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Ferrara film corto festival

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LA PARABOLA DISCENDENTE DEL MODELLO EMILIANO-ROMAGNOLO

LA PARABOLA DISCENDENTE DEL MODELLO EMILIANO-ROMAGNOLO

Parlare oggi di modello emiliano-romagnolo potrebbe essere un’operazione di pura ricostruzione storica, visto che i suoi “anni d’oro” si possono collocare tra la fine degli anni ‘50 e la fine degli anni ‘70 del secolo scorso, se non fosse che, pur senza ricorrere a quella denominazione, l’allusione ad esso sembra tornare anche in questi anni, in particolare da parte dei dirigenti del Pd emiliano, nella narrazione che viene offerta della realtà odierna dell’Emilia-Romagna. Basta prendere a titolo esemplificativo il discorso di saluto del presidente della Giunta regionale Stefano Bonaccini al Congresso nazionale della Cgil, svolto a Rimini nel marzo del 2023, quando parlava della situazione emiliano-romagnola come di una regione che, negli ultimi sette anni, ha avuto la crescita economica e l’export procapite più sostenuti rispetto alle altre regioni e il valore aggiunto industriale più alto nei confronti dei territori europei. Aggiungendo che analoghi risultati positivi si riscontrano per quanto riguarda i temi del lavoro, dei diritti, dell’inclusione sociale e della tutela dell’ambiente.

Una visione chiaramente agiografica, che mette da parte arretramenti considerevoli che si registrano nel lavoro, anche in Emilia-Romagna, con la diffusione di povertà e precarietà, nel sistema di Welfare, a partire dalla sanità, nelle scelte relative alla conversione ecologica e ambientale. Per non parlare delle forme di partecipazione e della democrazia, se solo si pensa a come, in primis da parte del Pd, si sia archiviato ed eluso nella discussione il disastroso risultato della partecipazione alle elezioni regionali del 2014, attestatasi al 38%, o, ancora, come si sia data una lettura della vittoria elettorale del centro-sinistra del 2020 in termini di consenso alle sue politiche, e non, prima di tutto, come di una reazione democratica contro il rischio della conquista da parte della destra di una regione simbolo. Un risultato, peraltro, supportato da movimenti e iniziative promosse da mondi non direttamente riconducibili ad espressioni partitiche. Insomma, sembra venga riproposta, sia pure in termini aggiornati, un’idea dell’Emilia-Romagna come esempio virtuoso e modello di riferimento da esportare in tutto il Paese.

 Cosa è stato il modello emiliano

 Anche a fronte di ciò, vale la pena ripercorrere i tratti di fondo di quello che è stato il “modello emiliano”, quella forma specifica di intreccio tra economia e  società che in questa terra si è realizzata tra la fine degli anni ‘50 e la fine degli anni ‘70 del Novecento. Tornerò più avanti sulle motivazioni di questa periodizzazione, anticipando, però, che essa non è funzionale ad individuare una sorta di epoca felice cui ispirarsi ancora oggi, non foss’altro per il ben differente contesto sociale, politico ed economico nel quale ci troviamo. In realtà, quell’esperienza non nasce improvvisamente e come disegno predefinito. Essa affonda parte delle proprie radici già nelle realizzazioni del “socialismo municipale” di inizio del ‘900 in diversi Comuni emiliani, dall’Imola di Andrea Costa, passando per la Reggio Emilia di Prampolini e arrivando alla Bologna di Zanardi, e ha già una sua “premessa teorica” nel famoso discorso “Ceto medio ed Emilia rossa”, tenuto da Palmiro Togliatti a Reggio Emilia nel 1946. Dove si dice testualmente che “non vi è nessun contrasto tra gli interessi che noi difendiamo e quelli dei gruppi sociali intermedi”, si parla dell’Emilia come della situazione che ha già sperimentato questo dato e ancor più potrà farlo, in particolare grazie all’opera unificante del Partito comunista.

In ogni caso, gli ingredienti fondamentali che hanno dato vita all’esperienza del modello emiliano sono stati diversi, ma tutti unificati dall’idea della costruzione di un blocco sociale tra classe operaia e ceti medi produttivi. Alla base di quest’impostazione, si trova, da una parte, un’analisi delle caratteristiche del modello di sviluppo capitalistico del dopoguerra, egemonizzato, in questa visione, dal predominio dei “grandi monopoli” e, dall’altra, dalla crescita di un diffuso tessuto imprenditoriale, e non solo, che non si riconosce negli interessi dei primi. Quell’analisi è quella prevalente nel Pci di quegli anni e, pur nella sua parzialità, se non erroneità, non verrà messa in discussione, almeno fino allo svolgimento del convegno dell’Istituto Gramsci del 1962 sulle “Tendenze del capitalismo italiano”, dove si affaccia una lettura diversa rispetto alla modernizzazione operata dal neocapitalismo.

Non c’è dubbio, però, che, in particolare nella realtà emiliana, si assiste ad uno sviluppo significativo di piccole e medie imprese, che nascono anche dall’iniziativa di nuclei di lavoratori, anche politicizzati, espulsi dalle ristrutturazioni e dal ridimensionamento industriale degli anni ‘50 e che costituiscono una base materiale importante per favorire la costruzione di quel blocco sociale. A ciò si aggiunge uno sviluppo forte del movimento cooperativo, concepito come sperimentazione alternativa al predomino delle logiche di pura ricerca del profitto e delle leve che muovono l’accumulazione capitalistica. A sostegno di tutto ciò si muove la leva fondamentale delle politiche degli Enti locali, e in specifico della creazione ex novo di un moderno e universale sistema di welfare. Avendo ben presente che questo comporta il fatto di mettere in campo una forte politica di deficit spending, di una politica keynesiana che si basa sul disavanzo di bilancio dei Comuni, giocata, peraltro, anche in termini rivendicativi nei confronti del governo centrale.

Le relazioni sul bilancio comunale di Giuseppe Dozza

Da questo punto di vista, è assolutamente illuminante la riflessione e l’iniziativa che troviamo nelle relazioni che il sindaco di Bologna Dozza svolge al Consiglio Comunale della città in occasione della presentazione dei bilanci preventivi per il 1962, il 1963 e il 1964. Fino a quell’epoca il Comune di Bologna aveva sostanzialmente sempre presentato bilanci in pareggio, con l’intento di dimostrare la competenza e l’efficacia della propria azione amministrativa. Con il 1962 si produce una svolta di grande rilievo: dopo aver ribadito che le Amministrazioni locali “hanno saputo riconoscere l’ente locale come l’istanza fondamentale di una costruzione dello Stato moderno nel nostro Paese”, si propone esplicitamente un punto di vista decisamente “innovativo”, nel senso che si mettono al centro le esigenze della cittadinanza piuttosto che gli equilibri contabili, sottolineando che “ una prima sommaria e prudenziale valutazione delle esigenze attuali della città…è già sufficiente a misurare i termini, politici prima ancora che finanziari, (mio corsivo) del divario esistente tra i bisogni della collettività cittadina e le possibilità effettive che sono lasciate attualmente all’ente locale di soddisfarli…”. Da qui la conclusione che “si può prevedere sin d’ora la necessità che il prossimo bilancio presenti un disavanzo”. E non di poco conto, visto che, nel 1963, le entrate passano a poco più di 18 miliardi di lire e le spese a circa 21,5 miliardi, con un disavanzo di 3 miliardi e 250 milioni, quasi il 18% rispetto alle entrate! Un approccio ribadito per il 1964 dove il disavanzo passa a 6 miliardi e 850 milioni di lire. Cifre consistenti che consentono al Comune di Bologna di quadruplicare gli investimenti dal 1960 al 1964 e che vengono impiegati soprattutto nei settori della scuola, nelle fognature, nei fondamentali servizi pubblici (trasporti, gas, acqua, nettezza urbana tramite le municipalizzate), nel verde urbano, nei servizi igienici e sanitari e anche per lo stesso decentramento amministrativo.

Infine, parte integrante ed essenziale di questo ragionamento è rappresentato dall’idea della partecipazione e dall’espansione della democrazia. Già nel dopoguerra, Dozza a Bologna teorizza che il Comune deve essere “Comune del popolo” e sperimenta prime forme di partecipazione attraverso la costituzione dei Consigli tributari, investiti dei compiti di accertamento e di concordato per l’applicazione dell’imposta di famiglia, finalizzati ad “assicurare la partecipazione democratica dei contribuenti in sede di accertamento dei redditi e di primo esame dei ricorsi». Non a caso vengono bollati dalla stampa filogovernativa come Soviet tributari. In più, si dà vita alle prime Consulte popolari, che evolveranno poi nei Consigli di quartiere, formalmente istituiti in 15 nel 1961. Soprattutto questo processo fu accompagnato da una forte discussione e coinvolgimento della politica e della cittadinanza, anche grazie al contributo di Giuseppe Dossetti che risale già al 1951, e che fece sì che essi, sul serio, si affermassero come veri istituti di democrazia partecipativa.

Il ruolo del Pci nella regione

Ovviamente, parlando di modello emiliano, non si può prescindere dal ruolo fondamentale svolto dal Pci, che, a differenza di letture superficiali apparse a più riprese, non può essere visto come una sorta di “cupola monolitica” che dirigeva tutti i processi, ma che certamente ha assolto un ruolo di guida e sintesi della decisione politica, riconosciuto, in primo luogo, proprio dai soggetti protagonisti di una reale dialettica che era presente in modo vivace nella società, dal sindacato al movimento cooperativo e alle stesse Associazioni di impresa. Non foss’altro che per il suo robusto, per certi versi incredibile insediamento sociale, per cui alla fine degli anni ‘60 la Federazione di Bologna conta più di 100.000 iscritti e il tasso di adesione al Pci (calcolato come rapporto tra iscritti e corpo elettorale) nei primi anni ‘70 si attesta attorno a poco meno del 20%.

Infine, a completamento di questa veloce e certamente non esaustiva “carrellata” sugli elementi fondanti del modello emiliano, vale la pena ricordare come, almeno tra le figure più avvedute del processo che si era avviato, fosse presente la consapevolezza che esisteva una tensione, ancora meglio un nodo politico irrisolto, tra quanto si metteva in campo a livello regionale e le scelte di modello produttivo e sociale che, invece, venivano avanti a livello nazionale. Insomma, un po’ estremizzando e parafrasando un detto celebre, che non si poteva sviluppare un “modello in una sola regione”. Diamo ancora la parola a Dozza, che, sempre nella relazione sul bilancio preventivo di Bologna per il 1962, afferma che “un’autentica politica di piano non può pertanto limitarsi a favorire una situazione esistente, ma deve proporsi di dirigerla…..Consegue da ciò, evidentemente, che una politica di piano non può limitarsi ad agire nel settore delle infrastrutture, ma deve contemporaneamente investire le strutture dell’economia…. deve incidere in modo sostanziale nelle strutture monopolistiche che caratterizzano, in Italia, i fondamentali settori dell’attività economica”. In controluce, non è difficile scorgere appunto quella tensione tra iniziativa locale e modello di sviluppo assunto nazionalmente che, alla fine, non poteva che sciogliersi allineandosi tra loro, in un modo o nell’altro.

 Le prime critiche da sinistra al modello

A queste teorizzazioni e anche realizzazioni di spessore, però, già alla fine degli anni ‘60, iniziano ad emergere riflessioni, nel campo della sinistra, non propriamente in sintonia con esse. È l’effetto dell’irrompere del biennio ‘68-’69, che, peraltro non a caso, presenta in Emilia alcune caratteristiche peculiari. In particolare per le lotte operaie, che, anche qui, raggiungono un’intensità e una durata di non poco conto, e – per usare una schematizzazione un po’ forzata, ma che può rendere l’idea – che vedono protagonisti non l’operaio massa, ma quello specializzato, non il 2° ma il 3° livello metalmeccanico, che corrisponde alla tipologia di struttura produttiva prima sommariamente descritta. Queste lotte, non casualmente, sono maggiormente indirizzate al superamento del cottimo, mettendo in atto uno “scambio virtuoso” tra mantenimento dei livelli produttivi e fissazione di premi salariali uniformi, e all’intervento sull’organizzazione del lavoro piuttosto che sull’ ugualitarismo spinto. Anche per quanto riguarda il movimento degli studenti si assiste all’anomalia per cui i giovani comunisti – tramite la gloriosa Sezione universitaria comunista, guidata da Antonio La Forgia, Claudio Sabattini, Francesco Garibaldo, Tiziano Rinaldini, Giorgio Cremaschi e altri ancora – partecipano attivamente all’iniziativa del movimento studentesco, caso forse unico nelle grandi università del Paese. Ancora: l’intreccio tra lotte studentesche e operaie si realizza in modo singolare, con una trasmigrazione di molti degli attivisti della Suc alla Camera del Lavoro e alla Fiom di Bologna, già nel 1967, a partire dall’assunzione della responsabilità dell’Ufficio sindacale della Cgil da parte di Claudio Sabattini.

È in questo contesto che matura una lettura della struttura produttiva emiliana e dello sfruttamento della classe operaia in controtendenza rispetto all’elaborazione del Pci. Tale lettura, il cui punto più alto è probabilmente rappresentato dal convegno organizzato nel 1971 a Bologna da Fim – Fiom – Uilm dell’Emilia-Romagna sulle piccole e medie aziende metalmeccaniche industriali e artigiane, teorizza esplicitamente che esse sono sostanzialmente l’ultimo anello della catena di subfornitura delle grandi aziende del triangolo industriale del Nord e che, quindi, relegano la condizione operaia in una situazione di salari più bassi e di maggiore sfruttamento. Come spiega Claudio Sabattini, diventato segretario della Fiom di Bologna, nella relazione introduttiva, la struttura produttiva emiliana “rivela una generale subordinazione della industria regionale nei confronti dei grandi gruppi monopolistici nazionali, in quanto si sarebbe determinato…. una specie di ‘traino’ di questi ultimi sulla prima”, quindi “la grande e media impresa regionale….si trova collegata in maniera diretta con i grandi gruppi internazionali e nazionali”, e “ ci si trova di fronte al rilevante fenomeno del decentramento produttivo di intere fasi di lavorazioni“ e dunque, “per quanto riguarda la condizione operaia ciò si traduce nella presenza massiccia dello straordinario…., di bassi salari rispetto alle aziende medie e grandi, di ritmi gravosi …”. Un ragionamento che coglie diversi dati di realtà, anche se probabilmente estremizzata, come per altro verso quella proveniente da quella “ufficiale” del Pci, dove invece si esaltavano gli elementi di autonomia produttiva del tessuto delle piccole e medie imprese, che venivano, dunque, immediatamente annoverate come costituenti del blocco sociale ed economico antimonopolistico. In ogni caso, la lettura di Sabattini appare troppo antitetica per essere resa compatibile con quest’ultima, tant’è che il gruppo dei sindacalisti “eretici” viene allontanato da Bologna nel 1974, pur andando a ricoprire cariche importanti sempre all’interno della Fiom, mantenendo un tratto significativo e utile nelle vicende del sindacalismo italiano.

Questa, che potremmo definire una prima incrinatura, almeno teorica, della narrazione del modello emiliano, rappresenta un segnale del fatto che esso aveva al suo interno alcuni elementi di debolezza; nello stesso tempo, però, va evidenziato che essa non ebbe effetti rilevanti rispetto al suo percorso, che stava ancora in una fase ascendente, trainato soprattutto dalle politiche degli Enti locali, della loro costruzione di un’idea innovativa di welfare, di deficit spending che lo sosteneva e anche di sostegno alle stesse piccole e medie imprese.

La brusca rottura operata dal movimento del ‘77

Di tutt’altro tenore, invece, sono le conseguenze dell’irrompere del movimento del ‘77, che possono benissimo essere viste come una reale cesura delle vicende precedenti e guardate come una vera e propria messa in discussione e in crisi del modello emiliano. Ovviamente, le vicende bolognesi dell’epoca non possono essere disgiunte dal quadro nazionale entro il quale il movimento del’77 si inserisce: l’avvicinamento tra Dc e Pci nel solco della politica del “compromesso storico”, con la nascita del governo delle astensioni, le politiche di austerità piegate verso il peggioramento delle condizioni di vita e di reddito dei lavoratori, il ruolo del terrorismo e la crisi della sinistra extraparlamentare.

Il movimento del ‘77, che non è semplicemente movimento degli studenti, al di là della sua causa “scatenante” rappresentata dai provvedimenti del ministro Malfatti sull’organizzazione degli studi universitari, esprime un malessere profondo del mondo giovanile, investito dai processi di crisi e ristrutturazione del modello sociale e produttivo dei primi anni ‘70. Che lo si voglia denominare come movimento dei “non garantiti”, secondo la celebre definizione di Asor Rosa, o come rivolta dell’ “operaio sociale”, riprendendo la teorizzazione di Toni Negri, è evidente che siamo in presenza dell’emergere di una soggettività di figure sociali, studenti, lavoratori precari, disoccupati e sottoccupati che sperimentano, prima di altri, il peggioramento delle condizioni di vita legate alla crescita degli affitti, delle bollette e dell’estensione del lavoro decentrato e precario, in particolare nelle aree metropolitane.

È un movimento che chiude la stagione del movimento studentesco e giovanile del ‘68-’69, come sarà poi la sconfitta alla vertenza della Fiat del 1980 rispetto alle lotte operaie. Non a caso, il suo tratto caratterizzante sta più nel dichiararsi estraneo alle politiche dominanti, in un moto di rivolta e di resistenza più che di alternativa alle stesse, condannandolo dapprima al ripiegamento e poi alla fine. Anche perché assolutamente non compreso nelle sue dinamiche e origini sociali dal Pci, che lo bolla come fenomeno accostabile al “diciannovismo”, senz’altro uno dei punti più bassi di tutta la stagione della segreteria di Berlinguer.

Ciò non toglie che, a Bologna e in Emilia-Romagna, il suo impatto sia devastante. Non solo perché si infrange la vetrina del modello, in questo ben rappresentato dall’entrata degli autoblindo dell’esercito nella cittadella universitaria nei giorni successivi all’uccisione di Pier Francesco Lorusso, mandati dal ministro dell’Interno Cossiga e, se non con il consenso esplicito, senz’altro senza l’opposizione aperta da parte della Giunta comunale guidata da Renato Zangheri, ma soprattutto perché si evidenzia plasticamente il venire meno della capacità di inclusione nella città dei vari soggetti che la abitano e la compongono. Se è vero, da una parte, che nel blocco sociale tra classe operaia e ceti medi produttivi non erano espressamente previsti, per semplificare, settori sociali come le decine di migliaia di studenti fuori sede che all’epoca erano parte fondamentale della struttura universitaria e che il movimento del ‘77 a Bologna individuava nella Fgci, la Federazione giovanile comunista, e nel Pci il “nemico principale”, dall’altra non si può non vedere come la rottura sociale che promana dalla realtà del movimento del ‘77 mette in discussione uno dei pilastri su cui era stato costruito il “modello emiliano”, e cioè la coesione sociale, la capacità di accoglienza, di integrazione e di messa in comunicazione e relazione positiva dei vari soggetti sociali del territorio. In questo senso, dire che le vicende del ‘77 assumono il significato della fine “politica” del modello risponde ad un dato di verità profonda, al di là del fatto che l’insieme dei fattori costitutivi dello stesso hanno una loro continuità anche dopo questa cesura temporale.

L’affermazione del neoliberismo

Ma anche questa continuità viene ben presto insidiata. Dagli anni ‘80 il mondo e anche le vicende italiane iniziano a girare in altro modo. L’affermazione progressiva della dottrina e della pratica del neoliberismo, l’incrocio tra incremento del debito pubblico e avvicinamento della costruzione europea, la fine della stagione della “solidarietà nazionale” (che non casualmente avviene al momento dell’adesione al Sistema monetario europeo) e l’inaugurazione di quella neocentrista con il patto Craxi-Andreotti-Forlani, fino ad arrivare al crollo del muro di Berlino e allo scioglimento del Pci disegnano un quadro del tutto nuovo di cui anche l’esperienza del modello emiliano non poteva che risentire. Per dirlo in estrema sintesi, si può sostenere, da un lato, che quella tensione che avevamo individuato prima tra sperimentazione in un’area regionale di un altro modello di sviluppo e necessità di un suo sbocco a livello nazionale, si risolve, in assenza del secondo, in un ripiegamento dell’esperienza emiliana e, dall’altro lato, che i nuovi vincoli introdotti a livello internazionale e la crisi economica nazionale determinano, per usare un’espressione famosa trasportandola nel nostro contesto, “l’esaurimento della spinta propulsiva” del modello emiliano-romagnolo.

Poco per volta, vengono meno i tratti forti che l’hanno contrassegnato. La struttura produttiva basata sulle piccole e medie imprese sconta la difficoltà dei distretti industriali e deve iniziare a misurarsi progressivamente con i fenomeni indotti dalla globalizzazione. Valga per tutti il destino del settore del tessile-abbigliamento-calzaturiero che, negli anni ‘80-’90 vede un suo significativo restringimento e anche un’importante ristrutturazione, sull’onda di quello che, all’epoca, non avendo ancora ben chiaro e interpretato il potente processo di globalizzazione, veniva definito come il portato sia dell’internazionalizzazione sia del decentramento produttivo.

In realtà, quello che si andava prefigurando era già l’irrobustimento di alcune aziende leader, che avrebbero poi dato vita al capitalismo delle “multinazionali tascabili” e, contemporaneamente, all’intervento del capitale finanziario internazionale nell’economia della regione. Poco per volta, l’idea del consolidamento del tessuto produttivo delle piccole e medie imprese lascia il posto al concetto di “attrattività”, inteso come costruzione di un ambiente prodotto da infrastrutture, qualità del lavoro, efficienza delle istituzioni locali volte alla facilitazione degli insediamenti produttivi. Un approccio che, però, si allontana sempre più dall’idea se non di guidare il mercato, almeno di orientarlo, limitandosi invece a mettere in campo le condizioni per cui l’attività imprenditoriale purchessia possa svilupparsi. Sorte analoga tocca anche al movimento cooperativo, che abbandona le finalità originarie di mutualità e di promozione di settori e imprese non legate alla realizzazione di profitto, per abbracciare sempre più una logica secondo la quale sono gli indicatori di mercato e di efficienza aziendale a guidare le scelte e il suo sviluppo. Questo destino di appannamento riguarda anche gli altri pilastri del modello emiliano: dal sistema di welfare, che deve misurarsi con la “crisi fiscale” dello Stato e, più in generale, con il venire meno delle teorie e delle pratiche keynesiane in Europa e nel mondo, fino alle esperienze partecipative che, una volta passata la stagione gloriosa degli anni ‘70, sostenuta peraltro anche dal forte movimento di massa che aveva pressoché investito tutti gli ambiti del vivere sociale e civile, riducono il loro raggio di azione e di coinvolgimento della cittadinanza. Fino a trasformare, nel corso del tempo, i Consigli e le Assemblee di quartiere in piccole palestre di esercizio della democrazia rappresentativa, prodromiche a percorsi politici più importanti e significativi, ma sempre entro quel perimetro. Insomma, il primato del mercato e della finanza affermato dal neoliberismo, il conseguente ritrarsi del ruolo dell’intervento pubblico e il tramontare dell’ipotesi per il Pci di esercitare un ruolo di governo nazionale segnano profondamente l’esperienza emiliano – romagnola, fino, in sostanza, a decretarne l’esaurimento definitivo che, sempre per ragionare in termini simbolici, arriva con il trauma della sconfitta elettorale della sinistra a Bologna nel 1999, che incorona a sindaco Giorgio Guazzaloca.

Il continuo logoramento del modello emiliano

Gli anni che vanno dall’ inizio del secolo ad oggi possono essere guardati come un lento e ulteriore logoramento di quello che rimaneva del modello emiliano, con ulteriori aggravanti che lo rendono sempre meno proponibile. Continua il carattere discendente della peculiarità del sistema produttivo, sempre più influenzato anche qui dal ruolo predatorio della finanziarizzazione dell’economia, da quello di importanti multinazionali e di Fondi di investimento, che fanno conoscere anche alla terra emiliana l’imperativo della massimizzazione del profitto a breve termine e dello smembramento delle attività produttive sulla base di tale logica. Procede l’appannamento del sistema di welfare: si teorizza e si pratica l’approccio del sistema misto pubblico-privato per i nidi e le scuole dell’infanzia, mentre avanza una privatizzazione strisciante nella sanità sempre più aggressiva, tant’è che oggi, soprattutto nella percezione delle persone, nel momento in cui si aggrava il fenomeno delle liste d’attesa per le prestazioni offerte dal pubblico, si depotenzia fortemente l’idea dell’universalismo dell’intervento pubblico.

Nel frattempo, anche il territorio regionale viene investito da nuove e profonde criticità, che non erano, né potevano essere comprese, nei fondamentali del modello emiliano, visto il contesto assolutamente differente nel quale si era sviluppato. Mi riferisco, in particolare, ai temi dell’immigrazione, a partire da quella extracomunitaria, su cui, anche per le scelte sbagliate messe in campo a livello nazionale, non si innesta né una riflessione adeguata né tantomeno politiche importanti di accoglienza e integrazione, contribuendo a scuotere ulteriormente la coesione e la solidarietà sociale della regione. Per certi versi, ancora più devastante è stata l’irrompere della questione ambientale, sia dal punto di vista dell’elevato livello di inquinamento dell’aria e dell’acqua presente in tutta la Pianura padana, sia dal consistente impatto sull’ambiente che l’apparato produttivo genera per quanto riguarda le emissioni climalteranti e il consumo sia di suolo che di materie non rinnovabili (con la forte produzione di rifiuti non riciclati).

Questa tema mette radicalmente in discussione una struttura produttiva che anche in Emilia-Romagna è largamente energivora e produttrice di forti emissioni che insistono sul cambiamento climatico, nonché basata su una dotazione infrastrutturale “pesante”, in particolare su strade e autostrade, che incentivano un modello di mobilità sbagliato e ambientalmente ulteriormente dannoso. Soprattutto l’emergere di questi temi propone la necessità di un vero e proprio cambio di paradigma rispetto ad un intero modello di sviluppo, che continua, invece, ad essere misurato in termini quantitativi relativi alla crescita del Pil e a pensarsi come trainato da un’industrializzazione di tutti i settori che viene considerata virtuosa in quanto tale, a prescindere dalle “esternalità” indotte sull’ambiente e sulla salute delle persone, oltre che sul modello di lavoro che produce (vedi il caso della logistica, della sua grande estensione in questi ultimi anni, che, per molti versi, può essere considerata la nuova “modernità” neoliberista). Potrei continuare con le esemplificazione anche su altri aspetti costitutivi del modello emiliano e sulle nuove criticità (un altro tema non banale è quello dell’invecchiamento della popolazione), ma ciò che mi interessa sottolineare è che, arrivati alla situazione attuale, non si può che constatare che il modello emiliano non esiste più, che anche questo territorio è ormai dominato da determinanti forgiate dalle politiche neoliberiste. Anzi, per essere ancora più precisi, penso che si potrebbe definire lo “specifico” sistema produttivo e sociale regionale come una “variante” del neoliberismo, con tratti certamente meno feroci, più inclusivi e socialmente temperati, che però sembrano più il prodotto di un’eredità che si prolunga, piuttosto che del nuovo che avanza. Qualcosa che assomiglia di più all’esperienza delle socialdemocrazie classiche, peraltro declinanti e in difficoltà proprio su questo punto.

La parabola delle politiche della giunta Bonaccini

Da questo punto di vista, emblematica è la parabola delle politiche praticate dalla giunta Bonaccini insediatasi dopo le elezioni del 2020. Qui si è sbandierato, come punto centrale del programma della legislatura che va a compimento, il “Patto per il lavoro e il clima”, proposto dalla Giunta regionale alla fine del 2020 e sottoscritto dall’insieme delle Associazioni economiche e di categoria e sul quale è stato sviluppato anche un confronto con le realtà di ispirazione ambientalista, che ha portato alla firma, poi ritirata un anno fa, da Legambiente regionale. Invece si è manifestata da subito l’opposizione di Reca, la Rete per l’Emergenza Climatica e Ambientale regionale, che si è costruita proprio all’indomani della nascita della Giunta e che raggruppa più di 80 Associazioni e comitati e che ha avanzato un punto di vista importante, capace di legare proprio le tematiche ambientali alla critica al modello produttivo e sociale sviluppato in Emilia-Romagna. Reca ha promosso nel mese di febbraio di quest’anno un importante convegno costruito proprio su questo nesso e rimesso al centro proprio la riflessione sul modello emiliano “che fu” e sulla necessità di una svolta profonda per il futuro.

In ogni caso, il Patto per il lavoro e il clima, da una parte, assomiglia molto alla metafora “della montagna che ha partorito il topolino”, nel senso che, a fronte degli obiettivi ambiziosi dichiarati, come quello di arrivare al 100% di rinnovabili al 2035, ben poco è andato avanti in questa direzione. Dall’altra, invece, si è proceduto in continuità con scelte regressive, come quella di approntare il rigassificatore a Ravenna, contribuendo ad affermare l’idea di fare dell’Italia “l’hub del gas”; di dare il via libera al Passante di mezzo di Bologna, che perpetua e rafforza un modello di mobilità su gomma e sull’utilizzo degli autoveicoli privati; di rendere più forte la privatizzazione dei beni comuni e dei servizi pubblici fondamentali, a partire da quello idrico, per cui sono state disposte le proroghe delle concessioni, affidate prevalentemente a Hera e Iren, fino alla fine del 2027, con una legge regionale di perlomeno dubbia costituzionalità.

Non è possibile, poi, sottacere il fatto che una delle scelte “qualificanti” della Giunta Bonaccini sia stata quella di attivarsi per procedere lungo il percorso dell’Autonomia differenziata della regione. In modo, se si vuole, un po’ meno spinto da quello praticato dalle regioni Lombardia e Veneto, ma sempre inserendosi in quel solco, decisamente negativo e lesivo dell’universalità dei diritti sociali. Sancendo anche per questa via l’abbandono di un approccio che si era sempre contraddistinto per sperimentare l’ampliamento dei diritti stessi con l’intenzione che si potessero estendere all’intero Paese.

Potrei andare ulteriormente avanti su questo piano, ma mi interessa, in termini conclusivi, soffermarmi su un ultimo punto, che è però assolutamente dirimente rispetto al giudizio sulla fine del “modello emiliano”. Nel settembre 2022, Reca e Legambiente Emilia-Romagna hanno promosso 4 proposte di leggi di iniziativa popolare sui temi dell’acqua, dei rifiuti, dello stop al consumo di suolo e di una spinta forte verso le energie rinnovabili, sostenute da più di 7000 firme di cittadini emiliani. Ebbene, oggi, a quasi un anno e mezzo di distanza da quando esse sono state assegnate alle Commissioni consiliari competenti nel novembre 2022, tempo entro il quale dovrebbe arrivare la conclusione del loro iter legislativo, la discussione su queste proposte di legge non è nemmeno iniziata. Una parabola, che la dice lunga, visto che dal valore della partecipazione democratica si è passati al vederla come fastidio e problema. E che pone con forza, anche in Emilia Romagna, la necessità della progettazione di un nuovo modello produttivo, sociale e ambientale, che fuoriesca dal neoliberismo e dal capitalismo. Ma, ovviamente, questa è un’altra vicenda, che pone il tema in termini generali di sistema e che ben difficilmente potrà semplicemente essere affrontata sulla base di un modello territoriale

In copertina: Renato Zangheri in piazza a Bologna

Lo stesso giorno /
20 maggio 1970: approvato lo Statuto dei Lavoratori

20 maggio 1970: approvato lo Statuto dei Lavoratori

La legge n. 300 del 1970, conosciuta come Statuto dei Lavoratori, è una delle leggi più importanti nella storia del diritto del lavoro in Italia.
Fu approvata dal Parlamento italiano il 20 maggio 1970 e introdusse numerose tutele per i lavoratori, come la libertà sindacale, il divieto di licenziamenti discriminatori e l’istituzione dei Consigli di Fabbrica.

Il Partito Comunista Italiano (PCI), pur essendo storicamente il partito più vicino alle istanze dei lavoratori, non votò a favore della legge.
La ragione principale di questa scelta risiede nelle modalità di approvazione e nel contesto politico dell’epoca. In sostanza riteneva che le misure proposte nella legge fossero insufficienti per garantire una protezione adeguata ai lavoratori.

Sono gli “Anni di piombo”, con il PCI all’opposizione di un governo di centro-sinistra guidato dalla Democrazia Cristiana (DC). Votare a favore della legge avrebbe significato legittimare un’azione governativa che riteneva inadeguata e insufficiente rispetto alle loro richieste e ideali.

Per Enrico Berlinguer (Vice Segretario del Partito Comunista Italiano): “Lo Statuto dei Lavoratori rappresenta un passo avanti importante, ma insufficiente. Le nostre proposte, che includevano misure più incisive per la tutela dei lavoratori, non sono state accolte. Continueremo a lottare per una società più giusta e per la piena realizzazione dei diritti dei lavoratori.”

Soprattutto la non copertura della tutela dei lavoratori nelle aziende con meno di 15 dipendenti, era e rimane un nodo cruciale per la sinistra.

L’articolo 1 dello Statuto recita: “I lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa, hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme della presente legge

Il più importante articolo dello Statuto, almeno mediaticamente, rimane probabilmente l’art.18, ormai superato dal Jobs Act del governo Renzi e dalla riforma Fornero, che regolava la disciplina dei licenziamenti illegittimi e rappresentava una delle principali tutele per i lavoratori.

Per certi versi
A Pat Tillman

A Pat Tillman

Ehi vecchio Pat
A football americano
Eri un divo

Poi
Quel giorno
Undici
Di settembre
Ti cambiò la vita
Al posto dell’ elmo
Prendesti un elmetto
Invece che la palla
Le pallottole
Ti mandarono
Te
Eroe antico
Nella terra dei papaveri
La meta così divenne
La tua ultima
Partita
Dissero
Vecchio Pat
Fuoco amico
Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

TERZO TEMPO
La canzone dell’alirón

C’è un’espressione piuttosto curiosa che da circa un secolo viene usata dagli spagnoli per indicare la celebrazione di una vittoria in ambito sportivo: si dice infatti che una squadra canta o intona il cosiddetto alirón nel momento in cui conquista un trofeo. Però, ancora oggi, non c’è una traduzione letterale di questa parola, e la sua origine è ufficialmente sconosciuta.

Ad affermare tutto ciò è la Real Academia Espanola, cioè l’organismo che elabora le regole linguistiche dello spagnolo. Infatti, dopo aver classificato per anni la parola alirón come un’espressione derivante dall’arabo e al’en, che significa “proclamazione”, nell’edizione 2014 del suo dizionario la RAE si è arresa all’evidenza e ha confermato che l’origine di quest’espressione è ancora ignota. Sul suo conto si rincorrono leggende e ricostruzioni di vario tipo; quindi, per semplificarci la vita, prenderemo in considerazione le due ipotesi più chiacchierate, nonché le più attendibili.

Cominciamo con la versione più colorita, la quale racconta che l’utilizzo festoso di alirón ha origine nei paesi Baschi, e precisamente nelle miniere di ferro di Ortuella, una piccola cittadina situata a circa dieci chilometri da Bilbao. Qui, al termine del 1800, i minatori locali lavoravano solitamente per ingegneri e dirigenti inglesi, giunti nel nord della Spagna sul finire della prima rivoluzione industriale.

Il salario dei minatori dipendeva dalla purezza del ferro estratto, e quando una miniera conteneva il ferro più puro possibile gli ingegneri inglesi ponevano al di fuori di essa un cartello con su scritto all iron, cioè “tutto ferro”. Questo, per gli operai, significava il raddoppio della paga: va da sé, quindi, che la sola lettura del cartello suscitava grande gioia tra gli stessi minatori, i quali probabilmente storpiarono la pronuncia inglese all iron con lo spagnolo alirón.

Tuttavia, alcuni storici e linguisti spagnoli sostengono che questa ricostruzione sia inattendibile, in quanto, secondo loro, è molto probabile che i minatori dell’epoca fossero del tutto analfabeti. Quest’ipotesi resta comunque una delle più accreditate assieme a quella, forse più plausibile, che coinvolge lo stile musicale denominato cuplé, ossia un misto tra canzone popolare e cabaret molto in voga in Spagna a cavallo tra il 1800 e il 1900.

La nascita della cosiddetta canzone dell’alirón si ha nel 1913 grazie alla musica del compositore madrileno Gaspar de Aquino e alle parole dello scrittore Álvaro Retana. La prima voce ad intonare questa canzone fu quella della ballerina, nonché cupletista, Marietina, che cantò il brano al Teatro Romea di Madrid: l’esibizione un po’ irriverente e giocosa di Marietina ebbe un gran successo, e la canzone dell’alirón cominciò a essere interpretata  da numerose cantanti e ballerine in tutto il paese. 

La sera di Capodanno del 1913, un’altra cupletista chiamata Teresita Zazá propose il brano al Salon Vizcaya di Bilbao; ed è qui che nacque l’accezione sportiva della canzone, la quale, originariamente, parlava in modo piuttosto generico di un inno festoso che riecheggiava per le strade di Madrid. Infatti, sembra proprio che quella sera di Capodanno, il pubblico basco abbia chiesto alla stessa Teresita Zazá di modificare il testo, e in particolar modo il finale del ritornello.

Così, per completare la rima con la parola alirón, pare che sia stata inserita la frase el Athletic campeón: un evidente riferimento al fatto che, in quegli anni, l’Athletic Bilbao era una delle squadre più titolate di Spagna. Da quel momento in avanti, la canzone viene associata alla celebrazione sportiva, e il suo testo è stato modificato a più riprese sia dagli autori originali che dalla stessa tifoseria basca.

Adolescenti in difficoltà, scuola a pezzi

Adolescenti in difficoltà, scuola a pezzi

Cresce il numero degli adolescenti “problematici”, sia ad avviso dei genitori che ad avviso degli insegnanti. Bambini dolci che si trasformano ad un certo punto in adolescenti o giovani ribelli, raccontano balle e vogliono solo i tuoi soldi. Un fenomeno che mette in crisi parecchi genitori, i quali si interrogano su cosa hanno sbagliato. Il fenomeno non è nuovo, come vedremo, ma negli ultimi 3 anni si è accentuato non poco.

La prima causa che mi viene in mente è il Covid: aver lasciato (colpevolmente) a casa da scuola per un tempo eccessivo (l’Italia ha il record mondiale) questi giovani, averli costretti a una forma di fatto di deresponsabilizzazione sia per lo studio (impossibile) on line, averne minato le relazioni in una fase cruciale della vita e aver deresponsabilizzato anche i genitori. Purtroppo adesso e nei prossimi anni raccoglieremo gli errori di una gestione sbagliata da parte delle istituzioni che hanno rubato, senza alcuna base scientifica, relazioni e vita a giovani che le hanno trasformate in rabbia e ribellione.

Il fenomeno, come dicevamo, non è nuovo se anche nell’antichità Socrate (470 a.C), Esiodo (720 a.C.) ed altri, ancora più antichi, si lamentavano dei loro giovani (..la nostra gioventù è marcia…) e se Umberto Galimberti nell’ultimo suo libro (L’ospite inquietante, Il nichilismo e i giovani, ed. Feltrinelli) riporta un articolo di Marco Lodoli su La Repubblica uscito il 4 ottobre 2002 (21 anni fa!) dal titolo “Il silenzio dei miei studenti che non sanno più ragionare” che dice: “A me sembra che sia in corso un genocidio di cui pochi si stanno rendendo conto. A essere massacrate sono le intelligenze degli adolescenti, il bene più prezioso di ogni società che vuole distendersi verso il futuro…La mia non è una sparata moralistica di chi rimpiange i bei tempi in cui i ragazzi leggevano tanti libri e facevano tanta politica. Io sto notando qualcosa di molto più grave, e cioè che gli adolescenti non capiscono più niente. I processi intellettivi più semplici, un’elementare operazione matematica, la comprensione di una favoletta, ma anche il resoconto di un pomeriggio passato con gli amici o della trama di un film sono diventati compiti sovraumani, di fronte ai quali gli adolescenti rimangono a bocca aperta, in silenzio…In ogni classe ci sono almeno due o tre studenti che hanno bisogno di un sostegno, non per un qualche handicap fisico o qualche grave disturbo mentale. Semplicemente non capiscono niente, non riescono a connettere i dati più elementari, a stabilire dei nessi anche minimi tra i fatti che accadono davanti a loro, che accadono a loro stessi…Loro sono considerati ragazzi in difficoltà, ma i compagni di banco, quelli della fila davanti o dietro, stanno quasi sempre nelle stesse condizioni…Non riescono a ragionare su nessun argomento perché qualcosa nella testa si è sfasciato. Vi prego di credermi, non sono un apocalittico, sono semplicemente un testimone quotidiano di una tragedia immensa”.  Potrà essere di consolazione per tanti genitori e insegnanti che non sanno più cosa fare, ma non cela il fatto che da allora le cose si sono molto aggravate ovunque (dai Licei ai Professionali).

Cresce il numero di studenti che in classe non seguono le lezioni, disturbano, hanno raggiunto livelli spesso incompatibili con il normale funzionamento e fanno rallentare, se non regredire, l’apprendimento di tutta la classe. E crescono anche gli studenti con problemi di apprendimento (Dsa) da 233mila del 2017 a 311mila nel 2023, per cui sono passati da 1 a 33 a 1 a 23.
Sono cresciuti anche gli insegnanti di sostegno (da 137mila del 2017 a 220 mila nel 2023, per 5 miliardi di spesa), ma la situazione è sempre più critica anche perché il 60% di questi docenti di sostegno cambia ogni anno (e quasi mai sono adeguatamente formati).
Le Università che rilasciano il titolo sono quasi tutte al Sud, mentre i posti sono quasi tutti al Nord: per cui c’è anche un crescente abbandono di questi corsi – gli ultimi concorsi vedono un iscritto ogni 20-30 cattedre (48 candidati per 1.367 posti in Piemonte alle elementari, 171 per 4.111 in Lombardia, 63 per 1.403 in Veneto). I posti vacanti saranno coperti (se va bene) da studenti universitari senza alcuna preparazione, quando questi studenti fragili (in forte crescita) hanno diverse problematiche che richiederebbero preparazione specialistica. C’è poi il problema delle materie scientifiche alle superiori (matematica, fisica, informatica, chimica) che hanno meno della metà dei candidati rispetto ai posti disponibili. Nelle scuole di periferia più turbolente c’è chi si rifiuta di insegnare a costo di perdere il lavoro: in generale non c’è docente che non si lamenti per la fatica nell’insegnamento.

Ci sono cause aggiuntive, contemporanee di questo “disagio” giovanile? Della gestione sbagliata del Covid ho già detto. Aggiungo:

– l’arrivo della “modernità” digitale che riduce la curva di attenzione e concentrazione per qualsiasi cosa;

– la mancanza di fratelli e sorelle, di genitori che stanno insieme, di una vita di relazione con amicizie non puramente virtuali;

– una scuola impostata su modelli di apprendimento basati sulla sola istruzione e non anche sulla sperimentazione. La scuola in effetti non è mai cambiata, mentre lo sono (e molto) i giovani di oggi.

I ragazzi che stanno sui social precocemente (il 40% già dagli 11 ai 13 anni, fonte Save the children) non solo cercano like e followers, ma vedono amplificati bullismo e ferite che sono sempre esistite ma che ora diventano oggetto di scherno pubblico, producendo depressione specialmente nelle ragazze.

Se il mondo reale ha fatto progressi enormi dal punto di vista soprattutto tecnologico, quando entri in classe la ritrovi sostanzialmente, in termini di istituzione “ufficiale”, come era un secolo fa: lavagna, cattedra e banchi. Gli insegnanti più appassionati usano mille strategie per motivare, fanno lavorare a gruppi, usano il cooperative learning in scuole piene di LIM, computer, ma il digitale sembra paradossalmente avere addirittura sfavorito l’apprendimento, al punto che ci sono scuole (Albertini di Roma[1]) che rifiutano una ulteriore digitalizzazione. L’idea che tutto ciò che è moderno o tecnologico sia sempre meglio di qualsiasi tradizione – o forse senza più un minimo substrato in grado di stabilire connessioni tra i fatti, come denunciava Marco Lodoli  rischia di consegnarci ad una crescente disumanizzazione.

Che fare? Da un lato crescono pulsioni d’ordine, in parte anche dell’attuale Ministero dell’Istruzione, che si traducono nella reintroduzione del voto in condotta che, se insufficiente, porta alla bocciatura. C’è chi poi propone di tornare a classi differenziate (a prima del 1977) dove mettere chi disturba e non vuole seguire, lasciando gli altri (che sono la maggioranza) liberi di poter apprendere senza continue vessazioni dei pochi disturbatori. Lo spirito del tempo mi fa dire che è una soluzione gradita alla maggioranza di genitori e docenti, ma non è la via giusta.

Chi si oppone richiama l’importanza dell’”inclusione”, una conquista degli ultimi decenni, che resta però astratta per la mancanza di idee e di supporti reali e risorse (difficile fare riforme senza soldi). L’inclusione si può praticare se le classi sono piccole, se chi disturba sono 2-3 alunni su 18-20, se i docenti di sostegno sono sempre gli stessi e sono preparati, se la scuola ha laboratori che consentono di affiancare sperimentazione ad istruzione[2], se usa il viaggio come formazione, se evita di lasciare seduti al banco come detenuti gli studenti per 36 ore settimanali, ormai più del tempo medio di lavoro dei loro genitori. Ma tutto questo non accade, se non in poche virtuose eccezioni. Le risorse per la scuola si sono ridotte, i viaggi non si fanno più (per via della mitizzazione della sicurezza fisica che poi genera insicurezza interiore), tantomeno si è avviato un apprendimento da sperimentazione; infine le classi sono quasi sempre troppo numerose.

O si lascia che le cose declinino gradualmente fino al punto di rottura, o si interviene con un cambio di passo investendo maggiormente nella scuola, ritornando a destinarvi più del 4% del PIL, com’è stato per 40 anni.

Ma tutto ciò non basta. Occorre lavorare sulla sperimentazione che consenta agli studenti più “ribelli” (oppure semplicemente a chi non gradisce stare in aula seduto sei ore al giorno) di seguire percorsi personalizzati per loro più interessanti, apprendendo dalla vita e dal lavoro. Si potrebbe per esempio cambiare completamente l’attuale alternanza studio-lavoro, trasformandola da “professionalizzante” a “universale”. Offrire l’opportunità di fare un’esperienza all’interno di una équipe di lavoro in un’azienda qualificata, in cui vi sia reciproca scelta tra impresa e studente, per un mese o due in modo da apprendere sul campo le competenze sociali ma anche quelle concettuali. Questi studenti dovrebbero essere seguiti sia da un tutor aziendale che scolastico, un vero accompagnamento in aziende che saranno anche scelte da loro sulla base di colloqui con caratteristiche, appunto, di reciprocità. Non si tratta di usare il lavoro in un’ottica professionalizzante, ma come mezzo di apprendimento universale, di concetti e di socialità (anche perché sappiamo che 2/3 studiano X e faranno Y). Ma per fare ciò servono risorse e un vero accompagnamento personalizzato.

[1] Al Liceo classico Albertelli di Roma genitori e insegnanti hanno rifiutato i 300mila euro del Pnrr per modernizzare la scuola 4.0. Il progetto promosso dal dirigente prevedeva di formare esperti del web (video making, produttori di musica digitale, Manager Digital Curator, Social Media Manager, Social Media Editor e altre figure simili). Si noti l’abuso dell’inglese che fa tanto Italietta “provincia dell’impero”. Docenti e consiglio vogliono invece un potenziamento dei laboratori di chimica, informatica, e la digitalizzazione dell’antica biblioteca. La scuola è già ampiamente dotata di tecnologie (41 smart tv, 7 proiettori, 49 pc notebook, 41 pc desktop,…) ma il dirigente voleva ancor più “modernizzare”. Docenti e genitori contestano la formazione di “operai acritici del digitale”, disarticolando il gruppo-classe e disinvestendo sulla preparazione necessaria per comprendere la complessità del mondo. 

[2] In Finlandia al liceo classico hanno introdotto la falegnameria come materia di base, in quanto si sono resi conto che l’ingaggio cognitivo che oggi viene richiesto ai giovani in molti lavori, ha bisogno di un pensiero critico e non solo di combinare algoritmi al ritmo di 1 e 0, di una capacità di innovare e non solo di risolvere problemi e che queste capacità vengono soprattutto dalle materie artistiche e manuali. L’uso delle mani favorisce infatti non solo l’abilità motoria ma le connessioni neuro-cerebrali e la capacità di sviluppare un pensiero e un sentire sono legate alle relazioni, al lavoro di équipe e non al digitale.

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Storie in pellicola / Un magnifico Leo Gullotta nel corto “Vecchio”, di Dino Lopardo

Nel cortometraggio “Vecchio”, del regista lucano Dino Lopardo, un fantastico Leo Gullotta veste i panni di Aldo, un anziano signore che vive in una RSA. Il dramma della solitudine.

“La morte non arriva con la vecchiaia ma con la solitudine”, diceva Gabriel Garcia Marquez.

E il cortometraggio “Vecchio”, del regista lucano Dino Lopardo, parte proprio da qui.

Sullo schermo scorrono immagini in bianco e nero di un uomo alla finestra che aspetta. Aspetta i familiari che non arrivano, amici che non ci sono, gesti e attenzioni che non arrivano, note che non suonano, libri che non si aprono, il momento senza ritorno.

Aldo, interpretato da Leo Gullotta, non parla. Davanti a uno specchio esegue gesti di rituali quotidiani. Barba e profumo. In quella RSA senza colori, è solo, con lui solamente i ricordi di compleanni e feste in famiglia, la musica, i rimpianti, le fotografie, il passato che non ritorna. Non servono parole, sono i primi piani e i piccoli passi a parlare.

La sceneggiatura è semplice, non ha forti contrasti, ma la regia si sofferma con potenza e forza sui particolari del volto di Aldo, sulle sue rughe scavate come solchi, sui gesti, sugli occhi, sui movimenti lenti, goffi e pesanti, sui piedi che si trascinano, sul pigiama sgualcito.

Tutto è, in realtà, sgualcito, lo stesso utilizzo del bianco e nero dà una sensazione di vita che se ne va, rimasta senza toni, senza più passioni. Di abbandono senza un perché.

Una musica fra i ricordi e gli oggetti, regalati dai figli e dai nipoti all’anziano signore, assumono un significato speciale e divengono il simbolo di un sentimento autentico e cristallino. Dolcezza infinita nello scartare un regalo nel giorno del proprio compleanno.

Nell’immensa malinconia che le immagini di tanta solitudine ci portano, c’è, tuttavia, un’infinita tenerezza in questo anziano che attende, ormai al crepuscolo.

Un messaggio per tutti, il grido di non abbandonare coloro che ci hanno cresciuto e amato. Tema drammaticamente attuale.

Un corto che parla all’anima. Porgendoci una rosa, con un sorriso che lascia sperare.

Il corto è interamente visibile su RaiPlay (qui)

Parole a Capo
Maria Mancino: Una memoria che resiste all’incedere del tempo

Da qualche mese è uscita la nuova prova poetica di Maria Mancino, in arte “Maggie”. Un titolo “La memoria della betulla” (Il Babi Editore, gennaio 2024) che unisce ricordi/memoria con l’immagine della betulla, una pianta flessibile, molto resistente e capace di resistere anche in luoghi molto poveri di risorse. C’è un costante confronto, incontro, allontanamento tra l’illusione e la realtà. Un paio d’esempi:

Gioco d’azzardo

Punto sul nero degli occhi
e non vinco
Punto sul rosso del sangue
e perdo

Gira e gira la ruota
si ferma su numeri senza valore
riempie le tasche di falsi denari
e sfida la sorte
che ha negli occhi la morte

Gioco d’azzardo con la mia vita
punto tutto su quella che sono
e gioco a difendere
ogni illusione

 

Mentre tornava la luce

Avverto il destino di un filo
che penzola tra due tralicci
senza energia
Non vi è amore nello spazio
tra il metallo e il taglio
solo i battiti d’ali
di un falco che non sa
Ho scritto parole feroci
per condannare lo squarcio
L’illusione ha cancellato il significato
mentre tornava la luce

Tra le parole chiave, emerge “prepotente” il tema della notte. La notte è spesso fonte di ricordo, di sogni che si combinano in maniera strana. Appaiono persone, situazioni paradossali. Non so se succede anche a “Maggie” ma a me succede di alzarmi nel cuore della notte e prendere una matita e un foglio per impressionarvi parole che mi chiedono di non essere dimenticate dall’arrivo del mattino. A volte emerge il dolore e fare i conti con questo stato d’animo è difficile, troppo spesso impari, ma il cuore mi/ci dice che non ci si deve arrendere mai, per cercare di rinascere.

Che era notte

Ho sentito il dolore
squarciarmi dentro
come un aratro che
affonda il terreno

Ho annusato il sangue
l’ho assaporato
come fosse cibo

Ai piedi della morte
ho seppellito la paura
e dal suo ventre
sono rinata

Che era notte

 

Aspetto l’alba

Si riversa nel cuore la pioggia
come fosse di pianto e di sangue
Dalle pozzanghere farà sparire
il ristagno
e ai fiumi ruberà gli argini
Aspetto l’alba bagnata
e il sorriso umido
di chi della notte
ne ha fatto il suo giorno

Il duro richiamo della realtà, della brutalità di un mondo bugiardo e insensibile emerge, in particolare, in due poesie:

Come avvoltoi

Come avvoltoi le nuvole
possiedono il cielo
in un volo di morte
La solitudine si prostituisce
all’aria nuda del mattino
Un uomo vestito di silenzio
rovista nelle tasche
in cerca di parole

 

Sui sedili di un treno

Occhi saldati sulle pieghe
sporche di vestiti rotti
dal lungo viaggio
e tra lunghi capelli
unti di indifferenza
Nessuna possibilità s’intravede
tra le catene che cingono colli e polsi
e negli sguardi fissi che osservano
Come fosse l’adolescenza
una vetrina del particolare
Eppure sono così belli
sotto l’ingenuo addobbo
di una violenta apparenza
Testimone del pregiudizio
buco l’aria con il respiro
mentre il treno annuncia
la mia fermata

In quest’ultima poesia s’intreccia anche il tema degli adolescenti questi sconosciuti.
“La memoria della betulla”, nella sua apparente semplicità, ci riporta immagini e situazioni d’infanzia. L’infanzia di Maggie quando “crescevano poesie”. A conclusione di questo breve excursus, voglio ripartire dal filo naturale che dà corpo a questa intensa silloge.

La memoria della betulla

Ti scioglierò le trecce vita mia
ai piedi di una betulla nera
ti slegherò dai lacci di falasco
aggrovigliati intorno al capo

Terrò legati i tuoi tormenti
al tronco dell’albero maturo
e su corteccia bianca
scriverò come fosse carta

Ti aspetterò nutrendomi
di linfa zuccherina
e quando una notte tornerai
ti leggerò nuove poesie

e del passato soltanto la betulla
se ne ricorderà

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

 

Parole e figure / Premio Nati Per Leggere 2024

La casa editrice bolognese Pulce porta a casa due importanti riconoscimenti: vince il premio nazionale Nati per Leggere con il libro “Dov’è il drago?” di Leo Timmers, talentuoso e ironico autore e illustratore belga, amatissimo dai bambini che l’hanno votato nella categoria “Crescere con i libri”.

Tre cavalieri un po’ tonti vanno alla ricerca di un drago perché il loro re non può andare a letto finché non saprà che la bestia è stata sconfitta. I due uomini sanno tutto sui draghi e, armati fino ai denti, iniziano la ricerca. Alla luce fioca di una candela, si incamminano nella notte buia e trovano qualcosa che assomiglia molto a un drago… Carica! Ma non è il drago! Da Bridgman a Maria Enrica Agostinelli, la consolidata tradizione del “sembra ma non è”, tra ombre e sagome da indovinare, si conferma fonte di preziosi stimoli per i piccini, ma soprattutto un grandissimo divertimento.

Un ingegnoso gioco di luci e ombre che generano un equivoco dopo l’altro, incantando grandi e piccini, perché niente è mai come sembra.

Il secondo traguardo è la vittoria del premio nazionale Nati per Leggere nella categoria 6-18 mesi con il libro “Mela Merenda” con la seguente motivazione: per le immagini fotografiche calde e di immediata riconoscibilità e per la qualità sonora del testo che incoraggia la produzione verbale, la ripetizione e la lettura dialogica.

Il titolo fa parte di un progetto editoriale rivolto alla primissima infanzia, nato dalla collaborazione tra Elisa Mazzoli, Elena Spagnoli Fritze e Cristina Petit. Dopo “Mela Merenda”, il progetto si prefigge di accompagnare i piccoli lettori in tutte le fasi successive della crescita con una serie di titoli di prossima uscita.

Alla semplicità di “Mela Merenda” è sottesa una grande attenzione allo sviluppo del linguaggio che procede, pur nelle diversità tra i bambini, per tappe consecutive e naturali. Quando alle prime vocali emesse si aggiungono le consonanti, dalla vocalizzazione si passa alla lallazione, e ci si diverte a sentire la propria voce che ripete, accosta, riproduce, canta, dice. Lo sbocciare di queste competenze di linguaggio e ascolto è concomitante all’affinarsi della vista e i neuroni specchio si attivano immediatamente quando gli occhi agganciano un’immagine familiare. Da qui la scelta di utilizzare delle immagini fotografiche, selezionate prima di tutto in relazione alla sillaba scelta e raffiguranti oggetti conosciuti e di uso comune e quotidiano come la mela, la banana, il ciuccio, la palla… La scelta del tipo di fotografie, dello sfondo bianco, dell’inquadratura, della prospettiva e del colore è a servizio della massima leggibilità e accessibilità.

Il cartonato “Mela Merenda” è uno dei primi libri dell’abbraccio fra adulto e bambino. Educativo.

“l’Angolo del caffè”: far colazione in mezzo ai libri

“l’Angolo del caffè”, un posto dove si beve, si legge, e si conversa

Un dato positivo, nella generale transizione culturale che stiamo attraversando con l’egemonia della tecnologica comunicazione “veloce e breve”, è che pare che la cultura del libro abbia una sua tenuta. Alla chiusura del salone internazionale del libro di Torino, il Sole 24 ore, sulla base dei dati dell’ Associazione italiana degli editori riporta un aumento nella vendita  di 13 milioni di libri rispetto al 2019.
Il dato interessante è che le librerie consolidano nel 2023 la loro posizione come primo canale di vendita, mentre calano gli acquisti online. Il dato viene interpretato come una precisa scelta dei lettori che preferiscono un contatto fisico con la libreria e con il libro, oggetto culturale per eccellenza, nel momento dell’acquisto. Crescono parallelamente le esperienze di lettura senza acquisto sia promosse dalle biblioteche, sia dai Comuni (come il libro lasciato a disposizione  sulla panchine, o le casette dei libri a Trento). L’esperienza del “book bar”, diffusa da anni nel nord Europa  e in via di affermazione nelle principali città italiane, si inserisce in questa offerta di lettura gratuita nei momenti di relax, contaminandola con la consumazione di un drink e di qualcosa da mangiare.

È questa la filosofia a cui si ispira la titolare de “l’Angolo del caffè”, Giulia Alice Cristofori,  che destina una parte dell’ampio locale (170 m2) alla conversazione e alla lettura, fornendola di tavoli, divano e librerie ad albero, riempite da libri ricevuti in dono dai clienti , che  a loro volta possono  leggere sul posto i libri o portarseli liberamente a casa.

La coraggiosa impresa  di Giulia Alice è  ancor più lodevole per collocarsi nel quartiere Corti di Medoro, quartiere riqualificato, sorto sulle ceneri del tristemente famoso (per i ferraresi) Palazzo degli Specchi.

Il locale (fornito di tavolini all’aperto) si affaccia una graziosa piazzetta, curata e miracolosamente silenziosa, essendo collocata a pochi metri dalla trafficata via Beethoven, circondata da gradevoli condomini residenziali.  Si affacciano sulla piazzetta, oltre al bar di Giulia, un negozio di ottica e  una lavanderia a gettoni; poco distante, uno studentato e una palestra in via di ristrutturazione. Nel complesso la sensazione, recandomi sul posto, è stata di tranquillità e pace, di quei luoghi che sorgono nelle caos cittadino come luoghi protetti, ma non isolati.

Un dato molto sentito per me  come donna è la possibilità di stare sola e in sicurezza al bar, luogo che nel passato era tradizionalmente riservato agli uomini e che, se non per una passaggio velocissimo,  frequentavo sempre accompagnata.

Si nota che la riqualificazione del quartiere è ancora in itinere, e in questo senso il locale di Giulia Alice si può definire come un vero e proprio servizio al quartiere, luogo di socializzazione, dove è possibile incontrarsi, consumare il pranzo a prezzi modici, stare in pace leggendo un libro.
Le potenzialità del locale,  vanno  comunque ben oltre quello di essere un prezioso luogo di aggregazione per i residenti, ma possono svilupparsi nella direzione di essere luogo di promozione di eventi culturali, presentazione di libri, dibattiti e conferenze. L’idea con cui Giulia Alice ha avviato il suo locale è quella infatti di offrire alla clientela un luogo di crescita culturale, di condivisione e di scambio, di confronto e di studio. Le dimensioni del locale e la disponibilità di Giulia Alice sono dei punti di partenza favorevoli allo sviluppo dell’iniziativa. Un luogo da scoprire e frequentare: la prossima parola spetta alla cittadinanza.

La precarietà non crea lavoro.
Intervista all’economista Emiliano Brancaccio

La flessibilità fa aumentare i profitti e riduce i salari, non aumenta l’occupazione. Lo spiega l’economista Emiliano Brancaccio

di Roberta Lisi
(pubblicato su Collettiva del 13.06.24)

E per di più, forse soprattutto, ha indebolito fortemente il sistema produttivo italiano. Emiliano Brancaccio, docente di politica economica presso l’Università del Sannio, autore di ricerche sugli effetti della precarietà del lavoro pubblicate da varie riviste accademiche internazionali, illustra come sia la ricerca scientifica a certificare che i fautori della precarietà avevano e hanno obiettivi diversi dal creare lavoro di qualità. E i referendum della Cgil sono un utile strumento per cominciare a cambiare modello sociale ed economico.

È vero, come dicono i sostenitori del Jobs Act, che la libertà di licenziamento crea lavoro?

I sostenitori del Jobs Act si basano sul fatto che negli anni successivi all’approvazione di quella legge si è verificato un incremento dell’occupazione. A loro avviso, questo sarebbe in quanto tale sufficiente per sostenere che queste norme che precarizzano il lavoro creano occupazione. Questo modo di ragionare è totalmente estraneo al metodo scientifico. Non sta in piedi perché trascura tutte le altre variabili che sono in gioco e che concorrono a determinare l’occupazione. Non tiene conto, ad esempio, del fatto che dopo l’approvazione del Jobs Act si è messa in campo una politica economica sempre più espansiva, che chiaramente ha favorito l’occupazione. In un certo senso, il modo di pensare degli apologeti del Jobs Act somiglia al discorso dello stregone. Uno stregone dice: se fai la danza della pioggia e magari subito dopo cade la pioggia, allora deve essere la danza ad aver provocato la pioggia. Un ragionamento ridicolo, eppure molto diffuso.
Se invece guardiamo alle evidenze scientifiche?
La letteratura scientifica, che cerca di capire se la precarizzazione del lavoro abbia accresciuto i livelli di occupazione, ci dice che una relazione statistica tra precarizzazione e maggiore occupazione non esiste. L’88 percento degli studi scientifici pubblicati su riviste accademiche internazionali nega che il precariato crea posti di lavoro. È un risultato empirico talmente forte che persino istituzioni notoriamente favorevoli alla liberalizzazione del mercato del lavoro come il Fondo Monetario Internazionale, l’Ocse e la Banca mondiale, magari a denti stretti e malvolentieri, lo hanno dovuto ammettere.

Se non è funzionale all’occupazione, allora a che cosa serve la precarietà e a chi conviene?

L’evidenza empirica anche su questo punto è lampante: ogni volta che si riducono le tutele delle lavoratrici e dei lavoratori, cioè ogni volta che si accresce la flessibilità e la precarizzazione del lavoro, si verifica anche un calo delle retribuzioni reali e una diminuzione della quota salari sul prodotto interno lordo, il che comporta pure un aumento della quota profitti e della quota rendite sul prodotto interno lordo. Richard Freeman, dell’autorevole National Bureau of economic Research, sintetizza questi risultati empirici dichiarando che la flessibilità del lavoro non aiuta l’efficienza della produzione, non accresce i volumi di produzione, ma determina semplicemente la distribuzione del reddito tra capitalisti e lavoratori che si crea con quella produzione. In altre parole, la flessibilità del lavoro non ha a che fare con l’efficienza del capitalismo ma con la lotta di classe nel capitalismo, che è cosa ben diversa.

Si può affermare, allora, che l’aumento della precarietà nel lavoro è una delle ragioni per le quali in Italia i salari sono saliti meno che in altri Paesi europei e sono comunque sono tra i più bassi?

In un quarto di secolo, l’Italia ha visto precipitare gli indici di protezione del lavoro in misura molto più accentuata rispetto alla media dei Paesi europei. Questo è certamente uno degli elementi che hanno concorso alla stagnazione salariale italiana. Però il problema è per certi versi più generale. Di fatto, in Italia abbiamo adottato una politica economica che ha assecondato lo sviluppo di un sistema di piccole imprese frammentate, scarsamente efficienti, molto spesso capaci di restare sul mercato solo grazie a prebende pubbliche, evasione fiscale, bassa sicurezza e precariato. Da qui è scaturita la crisi di produttività, il declino competitivo e quindi anche i bassi salari.

I referendum della Cgil, oltre a restituire maggiori tutele e maggiore e dignità al lavoro, possono essere anche un elemento di contraddizione in questo meccanismo perverso del capitalismo italiano, un modo per invertire la tendenza?

Da decenni abbiamo a che fare con una tendenza al degrado del capitalismo nazionale. Potremmo dire che è tempo di mettere “una zeppa” nell’ingranaggio, un “granello” di sabbia nel meccanismo generale della crisi di produttività. Possiamo interpretare l’iniziativa referendaria anche in quest’ottica.

E potrebbero anche innescare quel movimento che contribuisce a svegliare un po’ le coscienze?

Indubbiamente le giovani generazioni stanno offrendo testimonianze di un risveglio delle coscienze, delle iniziative politica, delle istanze di lotta. I referendum della Cgil potrebbero rappresentare anche un modo per intercettare questo nuovo vento di rinnovamento, di ripresa di lotte di emancipazione che vengono dai più giovani. Sarebbe una delle rare occasioni in cui, come dire, gli adulti si mettono in sintonia con questo nuovo vento che viene dai più giovani. Sarebbe anche ora, direi.

 

Serata Dance Party a sostegno di Anna Zonari Sindaca
mercoledì 15 maggio, dalle ore 19,00 al Black Star

Serata Dance Party a sostegno di Anna Zonari Sindaca

Una serata di musica ‘70-’80 con Lufer al Circolo Black Star per  contribuire alla campagna elettorale di Anna Zonari Sindaca. Ferrara,
mercoledì 15 maggio – dalle ore 19,00La lista La Comune – Anna Zonari Sindaca è lieta di annunciare una serata speciale di musica degli anni ’70 e ’80 con Lufer, alias Luca
Ferraglia, eclettico artista e designer, nonché appassionato DJ per le occasioni speciali.  L’evento si terrà mercoledì 15 maggio, a partire
dalle ore 19, presso il Circolo Black Star, situato in via Ravenna 104.

Durante la serata, gli ospiti avranno l’opportunità di gustare un delizioso apericena (al costo di 5€ presso il bar del circolo), mentre
saranno intrattenuti da una selezione di musica vintage, curata personalmente da Lufer. Inoltre, sarà possibile partecipare a una
lotteria per contribuire al finanziamento grass-roots della campagna elettorale di Anna Zonari, candidata Sindaca alle prossime elezioni
amministrative. Il primo premio della lotteria sarà un emozionante giro sul famoso tandem simbolo di Anna Zonari.

Questa serata promette di essere divertente e coinvolgente per tutti i presenti e vi invitiamo a partecipare. La musica diventa qui un
linguaggio universale di pace.

Ringraziamo Lufer e il Circolo Black Star per la loro generosità nell’organizzare questa iniziativa a sostegno della campagna elettorale

La Comune di Ferrara

L’obbligo della pace:
la lezione di Maria Zambrano e Simone Weil

L’obbligo della pace

Dopo tante guerre combattute (e troppe ancora in corso), in teoria, tutti dovrebbero votare per la pace e deporre tale voto almeno nell’urna invisibile della propria coscienza di essere umano. Ma in molti casi non si è certi che questo voto, a favore dell’unico programma elettorale sensato, venga accompagnato da una effettiva consapevolezza di quali problemi seri e profondi, uno “stato di pace” comporti.

Lo stesso si può dire per quelli che continuano a sostenere la cosiddetta real politik della guerra e che, in nome di Qualcosa ( evidentemente e inspiegabilmente più Grande della vita stessa), ne difendono la causa: anche in questo caso il voto per la guerra non sembrerebbe accompagnato dalla coscienza e dalla conoscenza  degli scenari che alla fine dello “stato di guerra” bisognerà affrontare e comunque: di tali scenari se ne perde subito memoria!

Perché la questione non è semplicemente che ci sia pace  (ovvero che non ci sia guerra) ma è stabilire la vita in vista di uno “stato” che chiamiamo “di pace” (ovvero “di dopoguerra”). E la pace non è mai solo una  “semplice” assenza di guerra ma è molto di più e solitamente del tutto differente da quanto immaginato.

La pace è innanzitutto un modo di vivere, un modo di abitare il pianeta, un modo di essere… esseri umani.

La filosofa Maria Zambrano nel 1990 scrisse già tutto questo (I pericoli per la pace in Le parole del ritorno pubblicato in Italia da Città aperta Edizioni, nel 2003) è definì la pace come quella “…condizione primaria  per la realizzazione dell’ essere umano nella sua pienezza…” perché la vera promessa non è un astratto vagheggiamento al diritto di vivere in pace ma un vero e proprio obbligo: diventare un… essere umano.

Dopo la guerra, dopo qualunque guerra, entrare in uno stato di pace potrebbe essere paragonato a una transizione di fase quella che in fisica è riconoscibile grazie alla formazione di una superficie che si crea, ad esempio, nel passaggio da uno “stato” solido a uno stato liquido (o viceversa).

Nel nostro caso una tale superficie dovrebbe separare nettamente una storia già trascorsa e passata – e dunque un “essere umano” vecchio – con un’altra storia, nuova e ancora da cominciare – e di conseguenza con un nuovo “sentire” e un altro essere umano.

Si tratterebbe dunque dice la Zambrano “…del duplice compimento di quel sogno di rivoluzione pacifica che hanno sognato tanti…” esseri umani compiuti, esseri cioè obbligati a mantenere quella promessa di compiutezza umana.

Compimento duplice perché oltre ad essere una rivoluzione pacifica, avrebbe come contenuto, appunto, la pace. Compiutezza anch’essa duplice perché oltre a mostrarne la possibilità di mantenerla, consente a tutti gli altri esseri umani di potersi confrontare con la “propria capacità e volontà” di realizzarla.

Retrocedere davanti a questa soglia non è possibile. Essere o non essere, vivere in pace o cessare di vivere, questo è il problema. Perché  in questa circostanza è la necessità che obbliga alla morale.”

E come non pensare, a proposito di quest’ultima affermazione della Zambrano, ad un’altra grande intellettuale del secolo scorso, Simone Weil?

 

Tra gli scritti londinesi del 1943  (tradotti in Italia da Franco Fortini nel  1954 con il titolo La prima radice), la filosofa francese introduce un ripensamento critico della nozione  di diritti umani.  La Weil parlando dei bisogni dell’anima introduce l’obbligo come un valido sostituto radicale e naturale del diritto:
“L’oggetto dell’obbligo, nel campo delle cose umane, è sempre l’essere umano in quanto tale. C’è obbligo verso ogni essere umano , per il solo fatto che è un essere umano, senza che alcun’altra condizione abbia ad intervenire…” [ La prima radice, SE Milano, 1990].

E dunque è questo obbligo verso ogni altro essere umano e, più in generale, verso una vita (in pace), che stabilisce la morale.

Fin quando sarà la paura a determinare l’assenza di guerra continueremo a parlare di uno stato ambiguo e pericoloso, uno stato di non guerra. Perché la storia, ci ricorda la Zambrano, ha sempre dimostrato che i timori più fondati, le deterrenze meglio architettate, possono essere cancellati immediatamente in un solo istante di follia.

Una situazione che si sostiene solo sulla paura è priva di sostanza morale, di quella sostanza irrinunciabile che nasce, non dal diritto individuale (quello di vendicarsi, quello di difendersi, etc…), ma dall’obbligo che tutti gli altri, responsabilmente, sanno di avere nei confronti di un essere vivente solo e in quanto tale.

La pace non è un diritto posseduto da qualcuno e come tale suscettibile di essere imposto, persino con la guerra o con la paura. No. La pace è un dovere al quale tutti gli altri devono sentirsi obbligati per mantenere la promessa di un’umanità  davvero compiuta, per consentire la cura della prima e più profonda delle radici: la vita.

In copertina: ritratto di Mario Zambrano

“Quijote!” del Teatro Nucleo in piazza a Ferrara: manifesto spettacolare contro le ingiustizie

Quijote! del Teatro Nucleo in piazza a Ferrara: manifesto spettacolare contro le ingiustizie

La favolosa opera del Don Chisciotte della Mancia di Cervantes è tornata a vivere nei giorni scorsi nelle piazze di Ferrara grazie al Rabicano – festival di teatro per gli spazi aperti.  Il titolo riassume in modo sintetico quello della lingua d’origine: Quijote!. Ed è una versione corale e spettacolare delle avventure del cavaliere delle cause impossibili. Narrazione caratterizzata dalla colorata, vivida e roboante coreografia del Teatro Nucleo. Il protagonista è affidato, o forse meglio incarnato, in Horacio Czertok, che ne firma anche la regia assieme a Natasha Czertok.

Una scena del “Quijote!”
Regia di Czertok del Teatro Nucleo
Horacio Czertok protagonista (foto Luca Pasqualini)

Quijote e il suo fido Sancho sono così tornati protagonisti, ma in sella a improbabili destrieri meccanici dotati di ruote: mezzi quanto mai degni della città capitale delle biciclette. Da lì e da altri marchingegni spassosi, che comprendono pure un attualissimo benché scalcagnato monopattino, sono stati rilanciati i messaggi di lotta contro le ingiustizie, trasmessi insieme al piacere per gli occhi e le orecchie degli spettatori.

Nel romanzo Don Chisciotte il protagonista dichiara di lottare contro tre giganti. Per il regista teatrale argentino Horacio Czertok, che di Cervantes e della sua opera ha fatto un pilastro della sua impegnata attività culturale e drammaturgica, i giganti sono molti di più. Oltre alla Paura, all’Ingiustizia e all’Ignoranza, che lo stesso Don Chisciotte cita nelle pagine del libro come nemici da sconfiggere, Czertok ha trovato altri cinque pericolosi avversari dell’umanità. Secondo il teatrante studioso, sono quindi almeno otto i giganteschi mostri che l’eroe della Mancia si mette in testa di combattere in quell’opera che si può considerare a pieno titolo uno dei capolavori della letteratura mondiale e che per prima – tra il 1605 e il 1615 – ha dato forma al concetto moderno di romanzo.

Una scena del “Quijote!” in piazza Castello a Ferrara (foto Luca Pasqualini)

Chi ha avuto la fortuna di assistere al monologo-spettacolo-lezione di Czertok intitolato Contra Gigantes, può avere sicuramente apprezzato anche di più quella macchina acrobatica, comica, circense e spettacolare che è stata messa in scena domenica sera nell’area pedonale accanto al Castello Estense di Ferrara.

Horacio Czertok (foto GioM 2022)
“Contra Gigantes” a Pontelagoscuro (foto GioM 2022)

Ho assistito come spettatrice alla rappresentazione Contra Gigantes che Horacio ha tenuto l’11 settembre 2022 nella sede del Teatro Nucleo di Pontelagoscuro, a Ferrara. Una visione che, a me, ha rivelato un’angolazione del tutto inedita di questa storia, che ho sempre pensato più che altro come ingegnosa e fantasiosa.

Non avevo capito – fino a quella sera – quanto fosse in realtà un lavoro di forte denuncia sociale e politica, costruito con coraggio stupefacente in pieno dominio dell’Inquisizione spagnola e di una monarchia assoluta, basata su un potere aristocratico che schiacciava e sfruttava la povera gente.

Danze con il fuoco
“Quijote!”
foto di Luca Pasqualini

Il romanzo, pubblicato in Spagna da Miguel de Cervantes Saavedra nei primi anni del ’600, usa infatti la finzione, la comicità e la fantasia per dire cose diversamente indicibili. Per farlo – ha spiegato Czertok con quella sua capacità affabulatoria e coinvolgente da grande uomo di teatro – Cervantes usa l’espediente narrativo del ritrovamento di un manoscritto arabo che lui avrebbe tradotto, riportandone le vicende di don Chisciotte.

L’invenzione di questo narratore, peraltro spesso inaffidabile, e di altri espedienti narrativi destinati a creare ambiguità nel racconto, è sicuramente una geniale trovata letteraria. Ma è anche un filtro fondamentale per poter dire cose che non sarebbero state accettate se dette in maniera diretta, in uno stile non romanzato e non acrobaticamente costruito.

Messaggi di una modernità rivoluzionaria che sono infilati dentro questo libro, camuffati da buffe lotte, dove c’è così tanta sproporzione tra l’eroe e i nemici contro i quali combatte. Perché la lotta di Don Chisciotte ha come obiettivo tutte le ingiustizie concrete che lui individua nella società del tempo e che, almeno in parte, possono essere ancora ricondotte a problematiche attuali.

Sancho Panza
Dulcinea – foto Luca Pasqualini
Scena del “Quijote!” – foto Luca Pasqualini

Prendiamo i mulini a vento. Suona assurdo, e quindi anche ridicolo e comico, il fatto che il cavaliere scambi questi manufatti per nemici. Ma non c’è nulla di folle nello slancio dell’eroe accompagnato dal fido scudiero Sancho. Perché i Mulini a Vento – spiega Horacio Czertok nella lezione spettacolo e anche (con voce fuori campo) nella mirabolante rappresentazione di strada – sono marchingegni che potrebbero aiutare a ottenere più farina macinando in modo sistematico il grano, ma diventano lo strumento per portare via soldi ai poveri contadini e metterli nelle tasche dei banchieri olandesi.

Scena del “Quijote!” diretto a Ferrara da Czertok del Teatro Nucleo

Altri temi scandalosi e rivoluzionari riguardano la condizione della donna (capitolo dedicato a Marcella e Crisostomo) e quello della giustizia nel capitolo sui galeotti. Horacio Czertok ha fatto anche notare come lo studio strutturale del romanzo rivela un don Chisciotte vincitore della metà dei 40 conflitti che affronta come cavaliere errante. Un traguardo che contrasta con l’immagine che si è imposta di lui, che è quella di un vecchio pazzo destinato alla sconfitta.

Scena della processione (foto LPasqualini)

Quijote non è un vincente – dice il regista e teatrante – ma non è nemmeno un perdente: proprio in questo preciso equilibrio sta la consistenza del romanzo. Quasi ad ogni capitolo il Don risulta bastonato e ferito nel corpo, tant’è che alla fine ne muore. Ma è una morte di sacrificio”.

Scena finale del “Quijote!”
Ferrara – foto Luca Pasqualini

Una chiave innovativa di lettura e un invito per approfondire la conoscenza di quello straordinario romanzo al quale la rappresentazione di piazza ha dato una sostanza spettacolare. Un messaggio avvolto e arricchito dai suoni avvincenti, come quelli tratti dall’aria ritmatissima e contagiosa del Barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini, dai fuochi, dalle danze corali e dalla meraviglia. Per adulti e bambini che affollavano tutta la platea popolare, creata sull’asfalto tra il Castello e i giardini di corso Cavour. Per divertirsi e poi, magari, anche per pensare.

Reportage fotografico di Luca Pasqualini

Per leggere tutti gli articoli di Giorgia Mazzotti su Periscopio clicca sul nome dell’autrice.

Per certi versi /
Il mio cuore di lunedì

Il mio cuore di lunedì


Questo giorno
Di libertà
Lo dedico
Al mio cuore
Per quello
Che mi fa
sentire
E per tutte
le volte
Che non lo sento
Proseguire
La sua fatica
Con discrezione
Sei speciale
Conservi tutto
Ma proprio
Tutto
L’essenziale 

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
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Caglio Giulio Cesare

Caglio Giulio Cesare

Ecco in anteprima , la bozza del nuovo Decreto legge del Governo sull’Industria casearia, che entrerà in vigore nel Giugno 2024, ideato e fortemente voluto dal Ministro Lollobrigida.
1 – E’ istituito l’organo di promozione e controllo dei latticini italiani denominato F.O.R.M.A. (Formaggi Ovini Ricotte di Mucca e Affini), che agirà su tutto il territorio nazionale e nelle Colonie d’Etiopia, Eritrea, Libia e Somalia.
2 – I formaggi Squacquerone e Stracchino saranno da ora in avanti denominati “Creme d’Italia”, in quanto i precedenti nomi sono da considerarsi molli e di conseguenza, non abbastanza virili.
3 – I contadini sapranno finalmente quanto è buono il formaggio con le pere, ma saranno seguiti dal SERT.
4 – Accanto alle confetture, nelle degustazioni di formaggi stranieri, sarà servito abbondante olio di ricino, per esaltarne al meglio i sapori.
5 – E’ abolito il Provolone “Auricchio” perché dal nome non abbastanza mascolino e dall’identità promiscua.
6 – E’ reso obbligatorio l’uso dell’italico “Camoscio d’oro” al posto del Brie, subdolo prodotto transalpino.
7 – Il formaggio “Philadelphia”, disfattista alle alte temperature, sarà ribattezzato “Roma” e consumato solamente ghiacciato.
8 – E’ abolito il “Parmigiano Reggiano” in funzione del “Grana Padano”.
9 – E’ fortemente consigliata la mozzarella “Santa Lucia”, in quanto ha effetti benefici sulla vista.
10 – Allo scopo di facilitarne il consumo, Gorgonzola e Strapuzzone di Moena sarannno serviti con l’ARO (Auto Respiratore ad Ossigeno), dei gloriosi incursori della Regia Marina.
F.to Caglio Giulio Cesare

Se Mario Draghi cambia idea:
ma sarà vero?

Se Mario Draghi cambia idea: ma sarà vero? 

 

A Mario Draghi l’Unione Europea ha dato l’incarico di rappresentare uno scenario sul futuro dell’Europa, e le conseguenti scelte. Da alcune sue conferenze possiamo desumere il succo del rapporto che verrà presentato.

Su alcune impostazioni strategiche Draghi dice che ha “cambiato radicalmente idea”. La realtà si è incaricata di fiaccare la visione liberista del mercato come generatore di benessere condiviso degli ultimi 20 anni, a cui lo stesso Draghi ha partecipato da grande protagonista. Dice ora Draghi, in quella che suona come una sorta di autocritica: “Abbiamo perseguito una strategia deliberata volta a ridurre i costi salariali gli uni rispetto agli altri e, combinando ciò con una politica fiscale pro-ciclica, l’effetto netto è stato solo quello di indebolire la nostra domanda interna e minare il nostro modello sociale. Ci siamo rivolti verso l’interno, vedendo i nostri concorrenti tra di noi. Ma ora il mondo sta cambiando…altre regioni non rispettano più le regole e stanno elaborando politiche per migliorare la loro posizione competitiva”.

In sostanza Draghi vuole creare nuovi “campioni europei”, cioè grandi imprese che contrastino quelle americane e cinesi e quindi rafforzare politiche di concentrazione industriale e accordi tra imprese europee di diversi Paesi. A tutta prima sembra una buona idea: pensiamo che oggi l’europea Airbus negli aerei è diventata leader mondiale battendo l’americana Boeing. Occorre sapere però che, in questo modo, verrà dato un ulteriore colpo a quella miriade di piccole imprese (specie italiane) e di piccoli artigiani che piuttosto che “finire sotto padrone”, fanno un sacco di ore di lavoro con cui compensano la loro bassa produttività, ma garantendo alle medie e grandi imprese quella flessibilità che Germania e Francia non hanno (e che spiega, in parte, il grande successo dell’export della manifattura italiana). Ci sarebbe quindi bisogno, se passa l’idea della ulteriore concentrazione, di una qualche forma di aiuto a questi “piccoli” che sono da sempre il “tesoro” dell’Italia, anche se sono i “grandi” e i “cavalieri del lavoro” a prendere i titoli dei giornali (e a pagare la pubblicità dei grandi media, da cui sono ricambiati). Inoltre, se ciò fosse fatto senza ridurre salari e occupazione nulla da obiettare: altrimenti, sarebbe una ulteriore forma di distruzione del modello sociale europeo, che coniugava alta produttività con (mediamente) alti salari e welfare, un unicum nel mondo.

Draghi spiega che dopo la crisi del 2009, che lui chiama del “debito sovrano”, ma che è stata innescata in Europa dalla speculazione finanziaria americana dei subprime, è stato un errore svalutare il lavoro e avviare una politica di austerità. In realtà più che “errori” sono state scelte deliberate: come quelle di allargare la UE nel 2004 a 100 milioni di lavoratori dell’Est che avevano un salario pari a un terzo o un quarto degli italiani, spagnoli, portoghesi, greci (per non parlare dei nordici e tedeschi); come approvare una direttiva sui “lavoratori dislocati” che consentiva ai Paesi di provenienza (dell’Est) di poter usare la loro legislazione e i loro contratti di lavoro anche nei paesi di destinazione (la “vecchia Europa”, Germania, Italia,…), facendo fallire decine di imprese sotto la pressione del dumping salariale dell’Est Europa. E’ questa, peraltro, una delle ragioni principali per cui i salari italiani non crescono da 15 anni. Situazione poi aggravata da un’altra direttiva (Bolkestein): tutte scelte pensate attentamente e deliberate, altro che “errori”.

Articolo 41 della nostra Costituzione: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. Si potrà notare che il mercato unico europeo non si muove affatto nella logica dei fini sociali. Anzi, con l’ipotesi di allargamento a 36 Stati, si persevera nell’errore di far entrare altre decine di milioni di lavoratori (in un mercato unico senza politica) che hanno un salario medio di 300 euro al mese. Ciò ovviamente, come avvenuto dopo il 2004, accentuerà le delocalizzazioni e la pressione per tenere bassi i salari nella “vecchia Europa”. Se si vuole aiutare l’Ucraina si crei un “Piano Marshall”, senza farla entrare in Europa (come gli altri 8 candidati).

Che sia necessario passare attraverso una competizione “gli uni contro gli altri” in cui uno è l’Europa siamo d’accordo: ma ciò implica accordi comuni sulla difesa, sulla politica estera, su politiche industriali comuni che presuppongono, più che un libero mercato ancora più esteso ad altri nove Stati, una politica europea che non c’è.

La costruzione di imprese che possano essere “campioni europei” deve avvenire nella difesa degli attuali livelli salariali e introducendo più welfare. Se invece è un modo per concentrare la conoscenza in poche mani e quindi favorire pochi grandi oligopolisti europei, non ci siamo. Una spia in tal senso è la bocciatura da parte della Commissione europea della proposta di costruire una infrastruttura pubblica comune per farmaci et similia, come avrebbe consigliato il dopo Covid. Anzi l’idea è usare i dati dei pazienti UE per accelerare gli extra profitti delle grandi imprese private.

Siamo invece ancora succubi degli Usa, senza capire che siamo entrati in un nuovo secolo che non sarà più quello “americano”. Si ignora l’importanza di costruire un rapporto paritario con l’Africa, costruendo filiere che riducano la dipendenza da materie prime possedute dai Cinesi, Asiatici o Russi; una follia isolazionista, quell’isolazionismo di cui si accusa Trump senza vedere il nostro. Poi c’è il riarmo europeo: come se dovessimo necessariamente andare verso nuove guerre. Un conto è infatti una difesa europea, che può costare molto meno della somma dell’attuale budget dei 27 Stati e che si basi più sulla diplomazia che sulla forza militare, un altro conto è stare dentro un riarmo deciso dalla Nato (con un mix letale tra segreti militari e proprietà intellettuale) in cui spendiamo un sacco di soldi per seguire le follie degli Stati Uniti. 

Bisognerebbe anche decidere se i fondi pubblici (e l’eventuale debito comune) devono servire per allargare il Welfare o per essere usati da privati; se la rete pubblica dei computer debba servire a supportare start-up private sull’AI oppure a favorire una prosperità diffusa a tutti i cittadini. La fine dell’interconnessione delle reti energetiche europee è servita (lo abbiamo visto con la fine del mercato tutelato di gas e luce in Italia, voluto proprio da Draghi) più per favorire il libero mercato che i cittadini.

Draghi non fa mai cenno al vantaggio comparato che abbiamo invece sulle filiere verdi europee.

In futuro ci sarà un enorme problema per le imprese di carenza di lavoratori che implicherebbe l’organizzazione europea di una immigrazione legale programmata: di questo non si fa cenno nel Rapporto. Così come sbagliata è l’idea della iper specializzazione nell’istruzione, che rischia di essere la più grande topica del futuro, in quanto specializzeremo diplomati e laureati per qualcosa, che andranno a fare in massima parte qualcos’altro. Ciò che servirebbe è invece una forte preparazione culturale di base, tecnica ed umanistica, che consenta adattabilità e libertà.

Draghi fa cenno anche all’importanza di “dare più potere ai lavoratori”, ma rimane un afflato che non si traduce in indicazioni pratiche (per es. con le compartecipazioni ai profitti delle imprese). E ciò appare in grave distonia con l’intero impianto, che è in realtà una forma nuova di rilancio del cosiddetto “libero mercato”. 

Per leggere gli altri articoli e interventi di Andrea Gandini, clicca sul nome dell’autore

Presto di mattina /
Poesia e profezia per riedificare perennemente l’uomo

Presto di mattina. Poesia e profezia per riedificare perennemente l’uomo

A commento di Novogodnee (‘Vigilia del nuovo anno’), poema scritto da Marina Ivanovna Cvetaeva in morte di Rainer Maria Rilke, Iosif Brodskij definisce il poeta come «qualcuno per cui ogni parola non è la fine ma l’inizio», «qualcuno che, avendo pronunciato la parola raj (‘paradiso’) o tot svet (‘l’altro mondo’), deve mentalmente fare il passo successivo e trovare le rime adatte.

Così nascono kraj (‘paese’) e otsvet (‘riflesso’) e così viene prolungata l’esistenza di coloro la cui vita si è interrotta… [Poeta] è qualcuno che prolunga la prospettiva della sensibilità umana, che mostra un varco, una strada da seguire, a chi non vede vie d’uscita» (Il canto del Pendolo, Adelphi, Milano 1987, 203; 85).

Cercando parole, il poeta dà corpo ad un’assenza, prolunga una presenza, dove ogni parola diventa aurora e non crepuscolo, vigilia e non conclusione inizio senza fine: una via d’uscita.

Non diversamente da una profezia, la poesia è sempre nella possibilità di aprire verso un testo, una parola e un orizzonte nuovi. Perché direbbe Maria Zambrano «La poesia è un aprirsi dell’essere verso dentro e verso fuori al tempo stesso. È un udire nel silenzio e un vedere nell’oscurità. È un uscire da sé, un possedersi per essersi dimenticati, un dimenticarsi per aver guadagnato la rinuncia totale.

Un possedersi per non aver più nulla da dare; un uscire da sé innamorato; un darsi a ciò che non si sa ancora, né si vede. Un ritrovarsi integri per essersi interamente dati. La poesia, configurandosi come uscir da sé dell’anima dal suo steccato e come apertura dell’essere − verso dentro e verso fuori − non può calcolare i passi che dà, né tantomeno soffermarvisi. Ciò che per essa si verifica è qualcosa di assoluto» (Poesia e filosofia, Pendragon, Bologna 2010, 120-121).

Poesia pura: credere alla parola, vivere della parola

Le parole sono nella poesia e nella profezia in status nascendi e in cammino al tempo stesso, oscillando in un movimento di pendolo tra assenza e presenza. Per questo, secondo la Zambrano, il poeta è un mistico, dando luogo a una coincidenza che non di rado si è incarnata nella storia come nel caso di Giovanni della Croce.

Poeta e mistico, con la loro parola, penetrano sempre di nuovo, parola dopo parola, lentamente nella notte oscura dell’inesprimibile per passare dall’assenza alla presenza, così da dare corpo all’indicibile, senza rassegnarsi alla superficiale apparenza.

Il poeta, il profeta e il mistico vedono l’infinitezza e la consistenza inconsunta di ogni cosa oltre l’oscurità del nulla. Nell’abissale notte della fede sono interpellati dal riverbero di una Parola che non passa, essi sentono tutto il peso di immortalità: «Sento un calore impressionante tutto intorno al cuore – come un peso di Immortalità» (J. Keats, Lettere sulla Poesia, Mondadori, Milano 2014, 164).

Scrive ancora la Zambrano: «Poesia pura significa affermare la poesia, credere in essa, alla sua sostantività, alla sua solitudine, alla sua indipendenza»; significa dire che «la poesia è tutto. Al poeta è sufficiente far poesia per esistere; è la forma più pura di realizzazione dell’essenza umana» (Poesia e filosofia, 98).

Questa espressione − dice la Zambrano − benché sia stata formulata da Mallarmé, prende corpo e si definisce con il poeta Paul Valéry. Formula felice, la definisce, perché «è un acuirsi estremo della coscienza del poeta che, forse per la prima volta, sente chiaramente come funziona la sua poesia. E non trovando con che cosa compararla, sentendo la differenza tra la parola poetica e quella del linguaggio della vita e anche della scienza, parla di “assenze”.

Le cose sono nella poesia per assenza, che è il loro lato più autentico. Infatti, quando qualcosa ci lascia, rimane più vera perché è incancellabile: sua pura essenza. E la stessa realtà si cela a se stessa. Inoltre, con questo gioco di assenza e presenza, le cose ci appaiono immerse nel flusso del tempo; si mostrano a noi come sempre nascenti. La loro presenza è un miracolo, il miracolo originario dell’apparire delle cose. Poesia è sentire le cose in status nascens» (ivi, 129-130).

Per Henri Brémond, storico del sentimento religioso e critico letterario francese, con l’espressione “poesia pura” è da intendersi un appello nell’interiorità, che precede e prescinde da un senso e da un significato definiti; per tale misterioso incanto, l’intuizione del poeta viene così a coincidere con l’ascesi del mistico.

Egli, mettendo in luce i rapporti tra esperienza religiosa ed esperienza estetica, riscontra la stretta connessione che intercorre tra la poesia, l’arte in genere e la preghiera. È solo nell’ambito psicologico che entrambe, le esperienze della preghiera e della creatività poetica, funzionano in modo simile e tuttavia permangono irriducibili tra loro le differenze circa la loro natura propria e singolarità (Preghiera e poesia, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2010).

Poesia e profezia per riedificare umanamente “vita d’uomo”

Da pertinaci fumi risalito
Fu allora che intravvidi
Perché m’accende ancora la speranza…
Astro incarnato nell’umane tenebre,
Fratello che t’immoli
Perennemente per riedificare
Umanamente l’uomo
(G. Ungaretti, Vita d’uomo. Tutte le poesie, Oscar Mondadori, Milano 1992, 227; 299-230).

La speranza, che è la forza per tornare a vivere, viene dalla parola. È quella parola che perennemente principia e s’incarna a riedificare umanamente l’uomo. Così la parola profetica è inizio della speranza e il profeta «è un realista delle distanze», nel senso che vede molto vicine le cose distanti e discerne in quelle a portata di mano i prolungamenti e le ramificazioni del loro significato nascosto (M. Flannery O’Connor).

La speranza, come la profezia e la poesia, non può essere descritta ma solo vissuta, perché la speranza è ineffabile come la Presenza di Dio percepita dai mistici: non si rivela nella chiarezza, ma nell’oscurità,

Il profeta è colui che ha a che fare, venendone coinvolto fino all’eccesso, con la sollecitudine di Dio per l’umano e per il mondo: giustizia e compassione. Viene afferrato nel vortice di una parola seducente, irresistibile e trasformante.

“Tu mi hai sedotto” dice Geremia ed “io mi sono lasciato sedurre”. Egli diviene così un traghettatore che tiene unite due rive nella divaricazione abissale, lacerata dell’umano; garante della promessa e della sollecitudine santa e sentinella del suo venire, che nell’attesa ascolta il grido degli oppressi e non cessa di difendere i poveri, ammonire i re, denunciare i potenti, condannare i sacerdoti che riducono la preghiera a una vuota ripetizione di parole e sacrifici.

“Sentinella, quanto resta della notte?”

La speranza profetica, come la parola poetica, non smettere di attendere, di iniziare sempre di nuovo l’attesa di un’altra parola, di un altro mattino, così dopo ancora una notte occorre non stancarsi di vegliare e di attendere e interrogandosi.

«Mi gridano da Seir: “Sentinella, quanto resta della notte? Sentinella, quanto resta della notte?”. La sentinella risponde: “Viene il mattino, ma presto di nuovo la notte. Se volete fare altre domande, tornate di nuovo”» (Is 21, 11).

Così il commento del biblista L. Alonso Schökel: «è notte nello scenario della storia, le tenebre non lasciano comprendere né è dato calcolare quando giungerà l’aurora liberatrice (Sal 130,6-7). Ma c’è qualcuno che con gli occhi penetra l’oscurità e misura i tempi: è il profeta.

A lui ricorrono anche i popoli stranieri e nemici: che ora è? Che sta succedendo in questa lunga notte? Quando finirà? Il profeta non ha una risposta liberatrice. Conosce soltanto un ciclo dominato dall’inesorabile ritorno della notte; per quanto essa cessi e albeggi, siamo nell’ora delle tenebre. Ma invita a domandare di nuovo, casomai ricevesse nel frattempo una risposta precisa del Signore. E l’oracolo torna “al silenzio”, “all’attesa”» (L. Alonso-Schökel, J.L. Sicre Diaz, I profeti, Borla, Roma 2000, 216).

Profeti di pace

Tra questi vi è Olga Karač, candidata al Nobel per la pace, più volte incarcerata dal regime di Lukashenko per aver gridato gli orrori del regime. In un’intervista ad Avvenire (Dorella Cianci, lunedì 29 aprile 2024) ammonisce: «La cultura della guerra getta via la tolleranza e il rispetto per l’altro, ci vuole coraggio per parlare di pace. Non tirarti indietro e non arrenderti, anche se la maggioranza non è d’accordo con te. La situazione è molto difficile: parlare di pace è diventato tossico. Le organizzazioni che lottano per la pace sono sotto attacco».

Olga Karach, 45 anni, è un’attivista bielorussa, politologa e direttrice dell’organizzazione per i diritti umani Our House (‘La nostra casa’), fondata nel 2002 sotto forma di giornale autofinanziato. È attiva nella rete dei difensori dei diritti umani e civili oppressi nel suo Paese dal regime di Lukashenko. Per questo è stata più volte incarcerata e anche torturata. Oggi vive in esilio a Vilnius, in Lituania, da dove prosegue la sua preziosa attività nonviolenta.

«Oggi ci vuole un coraggio speciale per parlare di pace, indipendentemente dal tipo di conflitto militare da citare. La società è polarizzata e radicalizzata. Non appena si dice qualcosa sulla pace, si inizia a essere perseguitati, sospettati dei peccati peggiori, e le conseguenze non sono così innocue. La cosa più sorprendente è che ciò accade non solo nei Paesi baltici, che ora si appoggiano fortemente all’estrema destra, ma anche nei Paesi dell’Europa occidentale.

Qualcosa sembra esserci rotto nel sistema europeo di valori e nelle già inespresse regole dei diritti umani. Dove è finita la libertà di parola, di cui tutti erano orgogliosi? Perché il dialogo politico si è trasformato in un punto di vista dominante, mentre altri punti di vista sono etichettati a priori come sbagliati? La cosa peggiore è che non abbiamo notato come, in due anni, la cultura europea sia radicalmente cambiata da una cultura di pace e nonviolenza a una cultura di violenza e romanticizzazione della guerra».

Come fece nel 2023 alla consegna del Premio internazionale Alexander Langer, la nomination al Nobel è stata un’occasione per Olga Karach di riparlare della situazione in Bielorussia, della violenza e della tortura subita anche dagli obiettori di coscienza, rispetto ai quali essa auspica un programma di assistenza:

«Si tratta di una campagna strategicamente rilevante: la guerra non può continuare se gli uomini si rifiutano di entrare in guerra. Tutti possono farlo, e la scelta personale di ognuno ha un impatto colossale sulla guerra e sulla militarizzazione. Ci vuole coraggio anche per rifiutarsi di andare in guerra, perché la società è strutturata per la guerra».

Poesia e preghiera dimora appassionata del dolore d’altri: “D’un pianto solo mio non piango più”

Il tema della guerra nella raccolta Il Dolore di Ungaretti appare come “un canto aperto, solenne corale” dice Leone Piccioni; una poetica che si illumina fino a divenire preghiera, una poesia orante che è insieme resistenza ed attesa, perché non vana sarà l’ospitalità di amore, la sua dimora. Santità ospitale è quella che accoglie l’altrui dolore la sola che “perennemente” riedifica “umanamente” vita d’uomini.

Il mondo d’abissale pena soffoca;
Ora che insopportabile il tormento
Si sfrena tra i fratelli in ira a morte;
Ora che osano dire
Le mie blasfeme labbra:
«Cristo, pensoso palpito,
Perché la Tua bontà
S’è tanto allontanata?»
Ora che pecorelle cogli agnelli
Si sbandano stupite e, per le strade
Che già furono urbane, si desolano;
Ora che prova un popolo
Dopo gli strappi dell’emigrazione,
La stolta iniquità
Delle deportazioni;
Ora che nelle fosse
Con fantasia ritorta
E mani spudorate
Dalle fattezze umane l’uomo lacera
L’immagine divina
E pietà in grido si contrae di pietra;
Ora che l’innocenza
Reclama almeno un’eco,
E geme anche nel cuore più indurito;
Ora che sono vani gli altri gridi;
Vedo ora chiaro nella notte triste.
Vedo ora nella notte triste, imparo,
So che l’inferno s’apre sulla terra
Su misura di quanto
L’uomo si sottrae, folle,
Alla purezza della Tua passione.
Fa piaga nel Tuo cuore
La somma del dolore
Che va spargendo sulla terra l’uomo;
Il Tuo cuore è la sede appassionata
Dell’amore non vano.
Cristo, pensoso palpito,
Astro incarnato nell’umane tenebre,
Fratello che t’immoli
Perennemente per riedificare
Umanamente l’uomo,
Santo, Santo che soffri,
Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli,
Santo, Santo che soffri
Per liberare dalla morte i morti
E sorreggere noi infelici vivi,
D’un pianto solo mio non piango più,
Ecco, Ti chiamo, Santo,
Santo, Santo che soffri.
(Vita d’uomo, ivi, 228-230)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Dopo la chiusura nel 2021, un flash mob chiede un futuro per la sala Boldini e la videoteca Vigor

IL COMPLESSO BOLDINI E LA BIBLIOTECA/VIDEOTECA COMUNALE VIGOR: STORIA E PROSPETTIVE.

L’edificio del Complesso Boldini fu realizzato tra il 1935 e il 1939, sull’area precedentemente occupata dall’ala ovest della Sala di Degenza maschile dell’Ospedale Sant’Anna.

Il Piano Regolatore del quartiere cosiddetto “Novecentista”, che ha il suo cuore nella piazzetta (oggi Largo) dedicata a Michelangelo Antonioni, risale al 1931, anno in cui fu progettato da Carlo Savonuzzi con la supervisione del fratello Girolamo.

L’edificio, dotato di sala per gli spettacoli, venne destinato a sede del Dopolavoro Provinciale Fascista.

Dagli anni ’50 agli anni ’70, i locali della futura biblioteca vennero utilizzati come sede di una palestra di pugilato, la “Padana Vigor”.

Dopo una lunga ristrutturazione tutto il complesso è diventato di proprietà del Comune di Ferrara mantenendo la funzione di polo culturale per l’intera cittadinanza, grazie a una programmazione diversificata per linguaggi (cinema d’essai, teatro, Teatro Ragazzi, mostre, convegni, conferenze, mercatini organizzati da diverse associazioni di volontariato, ecc.) e per target (scolaresche, famiglie, adulti, appassionati, ricercatori, studenti delle scuole superiori e universitari).

Il 29 novembre 2003, nel complesso Boldini di via Previati 18, fu inaugurata la “Videoteca Biblioteca Vigor” del Comune di Ferrara. Il programma prevedeva la visita del nuovo spazio culturale e, dopo il brindisi inaugurale, la videoproiezione del film ‘Toro Scatenato’, interpretato da Robert De Niro per la regia di Martin Scorsese. Un film scelto non a caso per mantenere un legame di memoria storica con il precedente utilizzo dello stabile.

In questa parte di città ci sono altri edifici che, unitamente al Complesso Boldini, costituiscono la cosiddetta “Addizione Novecentista”. Parliamo del Museo di Storia Naturale (ex Istituto di storia naturale, 1935-37), del Conservatorio Statale di Musica “G. Frescobaldi” (ex Conservatorio e Auditorium, 1935-39) attualmente transennato per lavori dalla tempistica finale incerta, come del resto tutto il comparto e la Scuola primaria statale “Alda Costa” (ex “Umberto I”, 1932-33).

La Videoteca Biblioteca “Vigor”, chiusa al pubblico dall’estate del 2021, come del resto tutto il Complesso Boldini, per lavori di ristrutturazione, era una biblioteca Comunale specializzata nella raccolta e nella conservazione di documenti sul cinema, con lo scopo di documentarne la storia e di favorirne lo studio e la conoscenza. Un vero e proprio punto di riferimento per un numeroso pubblico di appassionati e studiosi.
La “Vigor” accoglieva oltre 4000 documenti video tra film italiani e stranieri, documentari e audiovisivi didattici sul cinema, 1200 VHS, centinaia di filmati digitalizzati, oltre 5000 volumi sul cinema e i suoi protagonisti, centinaia di riviste italiane e straniere in gran parte catalogate su OPAC. Si potevano inoltre consultare anche opere di autori ferraresi e la documentazione sugli spettacoli e sui concerti tenutisi al Teatro Comunale di Ferrara. Dopo la chiusura sine die, tutto il materiale è stato trasportato in un capannone di Via Marconi, 37. Lo stato di conservazione di questi preziosi documenti è incerto, e la mancanza di aggiornamenti da parte dell’Assessorato competente è molto preoccupante.

Quale futuro per la sala Boldini e la biblioteca videoteca Vigor? A oltre tre anni dalla chiusura il loro stato di abbandono è totale. Ferrara si è voluta dare una identità di città del cinema. Com’è possibile che il luogo che è stato per tanti anni un punto di riferimento per il cinema ferrarese sia lasciato in questo stato di degrado?

Uno dei tanti compiti della prossima Amministrazione Comunale dovrà essere la restituzione alla città di questi spazi di cultura, di memoria, prevedendo ovviamente finanziamenti adeguati per il futuro.

Pier Luigi Guerrini
Ex bibliotecario videoteca Vigor
Candidato per la lista La Comune di Ferrara per Anna Zonari Sindaca.

Nota:
La lista La Comune di Ferrara ha organizzato un flash mob davanti al complesso Boldini  sabato 11 maggio alle ore 10,30.

Il ruolo delle carceri minorili in Italia

Il ruolo delle carceri minorili in Italia

Delle violenze ai danni dei detenuti si sono registrate al carcere minorile Beccaria di Milano. Un carcere che ha una lunga storia e, al suo attivo, esperienze positive di custodia e di recupero della devianza minorile. Sembra che questo brillante passato sia stato clamorosamente dimenticato.

Allo stato attuale, il buon nome dell’Istituto è stato cancellato a favore di una situazione insostenibile caratterizzata da maltrattamenti e soprusi ai danni di persone non maggiorenni. La giovanissima età dei maltrattati acuisce la gravità della situazione, in quanto ai minori dovrebbe essere garantita la massima tutela e tutte le strategie possibili per il recupero e il reinserimento nella società civile, una volta scontata la pena.

I minori non hanno i diritti dei maggiorenni, ne hanno di più. Non possono votare, stipulare contratti dal notaio, però hanno una tutela rafforzata della personalità e delle manifestazioni del loro agire. Questo serve a garantire loro una crescita psicofisica sana ed equilibrata, un fondamentale diritto della persona umana che viene loro riconosciuto, insieme a molti altri diritti.

L’inchiesta che si è svolta al Beccaria ha portato a 21 misure cautelari. Tredici agenti della Polizia penitenziaria sono stati arrestati, per altri otto il giudice per le indagini preliminari ha disposto la sospensione. Sui detenuti ci sarebbero state inaudite violenze. Pestaggi con bastoni ai danni di ragazzi ammanettati con le mani dietro la schiena. Per picchiare sarebbero stati utilizzati metodi tali da non lasciare il segno, come ad esempio dei sacchetti di sabbia.

Secondo la Procura, “emergono profili rilevanti di omessa vigilanza da parte del personale rispetto a plurimi episodi violenti anche di natura sessuale accaduti fra i detenuti all’interno delle celle, con una frequenza temporale particolarmente significativa”.

Da quando a settembre 2023 è entrato in vigore il decreto Caivano, ci sono più minori nelle carceri, anche se il numero di reati è il medesimo dell’anno precedente, inoltre un numero maggiore di ragazzi che hanno appena compiuto diciott’anni sta scontando la misura cautelare nelle carceri per adulti, cosa diseducativa. Le misure cautelari personali consistono in limitazioni della libertà personale e sono disposte da un giudice nella fase delle indagini preliminari o nella fase processuale.

Il decreto Caivano, cosiddetto perché concepito come risposta agli episodi di criminalità minorile registratisi nel comune campano, è in realtà il DECRETO-LEGGE del 15/09/2023, n. 123. Nel decreto si introducono alcune novità che riguardano il trattamento della delinquenza minorile. Tra queste si trova il cosiddetto daspo urbano, definito dalla legge come “misura a tutela del decoro di particolari luoghi”.

In pratica, un sindaco (con il prefetto) può multare e stabilire un divieto di accesso ad alcune aree urbane per chi “ponga in essere condotte che limitano la libera accessibilità e fruizione” a importanti infrastrutture quali strade, piazze, ferrovie e aeroporti. In base al provvedimento, la notifica del divieto verrà fatta ai genitori o a chi esercita la patria potestà. La comunicazione verrà inoltre trasmessa al Procuratore presso il tribunale del luogo di residenza del minore.

L’obiettivo dichiarato del Daspo è quello di difendere la “sicurezza urbana”, e di contribuire alla “vivibilità e al decoro delle città, da conseguire anche attraverso il contributo degli enti territoriali attraverso i seguenti interventi: riqualificazione e recupero delle aree o dei siti più degradati, eliminazione dei fattori di marginalità e di esclusione sociale, prevenzione della criminalità – in particolare di tipo predatorio – , promozione del rispetto della legalità, più elevati livelli di coesione sociale e convivenza civile” (cfr. art 4 D.L. 14/17).

Il decreto introduce altre novità, ne riporto alcune:

  • La pena massima del divieto di rientro nei comuni da cui si è stati allontanati aumenta di un anno, mentre passa da nove a sei anni il limite temporale per la custodia cautelare, che riguarda sia gli indagati sia gli imputati minorenni.
  • Le pene di durata non superiore ai cinque anni, durante le cui indagini il Pubblico Ministero potrà optare per un percorso rieducativo o la messa in prova, passano da uno a sei mesi.
  • Aumenta da tre a quattro anni la pena nel caso di porto non giustificato di armi o di strumenti atti ad offendere, mentre la soglia edittale per il traffico e la detenzione di sostanze stupefacenti è compresa da un minimo di un anno ad un massimo di cinque.
  • Nei casi di associazione mafiosa o associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, il Tribunale, su richiesta del Pubblico Ministero, potrà revocare la patria potestà dei genitori.
  • Per soggetti di età superiore ai quattordici anni, il Questore potrà proporre all’Autorità giudiziaria il divieto dell’utilizzo di telefoni cellulari o altri dispositivi per le comunicazioni, qualora possano servire per condividere le condotte contestate.
  • Per evitare l’abbandono scolastico, le famiglie saranno ritenute responsabili per le assenze ingiustificate e possono rischiare fino a due anni di reclusione.

Detto che un reato è un reato e come tale vada definito e riconosciuto, credo che esistano alcune considerazioni che fanno riflettere. Il percorso in carcere, in modo particolare per i soggetti minorenni, deve essere rieducativo, cioè deve lavorare per il riconoscimento dell’errore e la messa in essere di tutte le strategie che permettano al ragazzo/a, una volta uscito dal carcere, il reinserimento nella società civile.

Se questo non succede, il sistema non funziona e il processo di accompagnamento va ripensato e organizzato. Se a ciò si aggiungono violenze e maltrattamenti in carcere, non solo il processo educativo va ripensato, ma va implementato ex novo. Non esiste infatti alcun tipo di educazione associabile alla violenza e ai maltrattamenti.

Qualunque pedagogista è in grado di spiegare questo con dovizia di teorie ed esempi concreti. Ciascuno di noi sa che per insegnare qualcosa ad altri, la strategia migliore è quella dell’esempio, dimostrare con comportamenti concreti quanto si può ottenere semplicemente intraprendendo uno stile di vita che si ispira all’eticità delle azioni quotidiane.

È attraverso l’esempio concreto e buone relazioni improntate alla fiducia reciproca, che si rieducano le persone. Chi non ha chiaro questo non deve fare l’educatore perché, molto pragmaticamente, non lo sa fare. Ed è buona cosa che uno stato che si vuole definire civile affidi percorsi educativi e rieducativi a persone e istituzioni competenti.

Se questo non succede le istituzioni dello stato vanno ripensate. In tale consapevolezza non c’entra alcuna appartenenza politica, se non una condivisione d’intenti che si basa sull’adesione alle carte costituzionali e a quelle dei diritti degli esseri umani e dei minori (ancor di più).

Ridare una vita normale alla persona che è stata in carcere e ha scontato la pena, è una missione sociale importante che viene spesso disattesa. Chi ha sbagliato è condannato in eterno a portare lo stigma dell’ex detenuto, di colui che non può più essere come gli altri. Sfido chiunque a sostenere che questo è giusto.

Maltrattare minorenni reclusi non ha alcuna giustificazione, non ce l’ha nemmeno se le carceri sono sovraffollate e quindi le persone che là vivono si trovano in uno stato di acuita insofferenza; non ce l’ha nemmeno se chi è a diretto contatto con l’utenza non è preparato per farlo e si arrabatta come può per arrivare a fine giornata e portare a casa lo stipendio.

Esistono persone “normali” che pensano che uno stipendio giustifichi dei maltrattamenti sui minori? Meglio che cambino lavoro, ci sono molte aziende di produzione che cercano operai e non riescono a trovarli. Mi chiedo se aldilà di quello che hanno registrato le telecamere del Beccaria, i fenomeni di maltrattamento delle persone in carcere non siano più diffusi di quel che pensiamo e se tali brutti eventi non riguardino spesso proprio i minori. I dati che abbiamo a disposizione non sono affatto confortanti in questo senso.

Secondo il VII Rapporto di Antigone sulla giustizia minorile pubblicato a metà febbraio 2024, erano 10 anni che non si raggiungeva quota 500 minori detenuti nei 17 Istituti penali per minorenni italiani. Gli ingressi sono in netto aumento. Erano stati 835 nel 2021 e 1.143 nel 2023, la cifra del 2024 è la più alta degli ultimi quindici anni.

I ragazzi presenti negli IPM, gli Istituti Penali per i Minorenni, in misura cautelare erano 340 nel gennaio 2024, contro i 243 del gennaio 2023. Ma, contrariamente a quanto superficialmente si potrebbe pensare, la criminalità minorile è più o meno stabile. I dati forniti dall’Istat e dal Ministero dell’Interno relativi ai minorenni arrestati e/o indagati nel periodo 2010–2022, mostrano un picco nel 2015 seguito da un costante decremento.

Ciò che sembra aver fatto la differenza è quindi il decreto Caivano. Raddrizzare i giovani, far capire subito come funziona la legge e quanto costa aver sbagliato. Un approccio in contrasto con il nuovo codice di procedura penale entrato in vigore nel 1988, fondato sull’interesse superiore del minore.

Interesse superiore del minore significa che in ogni legge, provvedimento, iniziativa pubblica o privata e in ogni situazione problematica, l’interesse del minore deve avere una considerazione preminente. Già il sovraffollamento delle carceri è un cancro tipicamente italiano, che poi all’interno di tali istituzioni totalizzanti si verifichino situazioni di ripetuta violenza ai danni di detenuti, è cosa assai riprovevole.

Se poi i detenuti sono minori è davvero orribile.

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Storie in pellicola / Palazzina Laf

Il mondo del lavoro torna al cinema da protagonista, con le sue distorsioni e i suoi problemi. La politica, il disprezzo del diritto ad un ambiente sano e l’ILVA di Taranto, con le sue crisi mai risolte, sono al centro di “Palazzina Laf”, opera prima di Michele Riondino.

“Palazzina Laf” trionfa ai David di Donatello, con tre premi prestigiosi: migliore attore protagonista a Michele Riondino, miglior attore non protagonista a Elio Germano – a dieci anni dalla Palma d’Oro – e miglior canzone originale a Diodato per “La mia terra”.

Un progetto, cui Riondino ha lavorato per sette anni, che narra di fatti tragici, incredibilmente veri, accaduti, tratto dal libro “Fumo sulla città” del giornalista e scrittore Alessandro Leogrande. Quando la realtà va al di là di ogni immaginazione.

Il mondo reale della Palazzina Laf (Laminatoio a freddo) dell’ILVA di Taranto, racconta di mobbing collettivo, di lavoratori scomodi qualificati “confinati” a non fare nulla, lasciati lì a giocare a carte, a fumare, a guardare il soffitto, a mettere i piedi sopra i tavoli, a innaffiare piantine smunte, a pregare e quasi ad impazzire, per il solo fatto di essere sgraditi.

Palazzina Laf, foto BIM Distribution

A loro non viene chiesto di produrre, di lavorare, ma di stare semplicemente lì a non fare, a non disturbare, un’inazione che diventa vera e propria forma di violenza e di ricatto.

Se dal reparto confino (all’epoca chiamato “lager”) si vuole uscire, o si accetta una mansione per la quale non si è professionalmente preparati o si va dritti alla cassa integrazione, anticamera del licenziamento. Gli esuberi si possono gestire solo così.

“Il problema nasce con il ricatto occupazionale”, ha detto il regista in un’intervista, “il ricatto sotto il quale noi tarantini siamo costretti a vivere dal 1995, da quando è entrato nella partita il privato: Emilio Riva. Tutti i fatti narrati nel film sono frutto di interviste fatte a ex lavoratori ILVA ed ex confinati. E i passaggi finali sono presi dalle carte processuali che hanno determinato la condanna degli imputati e il risarcimento delle vittime”.

Il caso esplose, infatti, nel 1997, quando, dopo un’ispezione dell’ispettorato del Lavoro, si scoprì che, nella palazzina Laf, i Riva confinavano impiegati, capisquadra, tecnici specializzati e magazzinieri, che non accettavano il declassamento attraverso la cosiddetta “novazione” del contratto. Chi non aderiva veniva pagato per non far nulla.

Nel novembre del 1998, l’allora procuratore Franco Sebastio, insieme con i carabinieri, “liberò” i 79 lavoratori caduti in quella trappola, privati di ogni diritto. La storia finì in un processo per tentata violenza privata a carico di titolari, dirigenti e quadri dello stabilimento. L’8 marzo del 2006 la sesta sezione penale della Cassazione confermò la condanna di undici persone, tra i quali il presidente del Consiglio di amministrazione dell’ILVA, Emilio Riva, e il direttore dello stabilimento di Taranto, Luigi Capogrosso: al primo furono inflitti un anno e sei mesi di reclusione, all’altro un anno e otto mesi.

Michele Riondino, Vanessa Scalera, foto BIM Distribution

Di Taranto si vedono il quartiere Tamburi, e in particolare, la Parrocchia Gesù Divino Lavoratore, con il mosaico che raffigura Cristo che dal ponte girevole, sullo sfondo di navi e ciminiere, benedice operai, pescatori, massaie, professionisti. L’ingresso dell’acciaieria, la cokeria e la stessa Palazzina Laf sono stati, invece, ricreati nello stabilimento siderurgico ex Lucchini di Piombino, in Toscana.

In questi luoghi spettrali, grigi, polverosi e fumosi, dopo l’ennesima morte sul lavoro, nel 1997, si aggira l’operaio Caterino Lamanna (Michele Riondino), cane sciolto, uomo di fatica che cerca spazio. Il dirigente Giancarlo Basile (Elio Germano) lo promuove a caposquadra e gli dà qualche beneficio in più, solo per “farsi un giro e raccontargli quanto succede in fabbrica”. Caterino è sgraziato e curvo, un poveraccio orgoglioso in cerca di gloria, di qualcosa in più, di qualche briciola. Andare in quella Palazzina, invece che faticare agli altoforni, gli pare il vero privilegio, per pochi eletti.

Michele Riondino, foto Maurizio Greco

Non sa, non si rende conto, non vede alcuna spada di Damocle, non nota stranezze, non coglie inganni, non protesta, non capisce, tossisce e ignora il perché.

“ILVA is a killer”, si legge sui muri. Di uomini, della loro salute, dell’ambiente che li circonda. Ma anche della loro dignità.

Ma per Caterino non conta. Un critico lo ha definito “un Giuda inconsapevole che è a suo modo anche un povero Cristo”. Illuminante.

Un film intenso che ci fa riflettere sui diritti dei lavoratori ma anche su come alcune fantomatiche ristrutturazioni siano sempre lì, in agguato, in attesa. Ma in attesa di cosa?

Palazzina Laf, di Michele Riondino, con Michele Riondino, Elio Germano, Vanessa Scalera, Domenico Fortunato, Gianni D’Addario, Michele Sinisi, Fulvio Pepe, Marina Limosani, Eva Cela, Anna Ferruzzo e Paolo Pierobon, Italia, 2023, 99 mn.

 

Foto in evidenza Maurizio Greco

Le voci da dentro /
Uscire dalla “cella di parole”

Uscire dalla “cella di parole”

Un piccolo gruppo di ragazze dell’Istituto “Einaudi” di Ferrara ha svolto un’esperienza importante e significativa presso la Casa Circondariale di Ferrara. Quello che hanno fatto, per diversi giorni, non è cosa da tutti e da tutte. In questo articolo raccontano le loro emozioni, i loro pensieri e le loro convinzioni.
(Mauro Presini)

Di Fatima Zahra Lahmidi e Gabriela Olaru

Avete presente il carcere? Quel luogo dall’energia sinistra, con condizioni disumane, scarsità di igiene, dalle pareti grigie che ti tolgono anche quel briciolo di speranza e dove chi ci finisce viene privato di identità ed etichettato con un numero di serie per distinguerlo dagli altri? Bene, dimenticatevi di tutto ciò, come abbiamo fatto noi dal momento in cui abbiamo messo piede all’interno di un carcere per la prima volta. Difatti, il 5 febbraio del 2024, grazie alla disponibilità della Direttrice della Casa Circondariale “Costantino Satta” di Ferrara Dr.ssa Maria Nicoletta Toscani e alla nostra scuola, l’Istituto di Istruzione Superiore “Luigi Einaudi” di Ferrara, abbiamo avuto modo di vivere la realtà del carcere. Dal primo momento abbiamo capito che ciò che ci si immagina fuori è completamente diverso dalla realtà. Solitamente si tende a pensare che, nel momento in cui una persona viene messa in questa struttura è lasciata a sé, ma non è così, anzi, sin dal primo momento, si è affiancati da tante figure distinte, che si occupano da subito della salute fisica e psicologica dei detenuti, nel rispetto della dignità della persona. Loro non vengono privati di identità, e non vengono chiamati con un numero di serie ma con il loro nome, come ogni essere umano. Nel nostro percorso siamo stati affiancati dalla Dr.ssa Mariangela Siconolfi, funzionario giuridico-pedagogico, che ci ha aperto gli occhi su un’altra realtà della quale fuori si sa poco, quella che riguarda il grande lavoro che ogni figura all’interno del carcere svolge, a partire dalla polizia penitenziaria fino ai volontari che si prendono la responsabilità di offrire il loro tempo per la costruzione di attività e progetti rivolti alla popolazione detenuta. E sapete qual è la cosa bella? Il carcere non è grigio, anzi: è verde, come la speranza, e blu, colore del viaggio, del cambiamento, ma anche della conoscenza e dell’intelligenza. E, quindi, ora, dopo che vi abbiamo raccontato dei colori del carcere e di chi sta dietro a questa struttura, vi starete chiedendo: “E i detenuti?”.

Il nostro primo incontro con i detenuti non lo dimenticheremo mai, come non dimenticheremo mai il rumore dei cancelli che si chiudevano dietro di noi la prima volta o il rumore di una cella quando viene chiusa a chiave. La prima volta nella quale ci siamo trovati davanti ai detenuti non sapevamo come comportarci o cosa dire, ma poi siamo rimaste piacevolmente sorprese nel vedere come loro si confidavano con noi e prendevano addirittura l’iniziativa nel parlarci senza farci sentire come se stessimo invadendo i loro spazi, come temevamo di fare. Molti di loro lavorano, studiano o coltivano passioni come ognuno di noi. Altri hanno dei sogni, come il poter mettere su una famiglia e avere una casa con un cane, sogni forse semplici, per alcuni, ma grandi per altri, perché capaci di rendere umani al di là del luogo in cui ci si trova. Fuori dal carcere, sono in molti ad avere pregiudizi e timori su questa realtà, ma non sanno che anche le persone detenute hanno i loro timori e le loro paure: la paura di non riuscire a reinserirsi nella società una volta fuori o di essere giudicati e allontanati per il proprio passato. Bisogna sempre ricordare che il carcere non è un luogo esclusivamente punitivo, ma rieducativo. Esso è un luogo per crescere e capire, per accompagnare chi sbaglia nel cammino verso la libertà. Per questo bisogna spendere risorse ed energie, per migliorare le persone, per migliorare la nostra società. Grazie a questo stage abbiamo avuto l’opportunità di abolire stereotipi e pregiudizi sulla detenzione.

È importante capire che i detenuti sono esseri umani come noi e allontanare le idee che possono offuscare la mente. Appena si incontra una persona che è stata dentro partono i pregiudizi, anche se non sappiamo il perché. Cos’ha fatto? Perché? Come? Quali sono i suoi sogni? Quando è uscito? Tutto ciò non importa, eppure ci si focalizza sempre sul pensiero che “era un ex detenuto”, senza rendersi conto della “cella di parole” nella quale ci chiudiamo. Proprio per questo bisogna provare ad andare oltre ai nostri pregiudizi, a sconfinare e a superare le categorizzazioni. Solo così potremo essere veramente liberi. Dentro e fuori dal carcere.

Immagine di copertina: murales di Banksy sul carcere inglese di Reading

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Parole a Capo
Versando pensieri

Molta gente scrive poesie che non sente pienamente. Lo faccio anch’io, a volte. Vita dura genera verso duro e con verso duro intendo un verso vero privo di orpelli.
(CHARLES BUKOWSKI)

 

La mia Emilia

Emilia ti respiro
a strozzo il cuore
travolge il maestoso
seppur dormiente
accarezzato orizzonte.
Se salgo su quel ricordo
al galoppo
fulgido e profumato di grano
si espande.
Tondo il mappamondo
si appunta il mio cammino
solo di passi gli è concessa la conta
mentre la distanza tra qui e l’altrove
si misura a peso di campi arati
di volti invecchiati
di risate assordanti
di argini e pioppi argentati.
Emilia ti saluto
stappo la bottiglia
sola e solenne
ne conservo il sughero tinto
tra le mani come un gioco
scivola giù.
a sanare va quel foro
visibile tra il petto.

Amore son pronta
ti aspetto.

(Lidia Calzolari)

*

Idrogeno solforato
soffio di morte,
non lo sapevamo
non lo conosciamo.
Ma qualcuno lo poteva conoscere?
nessuna sfortuna
non una pallottola vagante
ma il contante.
C’è fretta,
ottimizziamo i tempi
va abbassato il costo orario
occorre fare lo straordinario.
Prima o poi
mi faranno fisso
io accetto tutto
anche l’abisso.
Non mancano le leggi
non mancan gli ispettori
manca il rispetto per la vita
dei lavoratori.

(Cristiano Mazzoni)

*

I giorni del glicine

All’improvviso
un profumo sorride
regala
una grazia di pace sopra il cuore.
Cascata gloriosa
colore d’orizzonte antelucano.
Fiorisce di memorie il muro antico:
sono i giorni del Glicine.

(Marta Casadei)

*

La sera

Tardi la sera
una luna rossa
riempie la valle
Senza sapere
penetra
tiepido sangue
nei campi
I nostri corpi stesi
e sotto l’erba
una terra bruna
Se Dio c’è
geme e trema
insonne

(Rita Bonetti)

*

Ricordi di maggio

E dopo un po’ di tempo
ritorna maggio.
Da bambino
era il mese del fioretto.
Ogni giorno
ad ogni scendiletto
mi guardavo attorno
per dare della gentilezza
un assaggio.

 

La bontà era un gioco
la fatica era poca,
bastava poco.
Alla fine del mese
come in un premio a punti
nella chiesa del paese
eravamo tutti compunti
per il raggiunto traguardo
sotto gli occhi della mamma
e del suo dolce e religioso sguardo.

(Pier Luigi Guerrini)

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

 

L’emergenza qualità dell’aria.
Note e commenti al Rapporto “Mal’Aria di città 2024” di Legambiente

L’emergenza qualità dell’aria. Note e commenti al Rapporto “Mal’Aria di città 2024” di Legambiente

La lotta allo smog nelle città italiane è ancora in salita. I livelli di inquinamento atmosferico sono troppo lontani dai limiti normativi previsti per il 2030 e soprattutto dai valori suggeriti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. La salute dei cittadini è a rischio. Così inizia il comunicato di presentazione del rapporto di Legambiente Mal’Aria di Città 2024, presentato i primi giorni dello scorso mese di febbraio.
Il 2023, si legge in premessa del rapporto, “è stato un anno interlocutorio per le città italiane dal punto di vista dell’inquinamento atmosferico. Un anno con qualche luce e molte ombre” [Vedi qui la versione integrale del rapporto]

I valori complessivamente più bassi rispetto al 2022 sono infatti quasi esclusivamente riconducibili alle favorevoli condizioni metereologiche che hanno caratterizzato i mesi invernali di inizio anno e il periodo autunnale del 2023, specie per quanto riguarda le polveri sottili (PM 10 e PM 2.5 ) e gli ossidi di azoto (NO 2 ) registrati nei monitoraggi. “Questa la spiegazione, continua la premessa al report di Legambiente, che viene data dalle varie Agenzie Regionali per la Protezione Ambientale nei comunicati stampa usciti nelle prime settimane del 2024 relativamente ai dati dell’inquinamento dell’aria dell’anno appena trascorso”. Ciò è indubbiamente positivo per cittadine e cittadini che ogni giorno sono costretti a respirare aria con concentrazioni di inquinanti dannose per la salute. Meno positive sono le azioni, e la loro reale efficacia, introdotte da Governo nazionale, Regioni e amministrazioni comunali nel corso degli anni per fronteggiare questa emergenza ormai cronica che investe ogni anno il nostro paese.

Nonostante la leggera riduzione dei livelli di inquinamento di cui si è detto la “lotta allo smog nelle città italiane è ancora in salita” e, si legge nel comunicato stampa di Legambiente, “si fatica ad accelerare il passo verso un miglioramento sostanziale della qualità dell’aria”. I livelli attuali di inquinamento della maggior parte delle città italiane sono infatti stabili ormai da diversi anni, in linea con la normativa attuale, ma molto distanti da quelli che a breve (sono previsti per il 2030), verranno approvati dall’Unione Europea, ma, soprattutto, dai valori suggeriti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Tutto ciò evidenzia la necessità di un impegno più deciso e non più rimandabile da parte delle istituzioni nazionali e regionali per tutelare la salute delle persone [Guarda su Youtube]

Senza dubbio sono molto chiari i contenuti del report [1] che analizza i dati, riferiti ai capoluoghi di provincia italiani, dei livelli raggiunti, nel corso del 2023, dalle polveri sottili PM10 e PM2.5 e dal biossido di azoto NO2. Su 98 città monitorate 18 hanno superato i limiti normativi per gli sforamenti di PM10[2], mentre nel 2022 le città “fuorilegge” erano state 29 e 31 nel 2021. Con 70 giorni di sforamento (il doppio rispetto ai valori ammessi) è Frosinone la città in testa a questa poco meritevole classifica, seguita da Torino con 66, Treviso 63 e Mantova, Padova e Venezia con 62. Altre tre città venete superano il limite dei 35 giorni di sforamento: sono Rovigo, Verona e Vicenza, con rispettivamente 55, le prime due e 53 l’ultima. Milano registra 49 giorni, Asti 47, Cremona 46, Lodi 43, Brescia e Monza 40. Chiudono la lista Alessandria con 39, Napoli e Ferrara con 36 giorni di raggiungimento del limite di 50 microgrammi/m3, quest’ultima unica provincia dell’Emilia Romagna ad averli oltrepassati.

Nuovi limiti drasticamente più bassi rispetto a quelli in vigore in Europa sono stati suggeriti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2021 quando sono state aggiornate le linee guida sulla qualità dell’aria in seguito ai numerosi studi che hanno dimostrato come i gravi danni sulla salute non si presentino solo in seguito all’esposizione a livelli elevati di inquinanti, ma anche in caso di concentrazioni minori, raccomandando l’abbassamento della media annuale del particolato fine, PM2.5, a 5 µg/m3, quella del particolato inalabile, PM10, a 15 µg/m3, mentre per il biossido di azoto, NO2, a 10 µg/m3. In considerazione di tali raccomandazioni la Commissione Europea nel 2022 ha pubblicato una proposta di revisione delle direttive sulla qualità dell’aria che prevede diversi scenari di riduzione delle emissioni, propendendo però un’opzione intermedia rispetto ai limiti proposti da OMS. Quelli europei propongono entro il 2030 una riduzione per il PM10 da 40 a 20 µg/ m3, per il PM2.5 da 25 a 10 µg/ m3 e per NO2 da 40 a 20 µg/ m3. Viene inoltre prevista l’introduzione di una soglia di 25 µg/ m3 per la media giornaliera per il PM2.5 e di 50 µg/ m3 per l’NO2, da non superare per più di 18 giorni all’anno, mentre l’abbassamento della soglia preesistente per il PM10, passerebbe da 50 a 45 µg/ m3 per un massimo di 18 superamenti in un anno.

Il report di Legambiente afferma quindi che, rispetto ai valori più stringenti proposti dalla revisione della Direttiva europea sulla qualità dell’aria, che entrerà in vigore dal 2030, le città italiane, da Nord a Sud, presentano ancora notevoli ritardi, una tendenza la cui rotta difficilmente potrà essere invertita. In “aiuto” alla complessa realtà italiana può venire la posizione negoziale del Consiglio Europeo che, al fine di garantire una maggiore flessibilità agli Stati per attuare la direttiva, ha introdotto una proroga al 1° gennaio 2040, indebolendo notevolmente però l’iniziativa della Commissione molto più in linea con gli obiettivi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. L’8 marzo scorso da parte del Consiglio Europeo è stato emesso un comunicato stampa[3] titolato Qualità dell’aria: Consiglio e Parlamento raggiungono un accordo per rafforzare le norme nell’UE, dove, a inizio documento, viene scritto che “La presidenza del Consiglio e i rappresentanti del Parlamento europeo hanno raggiunto oggi un accordo politico provvisorio su una proposta tesa a definire a livello di UE standard di qualità dell’aria da raggiungere nell’ottica di realizzare l’obiettivo di inquinamento zero, contribuendo così a un ambiente privo di sostanze tossiche nell’UE entro il 2050”. L’accordo provvisorio, pur ribadendo i principi espressi dalla Commissione nel 2022, offre agli Stati membri la possibilità di chiedere, entro il 31 gennaio 2029 e per motivi specifici e a condizioni rigorose, un rinvio del termine per il raggiungimento dei valori limite di qualità dell’aria[4].

Tornando a quanto contenuto report Mal’Aria di città, risultano di notevole interesse alcune infografiche presenti, che, riportando le 11 città italiane più inquinate da PM10 e le 9 da PM2.5, mostrano le riduzioni percentuali necessarie per il rispetto dei nuovi limiti al 2030 (fatte salve le eventuali eccezioni del Consiglio Europeo sopra citate). Per ambedue gli inquinanti considerati non sono presenti città della nostra regione, ma va fatto notare che ben 10 sulle 11 città con maggiore inquinamento da PM10 sono quelle collocate nelle regioni padane, che sono il Veneto con 6, la Lombardia con 3 e il Piemonte con 1[5], mentre per le PM2.5 le 9 città maggiormente inquinate sono 5 in Lombardia e 4 nel Veneto. Nel primo caso le città che necessitano della maggioreMal’Aria di città percentuale di riduzione sono Verona, Vicenza e Padova (37%), mentre nel secondo è Padova con il 58%. Per quanto riguarda il biossido di azoto NO2 i risultati peggiori in termini di riduzioni sono stati registrati in 4 città dell’area padana (3 lombarde e 1 piemontese) e poi da Napoli (che con il 48% presenta il valore massimo di riduzione), Palermo, Catania e Roma sulle 8 considerate nell’infografica.

Oltre ai valori che riguardano la concentrazione giornaliera di PM10, 50 μg/m3, da non superare

per più di 35 volte nell’arco dell’anno, un altro parametro da tenere presente è quello che misura l’esposizione della popolazione nel lungo periodo, cioè la concentrazione media annua di tutte le centraline presenti in un comune, il cui limite è fissato dalla legge italiana a 40 μg/m3. Come negli anni precedenti, è scritto nel rapporto, nessuno in Italia ha superato tale limite, anche se numerose sono le città che presentano valori elevati: Padova, Verona e Vicenza hanno fatto registrare valori medi di 32 μg/m3, Cremona e Venezia 31 μg/m3, mentre per Brescia, Cagliari, Mantova, Rovigo, Torino e Treviso la media è stata di 30 μg/m3. Si noti che a parte Cagliari, tutte le altre città fanno parte della pianura Padana.

Ma, come fa notare Mal’Aria di città, la situazione cambia totalmente se si considerano i nuovi limiti previsti dalla revisione della direttiva, i quali, fissando la soglia in 20 μg/m3 a partire dal 2030 portano oltre il 70% delle città a superare la soglia ritenuta più sicura per la salute dei cittadini. E’ allora necessario assumere al più presto quelle soluzioni che permetteranno un taglio netto delle concentrazioni nel minor tempo possibile. Viene stimato che la riduzione necessaria a raggiungere i valori fissati al 2030 si attesti attorno al 33% per le città con concentrazioni medie di 30 μg/m3 e al 37% per quelle con valori superiori (32 μg/m3).

Stesse considerazioni possono essere fatte per il particolato PM2.5, tra i più dannosi per la salute umana: a causa delle sue dimensioni inferiori a 2,5 micrometri, esso è in grado di penetrare in profondità nei polmoni, e, secondo le stime dell’Agenzia Europea dell’Ambiente, si stima che nel 2021 in Europa siano state circa 253 mila le morti premature a causa del PM2.5. L’Italia detiene, in questa triste classifica, il secondo posto, con circa 46.800 morti, ed è questo il motivo per cui è fondamentale tenere il PM2.5 sotto osservazione. Questo inquinante, nell’ambito di questa indagine, è stato misurato in 141 centraline distribuite in 87 città. La nota positiva, conclude il report, è che il limite normativo attuale di 25 μg/m3 è stato rispettato da tutte le città, anche se sono molte quelle dove sono stati registrati valori molto prossimi: Padova (24 μg/ m3); Vicenza (23 μg/ m3); Cremona e Treviso (21 μg/ m3); Bergamo e Verona (20 μg/ m3); Brescia, Pavia e Piacenza (19 μg/ m3). Ma anche in questo caso le prospettive non sono rosee, dato che nel momento in cui il limite adottato sarà quello dei 10 μg/ m3 solo 14 città rispetterebbero tale soglia. Ancora più negativa appare la situazione se si considera il limite stabilito dall’OMS di 5 μg/m3 come soglia per la tutela della salute.

Anche per il biossido di azoto si possono fare considerazioni analoghe a quelle fino ad ora descritte. Per l’OMS questa è tra le sostante più inquinanti, la cui esposizione eccessiva risulta dannosa per la salute umana, sia nel breve periodo, causando problemi all’apparato respiratorio e alle mucose, sia nel lungo termine: secondo l’Agenzia Europea dell’Ambiente, in Italia, 11.300 sono le morti attribuite a un’esposizione eccessiva all’NO2 nel 2021, e questo è uno tra i numeri più alti in Europa. L’NO2 inoltre presenta un rilevante impatto sull’ambiente, in quanto contribuisce ai fenomeni di smog fotochimico, eutrofizzazione e piogge acide. Nell’ambito di questa indagine sono stati raccolti dati sui livelli medi di concentrazione di biossido di azoto, utilizzando 205 centraline distribuite in 91 città. Nel 2023 il limite normativo di 40 μg/m3 è stato rispettato da tutte le città monitorate, e anche in questo caso la situazione cambia considerando il valore di riferimento di 20 μg/m3 previsto dalla revisione della direttiva per il 2030: ad oggi ben 45 città (il 50% del campione analizzato) non rientrerebbero nei nuovi limiti, e, come nei casi precedenti, la situazione appare ancor più critica se si prende in considerazione come valore di riferimento il limite proposto dall’OMS di 10 μg/m3. In questo caso ben il 92% delle città superando tale soglia risulterebbero fuori norma. Situazione molto preoccupante quindi se si pensa che per rientrare nei limiti previsti per il 2030, il doppio di quanto proposto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, per una città come Napoli sarebbe necessario ridurre la concentrazione di NO2 del 48%, mentre Milano e Palermo nei prossimi 6 anni dovrebbero diminuirla rispettivamente del 42% e 40%.

In conclusione, e in continuità con quanto scritto nel recente articolo[6] La qualità dell’aria a Ferrara. Il 2024 inizia in modo preoccupante, vengono riportati e commentati i dati degli sforamenti del particolato PM10 degli ultimi 4 anni (2020-2023) relativi alle provincie emiliano romagnole, premettendo che il conteggio è stato effettuato considerando il totale degli sforamenti annui indipendentemente dalle centraline che hanno registrato il superamento del limite giornaliero. Nel report di Legambiente invece vengono riportati i risultati dei monitoraggi delle ARPA regionali che sono riferiti alla sola centralina che ha registrato il massimo numero di sforamenti per ogni provincia. Come esempio si consideri che ARPAE, per la provincia di Ferrara nell’anno 2023, indica 36 giorni di superamento registrati dalla centralina denominata Ferrara Isonzo, senza considerare che, oltre a queste, vi sono state 2 giornate nel corso dell’anno che hanno registrato un superamento del limite dei 50 microgrammi/m3 da parte di altre centraline della provincia. Secondo questo calcolo il numero di sforamenti considerato risulta quindi maggiore e corrisponde a 38.

Di seguito viene riportato in numero di sforamenti annui delle annate dal 2020 al 2023. In grassetto i valori che hanno oltrepassato o raggiunto il limite dei 35 giorni previsto dalla normativa.

 

2020 2021 2022 2023
Piacenza 53 54 60 34
Parma 58 51 51 27
Reggio Emilia 63 58 71 38
Modena 79 69 89 45
Bologna 45 39 48 22
Ferrara 73 45 65 38
Forlì-Cesena 49 29 34 23
Ravenna 60 38 41 32
Rimini 56 36 41 34

* in grassetto i giorni che hanno superato i limiti previsti dalla normativa (35)

Si noti che, ad esclusione della provincia di Forlì-Cesena, fuori norma solo nel 2020, nel triennio 2020/22 tutte le provincie della regione oltrepassano il limite, in alcuni casi anche di oltre il doppio (Modena e Ferrara nel 2020, Modena e Reggio Emilia nel 2022), mentre altre mostrano valori molto elevati. E’ altrettanto evidente il “miglioramento” registrato nel 2023, quando, ad esclusione di Modena, Reggio Emilia e Ferrara, le rimanenti provincie rimangono al di sotto dei 35 giorni di sforamento. Miglioramento però, come detto in altra parte dell’articolo, quasi certamente causato dalle favorevoli condizioni meteorologiche piuttosto che da azioni virtuose intraprese nella direzione della diminuzione delle emissioni degli inquinanti presenti nell’aria che respiriamo. L’osservazione dei dati, quindi, non lascia dubbi su quanto ancora ci sia da fare. Un’ultima annotazione riguardo a Ferrara. Pur in calo, ma con un dato alquanto elevato nel 2022, come del resto per quasi tutte le provincie emiliano romagnole, la nostra provincia, nel 2023, ultimo anno di osservazioni, assieme a Modena e Reggio Emilia, registra il superamento del limite dei 35 giorni, come da normativa, di “soli” 3 giorni, almeno fino a quando questa saranno adottati gli aggiornamenti secondo le indicazioni dell’Organizzazione Mondiale di Sanità.

Infine, un accenno all’inquinamento da Ozono (O3), che merita particolare attenzione, e che, lo si ricorda, per tossicità e per i livelli di concentrazione che possono essere raggiunti è tra quelli che maggiormente incide sulla salute umana. Negli ultimi cento anni la concentrazione di ozono negli strati più bassi dell’atmosfera è raddoppiata e sono sempre più ricorrenti e pericolosi i picchi estivi. La provincia di Piacenza, la più “continentale” della regione, dal 2019 è quella che ha visto una sostanziale crescita della quantità di ozono nell’aria e dei conseguenti giorni di superamento dei limiti consentiti dalla normativa[7], che nel 2023 sono stati 90. Le provincie della regione che lo scorso anno hanno raggiunto livelli elevati di questo inquinante, i cui sforamenti sono concentrati nei mesi con le temperature più alte, in pratica da maggio a settembre, sono state Reggio Emilia (79), Parma (77) e Modena (68). Le altre, più vicine al mare, pur oltrepassando i valori di sicurezza, hanno presentato valori più ridotti (Ravenna e Forlì-Cesena le più basse con 37). Ferrara con 57 giorni di superamento nel 2023 ha mostrato, negli ultimi cinque anni di rilevazioni, un certo equilibrio dei livelli di inquinamento, a differenza di altre provincie dove invece si è assistito ad una crescita costante della presenza di ozono, specie nel triennio2021-23.

Gian Gaetano Pinnavaia, candidato nella lista La Comune di Ferrara per Anna Zonari Sindaca

Note

[1] Mal’Aria di città 2024, https://www.legambiente.it/wp-content/uploads/2021/11/Report_Malaria-2024.pdf.

[2] 35 giorni all’anno con una media giornaliera superiore ai 50 microgrammi/m3.

[3] https://www.consilium.europa.eu/it/press/press-releases/2024/02/20/air-quality-council-and-parliament-strike-deal-to-strengthen-standards-in-the-eu/.

[4] https://ambientenonsolo.com/qualita-dellaria-il-consiglio-e-il-parlamento-colpiscono-laccordo-per-rafforzare-gli-standard-nellue/.

[5] Mal’Aria di città 2024, pag 10-12.

[6] https://www.periscopionline.it/qualita-dellaria-a-ferrara-il-2024-inizia-in-modo-preoccupante-290992.html

[7] Il Decreto Legislativo 155/2010 stabilisce per la protezione della salute umana un valore limite orario (200 µg/m³ di concentrazione media oraria da non superare più di 18 volte in un anno) e un valore limite annuale (40 µg/m³).

Vite di carta /
Alfonsina Strada, la regina della pedivella.

Vite di carta. Alfonsina Strada, la regina della pedivella.

Sabato 4 Maggio ha preso il via l’edizione numero 107 del Giro d’Italia: 3.400 km di percorso in bicicletta distribuito in 21 tappe e con due giorni soli di riposo per i 176 partecipanti.

Esattamente cento anni fa anche una donna, Alfonsina Strada, si presentò alla partenza in una grigia alba milanese, numero 72 su 90 corridori presenti, pronti ad affrontare la fatica di dodici lunghe tappe su strade dissestate e salite impervie. Una tappa e un giorno di riposo, fino all’arrivo a Milano il 1° Giugno.

Alfonsina Strada partecipò al Giro d’Italia 1924 con una divisa nera e il numero 72

Il 26 maggio, data in cui il Giro della edizione 2024 si concluderà, Alfonsina ebbe un incidente grave, cadde e riportò diverse contusioni e tagli. Di più: ruppe la bicicletta e per ripararla alla meno peggio riportò un enorme ritardo all’arrivo e fu squalificata.

Ma. Ci sono due ma: il primo è che arrivò al traguardo a Perugia con un pezzo di legno montato al posto del manubrio, aiutata da una contadina che si era privata della propria scopa per ripararle la bici e le aveva fatto coraggio in un dialetto sconosciuto.

Il secondo è che spese fino all’ultima goccia di sudore e di fatica pur di tenere fede all’impegno che aveva preso con se stessa: arrivare fino in fondo. Arrivò fuori classifica ma finì tutte le tappe come si era ripromessa.

Cosa voleva dimostrare. Voleva seguire quella passione che le si era rivelata da bambina, quando aveva sottratto la bici al padre e di notte aveva provato l’ebbrezza più bella, pedalare per andare oltre i confini della sua infanzia nella miseria della campagna bolognese.

Voleva dimostrare a sé prima che agli altri di non essere “carne di scarto” in quanto donna, di avere diritto a seguire il proprio talento. Superare i limiti per un di più di conoscenza e di esperienza, questo la spingeva a sopportare la fatica.

Come racconta Simona Baldelli nel suo bel libro Alfonsina e la strada, uscito presso Sellerio nel 2021, pedalare è stato lo stigma di una vita per la corridora di Fossamarcia di Castenaso.

La bicicletta, avrebbe detto Montale, il suo amuleto per passare tra le insidie della grande guerra e poi del fascismo, dei lutti familiari e della miseria nel secondo conflitto mondiale. E per farcela.

Il 30 maggio 1924, mentre Alfonsina disputava la terzultima tappa del Giro, Giacomo Matteotti aveva denunciato in Parlamento che le elezioni di due mesi prima erano state inficiate da gravi brogli, “dunque andavano annullate e rifatte da capo.

In molti erano pronti a scommettere che non l’avrebbe passata liscia e che il Duce avrebbe trovato il modo di zittirlo per sempre. C’era nell’aria il preambolo di un futuro terribile e la gente cercava di nascondere nell’entusiasmo per il Giro la paura di qualcosa di brutto, vicino a venire”.

In questo frangente della storia, la corridora fece il giro d’onore al Velodromo Sempione e incassò finalmente il plauso della folla. Quanto a Mussolini, che diceva di volerla incontrare, ma poi aveva avuto altro a cui pensare, Alfonsina “si risparmiò volentieri” la sua stretta di mano.

Pedalando per una vita aveva dovuto sopportare ben altre fatiche, fatiche psicologiche ed emotive più pesanti ancora di quelle fisiche. Aveva raccolto forse più ostilità che sostegno intorno a sé, a cominciare dalla sua famiglia.

Veniva spesso chiamata la pazza per la sua passione che era da maschi e per la spinta a osare, a guardare verso la luna. Raccoglieva offese durante le gare, anche dalle donne stesse che non le perdonavano l’abbigliamento maschile e il taglio inusuale dei capelli.

Va letto il libro di Simona Baldelli per assorbire le cento traversie della sua vita e apprezzare le vittorie riportate sulla bicicletta, per conoscerne la sensibilità generosa verso gli altri e la capacità di fare anche le scelte più dolorose.

I suoi due mariti, Luigi e poi alla morte di questi Carlo, l’avevano davvero sostenuta. Del primo era lei stessa a ricordare le parole di incoraggiamento, nei momenti più bui: “Come sei bella sulla bicicletta, Fonsina, non scendere mai”.

Pare che davvero Alfonsina non scenda più, specie da quando, l’11 Luglio 2017, porta il suo nome una strada di Milano.

Nota bibliografica:

Simona Baldelli, Alfonsina e la strada, Sellerio, 2021

Le immagini della cover e nel testo sono tratte da Wikipedia

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Numeri / L’Italia delle armi:
cresce la spesa militare sia in Italia che in tutta Europa

L’Italia delle armi: cresce la spesa militare sia in Italia che in tutta Europa

Le spese militari dei paesi Nato membri dell’Unione Europea sono aumentate negli ultimi 10 anni di quasi il 50% (da 145 miliardi del 2014 ai 215 miliardi di euro nel 2023 (230 mln di dollari) a prezzi costanti 2015 (fonte: Nato). Si tratta di un importo superiore al Pil annuale del Portogallo. Con la guerra in Ucraina, le spese militari per il 2023 dovrebbero aumentare di quasi il 10% in termini reali rispetto al 2022.

I paesi Nato dell’Ue spendono l’1,8% del loro Pil per le forze armate. In un decennio, l’Italia ha aumentato la spesa militare reale (a prezzi costanti) del 26%.

Le spese più in crescita sono per acquisto di armi ed equipaggiamenti e le importazioni di armi da paesi esterni sono triplicate tra il 2018 e il 2022, metà delle quali proviene dagli Stati Uniti (fonte: Sipri).
Non stupisce quindi che gli Usa spingano per arrivare al 2% del Pil della spesa militare in Europa in quanto ciò significa aumentare l’import di armi dagli Usa.

Nel decennio 2013-2023, la spesa militare è cresciuta in Italia, come si diceva, del 26%, mentre il Pil cresceva del 9%, l’occupazione del 4%, la spesa pubblica del 13%, la spesa per la salute dell’11% e quella per l’istruzione del 3%. La priorità per le risorse pubbliche è stata il sistema militare anziché la spesa sociale.

Per documentare queste politiche di riarmo e le loro conseguenze Sbilanciamoci! e Greenpeace hanno realizzato l’ebook “Economia a mano armata 2024. Spesa militare e industria delle armi in Europa e in Italia” che si può scaricare dal 2 maggio sul sito Sbilanciamoci.info.

L’ebook ha la prefazione di Carlo Rovelli (che anche il Corriere della Sera ha pubblicato il 1° maggio), il quale rammenta che siamo in una situazione molto rischiosa in quanto la valutazione periodica degli scienziati del Buletin of the Atomic Scientistis indicano un livello di rischio (di conflitto nucleare) mai raggiunto in passato. Si parla apertamente di conflitto atomico tra Russia e NATO. Si tratta di darsi tutti una calmata e come dice Rovelli “trovare leader ragionevoli che cercano soluzioni e non soffino sul fuoco. La maggiore responsabilità è sulle spalle dell’Occidente, perché detiene ancora, per ora, il potere dominante e può decidere se accettare la rinegoziazione dell’equilibrio resa inevitabile dalla diffusione della prosperità diffusa nel mondo o rimanere arroccato a qualunque costo alla sua attuale posizione di dominio. L’Europa al momento sembra spersa e purtroppo l’Italia è in prima linea (nel riarmo), mentre altri paesi come Irlanda, Spagna, Austria cercano posizioni di equilibrio e neutralità”. Peccato perché l’Italia ha avuto per 50 anni nel dopoguerra una posizione molto apprezzata dal resto del mondo e dai paesi “non allineati” (nonostante fossimo nella NATO): un patrimonio di fiducia e di ruolo diplomatico strategico nel mondo che stiamo gettando al vento.

Una parte rilevante dell’ebook è dedicata alla traduzione italiana del Rapporto di GreenpeaceL’Europa delle armi. La spesa militare e i suoi effetti economici in Germania, Italia e Spagna”, pubblicato in inglese nei mesi scorsi, da cui sono tratti i dati sopra riportati. Lo studio analizza la crescita della spesa militare in Europa nel quadro dell’andamento delle economie, mettendo a confronto gli effetti su crescita e occupazione della spesa per armi e della spesa sociale e ambientale. I risultati mostrano che spendere per le armi è un “cattivo affare” – anche solo in termini puramente economici – rispetto a investire in campi civili.

L’intreccio tra spese militari e industria delle armi è analizzato da Francesco Vignarca, responsabile della Rete italiana per la pace e il disarmo. Raul Caruso esamina la questione dell’integrazione europea nella spesa militare. Sofia Basso, che ha coordinato il lavoro per l’ebook, presenta un quadro delle missioni militari all’estero che hanno l’obiettivo di proteggere le fonti energetiche nei paesi in conflitto. Un contributo importante è quello di Gianni Alioti che presenta la struttura del settore, la classifica delle maggiori imprese delle armi – da Leonardo a Fincantieri -, la gerarchia esistente tra i produttori, la scala multinazionale delle attività, la dimensione finanziaria che diventa sempre più importante, i dati sull’occupazione. Un approfondimento sul caso del nuovo caccia Tempest, un’inconsueta co-produzione internazionale che coinvolge l’Italia, è offerto da Guglielmo Ragozzino, mentre Giorgio Beretta presenta il quadro delle esportazioni italiane di armamenti, mostrando le responsabilità del nostro paese nei conflitti in corso.

I contributi del volume documentano come la maggior spesa militare non porti a una maggior sicurezza ma al contrario conduca l’Italia e l’Europa lungo una traiettoria di minore prosperità economica, minore creazione di posti di lavoro e peggiore qualità dello sviluppo. Le alternative – maggiori spese per l’ambiente, l’istruzione e la sanità – avrebbero effetti economici più positivi sulla produzione e sull’occupazione, e contribuirebbero ad affrontare i problemi sociali e ambientali che abbiamo di fronte.

Per leggere gli altri articoli e interventi di Andrea Gandini, clicca sul nome dell’autore

Solidarietà con Gaza negli Stati Uniti e in Europa

Tratto da pressenza del 6 maggio 2024

Redazione Italia di pressenza

Trinity College, Dublino

Negli Stati Uniti l’ondata di solidarietà con la Palestina continua nonostante la dura repressione. Secondo l’Associated Press, la polizia ha arrestato finora più di 2.500 studenti che si erano accampati nelle loro università, chiedendo di disinvestire dalle aziende che traggono profitto da gravi violazioni dei diritti umani e/o dall’occupazione israeliana dei territori palestinesi. Gli ultimi arresti sono avvenuti all’University of Virginia, all’Art Institute di Chicago e all’University of Southern California.

Alla Columbia University gli Independent student workers invitano ad aderire a uno sciopero mettendosi in malattia fino a quando non verranno accolte le richieste di amnistia per gli studenti pro Palestina e di allontanamento della polizia dal campus.

Sabato all’Università del Michigan, studenti che tenevano in mano bandiere palestinesi hanno brevemente interrotto le cerimonie di laurea, mentre un aereo volava sopra di loro con uno striscione con gli slogan: “Disinvestite da Israele ora! Palestina libera!”. All’Università dell’Indiana alcuni studenti hanno abbandonato la cerimonia di consegna dei diplomi di sabato e hanno fischiato il preside. Un aereo ha sorvolato la cerimonia trascinando uno striscione con una bandiera palestinese e la scritta “Lasciate vivere Gaza”.

Non tutti gli atenei scelgono la linea dura: quattro grandi università americane – Brown, Northwestern, Rutgers e UC Riverside – hanno concordato la pubblicazione e la “revisione” di tutti gli investimenti legati a Israele, come richiesto dagli studenti.

La protesta continua anche in Europa. Al Trinity College di Dublino uno studente ha reagito alle critiche per aver costruito una barricata di panche per impedire l’accesso all’edificio che ospita l’antico manoscritto detto Book of Kells (ora chiuso a tempo indefinito) dichiarando: “Le panche possono tornare alla loro posizione originale, ma le migliaia di uomini, donne e bambini palestinesi assassinati da Israele no. Loro non ci sono più.” “Non si può andare avanti come se nulla fosse davanti a un genocidio. Il Trinity College deve tagliare ogni relazione con lo Stato d’Israele” ha affermato László Molnárfi, presidente del sindacato studentesco.

Foto di https://twitter.com/TCDSU_President

Nel Regno Unito alle università di Manchester, Sheffield, Newcastle, Bristol, Warwick, Liverpool, Londra, Edimburgo e Leeds si sono unite quelle di Cambridge e OxfordIl gruppo Cambridge for Palestine ha montato un accampamento dichiarando: “Ci rifiutiamo di restare a guardare mentre l’università sostiene il genocidio attuato da Israele a Gaza.”

Foto di Cambridge for Palestine

Edimburgo è stato montato un accampamento davanti al Parlamento scozzese. Gli attivisti chiedono l’embargo sulle armi, il disinvestimento pubblico e accademico, il riconoscimento del genocidio di cui il Regno Unito è complice, il diritto di protestare e la tutela del diritto di boicottaggio. Decine di loro hanno intrapreso uno sciopero della fame a tempo indeterminato.

Foto di copertina : accampamento solidale  ad Edimburgo –  Resistance News Network

Fonti:

Democracy Now!
CU Apartheid Divest
Cambridge for Palestine
Resistance News Network

 

festoso aperitivo di inaugurazione della sede del comitato elettorale della candidata sindaca Anna Zonari

Ieri lunedì 6 maggio si è tenuto un festoso aperitivo di inaugurazione della sede del comitato elettorale della candidata sindaca Anna Zonari, situata in via RIPAGRANDE 28. Le risorse per finanziare la sede arrivano direttamente dall’autofinanziamento di candidate/i e attiviste/i, nonché dalla raccolta fondi promossa attraverso sito e social.
Ringraziamo chi ha contribuito e chi vorrà farlo nei prossimi giorni. La sede ci serve come luogo di incontro, dove le persone interessate potranno trovare
materiale informativo e un orecchio attento, in ascolto dei bisogni e delle sensazioni di chi abita la città. La sede sarà aperta mattina 9-12 e pomeriggio 15-18 indicativamente, secondo la disponibilità di candidate/i e attiviste/i.

L’inaugurazione della sede è stata impreziosita dalla mostra personale della pittrice Stephani Nwobodo. Stephani Nwobodo nasce a Ferrara nel 1997 da genitori nigeriani risiedenti in Italia dalla fine anni Settanta.
Il legame con la famiglia e le proprie radici è da sempre un elemento fondamentale per l’artista. Dal 2012 fino al 2017 studia presso il Liceo Artistico Dosso-Dossi di Ferrara dove si specializza in Discipline Pittoriche e scultoree. Dal 2017 fino al 2022 prosegue gli studi all’Accademia di Belle Arti di Venezia, si laurea in Arti Visive specializzandosi in Tecniche dell’Incisione calcografica. La ricerca
effettuata durante gli anni accademici si è incentrata sul concetto di afrocentrismo come affermazione della cultura africana ed esaltazione dei valori tradizionali che le appartengono. I lavori si sviluppano attraverso la rappresentazione di forme astratte collocate in ambienti indefiniti.

Ufficio Stampa La Comune di Ferrara per Anna Zonari Sindaca