amico d’infanzia fosse veramente in possesso”.

Non so se il seguito del romanzo mi farà conoscere altre svolte nell’amicizia tra i due. Nel punto in cui mi trovo Duccio risulta isolato dagli altri.

Invece so bene come va a finire nell’opera di Pirandello: Rosario Chiarchiaro, dopo aver subito la stessa emarginazione, ha reagito con forza; la sua richiesta di essere riconosciuto ufficialmente come jettatore costituisce un paradosso, uno dei tanti a cui ci ha abituato Pirandello, ma gli permette di incamerare la maschera che gli altri gli hanno imposto. Se avrà la patente di jettatore, infatti, potrà usarla a proprio vantaggio.

Al giudice D’Andrea sempre più sbigottito spiega: “Ci sono tante case da giuoco nel nostro paese! Basterà che io mi presenti. Non ci sarà bisogno di dir niente. Il tenutario della casa, i giocatori, mi pagheranno sottomano, per non avermi accanto e per farmene andar via!” Lo stesso accadrà quando si apposterà presso una gioielleria e verrà pagato per spostarsi vicino al negozio della concorrenza. Sarà come una tassa che gli verrà versata e lo renderà ricco.

La ‘maschera’ di Chiarchiaro e la ‘crosta che circonda Duccio, ecco il punto di incontro tra i due, il loro essere vittime dell’ignoranza e della superstizione. Anche se il testo di Pirandello nel finale ci lascia sbalorditi, il suo genio ci introduce nei piaceri del relativismo e della frantumazione di ogni certezza, quando nello studio del giudice arriva una folata di vento che fa cadere la gabbia dell’amato cardellino e la bestiola muore. Chiarchiaro trionfa: anche il giudice D’Andrea, così razionale, deve capirlo, che di fronte a sé ha un vero jettatore; ora potrebbe dare risposta anche ai dubbi di Marco Carrera circa le “forze occulte” che si aggirano nell’universo.

Da domani mi attende la lettura del resto del romanzo. Rientro dalla stradina collaterale alla strada maestra, tuttavia la mia sosta è stata utile, perché mi ha fatto rileggere il mio amato Pirandello. Poi c’è un’altra ragione. Domenica scorsa non ho potuto seguire l’intervista che, sempre a Mantova, Marco Malvaldi ha rivolto a un grande narratore della scena mondiale, Javier Cercas.

Dal resoconto che ho recuperato nel sito del Festival ho tratto, però, alcune affermazioni di Cercas che mi sono piaciute, quando parla del lettore. Una in particolare: “E’ l’aspettativa il male più grande che possa affliggere il lettore…, l’aspettativa che debba sempre succedere qualcosa in più. Abbiamo spesso l’impressione che nei libri non succeda niente perché non cerchiamo abbastanza. Nei libri, se cerchiamo bene, succede tutto”.

Eccola qui la ragione che mi ha costretta a fermare la lettura del Colibrì. Mi sono lasciata trasportare dalle aspettative sul libro, quelle che mi sono fatta ascoltando l’autore e quando ho realizzato che per me nel libro c’è altro, per meglio dire c’è ‘anche’ altro, ho voluto fare il punto sulla situazione. Secondo Cercas mi resta ancora molta ricerca da fare sul libro che sto leggendo e questa regola l’ho fatta mia da tanto, da quando ho capito che lettura e scrittura sono due realtà in perenne comunicazione.
Quello che farò quando mi metterò a leggere anche i suoi romanzi sarà sbagliare di nuovo, perché su di lui mi sono già creata grandi aspettative.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

BUFALE E BUGIE
Ci si riammala, serve il vaccino! Ma…

Da quando la vita ha lasciato il posto alla sopravvivenza, facendo dimenticare che i rischi del vivere sono connaturati nell’esistenza stessa, il timore di smarrire la salute è divenuto il nuovo comun denominatore a tutti i componenti della nostra società. Una paura irrazionale, tuttavia, che non sa concretarsi in una cosciente acquisizione di modus vivendi sani e profilattici.

Business Insider Italia, che già avevo segnalato per disinformazione scientifica, è tornato lo scorso 28 agosto ad alimentare gli allarmismi ingiustificati degli ultimi tempi: “Ora c’è la conferma: di Covid ci si può ammalare di nuovo. Ma il vaccino servirà comunque”. E invece la realtà è diversa: non c’è alcuna conferma. Lo studio citato [vedi qui], il cui testo originale è stato accettato ma non ancora pubblicato in via definitiva, per cui è suscettibile di interventi correttivi, presenta l’ipotesi di un caso di reinfezione da SarsCov-2, che nulla ha a che vedere con il ritorno di una malattia, in questo caso la Covid-19. L’uomo incriminato, che a seguito di alcuni sintomi primaverili riconducibili a tale patologia era risultato positivo al test del tampone, ed è stato perciò ritenuto da essa colpito, al ritorno da un viaggio è stato sottoposto a un ulteriore tampone nel mese di agosto, rivelandosi nuovamente positivo, ma in totale assenza di sintomi. Le analisi condotte hanno evidenziato sia la probabile presenza di una immunità nel paziente conseguente alla prima infezione, sia l’appartenenza a due ceppi diversi del virus individuato nelle due occasioni. Addirittura, “il ceppo virale rilevato nel secondo episodio è completamente diverso da quello trovato nel primo”, nonostante l’articolo italiano parli di “una varietà leggermente differente”. Ma anche un’altra sbrigativa affermazione si discosta dai contenuti del manoscritto: “la sua carica virale era comunque alta. Il che significa che avrebbe potuto infettare altre persone”, mentre piuttosto la contagiosità è fortemente condizionata dalla presenza di sintomi, e infatti di ciò non si parla nel testo del paper. L’accento, infine, viene spostato sulla questione vaccini, ma pure in questo caso lo studio originale sembra mostrare uno scenario differente. I risultati ottenuti farebbero pensare, infatti, che i vaccini contro il nuovo coronavirus potrebbero, testualmente, non essere in grado di fornire una protezione permanente contro il malanno. A ogni modo, comunque, non è affatto dimostrato al momento che un eventuale vaccino “proteggerebbe in ogni caso dall’eventualità di ammalarsi gravemente”. Ciò non è ancora certo, né può essere esteso all’intera popolazione.

Il nuovo studio non menziona casi di una ricaduta da Covid-19, mai dimostrata scientificamente. Semplicemente, testimonia la possibilità, considerata rara, di avere esito positivo al tampone anche dopo aver avuto sintomi in passato. E i dubbi sul vaccino si mantengono tuttora.

BUFALE & BUGIE, la rubrica di controinformazione di Ivan Fiorillo esce ogni mercoledì su Ferraraitalia. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui]

FERRARA: ESTERNO VERDE
In bici e in barca tra ville e delizie

Da: Ufficio Stampa Ass. Ilturco

Eleganti delizie rinascimentali, ville circondate da parchi e giardini, accoglienti aie di campagna, impianti di bonifica e piccoli santuari: Esterno Verde sabato 3 e domenica 4 ottobre invita ferraresi e turisti a esplorare la campagna che si stende oltre alle mura di Ferrara, punteggiata di luoghi straordinari, attraverso i quali è possibile leggere il passato e il presente del territorio. Per un weekend saranno eccezionalmente aperti al pubblico parchi e giardini privati di suggestive dimore storiche e casali, idrovore e case coloniche, distribuiti lungo un percorso che dal capoluogo estense si svolgerà attraversando le frazioni di Pontegradella, Baura, Contrapo, Codrea e Quartesana, per giungere fino a Sabbioncello San Vittore, Ducentola e Aguscello, e infine tornare verso il centro città.

L’associazione Ilturco – che dal 2016 cura Interno Verde, che da poco ha festeggiato la quinta partecipatissima edizione – ha voluto riservare alla scoperta del patrimonio storico, architettonico e paesaggistico della provincia un momento speciale e dedicato.

«Nel 2019 abbiamo sperimentato per la prima volta questo tipo di proposta, coinvolgendo i proprietari delle ville e degli agriturismi, invitando le persone che apprezzano l’atmosfera raccolta dei giardini segreti del centro storico a vivere un’esperienza diversa, a guardare con occhi nuovi la provincia e le tante sorprese che custodisce», raccontano gli organizzatori. «Consigliavamo un percorso in bicicletta, da incrociare con le gite in battello lungo il Po di Volano e le corse dei treni che, diretti verso Codigoro, fermano a Quartesana. La collaborazione avviata quest’anno con l’associazione Metropoli di Paesaggio, impegnata nella costruzione del nuovo pontile di Baura, che verrà inaugurato proprio sabato 3 ottobre, ci aiuterà a migliorare i collegamenti tra i vari paesi e trasformerà Esterno Verde in una vera e propria festa. Abbiamo studiato un programma comune che comprenderà l’inaugurazione dell’attracco, momenti conviviali e approfondimenti, oltre naturalmente alla straordinaria apertura al pubblico di tanti luoghi solitamente non accessibili».

La navigazione tra Ferrara, Baura e Sabbioncello sarà gratuita a bordo del battello Nena, sul quale sarà possibile trasportare anche le biciclette. Un servizio di noleggio bici, sempre gratuito, sarà a disposizione presso il nuovo pontile di Baura. Nella creazione dell’itinerario su due ruote sarà di supporto anche il collegamento ferroviario che collega Quartesana al centro città, con treni e autobus che possono caricare i mezzi.

Le iscrizioni a Esterno Verde sono già aperte online al sito www.internoverde.it. Giovedì 1 e venerdì 2 ottobre sarà inoltre possibile iscriversi di persona presso la sede dell’associazione, in via del Turco 39, dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 19. Durante l’evento, sabato 3 e domenica 4 ottobre, ci si potrà iscrivere presso i seguenti infopoint, aperti dalle 10 alle 13 e dalle 14 alle 18: nello splendido giardino di via Pomposa 70, presso il nuovo pontile di Baura, davanti al bar Acli di Quartesana.

L’iscrizione – valida per entrambe le giornate – prevede un contributo di 10 euro, gratis per i bambini fino ai 13 anni, e comprende il braccialetto che funziona da pass di accesso, la mappa dei luoghi aperti e il libretto con le loro descrizioni e fotografie. Per saperne di più: info@internoverde.it.

I numeri che governano il mondo ma non la felicità

I dati della Banca Mondiale ci dicono che il Pil (Prodotto Interno Lordo) mondiale è cresciuto tra il 2018 e il 2019 di circa 2 trilioni di dollari (in percentuale del 2,3%) raggiungendo quasi 88 trilioni di dollari (87,8 trilioni).

Nella classifica dei Paesi che producono maggiore Pil non vi sono grossi sconvolgimenti. L’India continua ad avanzare e si piazza tra i primi 5, l’Italia è 8^ in quanto produce 2 trilioni di dollari di Pil che rappresentano il 2,3% del totale mondiale.

Come si nota, i primi 10 Paesi producono oltre la metà del PIL mondiale il che è un colpo d’occhio sulle capacità produttive e di scambio degli stessi (la tabella completa qui https://databank.worldbank.org/data/download/GDP.pdf) rispetto al resto del mondo che consta di 196 stati “sovrani”.

I dati di Eurostat e Oecd mostrano invece la perdita di Pil nel 2° trimestre 2020 rapportato allo stesso trimestre del 2019 su una serie di 39 paesi singoli a cui si aggiungano gli stessi dati in aggregato per Nafta, Eu, Euro area, Oecd totale.

Qui vediamo che a fare peggio è il Perù mentre Taiwan e Corea del Sud sono i paesi che meglio hanno resistito alla tempesta coronavirus. La Cina flette ma rimane con il segno positivo.

Diamo uno sguardo anche al debito pubblico mondiale. Nel 2019 è arrivato a 69,3 trilioni, ed è interessante notare che la maggior parte di questo debito è detenuto dai paesi ricchi, ad esempio l’Europa ne detiene il 23,4% (meno del Nord America che ne ha per il 34,2%) mentre l’Africa con la sua quota di 1,313 trilioni arriva appena all’1,9 della percentuale globale. Insomma si vive meglio dove si è fatto debito pubblico, peggio dove si è stati costretti a restituirlo.

La quota maggiore appartiene agli Stati Uniti, il Paese che spende di più, anche per sostenere l’economia degli altri stati, secondo il principio che se c’è un venditore deve esserci un compratore e che a un creditore corrisponde un debitore. Per assurdo, senza debito – credito non ci sarebbero transazioni e non ci sarebbe bisogno di conteggiare Pil e debito, forse non si produrrebbe niente oppure ognuno farebbe per sé.

In sostanza il debito globale è inferiore al Pil globale, quindi gestibile nell’eventualità di un confronto con economie aliene, e il debito pubblico non corrisponde a povertà e indigenza ma ‘probabilmente’ a sviluppo e investimento per il futuro. Una nota a questo è necessaria: il debito pubblico deve essere gestito bene per poter dare frutti, quindi dovrebbe essere compreso nelle sua funzione di spesa di quel settore che corrisponde al bilancio statale, mentre il Pil … “non misura ciò che rende la vita degna di essere vissuta”.

“Pittori fantastici nella Valle del Po”
in mostra tra tigri al pascolo e liturgie gastronomiche

Ultima settimana per andare a vedere come 42 artisti contemporanei hanno rappresentato in questi ultimi anni le terre attraversate dal Po, la sua gente e le caratteristiche tutte padane di volti e paesaggi. Una visione racchiusa nella carrellata di quadri esposti alla mostra “Pittori fantastici nella Valle del Po”, al Pac-Padiglione d’arte contemporanea, accanto all’ingresso di Parco Massari in corso porta Mare a Ferrara, visitabile fino a domenica 27 settembre 2020.

“Affettazione liturgica” di Enrico Robusti

Un’opportunità per spaziare dai paesaggi pianeggianti degli argini fino ai volti grotteschi di chi ci abita e può essere votato alla liturgia dell’affettatrice di culatello e prosciutto o alla meticolosa documentazione di quel mostro reale e vivente delle acque fiumane che è il pesce siluro.

“Siluro” di Marcello Carrà

Ed è anche occasione per andare a osservare da vicino lo spettacolare “Notturno padano” che campeggia su manifesti e striscioni promozionali della mostra, un olio su tavola con quella luna-faro a illuminare i campi di una piccola comunità rurale dove, al primo colpo d’occhio, si intravedono sagome di animali tra frutteti, borgo e campi distribuiti sulla riva del Po attraversato dal ponte di ferro ferroviario.

“Notturno padano” di Adelchi Riccardo Mantovani sulla copertina del catalogo della mostra con sopra la linea del fiume Po

Bisogna guardare bene per arrivare a distinguere – in mezzo a pecore e maiali d’ordinanza – una tigre, una famigliola di elefanti, una giraffa che bruca un albero. L’opera, scelta come immagine dei manifesti e della copertina del catalogo della mostra, è firmata da Adelchi Riccardo Mantovani, artista nato nel 1942 a Ro, in provincia di Ferrara, che in qualche modo aggiorna in termini di arte contemporanea quella capacità di evocazione fantastica di cui è stato eccezionale cantore letterario Ludovico Ariosto e che a Ferrara aveva trovato nella pittura tardo-rinascimentale di Dosso Dossi un grande interprete, contagiato dal gusto dell’opera fiamminga e fantasmagorica di Hieronymus Bosch. Questa è anche una delle opere rappresentative del contributo di artisti ferraresi alla mostra, che spazia poi su tutto l’ampio territorio geografico nazionale attraversato dal fiume Po, a partire dalla fonte montana sul Monviso fino, appunto, al Delta.

Sala con l’esposizione anche degli artisti ferraresi della mostra “Pittori fantastici nella Valle del Po”, Palazzina Marfisa di Ferrara (foto GioM)

La mostra è curata da Camillo Langone e contiene una micro-sezione curata dal critico Lucio Scardino per dare spazio a sette pittori rappresentativi dell’area ferrarese. Ecco dunque Aurelio Bulzatti con la sua “Trilogia estense” fatta di tre quadretti dedicati in successione a “strada, sogno e fiume”; la carta-lenzuolo dove Marcello Carrà dà prova della sua talentuosa vocazione naturalistica a tratteggiare a colpi di penna biro un siluro lungo oltre tre metri; Gianfranco Goberti con una raffinata versione quasi concettuale del “Paesaggio padano” reso con grafite e acrilico su carta; l’acrilico usato da Sergio Zanni come un acquerello per descrivere pianura e argini nostrani. Notevole anche la capacità veristica di fotografare un pezzetto di urbanizzazione rurale senza risparmiarne i dettagli privi di idealizzazione, con tanto di tettoie in amianto e finestre in acciaio anodizzato, di cui dà conto il grande olio su tela non intelaiata di Nicola Nannini, intitolato “Sotto un cielo d’autunno”.

“Sotto un cielo d autunno” di Nicola Nannini

Armoniosa disarmonia quella del collage di Luca Zarattini che con la sua tecnica mista dell’opera intitolata “In foce” regala scorci resi astratti dove si possono immaginare spunti visivi delle barche tipiche del Delta del Po (le batane), anatre e canneti, trasfigurati nel suo stile che riconcilia la vista e rende ariosa e personalissima la sua visione tutta contemporanea del paesaggio lagunare.

“In foce” di Luca Zarattini

“Pittori fantastici nella Valle del Po”, al Pac-Padiglione d’arte contemporanea (corso Porta Mare 5, Ferrara) fino a domenica 27 settembre 2020, aperto da martedì a domenica ore 10-13 e 16-19.30

Red Carpet rosso sangue

La ‘Settima Arte’, come viene definito il Cinema, contiene in sé qualcosa di magico e irripetibile perché cattura, fa immedesimare, affascina e coinvolge come fosse un mirabolante affabulatore instancabile. Il grande schermo rimane un appuntamento in cui ci immergiamo totalmente, gioiamo, soffriamo, ci commuoviamo, ci spaventiamo, sperimentiamo l’intera gamma di sensazioni, sentimenti ed emozioni nello scorrere delle sequenze, troviamo  conferme o smentite, rassicurazioni o dubbi nei personaggi della narrazione.
Si è conclusa da poco la 77esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia in una cornice straniante fatta di mascherine, distanziamenti, termoscanner, percorsi obbligati, barriere separatorie, prenotazioni di posti rigorose, visioni in apnea. Un film dentro il film che descrive un day-after, ma diventa anche uno dei simboli di forte volontà di ripartenza culturale post-Covid.
Vince il Leone d’Oro il film Nomadland  di Chloé Zhao, con riconoscimento quasi unanime: la storia di Fern, una donna rimasta senza lavoro – e senza il marito, che muore – dopo la chiusura della fabbrica in cui ha lavorato per molti anni e il crollo economico della città del Nevada in cui vive. Lascia tutto e intraprende una vita sulle strade dell’Ovest americano, lontana dalla società convenzionale, nomade moderna e anima errante in perpetuo movimento. Il suo vagabondaggio diventa quello speculare dell’America anni ’80 e attraverso il peregrinare della donna si dipana anche  il percorso degli States di quegli anni.
La rassegna cinematografica veneziana del 2020 ha registrato la partecipazione di visioni importanti, dedicate a una moltitudine di generi e prospettive: una coraggiosa decisione dell’organizzazione di non abbandonare, nonostante le insicurezze del periodo che viviamo. Nella storia del cinema, nel backstage di ogni film esiste il lavoro dettagliato e scrupoloso di una miriade di figure professionali che rendono possibile la sua realizzazione; si raccontano anche aneddoti, talvolta dai contorni leggendari, che lo caratterizzano e lo rendono più curioso e particolare di altri.

Il set di alcuni film è diventato anche teatro di fatti strani e inspiegabili, dai contorni tragici in alcuni casi, misteriosi e inquietanti in altri. Prendiamo, ad esempio, il “Caso della donna delle dune”, legato al set del famoso film “Lo squalo”, grande successo degli anni ’70. Il 26 luglio 1976, tra le dune di Cape Code in Massachusetts, fu rinvenuto da una tredicenne il cadavere di una donna: mani amputate, testa semidecapitata, lunghi capelli raccolti a coda di cavallo, bandana blu, jeans, capsule dentarie d’oro di qualche migliaio di dollari. Un’identità mai scoperta e l’impossibilità di indizi da impronte digitali. Un caso irrisolto da 45 anni.
Il seguito di questo fatto ricompare nel 2015, quando Joe Hill, figlio del celebre scrittore Stephen King, guardando “Lo squalo” si accorge di un clamoroso dettaglio al minuto 54 della rappresentazione: una folla  accalcata sul pontile si sta imbarcando sul traghetto e tra le persone si nota la donna delle dune, proprio la stessa donna, ignota ma visualizzata da milioni di persone senza che qualcuno arrivasse a qualche collegamento col film. Le coincidenze erano tante per nutrire dei dubbi, stesso abbigliamento, il set del film era nei paraggi della spiaggia del ritrovamento e la scena era stata girata a giugno, un mese prima della scoperta. Hill ne parlò con la polizia e FBI, fece girare la notizia in Internet con un post che ad oggi risulta uno dei più cliccati. Dal registro delle comparse del film non risulta alcun nome o indizio e attualmente non esistono ancora risposte.

Ci sono film girati in circostanze strane, in cui registi, attori e membri della troupe rimangono coinvolti in misteriosi avvenimenti durante le riprese. A volte sembra che la realtà del set superi la finzione cinematografica. E’ il caso di “L’esorcista” (1973), film terrificante da vedere e set terrificante su cui lavorare. Numerosi eventi raccapriccianti durante la lavorazione hanno tinteggiato di toni funesti quest’opera: l’attore irlandese Jack Macgowran morì subito dopo aver completato le sue scene e la stessa sorte toccò disgraziatamente a un membro della troupe e a una guardia di sicurezza. Il set andò a fuoco senza spiegazione alcuna. Strane circostanze che portarono il regista William Friedkin a chiedere a un prete di benedire i luoghi della lavorazione.

Nel 1954 la troupe del RKO girò nell’Area St. George, Utah, il film “The conqueror” sulla vita di Gengis Khan. Le autorità rassicurarono il produttore Howard Hughes sull’assenza di qualsiasi rischio in quella zona, sede di esperimenti  e test nucleari. Fu un film tra i più visti di quella stagione ma considerato successivamente dai critici uno dei 100 film peggiori della storia del cinema. Protagonisti erano John Wayne e Susan Haywa, due giganti del grande schermo. 91 persone delle 220 impegnate sul set si ammalarono nel giro di pochissimi anni e morirono, a cominciare dal regista Dick Powell e un attore. Che rapporto ci fosse tra l’insorgere delle malattie tumorali e l’esposizione in quell’ ambientate non è dato certo; un medico parlò di epidemia, la fantasia popolare creò una delle leggende metropolitane ancora raccontate, attribuendo ai fatti un alone di mistero. Il produttore acquistò tutte le copie del film per 12 milioni di dollari e lo ritirò dalla circolazione.

Si racconta di fatti inspiegabili durante le riprese della serie di film “The Amityville Horror”, un cult anni ’70, con avvenimenti spettrali, manifestazioni strane e un ritrovamento di un corpo umano sul luogo delle riprese. Si ispira alla vera storia del 23enne Ronald DeFeo Jr., autore dell’efferato sterminio della sua famiglia, condannato a 6 ergastoli – 6 erano le vittime – che sta ancora espiando in carcere.

Aggiungiamo due nomi diventati un mito, Bruce Lee padre e Brandon Lee figlio, morto sul set del film che stava girando, in circostanze che lasciano ancora molti interrogativi. Citiamo anche “The omen Il presagio”, in cui Gregory Peck rischiò di morire in un disastro aereo scampato e un altro velivolo decollato dal luogo del set precipitò causando 11 vittime. Una sciagura che venne interpretata come segno negativo inspiegabile.

Il cinema non è sempre un paradiso in Technicolor: dietro le quinte esiste un mondo meno dorato, dove la realtà è dura e talvolta spietata. In qualunque dei casi e qualunque connotato gli si voglia riconoscere, il cinema può essere mille mondi: uno specchio dipinto, come lo definiva Ettore Scola, un business, come diceva Audrey Hepburn, una competizione con Dio, come lo pensava ironicamente Federico Fellini.  Anche un sassolino nella scarpa, veicolo di pensiero, mezzo di contestazione, fastidioso e scomodo pretesto per riflettere, a detta di Lars von Trier.
Il cinema è e rimane una meravigliosa reimpostazione del mondo, un grande inganno, una rappresentazione di quella vita che scegliamo di rappresentare, un sogno, una cruda denuncia, un invito a fermarci e guardare.

LA CARTA DELLE CITTA’ EDUCATIVE
Formazione continua, luoghi e reti di apprendimento

Sono tornato a leggere in questi giorni la Carta delle Città Educative. Compirà trent’anni quest’anno, perché è nata dal primo congresso celebrato a Barcellona nel novembre del 1990. In quel documento sono raccolti i principi basilari per la spinta educativa delle città. La Carta è stata poi revisionata in occasione del III° Congresso Internazionale tenuto a Bologna nel 1994 e in quello di Genova del 2004 per adattare la sua impostazione alle nuove sfide e necessità sociali.
L’ho ripresa in mano perché continuava a stonarmi nelle orecchie il fatto che la ministra dell’istruzione Azzolina, nelle linee guida per la ripresa scolastica autunnale, avesse scelto di utilizzare l’espressione “comunità educante” per invocare la collaborazione dei territori e dei portatori di interesse.

Per uno come me, che da anni continua ostinatamente a occuparsi di Città della Conoscenza, Learning Cities e Ciudades Educadoras, tutte individuate dall’Unione Europea come soggetti formativi per eccellenza del nuovo millennio, quella ‘comunità educante’ tanto novecentesca continuava a stridere. Ora non posso dire se l’espressione scelta dalla ministra sia dovuta ad una precisa intenzionalità o, invece, sia solo il frutto di una scarsa competenza. Un dato è però certo che, se la Carta delle Città Educative fosse stata fatta propria da tutte le città del paese e dai governi che si sono succeduti fin qui, con ogni probabilità sia la chiusura forzata delle scuole, sia la ripresa scolastica avrebbero permesso alle famiglie, ai bambini e agli adolescenti di pagare un prezzo meno caro.

L’impreparazione ad affrontare gli effetti della pandemia sul piano educativo non è stata solo della scuola, ma anche dei territori e delle nostre città. Sento già chi osserva che negli altri paesi non è andata meglio. Certo, ma questo non può esimere da aprire una riflessione su che cosa sarebbe potuto accadere, se nelle nostre città da tempo fosse diffusa, organizzata e funzionante un’ampia rete di istruzione permanente, tanto da dare per scontato che formazione formale e formazione non formale collaborino e dialoghino costantemente, fino a intersecarsi. Questo avrebbe prodotto una maggiore differenziazione e distribuzione dei compiti formativi tra scuole e istituzioni del territorio. Molto probabilmente avremmo avuto a disposizione una pluralità di luoghi oltre alle aule degli istituti scolastici, sarebbe stato possibile frazionare le classi in gruppi più ristretti, come è avvenuto in Germania e in Inghilterra, avremmo potuto fare affidamento su più risorse umane per far fronte al moltiplicarsi delle necessità di insegnamento e per non lasciare i più piccoli tanto a lungo confinati in casa, coinvolgendo oltre al personale scolastico e agli educatori comunali, insegnanti messi a disposizione dall’associazionismo e dal volontariato, figure di esperti disposte a farsi carico di sostenere lo studio delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi. Le nostre città sarebbero state più smart, così da poter contare su pratiche di didattica a distanza e sull’utilizzo di reti digitali da tempo già collaudate.
Le linee guida per la ripresa autunnale avrebbero avuto come destinatari le reti educative territoriali, anziché auspicare il coinvolgimento di fantomatiche comunità educanti. Insomma l’emergenza non sarebbe stata affrontata con un occhio tutto ed esclusivamente ripiegato sulla scuola, dai banchi alle distanze.

L’AICE è l’Associazione Internazionale delle Città Educative che si è costituita a Bologna nel 1994, si tratta di una struttura collaborativa permanente tra diversi comuni europei sul tema dell’Istruzione e della Formazione Continua, di cui fanno parte quasi 500 città da 37 Paesi del mondo. In Italia vi aderiscono altre 17 città (Siracusa, Foggia, Roma, Castelfiorentino, Ravenna, Genova, Collegno, Torino, Settimo Torinese, Brandizzo, Busto Garolfo, Orzinuovi, Brescia, Vicenza, Venezia, Sacile e Portogruaro), ciascuna con una propria rete interna di associazioni, scuole, accademie. Il Comune di Bologna fa parte di altre 8 reti internazionali. Diciotto in tutto su 7.915 comuni italiani a cui spetta il titolo di città, esattamente lo 0,22%.

Rimane senza risposta, dunque, la domanda relativa a come si sarebbe potuta affrontare l’emergenza scolastica se negli anni, a partire dai vari governi e dai ministri che si sono succeduti alla guida dell’istruzione, si fosse provveduto a incentivare in tutto il paese la diffusione delle ‘città educative’, anziché perdersi dietro la vuota retorica della ‘comunità educante’.
Se questa non è colpevole inerzia diseducativa, non saprei come definirla, inerzia diseducativa che coinvolge non solo chi amministra le nostre città, ma anche il governo e il ministro che avrebbe il compito di occuparsi di istruzione, con un occhio che guardi oltre viale Trastevere e non solo alla punta dei propri piedi.

La grande sfida del XXI secolo è  ‘investire sull’istruzione’, su ogni persona giovane o adulta, di modo che ognuno sia sempre capace di esprimere, affermare e sviluppare il proprio potenziale umano, con le proprie singolarità, creatività e responsabilità. Amministrazioni cittadine che progettano sviluppo urbano, architetture, spazi e politiche, senza mai perdere di vista che devono essere funzionali anche alla formazione continua dei loro abitanti, formazione che costituisce la vocazione, il compito prioritario di ogni città educativa, moltiplicando i luoghi e le reti dell’apprendimento.
Ciò che preoccupa è che a livello locale come a livello nazionale in materia di formazione il pensiero si sia da troppo tempo arrestato e si continui a ragionare con le logiche del secolo scorso, quelle del novecento, da lungo inadeguate, alimentando l’impressione che per le nuove generazioni il futuro non sorgerà mai.