Skip to main content

Parole a capo
Stefano Agnelli: “Strade luminate a festa”

Strade luminate a festa

Sola regni

Indifferenza

Madre di un dolore

non tuo, sola causa

dell’ansia sottile d’ognuno.

Chi muore urla nel silenzio,

anime beate d’amore divino.

Ma qui, in ogni casa, 

per le strade

luminate a festa,

siamo già morti 

e non lo sappiamo.

 

Questa poesia è stata pubblicata sul numero 798 de “Il giornale di Rodafà”. Rivista online di liturgia del quotidiano – 29/12/2024.

NOTA REDAZIONALE: “Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”. Per rafforzare il sostegno al progetto invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica. 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 265° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

“Aggiustare l’universo” di Raffaella Romagnolo:
un romanzo classico-contemporaneo

Vite di carta. “Aggiustare l’universo di Raffaella Romagnolo: un romanzo classico-contemporaneo

A dispetto del titolo di questo mio testo, che pare inoltrarsi nel territorio a delta dei generi letterari, voglio partire da un gatto. Un gatto nero che è sulla copertina di Aggiustare l’universo di Raffaella Romagnolo, tra i libri finalisti del Premio Strega 2024, e che dentro la storia occupa un ruolo non secondario in qualità di amico salvifico della bambina protagonista.

Ho un gatto nero che da poco entra in casa nostra e si accolla le nostre abitudini mentre ci impone le sue: sono nel pieno di una nuova consolazione, mi appoggio al suo istinto e sento che si ricompone l’amicizia con un animale che mi è necessaria.

Quando il felino è comparso tra le pagine del libro ne ho sentito la forza: la bambina di nome Francesca, che vive all’orfanotrofio e non parla, lo custodisce in un luogo segreto, gli porta ogni giorno un po’ di pane che si è levata dalla bocca e lo mantiene in vita per lei sola. In cambio lo copre di parole.

Il libro finisce con le fusa del gatto, che intanto ha avuto un nome ed è Lucifero, e che in realtà è femmina, mentre si intrufola nei meandri dell’orfanotrofio e si addormenta beato sulle gambe di una figura femminile.

Il finale lieto della storia va all’unisono col ron ron del micio: nessuna segregazione all’orizzonte per lui e per gli umani, a guerra finita. E poi la libertà di muoversi tra i corridoi e l’esterno del grande edificio; per gli uomini la libertà di viaggiare da una città all’altra, da un paese all’altro. Il viaggio di Francesca è stato un ritorno alla sua città, Casale Monferrato. Specularmente a Lucifero, il portatore di luce, la bambina ritrova la propria identità e la propria religione.

Ora devo uscire dal punto di vista del gatto se voglio rendere conto della Storia con la maiuscola che il romanzo racconta.

Il libro racconta della maestra Gilla, 22 anni, che a guerra finita rimane a insegnare nel piccolo paese di Borgo di Dentro, dove nell’autunno del 1942 si è rifugiata insieme ai genitori per sfuggire ai bombardamenti su Genova. Racconta in parallelo di Francesca, la bambina più brava nella quinta classe dove Gilla insegna con passione.

L’anno scolastico 1945-46 rappresenta quel segmento di tempo che le fa incontrare, insegnante e allieva,  e si rivela un tratto di vita risolutivo per entrambe.

La maestra deve ripartire dalle macerie dell’Italia liberata e tentare di ricostruire giorno dopo giorno un universo ordinato dentro la testa delle sue alunne: ha a disposizione le regole scolastiche e tanti piccoli saperi che fa depositare sui loro quaderni. I problemi di matematica, gli elaborati di italiano, le attività manuali e soprattutto la conoscenza del cosmo.

Ha trovato  perlustrando i locali della scuola un planetario meccanico in metallo e cartapesta che riproduce il sistema solare, ha “i pianeti dipinti a tempera, la base con i segni zodiacali disegnati a filo d’oro”.

Si mette a ripararne le ammaccature e ad aggiungere le parti mancanti: intanto che l’anno scolastico avanza Gilla aggiusta l’universo per tenere le lezioni di astronomia alle bambine. Francesca, in particolare, assorbe la sua attenzione di educatrice. Francesca vive nel vicino orfanotrofio, è preparata e pronta in ogni materia ma comunica scrivendo, oppure si esprime con i gesti. Parla soltanto col proprio gatto, ma questo la maestra viene a saperlo solo ad anno avanzato, quando il segreto è stato svelato alla compagna di banco, unica figura amica nella solitudine di Francesca.

Maria Luisa, così si chiama la compagna, nel rivelarlo a Gilla dimostra quanto la maestra sia divenuta un punto di riferimento fondamentale per le allieve, colei che col proprio intervento può restituire a Francesca la voce che rifiuta di usare. La voce le sarà indispensabile per affrontare gli esami di licenza elementare, la maestra lo sa. Anche Maria Luisa ha intuito che il mutismo dell’amica può causare la più ingiusta delle bocciature.

Che motivi hanno spinto Francesca a non parlare in questi lunghi mesi? La narrazione, condotta come è nella nostra tradizione romanzesca da una voce narrante onnisciente, ce ne dà conto andando indietro di alcuni anni fino al famigerato 1938 con l’emanazione delle leggi razziali e risale lungo gli anni della seconda guerra. Veniamo a conoscere il prima nella vita di Gilla, la sua infanzia a Genova, gli studi da maestra e i rischi che ha corso facendo da staffetta per i partigiani e per il suo amato Michele.

In parallelo Francesca, che è nata in una colta famiglia ebrea e in realtà si chiama Ester, ha vissuto la prima infanzia a Casale Monferrato finché il terremoto delle leggi razziali non ha spezzato il suo mondo familiare. Il padre è finito ad Auschwitz, la madre l’ha affidata alle suore dell’orfanotrofio sotto falso nome per salvarla.

I capitoli si alternano tra questo passato recente che ha lasciato traumi fortissimi in entrambe le protagoniste e il presente dell’anno scolastico della ripartenza. A ogni trimestre, il cursore del tempo che avanza coincide con un quadro che si è fatto più preciso del loro difficile mondo interiore: Gilla a poco a poco impara a convivere con la perdita di Michele ucciso dai soldati tedeschi, Francesca-Ester ha trovato in Maria Luisa e nel gatto un baluardo da opporre alla perdita di sé.

Il romanzo rispecchia l’impianto del romanzo realistico ottocentesco anche mentre si avvia a finire. Lo dice il titolo che possiamo aspettarci una ricomposizione finale dopo la diaspora dei sentimenti, dei beni materiali, delle vite intere che la guerra ha abbattuto.

Le ultime pagine ci dicono che tutte le bambine della classe quinta D sono state promosse, che Ester tornando a Casale accompagnata da Gilla ha ritrovato la propria famiglia e ora la sua vita è piena di voci. Risente quelle degli avi che le ridonano la base d’appoggio per vivere, la propria cultura.

Certo, c’è la lingua del romanzo, così sintatticamente fluida, fatta di frasi brevi e precise, a dirci che siamo nel ventunesimo secolo. E c’è la figura dominante dalla ipotiposi, quell’uso delle parole che riesce a far vedere ogni scena ammiccando al linguaggio del cinema e alla lezione che il neorealismo da ormai ottant’anni ha lasciato nel nostro immaginario.

Nota bibliografica:

  • Raffaella Romagnolo, Aggiustare l’universo, Mondadori, 2023

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

I Magi scorderanno il tuo indirizzo …
Una poesia di Iosif Brodskij

I Magi scorderanno il tuo indirizzo…
Una poesia di Iosif Brodskij

1° Gennaio 1965

I Magi scorderanno il tuo indirizzo.
Non brilleranno stelle sul tuo capo.
E solo del vento il rauco ululato
avvertirai come nei tempi andati.
Leverai l’ombra dalle spalle stanche
spegnendo la candela prima di coricarti
giacché sono più giorni che candele
quello che ci promette il calendario.

Cos’è questa? Tristezza? Chissà, forse.
Un motivo che conosci a memoria.
Che sempre si ripete. E sia.
Che continui così.
E risuoni anche nell’ora estrema,
come la gratitudine degli occhi
e delle labbra per ciò che qualche volta
ci costringe a guardare lontano.

E fissando in silenzio il soffitto,
perché visibilmente la calza resta vuota,
capirai che tanta avarizia è solo indizio
del diventare vecchio.
È tardi ormai per credere ai prodigi.
E sollevando lo sguardo al firmamento
scoprirai sul momento che proprio tu
sei un dono sincero.

da Poesie di Natale (Adelphi, 2004), trad. it. A. Raffetto

 

 

 

 

La fine delle stelle

La fine delle stelle

“Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu.” (Genesi 1, 3). Non si può parteggiare per il Buio contro la Luce, tutta la nostra storia (e la filosofia, la scienza, l’etica, la religione) è all’insegna della ricerca e della moltiplicazione della Luce. Anche la scoperta del fuoco è prima di tutto la scoperta della luce.

Il buio è da sempre “l’ora del lupo”. Nel buio si annida ogni pericolo, nel  buio abitano i nostri fantasmi. La luce è il Bene, il buio il male. Nel buio avrebbe casa anche il diavolo, secondo una tesi abbastanza accreditata anche se non provata, ma diavolo o no, la verità è che il buio ci fa paura. Anche io da bambino pretendevo che mia mamma accendesse una luce nel corridoio per proteggere il mio sonno.

Siamo sempre più illuminati, e quando è festa, a Natale e Capodanno, alle luci regolamentari si aggiungono le luminarie. Le case, le strade, le piazze, le chiese, i palazzi si caricano di lampadine. E non sono più le vecchie “lucine di Natale”, dobbiamo sempre esagerare, la luce ci deve abbagliare, così si moltiplicano gigantesche istallazioni di pessimo gusto.

Ma quando è cominciata tutta questa storia? Quando è iniziata la rincorsa all’inquinamento luminoso?

Thomas Edison, ancora lui 

Il 31 dicembre 1879,  Thomas Edison dimostra al pubblico per la prima volta la lampada ad incandescenza.  Parliamo della lampadina, quella che ci ha accompagnato per più di un secolo illuminando le nostre case, le nostre città, e forse – un po’ ci abbiamo sempre creduto – la nostra vita. A nome di Edison sono registrati 1.093 brevetti, un’enormità, un record assoluto.

Ma Edison, da qui la sua fortuna, non era solo un inventore, ma un abile imprenditore. La scoperta della lampadina non fu proprio opera sua. Un anno prima di lui, nel 1878,  l’inglese Joseph Wilson Swan, aveva brevettato la sua lampadina: il problema era che il filamento di carbonio che emetteva luce e gas, riscaldandosi emetteva fuliggine eccessiva che in pochi minuti ricopriva tutto il bulbo della lampadina.

Thomas Edison ci mise le mani; gli bastò sostituire il filamento di carbonio con un filamento di tungsteno e la luce (elettrica) fu.
Allora, viva la luce elettrica, senza di lei abiteremo ancora un mondo in penombra, ma a lungo andare la sconfitta del buio, segnò anche la fine delle stelle.

Le stelle di Isaac Asimov

Isaac Asimov, il grande autore dell’epoca classica della science fiction, quello che un’ottantina di anni fa formulò le tre leggi della robotica (che andrebbero riprese ed aggiornate nel tempo della Intelligenza Artificiale) è l’autore di un racconto magistrale.
C’è un pianeta lontano, abitato da uomini circa come noi, illuminato sempiternamente da 7 soli. Nel cielo ci sono sempre tre soli, uno sorgente, uno a mezzogiorno, uno al tramonto. La notte, il buio, non esistono.  Dentro il grande osservatorio, un giovane fisico è in attesa dell’ora x, una rarissima eclissi, perchè solo ogni ottocento anni la luna del pianeta si interpone al disco dei sette soli.

Asimov racconta come, mano a mano che la luce svanisce e sopraggiunge la notte, una folla impazzita incomincia ad accendere roghi. Ma la follia non risparmia neppure lo scienziato chiuso nel suo osservatorio. Non è la paura del buio a distruggere la sua mente, ma la visione della volta stellata. Quel lontano pianeta, ci informa l’autore, è molto fuori mano, in una galassia molto affollata; in quella zona dell’universo si vedono 20 volte le circa 6.000 stelle osservabili ad occhio nudo nel cielo del pianeta Terra. 120.00 stelle, e tutte in una volta, decisamente troppe per riuscire a sopportarle.

Quella notte a Los Angeles

Una notte del 1994, un terremoto provocò un black-out a Los Angeles. Molti centralini del numero unico per le emergenze statunitense, il 911, ricevettero telefonate allarmate: i cittadini erano spaventati a causa di una “nube argentata” nel cielo.  Non era un’astronave aliena, ma la Via Lattea, la nostra galassia, che fino a quel momento era stata invisibile agli occhi degli abitanti a causa dell’eccesso di luci artificiali che schermava il cielo.

Strano, provar paura dal cielo stellato cantato da Dante, Leopardi e mille poeti. Fatto sta che, negli ultimi trent’anni, grazie a quello che continuiamo a chiamare progresso e complice l’avvento del Led (in teoria risparmioso, in pratica devastante), le stelle continuano diradarsi, a scomparire dalla nostra notturna vista quotidiana. Siamo noi con la nostra luce a far morire le stelle. Forse la paura che ci assale non è quella del buio, ma delle stelle che lo abitano.

M’illumino di meno

Tutti gli anni, l’ultimo dell’anno,  faccio una promessa a me stesso. Voglio vedere le stelle, ma voglio vederle tutte, non una di meno. Andrò nel deserto, o in mezzo all’oceano, o in cima a una montagna, e finalmente vedrò un buio illuminato. Non so se il 2025 sarà l’anno buono, intanto farò almeno una cosa: m’illumino di meno.

Per leggere gli articoli e i racconti di Francesco Monini su Periscopio clicca sul nome dell’Autore

2025, Periscopio continua il suo viaggio.
Grazie a tutti quelli che lo stanno sostenendo.

2025, Periscopio continua il suo viaggio.
Sostienici, Periscopio ha bisogno di te

https://sostieni.periscopionline.it

In 10 anni di vita Periscopio ha conquistato tante lettrici e tanti lettori. In tutta Italia sono circa 360.000 i lettori  visitano il quotidiano. Periscopio è scritto da una redazione e da oltre 60 collaboratori, tutti a titolo gratuito.

I lettori abituali che seguono con costanza Periscopio, ma anche quelli che lo incontrano per caso su Google e lo visitano per la prima volta, capiscono in fretta che “quella cosa lì” è diversa da tutti gli altri giornali, siti, e blog che hanno visto fino ad ora.

Miriam Cariani per Periscopio

“Questa cosa qui” (Periscopio) odia infatti tutte le gerarchie e tutti gli steccati. Parla di politica ed economia, ma pubblica racconti e poesie, si occupa di cinema teatro arte e fotografia, ma segue le battaglie per la pace, le lotte per i diritti e quelle per la salvaguardia del pianeta, ama i libri, ma anche i cartoni illustrati, si interessa dei grandi eventi, ma racconta anche le piccole esperienze di buone pratiche.

Il grande e il piccolo, il lontano e il vicino, il fuori e il dentro di noi. Tutto assieme? Certo, tutto assieme, tutto intrecciato, proprio come succede nella vita.

Intanto nell’archivio di Periscopio si sono accumulati 51.000 articoli e decine di migliaia di immagini: foto, disegni, video, grafici. Il nostro archivio non invecchia ed è facilmente consultabile con la ricerca per autore, per data, per argomento, per parola chiave.

Tutto Periscopio è libero e gratuito, gli articoli del giorno e della settimana, come il nostro, anzi, “il vostro” grande archivio. Non è previsto nessun abbonamento, nessun filtro a pagamento per accedere ai contenuti. E nessuna “pelosa” pubblicità commerciale.

Naturalmente un giornale ha delle spese, e nemmeno piccole. Per continuare a navigare e mantenere la rotta in un mondo difficile e violento, Periscopio conta solamente sul contributo di chi lo scrive e di chi lo legge. Se sei affezionato alla libertà, se ti piace quello che guardi e leggi su Periscopio, sostienilo con la tua donazione. Ne faremo buon uso.

Fai la tua donazione collegandoti a  https://sostieni.periscopionline.it

Un grande grazie a tutte e a tutti quelle/i che hanno già fatto una donazione al giornale. Grazie a chi lo farà nei prossimi giorni. Con la somma già raccolta nel 2025 potremo pagare il server che ci permette di essere in linea tutti i giorni.  

 

Parole e figure /
Le (magnifiche) fate formiche

“Le fate formiche sono fate molto piccole e silenziose, come formiche, appunto. Vivono con noi, anche se i nostri occhi spesso non le vedono”.

Era il 2018 quando l’autrice coreana Shin Sun-Mi ci aveva regalato Le fate formiche, una favola in cui, a mezzanotte, la febbre sta scendendo. Un bambino si sveglia. La mamma che fino a quel momento l’ha curato, accanto a lui, dorme. Il bambino sente delle vocine provenire dal cuscino. Scopre così le fate-formiche, piccole creature gentili che sono venute a trovare la sua mamma, conosciuta da bambina. Prima di andarsene, lasciano per lei l’anello che lei regalò loro. Al risveglio la mamma troverà il suo bambino guarito e quello strano anello che le ricorda qualcosa… Forse un altro piccolo incantesimo…

Oggi Shin Sun-Mi torna con un altro delicatissimo episodio dotato della qualità artistica e dell’incanto propri di una fiaba: Il regalo delle fate formiche, il mio regalo di Natale, da parte di mio fratello Nicola. Con illustrazioni leggere e dai colori tenui.

Ci sono tutte le cose belle delle feste, in questo albo delicatamente illustrato: le fotografie dei vecchi album di famiglia, i ricordi, i sorrisi, la nostalgia dei bei tempi passati, la possibilità di rivivere alcuni di quei momenti.

Ci sono una nonna che è anche madre, ancora bellissima, una madre che è anche figlia, un figlio che è anche nipote: tre generazioni e un album di fotografie.

Osservando la fotografia della figlia piccola, la nonna rimpiange di essere stata troppo occupata da giovane e di non averle dedicato abbastanza tempo e affetto. Così, il nipote, che ha imparato a rivolgersi alle fate formiche, chiede loro come poter far felice la nonna.

Puntuali come sempre, le fate consegnano al piccolo il loro regalo, un mantello, in apparenza invisibile, in grado di riparare l’amore e il tempo perduti.

La magia avrà inizio a mezzanotte. Sempre a mezzanotte.

Shin Sun-Mi, Il regalo delle fate formiche, Topipittori, Milano, 2024, 36 p.

Shin Sun-Mi si è laureata all’Università di Ulsan e alla Hongik Graduate School, specializzandosi in pittura orientale. Nel 2003 è stata premiata dall’Art Concours of Korea e ha partecipato a mostre nazionali e internazionali quali la Korea-Japan Exhibit (2007), l’International Art Fair in Corea (2008) e lo SCOPE a New York (2009). Nel 2006 ha iniziato a illustrare ed esporre la serie delle Fate formiche, che ha ispirato il primo libro per ragazzi di cui è autrice e illustratrice. Sito web

Libano: La no man’s land del fronte nord

Libano: La no man’s land del fronte nord

Raccontare tutta la storia…

La United Nations Interim Force in LebanonForza di interposizione provvisoria in Libano delle Nazioni Unite – è una delle missioni di pace più longeve delle Nazioni Unite, con 46 anni di ininterrotta presenza operativa. E’ stata creata dal Consiglio di Sicurezza con le due risoluzioni 425 e 426 del 19 marzo 1978 in seguito all’invasione militare del Libano da parte di Israele, con il mandato di confermare il ritiro delle truppe israeliane dal Libano, ristabilire la pace e la sicurezza internazionale e assistere il governo libanese nel ripristinare la sua effettiva autorità nell’area.

Oggi conta la presenza di militari provenienti da oltre 40 paesi del mondo, sedici dei quali di provenienza europea e il contingente italiano, sempre presente in Libano, è quello che per più tempo ha a turno comandato l’intera forza multinazionale.
Con 374 mezzi terrestri, 6 unità aeree e 1.071 militari schierati sul territorio, l’Italia, a capo del settore ovest, con quartier generale a Naqoura, figura attualmente come secondo contributore netto della missione, superata solo dall’Indonesia.

UNIFIL Camp Naqoura, Sud Libano. photo: Franco Ferioli

La base U.N.I.F.I.L. di Camp Naqoura, salita alla ribalta delle cronache in seguito agli attacchi subiti da parte dell’esercito israeliano, è l’ultimo avamposto dei caschi blu dell’ONU e si trova localizzata sulla costa mediterranea a ridosso della cosiddetta Blu Line, ovvero la linea di demarcazione lunga 120 km che funge da confine virtuale tra Siria, Libano e Israele.

La missione è inquadrata da successive risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, fra le quali spicca la numero 1701, adottata all’unanimità l’11agosto 2006, che ne ha esteso i compiti potenziandone sia gli effettivi (da duemila precedenti a quindicimila attuali),sia ampliandone le “regole di ingaggio”(che comprendono la possibilità di usare la forza per impedire ostilità all’espletamento delle proprie funzioni), con cui avrebbe dovuto monitorare la cessazione delle ostilità, sostenere le forze armate libanesi durante il ritiro di Israele dal Libano meridionale e garantire il ritorno in sicurezza degli sfollati in un’area di responsabilità che va dai due ai trentacinque chilometri di profondità.

E’ questa la cosiddetta “zona cuscinetto” che corre dalla Linea Blu -proposta dalle Nazioni Unite per supplire alla mancanza di un trattato sulle frontiere terrestri- fino al fiume Leonte/Litani e che include la città di Tiro, numerosi comuni, cittadine, paesi e villaggi sciiti, sunniti, alawiti, drusi e cristiani e i tre campi profughi palestinesi di El Buss, Burj el Shemali e Rashidieh.

Blu Line Sud Libano-Nord Israele .Ph. Franco Ferioli

In realtà questa “buffer zone”, chiamata anche “cintura di sicurezza”, è una vera e propria no man’s land dove ogni fatto che sta avvenendo giorno dopo giorno sembra la ripetizione, in versione di realtà aumentata, di qualcosa di già avvenuto, iscritto in un eterno presente di terrore, morte e distruzione.
Ogni casa, edificio, villaggio, città, porto o base ONU che si trova in questa terra di nessuno è teatro di una  guerra di frontiera iniziata con l’approvazione della risoluzione 425 del 19 marzo 1978.

La risoluzione avrebbe dovuto imporre ad Israele il ritiro incondizionato delle sue forze di occupazione militare per porre fine a un sanguinoso conflitto che si è trasformato in una interminabile e logorante guerra di posizione.

La guerra di frontiera nel sud del Libano, a ridosso e a cavallo della cintura di sicurezza, non è mai finita, ha sempre aumentato di intensità e la missione dell’UNIFIL, da missione di pace ad ampio raggio, si è limitata a svolgere funzioni di soccorso e a fronteggiare sempre nuove crisi ed emergenze umanitarie.

Blu Line Sud Libano-Nord Israele, Ph. Franco Ferioli

A partire dalla Guerra Arabo-Israeliana/Naqba Palestinese del 1948, per giungere agli ultimi eventi del 2023-2024, questa border line è uno dei luoghi meno sicuri del mondo, oggetto di sanguinosi fatti avvenuti prima e durante la Guerra Civile Libanese dal 1975 al 1990; nel corso dei conflitti fra il 1982 e il 2000 e nella seconda Guerra Israele-Hezbollah del luglio-agosto 2006.
Qui, quasi tutti i giorni si registrano attacchi e contrattacchi armati, in uno scenario di guerriglia e rappresaglia nel quale sono sempre le popolazioni civili, direttamente o indirettamente, a subire le peggiori conseguenze.
Difficile redigere una cronistoria degli apici di violenza raggiunti in un passato che è sempre più presente.
Alcuni fatti possono però aiutare a capire.
Il 18 aprile 1996, l’artiglieria israeliana ha aperto il fuoco sull’avamposto ONU di Qana per settanta minuti consecutivi.
Il contingente Fijiano della base è stato bombardato da diciassette missili israeliani, tredici dei quali hanno colpito l’interno della base e distrutto le due strutture che davano rifugio momentaneo a ottocentocinquanta civili, fuggiti da una precedente offensiva israeliana contro i loro villaggi limitrofi.
Centonove morti, perlopiù bambini e donne, venti dispersi, oltre centocinquanta feriti, inclusi quattro soldati fijiani dell’ONU.

Un’indagine delle Nazioni Unite smascherò la bugia raccontata da Israele che si fosse trattato “solo di un terribile errore”. Fu intenzionale e non è mai stata attribuita alcuna responsabilità per quello divenuto tristemente noto come Il massacro impunito di Qana.

Il 25 luglio 2006, l’artiglieria israeliana ha aperto il fuoco sulla base ONU di Khiyam per sei ore, durante le quali la postazione attaccata contattò per ben dieci volte il collegamento israeliano per chiedere la cessazione del bombardamento che ha demolito una postazione di osservazione fortificata e ucciso quattro osservatori disarmati della UNTSO – United Nation Truce Supervision Organization.

Secondo i rapporti dell’ONU, l’ufficiale israeliano di collegamento aveva promesso per dieci volte di seguito di far cessare il bombardamento e i quattro osservatori assassinati, un austriaco, un cinese, un finlandese e un canadese, sono stati uccisi all’interno di un bunker colpito da ordigni sperimentali di produzione statunitense con capacità penetranti bunker buster.

Il 13 ottobre 2024, tre plotoni di truppe dell’IDF hanno attraversato la Blue Line e due carri armati Merkava hanno distrutto l’ingresso principale di una base e posto di blocco dell’UNIFIL a Ramyah e sono entrati con la forza nell’area. Poche ore dopo, le IDF hanno sparato diversi colpi di artiglieria facendoli esplodere a 100 metri di distanza dalla base, causando un’aggressione con armi chimiche. La nube tossica prodotta ha causato ferite, irritazioni cutanee, reazioni respiratorie e gastrointestinali a 15 peacekeeper dell’UNIFIL che hanno richiesto cure mediche per sintomi insoliti, nonostante indossassero maschere antigas.

Di fronte alla spaventosa gravità e similarità dei fatti di cronaca attuale che riguardano i continui attacchi alle basi UNIFIL, sarebbe da stolti non intendere che anche qui, oltre a ciò che continua ad avvenire nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania, il peggio a venire non potrà che peggiorare sé stesso.

Altri fatti e dati esplicativi.

L’ultima guerra tra Israele–Hezbollah del 2006 detta anche seconda Guerra Israele-Hezbollah, è durata trentaquattro giorni e ha prodotto migliaia di morti, migliaia e migliaia di feriti e un numero enorme di sfollati, oltre un milione, ossia il 25% dell’intera popolazione libanese.

Oggigiorno i morti e feriti sono migliaia e sono già oltre un milione i cittadini e le cittadine libanesi fuggite dalle proprie case, costrette a vivere da sfollati per la terza volta nella loro vita, in seguito all’invasione del 1982 e alla sanguinosa guerra del 2006.

La storia geopolitica mediorientale stabilisce che questa “Cintura di Sicurezza” di colline brulle e calcaree che dalla costa salgono verso le Alture del Golan e i confini con la Siria, è una delle zone di primaria importanza strategica per Israele: nel mare davanti alla costa si trovano nuovi giacimenti di greggio e di gas, sui monti più alti si trovano le antiche sorgenti del fiume Giordano.

ll Giordano è l’unico corso d’acqua di superficie dell’intera regione: nasce dal monte Hermon, in territorio libanese, percorre qualche chilometro, oltrepassa il confine israeliano bagnando la Valle di Hula e scende giù dall’Alta Galilea nel lago Tiberiade; quando ne esce, dopo trecento chilometri di meandri nei quali a volte è poco più di un rigagnolo che segna il confine con la Giordania, sfocia nelle depressioni paludose del Mar Morto. Viene spesso definito “il fiume della discordia” per semplici motivi: il 75% delle sue acque è dirottato da Israele prima di raggiungere i territori, i villaggi e le città palestinesi della CisGiordania, per mezzo di un sistema di canalizzazione, il Kenneret-Negev Conduit, che attraversa la pianura costiera rifornendo Haifa, Tel Aviv, Gerusalemme e giunge nel deserto del Negev a sud di Berscheeva, eludendo Gaza e la Striscia.

Anche la guerra del 1967, detta dei Sei Giorni, una guerra per il controllo israeliano delle acque del Giordano e dei suoi affluenti Hasbani, Dan, Banyas e Yarmuk, qui non è mai terminata: in ballo c’è ancora buona parte del suo bacino idrogeologico, tra la cima del Talat Moussa, m. 2.669 metri in territorio siriano, e quella del Monte Hermon m. 2.814 metri in territori di confine tra Libano, Siria e Israele.

Al di qua e al di là del Fronte Nord, come viene chiamato a Tel Aviv,  o della Frontiera del Libano del Sud, come la chiamano a Beirut, le mappe utilizzate dalle Nazioni Unite per delimitare la Linea Blu non sono mai state in grado di accertare in modo inequivocabile i confini terrestri e marittimi tra Israele, Libano e Siria, contesi metro per metro.

Quiryat Shemona è la cittadina capoluogo che meglio esprime la presenza civile israeliana.
Si trova nella vallata di Hula e si incunea tra i confini occupando una minima porzione del massiccio nevoso del Monte Hermon che si sviluppa in territorio israeliano: la maggior parte è situato aldilà del confine con il Libano e con la Siria, oltre le piccole colonie-avamposti-kibbutz di Misgav Am, Metulla e Dan, oltre il villaggio druso di Majdal Shams e oltre l’area agricola delle quattordici Fattorie di Shebʿā.

Ubicata tra una miriade di campi minati, depositi e basi militari, circondata da postazioni di controllo,  fornita di sistemi di allerta e rifugi blindati anti bombardamenti, Quiryat Shemona ospita circa 22mila abitanti angosciati dai continui attacchi che ne caratterizzano il passato fin dai tempi della sua costruzione, avvenuta come campo di accoglienza provvisorio per gli ebrei appena immigrati in Israele nel 1951, sul sito del villaggio arabo al Khalisa precedentemente raso al suolo.

La regolarità con cui viene fatta oggetto di attacchi da parte dei guerriglieri Hezbollah ne scandisce tuttora il presente, nonostante la sua presunta trasformazione in moderna e sicura località turistica sciistica e naturalistica, all’avanguardia nei sistemi di controllo e di difesa.
Qui, l’esercito israeliano subì un durissimo colpo quando il sofisticato sistema difensivo di sicurezza venne violato da un solitario guerrigliero palestinese a bordo di un aliante.

Il 26 novembre 1987, pochi giorni prima dello scoppio dell’Intifada, attaccò il campo militare di Gibor, nei pressi di Quiryat Shemona, dopo averlo raggiunto via cielo e riuscì a combattere uccidendo sei soldati israeliani e a ferirne altri sette.

Rashiddiyyeh Palestinian Refugee Camp, South Lebanon. Ph. Franco Ferioli

Rashiddiyyeh è il campo profughi che meglio esprime la presenza civile palestinese.
E’ quello più a sud del Libano, sulla riva del Mare Mediterraneo ed è stato semidistrutto durante l’invasione israeliana del 1982.

Da allora, a causa di una decisione amministrativa presa dal dipartimento della Sicurezza Pubblica Libanese, è stata proibita la ricostruzione, la creazione di nuovi edifici o l’ampliamento di quelli esistenti.
Fino a qualche giorno fa, prima di ricevere l’ordine militare israeliano di immediata evacuazione, ospitava 12 mila rifugiati in baracche senza acqua e fognature, con muri di fango e tetti di lamiera.
Rmeich è la cittadina che meglio esprime la presenza della comunità cristiana.
Si può raggiungere in un unico modo, aggregandosi ai convogli umanitari UNIFIL o dell’Esercito Libanese che percorrono la strada ricoperta di crateri che da Tiro conduce verso il confine israeliano attraversando un paesaggio apocalittico di villaggi fantasma abbandonati, in gran parte demoliti o completamente rasi al suolo.

Nel lato sud si affaccia sulla collina israeliana di Sasa, negli altri tre lati si trova coronata dai villaggi sciiti avamposti di Hezbollah. L’apparenza della sua normale vita quotidiana diurna e notturna è surreale, immersa in una pretesa di neutralità e di non belligeranza che risulta utopica: non trascorre un minuto che il silenzio non sia rotto dal ronzio dei droni, dalle turbine dei caccia, dalle esplosioni, dalle raffiche e dagli spari che fanno tremare le pareti delle case, i vetri della chiesa e la grande croce issata nel punto più elevato e panoramico che offre un immutabile belvedere esplosivo di colonne di fumo nero che si innalzano in cielo.

Khiyam è il villaggio che meglio esprime la presenza di comunità miste.
Si trova a 750 metri sopra il livello del mare e a 4 chilometri di distanza dalla frontiera israeliana.
La popolazione è formata per il 90% da musulmani sciiti e  per il 10% da cristiani.
Quando nei pressi di questo villaggio nel 2006 si verificò il citato attacco israeliano contro la base  UNTSO, con il bombardamento di una postazione di osservazione fortificata e l’uccisione di 4 osservatori dell’ONU, il luogo era già tristemente famoso per ospitare la famigerata “prigione di Khiam”, gestita tra gli anni ’80 e ’90 dai miliziani filo-israeliani dell’Esercito Libanese del Sud, dove furono incarcerati senza processo e torturati brutalmente centinaia di prigionieri politici e combattenti contro l’occupazione.

Majdal Shams e Hurfeish sono i due centri che meglio esprimono la presenza civile drusa in uno dei territori più contesi di tutto il Medio Oriente: le Alture del Golan.
Israele, dopo averle occupate nel 1967 strappandole alla Siria, li ha annessi al suo territorio nel 1981 sotto il nome di ‘Distretto settentrionale’.Tale annessione unilaterale non è mai stata riconosciuta a livello internazionale e da decenni le Nazioni Unite impongono allo stato ebraico la restituzione.

Da allora, le porzioni di territorio che si estendono da nord a sud, sono sorvegliate dai caschi blu della forza U.N.D.O.F.(United Nations Disengagement Observer Force), che hanno il loro quartier generale nelle vicinanze della città di Qunaytra, riconsegnata ai siriani dopo esser stata quasi completamente rasa al suolo da Israele prima del ritiro nel giugno 1974 a conclusione  della guerra dello Yom Kippur.

Prima del 1967 in questa area vivevano 131mila siriani.
In seguito all’occupazione israeliana del Golan, la popolazione si trovò costretta a scappare per salvarsi la vita lasciandosi alle spalle migliaia di case e centinaia di centri abitati distrutti. Vennero risparmiati solo i cinque villaggi drusi di Buqata, Ein Qenia, Al Ghajar, Masaada e Majdal Shams intorno ai quali furono costruiti 36 insediamenti dove dovrebbero vivere oggi circa 26mila coloni israeliani.

Al di là e al di qua di ettari ed ettari di meravigliosi uliveti, vigneti e frutteti che coprono le colline e le vallate quasi a dipingerle, ed ettari ed ettari di parchi eolici che punteggiano fertili terreni di origine vulcanica, Majdal Shams è druso siriana, Hurfesh è druso israeliana.

I drusi israeliani di Hurfesh (6mila abitanti), parlano ebraico, servono nell’esercito e lavorano perlopiù nelle forze di polizia, si sono inseriti nella società israeliana e si proclamano sionisti.

I drusi siriani di Majdal Shams (11mila abitanti), parlano arabo, non accettano la cittadinanza, l’arruolamento nelle forze armate, l’integrazione nel sistema israeliano e si proclamano cittadini siriani.

Dalla collina di Al-Asaniya, che gli israeliani chiamano Monte Bnei Rasan, alla cima innevata del Monte Hermon, da un lato, quello delle pendici israeliane, vi sono le tre colonie di Neve Ativ, Nimrod e Ramat Trump.

Neve Ativ (sedici abitanti nel 2019) è stata costruita sul villaggio di Jubata el Zeit precedentemente raso al suolo; Nimrod (cinque famiglie nel 2019) era un avamposto paramilitare divenuto una città civile nel gennaio 1999; Ramat Trump -in ebraico “Alture di Trump”-  è un nuovo nome dato all’insediamento di Bruchim (dieci abitanti), per celebrare le politiche del presidente statunitense Donald Trump a favore delle mire espansionistiche di Israele in barba alle risoluzioni internazionali.

Dall’altro lato, quello delle pendici libanesi, si trovano le macerie abbandonate dei centri urbani e degli antichi villaggi musulmani sciiti di Hula, Markaba, Addaisseh, At Tayyabah, Kafr Kila, Al Ghajar, Kfar Shuba, Shebʿa, Kfar Hammam, Hebbariye, Rashaya al Fukhar, Al Khiyam, Al Qoleya, Marjaoun, Ibl as Saqv.

La totale distruzione di ognuno di questi centri è avvenuta nell’arco temporale di tre guerre che vanno dal 1948 al 2024. 

il 24 ottobre 1948, durante la guerra arabo israeliana, i militari israeliani della Brigata Carmeli senza che fosse opposta alcuna resistenza, occuparono il villaggio di Houla, a 3 chilometri dal confine libanese. Separarono le famiglie, divisero la popolazione tra uomini, donne e bambini e procedettero espellendo le donne e i bambini e assassinando a sangue freddo la maggior parte dei giovani e degli adulti di età compresa fra i 15 e i 60 anni in una casa che fu poi fatta esplodere per seppellire i cadaveri, occultare le prove ed impedire il rientro.

L’eccidio, passato alla storia come il Massacro impunito di Hula, provocò la morte di un numero di arabi civili disarmati compreso fra 35 e 58.

Due ufficiali israeliani si resero responsabili dell’eccidio e furono denunciati come criminali di guerra dai loro superiori. Uno di loro, il tenente Samuele Lais, ufficiale della compagnia, ammise di aver giustiziato personalmente 35 persone disarmate.

Nel 2000, in seguito all’elezione di Ehud Barak come Primo Ministro, Israele ritirò le sue truppe dal Libano e nel tentativo di demarcare confini permanenti tra Israele e Libano, le Nazioni Unite iniziarono a tracciare quella che è nota come Linea Blu.

A causa della sua posizione geografica a cavallo dei confini da tracciare, Al Ghajar, villaggio di duemila abitanti incuneato tra il Libano sud-orientale e le alture del Golan occupate da Israele, è stato diviso in due: la metà settentrionale del villaggio è rimasta sotto il controllo libanese e la metà meridionale sotto l’occupazione israeliana.

Nel 2024 l’Agenzia Nazionale di Notizie libanese ha riferito che da quando Israele ha lanciato la sua offensiva aerea, almeno 40.000 unità abitative sono state distrutte nel Libano meridionale e che 37 città, la maggior parte delle quali esposte entro tre chilometri dal confine, sono state spazzate via; oltre 100 quartieri, villaggi e campi profughi sono inoltre stati raggiunti da ordini di evacuazione e colpiti.

Con un avvertimento diffuso tramite X, il portavoce dell’IDF Avichay Adraee, aveva reso noto agli abitanti di 14 villaggi  di evacuare “immediatamente per la loro sicurezza” e fuggire a nord del fiume Awali, a circa 50 km all’interno del Paese: “Chiunque si trovi nei pressi di elementi, strutture o armi di Hezbollah mette in pericolo la propria vita”.

Rispecchiando un’azione simile, la resistenza libanese ha emesso un avvertimento di evacuazione in 25 insediamenti nel nord di Israele: Quiryat Shemona, Yesud Hamaala, Ayelet Hashahar, Hatzor HaGlilit, Karmeil, Maalot Tarshiha, Even Menachem, Nahariya, Rosh Pina, Shamir, Shaal, Meron, Kapri, Abirim, Dalton, Neve Ziv, Katzrin, Kfar Hanania, Manot, Beit HaEmek, Kfar Vradim, Harashim, Birya, Kidmat Tsvi e Bar Yoha

Poco dopo che questi avvertimenti sono stati emessi, le forze israeliane hanno bombardato abitazioni civili citando presunte installazioni militari utilizzate dalla Resistenza islamica come giustificazione.
In risposta, Hezbollah ha contrattaccato affermando che gli insediamenti settentrionali indicati sono illegali e ha esortato i coloni a “evacuare immediatamente”: insediamenti che sono diventati luoghi di dispiegamento per le forze militari nemiche che attaccano il Libano e “sono quindi considerati legittimi obiettivi militari per le forze della Resistenza islamica”.

Beirut Trade Center. Ph. Franco Ferioli

Negli ultimi sedici anni, l’Aeronautica Militare israeliana ha sorvolato queste aree di confine violando illegalmente lo spazio aereo libanese 22.355 volte.

Dopo la consultazione di 252 comunicazioni ufficiali al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite da parte del Rappresentante permanente in Libano dell’ONU, AirPressure.info ha registrato complessivamente i voli di ben 8.200 cacciabombardieri e di 13.203 velivoli senza pilota a partire dal 2007. “La durata complessiva di questi voli ammonta a 3.114 giorni, come dire che i caccia e i droni hanno occupato ininterrottamente gli spazi aerei del Libano per 8,5 anni”, scrivono gli analisti.

Le comunicazioni ufficiali riportano le informazioni e i tracciati radar delle violazioni dello spazio aereo libanese (tempi di volo, durata, tipologia del velivolo impiegato dall’Aeronautica israeliana e sua traiettoria) che si sono spinte dal sud del Libano fino a Beirut, in Siria e a Damasco.

L’inchiesta aiuta a mettere in rilievo le caratteristiche principali della guerra in corso, dominata in cielo e in mare dalla supremazia dell’aviazione e della marina militare israeliana e dominata in terra e sottoterra dalla supremazia delle forze di resistenza di Hezbollah.
Hezbollah è nato nelle periferie di Beirut, ma è qui, nel Sud, che è cresciuto e si è affermato.

Il Partito di Dio non è soltanto, come a volte ci si limita a sottintendere, una forza militare.
Lo è certamente, ma è anche una poderosa struttura di carattere sociale che gestisce scuole, ospedali e interventi di ogni tipo, sopperendo alle difficoltà dello Stato libanese, provato da una pesantissima crisi economica che lo ha colpito dal 2019 (considerata dalla Banca mondiale come una delle peggiori crisi finanziarie globali dal 1850 a oggi) e che si è ulteriormente aggravata con le conseguenze delle operazioni militari israeliane in corso.

Hezbollah non è la sola, come a volte ci si limita a sottintendere, forza di opposizione e di resistenza che combatte nel sud del Libano contro Israele. Qui hanno combattuto i fedayin palestinesi, l’Esercito del Libano, i Distaccamenti della Resistenza libanese di Amal e del Movimento dei diseredati, il Partito Comunista Libanese.

I flussi finanziari dell’Iran, il sostegno politico della Siria e l’appoggio popolare incondizionato, hanno trasformato un inizialmente disorganizzato gruppo di vittime e sfollati intenzionati a resistere, in un esercito di 10mila combattenti ben addestrati e armati, rappresentati in parlamento da un partito politico influente che controlla banche, istituti finanziari, mezzi di comunicazione e centri culturali.
A determinarne la continua crescita di consenso pubblico sono state da un lato le spregiudicate tecniche di guerriglia e dall’altro la rete di solidarietà attivata in queste zone nei confronti della popolazione civile.

Beirut. ph. Franco Ferioli

I guerriglieri del braccio armato di Hezbollah continuano ad essere considerati terroristi per il modo con cui combattono un guerra di guerriglia, avvalendosi di una ramificazione di tunnel, di una rete di rifugi sotterranei e di un gran numero di postazioni segrete scavate nella roccia che dalle retrovie di Beirut si sviluppano fino a raggiungere le prime linee del fronte: nei casi in cui l’oggetto delle rappresaglie israeliane sono i capi militari e i responsabili politici, la sua struttura gerarchica e la sua composizione in cellule operative ha sempre evitato una perdita di efficienza e ha sempre consentito che un secondo leader potesse riprendere la lotta dal punto in cui il primo era caduto adottando forme di integralismo sempre più radicali.

Nei casi in cui l’oggetto delle rappresaglie israeliane sono le popolazioni civili, Hezbollah si attiva in loco per fornire appoggi amministrativi, aiuti materiali e sanitari, sostegni economici, prestiti senza interessi e altri servizi di base.

Hezbollah continua ad essere considerata una organizzazione terrorista per l’impatto emotivo con cui è venuto alla ribalta dello scenario internazionale con una serie di attentati che hanno ridefinito tutta la strategia del terrore mediorientale.

L’11 novembre 1982, un ragazzo diciassettenne, Ahmad Qassir, a bordo di una Mercedes carica di esplosivo si lanciò a folle velocità contro il quartier generale Israeliano di Tiro, uccidendo nell’esplosione 141 soldati. Fu il primo caso di attentatori suicidi, uomini-bomba che produssero nella psicosi collettiva israeliana la sensazione dell’imminenza costante e imprevedibile del pericolo di vita e la rincorsa verso una garanzia di sicurezza mai raggiungibile.

Il 18 aprile 1983, un’autobomba fatta esplodere da un attentatore suicida alla guida di un furgone carico di 900 kg di esplosivi, distrusse la facciata dell’Ambasciata USA a Beirut mentre era in corso una riunione segreta dei vertici militari della CIA in medio oriente, causando 63 morti.

Sei mesi dopo un doppio attentato suicida presso l’aeroporto di Beirut uccise prima 214 Marines nordamericani  poi, a distanza di venti secondi, altri 58 paracadutisti francesi della forza multinazionale.

Da allora la strategia e l’atteggiamento di guerra in Libano non è mai cambiato: Hezbollah considera l’Occidente e l’imperialismo USA, come suo principale nemico dopo Israele.

Il Sud del Libano e/o il Nord di Israele sono territori off limits speculari e complementari: la guerra nel nord, come viene definita in Israele, o la guerra di liberazione, come viene definita in Libano e in Siria, presenta per ogni presenza naturale o artificiale, medesimi destini segnati e incrociati.

Beirut. ph. Franco Ferioli

Quello a cui assistiamo in Libano, non è una disputa territoriale su una linea di confine, ma è, anche e innanzitutto, un conflitto contro l’occidente e un processo contro il sionismo.

L’occupazione sionista che manda la propria carne a morire nel sud del Libano è sempre stata una spina del fianco delle amministrazioni Netanyahu fin dalla sua apparizione come premier nella scena politica israeliana nel lontano1996.

La lunga lista di sangue versato dai militari di leva caduti sul fronte nord, le modalità in cui i giovani soldati sono rimasti uccisi eseguendo ordini nel corso delle operazioni nei territori di confine con il Libano, ha creato nella società israeliana una forza d’urto mai esaurita e una ferita interna mai sanata.

Furono i comitati delle famiglie che persero i loro figli soldati, come ad esempio il Comitato delle Quattro Madri, o i gruppi di donne israelo-palestinesi, o le organizzazioni di obiettori di coscienza come Breaking the Silence, Peace Now o Courage to Refuse, che iniziarono a riflettere su quei lutti, a porsi e a porre domande sul senso e sull’utilità della guerra, sulle conseguenze e sul costo umano, maschile e femminile, di una guerra di occupazione di quel tipo, imposta e impostata in quel modo.

Nei giornali, nelle radio, in tv le madri israeliane iniziarono a chiedere: c’è una ragione perché i nostri ragazzi debbano morire in Libano? Perché siamo in questa striscia di sicurezza che non è dentro Israele ma è fuori Israele? Perchè mandiamo i nostri figli e le nostre figlie a morire nell’esercito non per difendere il nostro popolo, ma per invaderne altri?

Prima vennero accusate di non capire le questioni militari poi di porre innanzi a tutto il loro dolore e il proprio senso materno, ma lentamente qualcosa di significativo si mosse e il risultato è stato il ritiro dal Libano nel giugno 2000, dopo vent’anni di vanti dell’esercito e dopo vent’anni di lutti della società.

Al momento del ritiro, tutti gli opinionisti militari parlarono di bruciante sconfitta e avanzarono nefaste previsioni in termini di instabilità e insicurezza.

Anche il tributo mentale imposto ai soldati in servizio di leva in prima linea iniziò ad emergere, gli stress post traumatici di chi rientrava dal fronte, le profonde crisi di coscienza dei veterani e degli obiettori, i casi dei soldati suicidi, si dimostrarono ferite sociali incurabili, rivelando appieno l’insostenibilità e la crudeltà del sistema sionista anche nei confronti della cittadinanza ebrea israeliana.

Chi, in ogni parte del mondo, interpreta l’Ebraismo sentendosi forte della propria storia e non delle proprie armi, nel confrontarsi con ciò che produce Israele in questo momento, prova verso sé stesso un sentimento di pietà e vergogna, un misto di rimorso e condanna.

Chi, in Israele, dopo aver contribuito a fondarlo e a farlo crescere con speranza di pace e ideali socialisti, si trova costretto ora a pagare tributi di sangue imposti da una dittatura militare che si proclama repubblica democratica, può unicamente provare un sentimento misto di tradimento e di rifiuto.

Negli ultimissimi giorni, spingendosi ben oltre la linea blu di confine ONU fino a Baalbek, Jabal Amel, Nabatieh, Tiro,  fino alla periferia meridionale di Beirut, alla Valle della Beqaa, in Siria e a Damasco, Israele ha scatenato con precisione la distruzione di città, villaggi e siti con crudele intento di cancellazione della loro storia, provocando un enorme esodo di massa.

Le comunità libanesi sono numerose e in aumento quasi in ogni angolo del mondo: la più grande si trova in Brasile (fra i 7 e i 10 milioni di persone), ma sono corpose anche quelle presenti negli Stati Uniti (un milione di persone), in Francia (intorno a 300 mila persone) e in Australia (circa 250 mila persone). Chi può e ci riesce, dalle proprie case e dalla propria terra se ne va via per sempre, tentando di raggiungere i propri parenti e famigliari all’estero. Chi non può e non riesce a fare altro che  scappare di casa per salvare la pelle e si trova costretto a reinventare da zero la propria vita giorno per giorno, Beirut si presenta come una Sabra e Chatila allargata e si offre come un enorme campo di accoglienza per profughi di guerra, con quartieri fantasma rasi al suolo, baracche e ripari di fortuna in quasi ogni angolo di strada.

Beirut: Campo Profughi Palestinese di Sabra e Chatila. Ph. Franco Ferioli

Prima delle più recenti ondate emigratorie in corso, la stima del 2022 dell’ intishar al lubnani (letteralmente: l’espansione libanese) è che si trattasse di circa 14 milioni di persone. La popolazione del Libano è stimata intorno ai 4,4 milioni di abitanti: c’è più di 3,5 volte il Libano sparso in giro per il mondo ed è in aumento ovunque.

Il concetto che sta esprimendo la no man’s land tra Libano e Israele è dunque in continua espansione, ma in espansione biunivoca: anche le comunità ebraiche all’estero sono numerose e in aumento, e via da Israele, chi può, se ne va quasi fuggendo. Per chi non ha doppio passaporto e doppia cittadinanza, per chi non ha dove andare ed è costretto a restare, per coloro che non possono fare altro che andare a combattere o sperare che i figli e le figlie tornino vive dai fronti, il proprio Paese si offre come un covo di estremisti militari crudeli, sanguinari e criminali, dominato e brutalizzato dalla sola logica sionista: la logica perversa, omicida e suicida, della guerra.

Sud Libano – Nord Israele. Fotogramma tratto dal reportaget “Sud Libano/Nord Israele: per non dimenticare” di Mirko Faienza e Franco Ferioli

Cover: Naqoura, Sud Libano. In volo sulla Linea Blu con elicotteristi UNIFIL del I°Reggimento Antares dell’Aviazione dell’Esercito Italiano. photo: Franco Ferioli.

I fotogrammi che correlano l’articolo sono originali, tratti dal reportage “Sud Libano/Nord Israele: per non dimenticare”di Mirko Faienza e Franco Ferioli https://youtu.be/N6eCq8cI1_4 

 

PARIGI, AGNES E I MIEI PENSIERI

PARIGI, AGNES E I MIEI PENSIERI

Quando penso a Parigi, Agnes Vardà si intromette sempre nei miei pensieri e lo fa di solito con il documentario Daguerréotypes e con il film capolavoro Clèo de 5 a 7 (Clèo dalle 5 alle 7).

Nel 1976, la città che vive in Rue Daguerre, a Montparnasse, non riproduce gli stereotipi che oggi la rendono famosa. Viene rappresentata la città della quotidianità, animata da persone sconosciute, che associa la città reale alle persone che la abitano e tra di loro vi è anche Agnes.

È la strada con le sue animazioni e i suoi abitanti che scrive la sceneggiatura, commenta la nonna della Nouvelle Vague. Una piccola strada commerciale, come ancora se ne trovano a Parigi, anche se meno popolari e più gentrificate, piena di botteghe, artigiani, ambulanti e laboratori.

Tutti si conoscono, molti sono arrivati dalle campagne francesi e non solo. Siamo ancora negli anni dei Trentes Glorieuses, e fin dal 1958 la deambulazione per le strade parigine, alla ricerca di sensazioni che consentano di sfuggire ai propri tormenti esistenziali, è una delle cifre stilistiche del cinema della Nouvelle Vague. Forse non casualmente siamo nella Rue Daguerre, uno degli inventori della fotografia e, con la trasposizione filmica di quella strada, Agnes dà movimento alla fotografia.

Corinne Marchand in una scena del film

Anche Cleo cammina angosciata per le strade parigine. Non sa che ne sarà della sua vita. Alle sette della sera saprà se un cancro l’ha già posseduta e ha due ore di attesa, ricorre anche a una cartomante che aumenta la sua inquietudine.

Siamo nel 1961 e la strada offre il solito repertorio di personaggi urbani, consueti e grotteschi. Un caffè, con il suo gioco di specchi, trasmette immagini reali e illusorie allo stesso tempo e concorre allo sviluppo dei dialoghi, che si sovrappongono, e alle interazioni con persone che si inquietano per la sorte della protagonista.

Dopo una serie di momenti personali dove incontra alcune persone della sua quotidianità, mettendo in evidenza il rapporto problematico con gli uomini della sua vita, scende in strada, percorre la città a piedi e in auto. In un taxi, condotto da una donna, le notizie, drammatiche, diffuse dalla radio sono reali, parlano della guerra di Algeria e di cronaca, e quindi la finzione si trasforma in cinéma-vérité.

Una verità che si interroga anche sulla condizione di lavoro di una donna taxista: di notte, nel rapporto con i colleghi maschi, e in varie altre sfumature che si colgono nei loro dialoghi. Il giro con l’amica sulla decappottabile mostra il dinamismo della strada, del traffico, dell’umanità varia che staziona o si muove nei boulevards e il film diventa documentario di lei e della città, anzi di Montparnasse, del Dôme e del parco di Montsouris.

Muovendosi nella città la paura del referto trasforma il suo sguardo: da passivo diventa curioso, quindi attivo, attraversa le cose e le persone viste. Conversa con un soldato sconosciuto in partenza per l’Algeria in guerra, un dialogo franco e disilluso, lo scenario della morte li accomuna, li rende solidali.

La città, con i suoi innumerevoli riflessi sulle vetrine, le stranezze delle persone che abitano la strada, il flusso della folla che spettacolarizza la scena urbana, assume il ruolo di coprotagonista di un racconto che non è solo un dramma esistenziale ma anche una presa di coscienza che sostituisce alla paura la felicità, come recita l’ultima indimenticabile battuta.

Cover: Agnes Vardà (Ixelles, 30 maggio 1928 – Parigi, 29 marzo 2019), “la prima regista femminista”

Per leggere tutti gli articoli e gli interventi di Romeo Farinella su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Per certi Versi /
I (NOSTRI) RAGAZZI

I (NOSTRI) RAGAZZI

Che terra mobile
La zattera
Della steppa
Solca
Nel tramestio
Delle luci
I canditi
Bagnati nella saba
Di vicende lontane
Sui grandi
Piatti
Volano i miei
Ragazzi
Loro avranno
Pietre preziose
Parole
E il mio sorriso
«La sapa, ch’altro non è se non un sciroppo d’uva, può servire in cucina a diversi usi poiché ha un gusto speciale che si addice in alcuni piatti. È poi sempre gradita ai bambini che nell’inverno, con essa e colla neve di fresco caduta, possono improvvisar dei sorbetti.»
(Pellegrino ArtusiLa scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, 1895[1])
Per leggere le altre poesie di Roberto Dall’Olio clicca sul nome dell”autore

I film imperdibili del 2024

Si chiude l’anno, e fra i tanti bilanci, arriva anche quello dei film. Imperdibili. Ve ne raccomandiamo alcuni. Gusti permettendo.

Quest’anno è stato molto ricco di pellicole interessanti (molte sono del 2023, ma approdate al cinema nel 2024). È sempre difficile stilare classifiche, e non intendiamo pertanto farne. Ai nostri fedeli lettori vogliamo solo segnalare quelle che maggiormente ci hanno fatto riflettere, con tanto di trailer per incuriosire. Liberissimi di dissentire…

Perfect days

di Wim Wenders, con Kôji Yakusho, Tokio Emoto, Arisa Nakano, Aoi Yamada, Yumi Asô. – Giappone, 2023, 123 minuti.

Il nuovo film del cineasta tedesco Wim Wenders, vincitore della Palma d’oro per il migliore attore (Kôji Yakusho) all’edizione 2023 del Festival di Cannes e candidato all’Oscar 2024 come Miglior film internazionale, è piaciuto moltissimo a tutta la redazione di Periscopionline. Ne hanno parlato il nostro direttore Francesco Monini, Giuseppe Ferrara, Nicola Cavallini, Eleonora Graziani.

La pellicola racconta la vita quotidiana del sessantenne giapponese Hirayama (interpretato da un magnifico Kôji Yakusho), scandita da una routine semplice e perfetta. L’uomo si dedica con cura e passione a tutte le attività della sua giornata: dalla minuziosa toilette personale al lavoro come addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Tokyo e ad una serie di hobby che derivano dai suoi molteplici interessi: la musica rock degli anni ’60-’70 che ascolta nelle sue audiocassette dell’autoradio demodé mentre va al lavoro, i libri di filosofia, le piante, la fotografia analogica. Nel ripetersi del quotidiano, incontri inaspettati rivelano gradualmente qualcosa di più del suo passato. La capacità di cogliere la bellezza in ogni momento della giornata, in ogni angolo della città. Una poesia.

La zona di interesse

di Jonathan Glazer, con Christian Friedel, Sandra Hüller, Johann Karthaus, Luis Noah Witte, Gran Bretagna, Polonia, USA 2023, 105 minuti.

Rudolf Höss e famiglia vivono la loro quiete borghese in una tenuta fuori città: lui va regolarmente al lavoro, lei cura il giardino e i figli giocano tra loro correndo spensierati tra i fiori. Sempre una vita normale di una qualunque famiglia dell’epoca. Salvo un dettaglio. Accanto a loro, separato solo da un muro, c’è il campo di concentramento di Auschwitz, di cui Rudolf è il direttore. Jonathan Glazer presenta la trasposizione di un romanzo di Martin Amis, un film che ha sullo sfondo la Soluzione Finale nazista. Al regista, però, non interessa la ricostruzione storica, ma la messa in scena di una situazione paradossale, senza immagini di morte, ma solo intuizioni da terribili rumori di sferragliamenti e urli. Un film che colpisce nell’intimo, una fredda e impietosa analisi della banalità del male e di un’incredibile separazione tra percezione soggettiva e realtà oggettiva.

Foglie al vento

di Aki Kaurismäki, con Alma Pöysti, Jussi Vatanen, Janne Hyytiäinen, Nuppu Koivu. Finlandia 2023, 81 minuti

Nella notte fonda di Helsinki si incontrano due solitudini, quella di un operaio meccanico e di una cassiera di supermercato. Entrambi hanno il desiderio di conoscersi meglio ma un numero di telefono scritto su un foglietto viene perduto e quindi l’incontro viene rinviato mentre la loro situazione sul versante sociale non migliora. Soprattutto per lui che non riesce a smettere di bere alcolici. Sullo sfondo un’Europa che si confronta con la guerra. Ogni volta che la protagonista accende la radio le notizie riguardano Mariupol e i bombardamenti sugli obiettivi civili. Il film chiude una quadrilogia sul lavoro iniziata nel 1986 con Ombre in paradiso in cui il netturbino Nikander e la cassiera di supermercato Llona non ottenevano l’ascesa sociale sperata. Molta tenerezza in una società difficile.

Past lives

di Celine Song, con Greta Lee, Teo Yoo, John Magaro, Seung-ah Moon, Seung Min Yim, USA, 2023, 106 minuti.

Opera prima della sudcoreana Celine Song, ispirato da una vicenda accaduta alla regista, il film racconta la storia di Nora (Greta Lee) e Hae Sung (Teo Yoo), due amici d’infanzia profondamente legati che si separano quando la famiglia di Nora dalla Corea del Sud emigra in Canada. Due decenni dopo si ritrovano a New York, dove vivono una settimana cruciale in cui si confrontano sul destino, l’amore e le scelte che segnano il corso della vita, in un’emozionante storia d’amore contemporanea. Una riflessione sul relativismo dell’amore e su come questo sia condizionato dal caso e dal destino, da avvenimenti anche ordinari o da coincidenze imprevedibili. La bellezza di perdersi e ritrovarsi.

Io capitano

di Matteo Garrone, con Seydou Sarr, Moustapha Fall, Issaka Sawagodo, Hichem Yacoubi, Doodou Sagna, Italia, Belgio, 2023, 121 minuti.

La sinossi di “Io capitano” lo descrive come “una fiaba omerica che racconta il viaggio avventuroso di due giovani, Seydou e Moussa, che lasciano Dakar per raggiungere l’Europa. Un’Odissea contemporanea attraverso le insidie del deserto, i pericoli del mare e le ambiguità dell’essere umano”. Tutto, in questa coproduzione italo-belga girata per 13 settimane fra Africa ed Europa, parla di vita. Di realtà, di crescita, evoluzione e speranza.

Ne abbiamo parlato in occasione della candidatura agli Oscar. Resta uno dei film più belli e intensi degli ultimi tempi.

Green border

di Agnieszka Holland, con Behi Djanati Atai, Agata Kulesza, Maja Ostaszewska, Tomasz Wlosok, Piotr Stramowski, Polonia, Germania, Francia, Belgio, 2023, 147 minuti

2021. Una famiglia siriana atterra a Minsk per cercare di raggiungere il confine tra Bielorussia e Polonia e, una volta entrata nell’Unione Europea, arrivare dai parenti in Svezia. Ma la foresta che separa i due paesi è ormai, da tempo, teatro di una guerra di sopravvivenza per i rifugiati, presi in mezzo tra la propaganda del presidente bielorusso Lukashenko, che li attira nel paese per sovraccaricare il confine e destabilizzare i governi occidentali, e la violenta repressione da parte della polizia di frontiera polacca, che su ordini del governo Duda cerca di ricacciarli indietro senza alcun riguardo. Un avanti e indietro senza fine. Un film di denuncia sociale potente su ciò che accade in un’area del mondo poco conosciuta.

Immagine in evidenza da Mymovies

Contratti pirata:
come fare i signori con i soldi di chi lavora

Contratti pirata: come fare i signori con i soldi di chi lavora

“Sono un pirata ed un signore”, cantava di sé un autoindulgente Julio Iglesias. Entrambe le categorie tornano d’attualità: pirati, che si mettono d’accordo con i signori coi soldi altrui, quelli che non danno a chi lavora per loro.

La prossima volta che qualcuno vi dirà che la CGIL ha firmato dei contratti che prevedono una paga oraria inferiore alla proposta sul salario minimo, sbattetegli in faccia la storia del nuovo contratto dei call center. E’ un caso di scuola. Le parti che hanno firmato il contratto sono l’Assocontact (imprese) e la Cisal (lavoratori). Sulla Cisal c’è un interessante precedente del 2022: il Consiglio di Stato (e la Corte Costituzionale di seguito) hanno stabilito che questo sindacato non può essere considerato “comparativamente più rappresentativo” sul piano nazionale rispetto a chi firma i contratti nazionali di categoria (ovvero Cgil, Cisl e Uil), non solo perché rispetto a loro non rappresenta quasi nessuno, ma soprattutto perché in una comparazione tra iscritti non viene per terzo, quarto o quinto, ma (ad esempio) per settimo. Vale a dire che non è dotato di una rappresentatività tale per cui arrivi, per numero di iscritti, subito dopo le tre sigle più rappresentative. Quindi, in italiano, non può essere definito “comparativamente” più rappresentativo.

Siccome la Cisal è uno di quei sindacati che piacciono al governo attuale, allo scopo di conferirgli “per legge” un’autorevolezza che non ha e legittimarlo ai tavoli nazionali così come al CNEL, la dizione contenuta nel DDL governativo sulla sicurezza sul lavoro è stata cambiata: possono partecipare i sindacati “maggiormente rappresentativi”. Ora, se io ho cinquanta iscritti sono “maggiormente rappresentativo” rispetto ad un sindacato che ne ha quaranta. Ma il trucco sta proprio nel cancellare la necessità di comparazione: senza bisogno di mettersi a confronto con i sindacati che firmano i contratti nazionali, infatti, qualunque sindacatino che aggreghi iscritti pari agli abitanti di un rione di paese può definirsi “maggiormente rappresentativo” di quello che abbia iscritti pari ai residenti in un condominio. Con questo trucchetto il Governo legittima al tavolo associazioni di scappati di casa (e sto indicando la migliore delle ipotesi) conferendo loro la stessa dignità di chi rappresenta decine, o centinaia di migliaia di persone. Il risultato è il contratto pirata, quello che, come facevano i pirati, se ne frega delle regole e fa strame di diritti e tutele.

Questa premessa era necessaria per capire cosa è successo nel recente rinnovo di contratto dei contact center. I lavoratori dei call center dovrebbero essere inseriti in termini di tutele contrattuali nel comparto delle Telecomunicazioni. Assocontact però ha trovato la controparte sindacale che le ha permesso di firmare un contratto nazionale a parte, a condizioni (per lei) migliori, e per i lavoratori e lavoratrici nettamente peggiori. Questa “controparte” è appunto la Cisal, che ha siglato il 4 dicembre un contratto che prevede una paga oraria di appena 6,50 euro per gli operatori assunti come co.co.co e un aumento di soli 7 euro al mese per gli altri. Inoltre, condizioni peggiorative per quanto riguarda la maternità e i permessi. Lo denunciano Slc Cgil, Fistel Cisl e UilCom, le tre sigle confederali delle telecomunicazioni. Agli addetti dei call center viene da anni applicato il contratto collettivo delle telecomunicazioni firmato con Asstel(aderente a Confindustria). Questo accordo è in vigore per tutti i 140mila dipendenti delle telecomunicazioni in Italia, dei quali i circa 40mila operatori di call center fanno parte. La piattaforma sindacale di rinnovo contrattuale nel settore TLC rivendica un aumento di 260 euro al mese per recuperare l’inflazione. Nel frattempo le due associazioni di furbastri hanno pensato bene di smarcarsi per riportare indietro tutele e diritti degli operatori telefonici. Facciamo finta che voi facciate parte dei trentottomila che non hanno una tessera Cisal in tasca. Sareste contenti di vedervi applicare un contratto firmato da gente che ha avuto il mandato dai restanti duemila (immagino non siano numeri esatti ma, appunto, chi li ha?). Secondo voi, perché un’associazione di padroni firma un contratto solo con un sindacato di minoranza? Per filantropia o per risparmiare denaro e avere mani libere?

Attualmente, su circa 900 contratti nazionali, solo un terzo sono stati firmati dai sindacati maggiormente rappresentativi, e con controparti aderenti alle principali associazioni datoriali. Non è possibile affidarsi solo ai giudici – oppure alle assemblee dei lavoratori – per far cessare questa concorrenza al ribasso, che in alcuni settori (ne cito giusto altri tre oltre ai call center: trasporti, logistica e appalto assicurativo) costringe anche le organizzazioni più rappresentative a sottoscrivere contratti nazionali a condizioni che non sono le migliori, ma le meno peggiori. E’ indispensabile una legge sulla rappresentanza sindacale. Ci vogliono regole che consentano di misurare il peso di ogni sindacato in termini di iscritti e di conseguenza la sua titolarità a firmare contratti validi per tutti (il famoso erga omnes), in modo che il contratto sia applicabile a tutti solamente se almeno il 50 per cento più uno (in termini di rappresentatività) dei sindacati lo firma. Ma appunto, come lo si determina questo dato?  Esiste un Testo Unico sulla rappresentanza sindacale, di origine negoziale ed ora assunto all’interno di una convenzione sottoscritta anche dall’Inps e dall’Ispettorato del Lavoro: ma non basta, perché vale solo per il settore industriale e per le aziende che aderiscono a Confindustria – e peraltro sono tante le aziende importanti che ne sono uscite per farsi dei contratti ad hoc.

Peccato che attualmente al Governo ci sono persone che i pirati li invitano ai tavoli nazionali.

 

Una pietra racconta

Pace con la natura. Una pietra racconta

 

Io sono una pietra – ero già lì – alla nascita del mondo.

Ho visto gli oceani retrocedere e i continenti emergere, ho visto le montagne alzarsi e i fiumi tracciare i loro solchi attraverso la terra.

Ho gioito del primo verde, dei primi alberi e del primo fiore. Ho sentito il primo ronzio degli insetti, ho visto il primo bruco trasformarsi in farfalla, ho ammirato il volo degli uccelli e la morbida pelliccia degli animali che la usavano per scaldare i loro piccoli indifesi.

È stato bellissimo assistere al fiorire del creato: tanta varietà, tanti colori, tante abilità, tanta musica, tanta bellezza.

Una cosa dipendeva da un’altra, una cosa era il nutrimento di un’altra. Ogni cosa aveva il suo posto, aveva il suo scopo.

Si è creato l’eterno ciclo del divenire e del trapassare.

Io sono una pietra – ero già lì – alla nascita del mondo.

Poi, dopo molte epoche, la natura fece nascere un nuovo essere, diverso da quelli precedenti. Era capace di cose insolite, poteva fare di più di voi piante e di voi animali. Lo guardammo mentre cominciava a vagare per la terra, sfidando le ere glaciali, diventando padrone del fuoco e aiutandosi con le sue abili mani.

Dopo l’ultimo grande riposo invernale del mondo, la nuova creatura cambiò rapidamente. In molti luoghi, dove il clima, le piante e gli altri animali lo permettevano, questo membro più giovane della creazione si stabilì.

Si chiamò uomo, trasformò la natura selvaggia in giardini, si moltiplicò e cominciò a contare il tempo.

Capiva ancora il linguaggio di voi uccelli, si rallegrava del vostro volo, riconosceva in esso i messaggi dei giorni a venire. Sapeva interpretare il ronzio e il cinguettio di voi insetti, così come le nuvole e la luce della sera.

Era ancora vicino alle stelle come alla terra, come a noi pietre, a voi acque, a voi bambini del regno di Flora e Fauna e anche a se stesso.

Ma con ogni ora che passava, si allontanava dalla sua origine, dalla nostra origine. Ha dimenticato che il fiore e l’albero, la roccia e il fiume, il tasso e il tordo sono suoi fratelli. Ha dimenticato di godere dell’esuberante volo delle rondini che salutavano le sere d’estate.

Ha dimenticato di fare silenzio quando si è seduto vicino ai fiumi o sotto gli alberi. Ha anche dimenticato di prendere solo il necessario per vivere.

Invece, ha iniziato a creare gerarchie e a mettere gli uni al di sopra degli altri.

La Terra è grande e questo cambiamento non è avvenuto così rapidamente ovunque. In alcune parti del mondo, gli esseri umani sono rimasti legati alle loro origini per molto tempo.

Ma dove mi trovo io, nella parte della terra che l’uomo oggi chiama Europa, questo cambiamento è stato più grave e rapido.

Qui, rispetto ai tempi della sua infanzia, molto era già stato dimenticato, ma la gente onorava ancora Madre Terra e cercava la sua vicinanza nelle grandi foreste.

Ma poi arrivò una stella con la coda e sostituì la luna.

Il ciclo divenne questo mondo e l’aldilà il bene e il male.

La credenza su come il mondo sia stato creato e tenuto insieme proveniva dalle regioni desertiche, dove Madre Terra non si presenta con opulenza e abbondanza agli esseri umani e agli altri figli del creato.

Lì era il cielo notturno a dare conforto ed essere la sede di ogni origine. (1) La nuova fede era fondamentalmente piena di amore e avrebbe potuto onorare non solo Padre Cielo, ma anche Madre Terra e tutti gli altri esseri.

Non so perché gli uomini non l’abbiano capito.

E poi tutto è cambiato molto rapidamente – tra voi alberi ce ne sono ancora alcuni che ricordano com’era.

Invece di condividere, si rubava, invece di aiutare, la sofferenza aumentava, le gerarchie si rafforzavano e la vita si spegneva senza senso.

Il dono meraviglioso che era stato dato ai figli degli uomini, il loro spirito inventivo, il loro potere creativo è stato usato non tanto per la vita quanto per la sua distruzione.

Hanno estratto i tesori della terra, eppure non sono diventati più ricchi.

Pensavano ai loro simili e alla natura come a delle macchine (2).

Avevano smesso da tempo di ascoltare il canto delle loro anime, la melodia destinata solo a loro e di vivere fuori nel silenzio della natura – il canto che regala verità alle loro anime.

Forse è per questo che hanno cominciato a vedersi come creatori e a intervenire senza pensare ai più piccoli elementi della vita.

Siamo tutti di fronte a una svolta epocale, perché gli esseri umani rischiano di morire a causa del loro comportamento sconsiderato e irrispettoso.

Molti di voi, piante e animali, esistono solo come ricordo, poiché le vostre specie sono state spazzate via dall’uomo – attraverso il furto del vostro habitat o l’avidità per la vostra carne, la vostra pelliccia o le vostre ossa.

Molte di noi rocce e pietre non ci sono più – sono state frantumate a beneficio di pochi. E voi fiumi siete stati inquinati e modificati nel vostro corso.

Anche se tanta bellezza e diversità è andata perduta per sempre, la creazione e la natura si riprenderanno e continueranno a esistere.

Io sono una pietra – ero già lì – alla nascita del mondo.

Figli umani, parte della creazione, parte della natura, svegliatevi e riconoscete finalmente chi e cosa siete.

Avete tante capacità, avete creato tante cose belle. Il vostro linguaggio è poetico, le vostre mani e la vostra bocca sono musicali, il vostro pensiero e la vostra abilità costruiscono case in legno e pietra. Trasformate i metalli in oggetti di grazia, avete imparato dai vostri simili.

Che cosa è successo?

Perché la vostra arroganza si è trasformata in mancanza di rispetto e poi in stupidità? Una stupidità così grande che non avete imparato dai vostri errori.

Avete portato tanta sofferenza al mondo nella convinzione che il passo in avanti – il progresso – sia l’unico percorso predeterminato o appropriato.

Tornate indietro, avete viaggiato troppo lontano dalla vostra origine.

Non desiderate sempre di più, perché non sarà mai abbastanza. (3) Ascoltate le parole di un saggio vissuto molto tempo fa: “La più grande ricchezza è l’autosufficienza. Il frutto più bello dell’autosufficienza è la libertà” (4).

Tornate a essere liberi dalle cose che avete creato per voi stessi.

Chiamate tante cose “pratiche”, ma quello che vedo è spesso solo una prigione in cui vi siete messi. Questi piccoli aggeggi così rumorosi, come molte altre cose vostre, vi rendono così distratti e poco liberi, annegando ogni cinguettio di uccello, ogni fruscio di grillo, ogni gorgoglio di ruscello e il ticchettio della pioggia sulle foglie degli alberi.

Guardate un po’ indietro, come eravate un tempo.

Uscite di nuovo e ascoltate le voci della natura, ascoltate il vostro essere più profondo, il canto della vostra anima. Uscite di nuovo e guardate le meraviglie della neve bianca, del primo filo d’erba, dei semi di cicuta e delle foglie colorate in autunno.

Uscite di nuovo per sentire il profumo delle fragole selvatiche, dell’aria dopo un temporale estivo e dell’acqua salata dei mari. Uscite di nuovo a sentire il muschio morbido sotto i piedi, il vento sulla pelle e le gocce di pioggia sul viso.

Imparate dai vostri bambini, che sanno ancora meravigliarsi e scoprire un miracolo ogni giorno: parlano ancora con le pietre e ringraziano i fiori.(5)

Imparate dalle comunità che chiamate “indigene”. Spesso sanno ancora qualcosa del volo degli uccelli, delle immagini delle nuvole, della gratitudine nei confronti di Madre Terra e di tutti i nostri simili. (6)

Imparate da chi ha avuto il potere delle parole per descrivere la bellezza della natura dentro e fuori di sé. (7)

E non temete che le conoscenze acquisite siano in contrasto con un mondo vivo: possono andare di pari passo.

Partecipate al passaggio delle stagioni, al risveglio della primavera, alla pienezza dell’estate, alla maturazione dell’autunno e alla calma dell’inverno. Celebrate le loro feste e percepitele con tutti i vostri sensi.

Riconoscete che la gratitudine è un grande dono, perché vi dimostra che siete amati.

Cari uomini, venite da noi e vedete che la natura non è solo uno sfondo della vostra vita, ma rendetevi conto che siete parte di essa, proprio come le piante, i funghi, tutti gli altri animali, i fiumi e, come me, la pietra. Allora sarete in pace con la natura e con voi stessi… E forse continuerete a esistere ancora per un po’.

Io sono una pietra – ero già lì – alla nascita del mondo.

 

Note:

(1) Un ottimo libro con contributi di vari teologi e studiosi di religione sull’influenza della cristianizzazione sulla comprensione della natura nell’Europa centrale: Hunold, Gerfried (ed.): Ökologische Theologie und Ethik – 1999

(2) La pietra si riferisce al meccanicismo, la visione meccanica del mondo fondata nel primo Illuminismo, il cui rappresentante più noto è Cartesio.

(3) Immer mehr ist nicht genug – Eine kurze Geschichte der Ökonomie der Maßlosigkeit (Sempre di più non basta – Breve storia dell’economia dell’eccesso) di Bernhard Ungericht è il titolo di un ottimo libro sulla storia del nostro sistema economico capitalista fin dall’antichità.

(4) Citazione da Epicuro di Samo (341-271 a.C.)

(5) Un libro che, secondo gli standard odierni di argomentazione, cioè molti studi scientifici, mostra chiaramente come la natura abbia un effetto estremamente positivo su tutti i livelli di sviluppo del bambino e dell’adulto: Raith Andreas, Lude Armin: Startkapital Natur – wie Naturerfahrung die kindliche Entwicklung fördert.

(6) Un saggio altamente raccomandabile dal titolo Indigeniality del filosofo Andreas Weber, pubblicato da Nicolai Verlag.

(7) Henry David Thoreau è descritto come uno dei più grandi scrittori americani. A mio parere, questo titolo è un po’ immeritato. Per me è un mistico. Se si leggono i suoi saggi, i suoi diari, si può avere una visione profonda della bellezza della natura interiore ed esteriore.

Ancora qualche dichiarazione d’amore: al richiamo della civetta – alla coda della colomba – ai campanellini del cardellino – al volo delle gru – al muso vellutato di una capra – alla crescita di un albero – al profumo di una mela – alla colorazione dei fiori del ranuncolo primaverile e della polmonaria – all’arricciarsi di una foglia di felce – al rigoglio di un rovo – al blu della cicoria – al viola dell’ambrosia – al bagliore del fiore di papavero – al seme del dente di leone – al sussurro dei pioppi – alla luce bianca della Bretagna – alla simmetria di un fiocco di neve – ai cespugli avvolti dalla brina – al verde giovane delle latifoglie – al profumo del tiglio – al risveglio del canto degli uccelli dopo un temporale – all’aria resinosa di una pineta in estate – ai passi sulle foglie autunnali – al tappeto dorato degli aghi di larice – ai fili d’erba che si stagliano contro il cielo serale – al crepuscolo – al profumo dei fiori di falena nel buio – al silenzio della notte – all’odore della terra.

( Traduzione dal tedesco di Thomas Schmid )

L’autrice

Coco Burckhardt vive in una fattoria autosufficiente in Bretagna. È un’autrice di lingua tedesca,  tiene seminari sulle piante selvatiche e sul folklore vegetale e ha molti anni di esperienza nell’educazione forestale e naturalistica. Con il suo lavoro vuole aiutare le persone a riconoscere la meraviglia della natura, a sentire e ricostruire un legame profondo con essa – l’uomo come parte del creato e non al di sopra di esso. Con il suo ultimo libro “Pflanzenbrauch im Jahreslauf – Mit Baum und Kraut im Reigen der Jahreskreisfeste spielen, heilen und genießen” accompagna le persone durante l’anno.  www.waldundwiesenwonne.de

 

In copertina: Cerchio di pietre di Callanish, Isola di Lewis, Scozia. (Foto di Bobby Langer)

 

La tregua di Natale del 1914

La tregua di Natale del 1914

La notte di Natale del 1914 sulle trincee delle Fiandre a sud di Ypres, in Belgio, i soldati tedeschi dell’impero austro-ungarico hanno di fronte i soldati inglesi e si combattono duramente da 4 mesi.

La guerra è iniziata il 28 luglio 1914, un mese dopo l’attentato a Sarajevo all’arciduca Francesco Ferdinando, nipote dell’imperatore d’Austria, designato come futuro imperatore. L’omicida è Gavrilo Princip, studente di 19 anni serbo-bosniaco che fa parte di un movimento indipendentista (Mlada Bosnia, Giovane Bosnia). L’impero dopo un mese dichiara guerra alla Serbia che sa bene come ciò porterà alla guerra anche con la Russia (che è sua protettrice), così come la Germania, alleata all’Austria, quando invade il Belgio (neutrale) dà il destro alla Gran Bretagna ad entrare in guerra (a fine agosto).

La guerra sembra nascere dalle aspirazioni di indipendenza della Serbia ma in realtà dietro le quinte cova sia il conflitto della Francia contro gli imperi centrali (tedesco e austriaco), avendo perso le regioni Alsazia e Lorena nella guerra del 1870 e soprattutto il conflitto con la Gran Bretagna che rischia di perdere l’egemonia sui traffici marittimi mondiali per l’ascesa degli imperi centrali che vogliono giocare un ruolo di potenze mondiali; ruolo che non sta bene agli anglosassoni, ora forti anche del figlio (molto cresciuto) che si chiama Stati Uniti.

Un conflitto interno all’Europa tra aspirazioni indipendentiste della Serbia nei confronti dell’impero austro-ungarico (che aveva mantenuto in pace ben 17 etnie), serve agli anglosassoni per una guerra che smantelli gli imperi centrali tedesco-austriaco, diventati troppo ingombranti.

E’ l’inizio di una guerra che pone le basi di un “novus ordo seclorum” come è scritto esplicitamente dal 1935 sulla cartamoneta da un dollaro, in cui gli anglosassoni vogliono diventare leader nel mondo sbarazzandosi dell’unico vero competitor che possono trovare in Europa: la Germania e il suo forte alleato, l’impero austro-ungarico.

Solo così si capisce come mai la Gran Bretagna, che non fa parte dell’Europa, e ancor più gli Stati Uniti, entrino in guerra a fianco di Russia, Francia, Italia (poi Giappone) contro Austria-Germania. Raccontarlo non è mainstream perchè mette in cattiva luce i padroni del XX secolo che vorrebbero continuare ad esserlo anche nel XXI (da qui lo scontro in Ucraina e con Russia, Cina e Brics).

Ma torniamo alla nostra bella storia di pace. Siamo nella notte di Natale del 24 dicembre sulle trincee delle Fiandre e i soldati tedeschi cominciano ad accendere molte candele sul bordo della trincea.
Un soldato inglese le nota. Poi sente il canto natalizio dei tedeschi (Stille Nacht) che augura buon Natale agli inglesi.
A quel punto sull’altro fronte gli inglesi rispondono unendosi a un canto che è a loro noto in lingua inglese (Silent Night, il nostro Astro del ciel).
Racconta in una lettera un soldato inglese: “Mentre osservavo il campo ancora sognante, i miei occhi hanno colto un bagliore nell’oscurità. A quell’ora della notte una luce nella trincea nemica è una cosa così rara che ho passato la voce. Non avevo ancora finito che lungo tutta la linea tedesca è sbocciata una luce dopo l’altra. Subito dopo, vicino alle nostre buche, così vicino da farmi stringere forte il fucile, ho sentito una voce. Non si poteva confondere quell’accento, con il suo timbro roco. Ho teso le orecchie, rimanendo in ascolto, ed ecco arrivare lungo tutta la nostra linea un saluto mai sentito in questa guerra: ‘Soldato inglese, soldato inglese, buon Natale! Buon Natale!‘”.

Senza che nulla sia stato concordato dai generali, i soldati degli opposti schieramenti cessano il fuoco, si accendono candele, si cantano inni di Natale. Comincia un botta e risposta di auguri gridati da parte a parte, fino a che qualcuno si spinge fuori dalla propria trincea per incontrare il nemico e stringergli la mano. La “tregua di Natale” fu un atto straordinario e coraggioso che partì da semplici soldati mossi da sentimenti di profonda umanità e fratellanza. Rileggere oggi, a distanza di cento anni, le lettere spedite dal fronte che raccontano quel gesto di spontanea e generosa insubordinazione ci commuove e ci interroga: è davvero impossibile costruire un mondo pacifico e solidale? Allora scattò una tregua in cui si celebrò la messa di Natale, si seppellirono i morti e il giorno dopo si farà addirittura una partita di calcio.

Lo si racconta nel bel libro di A. Del Bono “La tregua, lettere dal fronte” tra cui ci sono anche quelle del sergente inglese Bernard Joseph Brookes che racconta: è stato un Natale ideale, lo spirito di pace e buona volontà cozzava con l’odio e la morte dei mesi precedenti. E’ stato sorprendente che un simile cambiamento dei due eserciti opposti sia stato generato da un evento accaduto una notte duemila anni fa”.

La storia è poi stata ripresa anche nel film (dvd e libro) Niente di nuovo sul fronte occidentale. Lo ha raccontato anche Alessandro D’Avenia nella sua rubrica sul Corriere del lunedì;  “Quegli uomini capiscono che la guerra è frutto di propaganda e avidità di potenti che trasformano le persone in soldati ad energia distruttiva contro presunti nemici che sono in realtà come “noi”. Quell’unità profonda di tutte le cose che i Greci chiamavano Logos del cosmo, che Giovanni scrive nel suo vangelo essersi incarnata e che Francesco d’Assisi tradurrà dando del fratello o sorella al fuoco, all’acqua, alle stelle e….persino alla morte”.

In copertina: Soldati tedeschi in posa fuori dalle trincee durante il Natale 1914. Foto Wikimedia.

Per leggere gli altri articoli e interventi di Andrea Gandini, clicca sul nome dell’autore.

Parole a capo
Marco Plebani: alcune poesie edite ed inedite

Alcune poesie edite ed inedite di Marco Plebani,

Si muore tutte le sere, si rinasce tutte le mattine: è così. E tra le due cose c’è il mondo dei sogni.
(Henri Cartier-Bresson)

 

CHERNOBYL

Non ho pianto quando Chernobyl
sotto forma di nube al cancro
rubò i miei giochi esposti
in terrazzo.
Né quando mia madre
la serenità perse e non fece finta di nulla.
Né quando mio padre si è sigillato,
chiuso per sempre nel suo dolore
e nel trafitto silenzio: “Addio fratelli dispersi”.
Né quando,
per giorni,
mia sorella si è sentita
completamente sola
sotto un sole ripieno di sorrisi.
Né soprattutto
sopr’ogni cosa,
quando nell’87 gli infermieri mi hanno chiesto
di “gonfiare un palloncino”
in una sala operatoria.

Anestesia totale.

Mi svegliai burattino nei legni dolente.
Ho pianto ogni volta che qualcuno è morto
ed una parte di me ha camminato
per sempre nei cortei funebri.
Troppo preziose e troppo rare
le lacrime di un uomo.

 

VALE DI PIÙ

 

Essere innamorato di te fa male
e vale di più della
crisi nervosa che attanagliante
ricopre mio corpo nudo tremolante,
di plumbee giornate in cui sfortuna
accanisce incisiva,
della vigna che prepara il vino
per la tua bocca,
di chi è passato e ha lasciato
strisce di sangue pubico,
del sanguine di Cristo
e dell’ideal marxista-leninista,
del tuo volto che s’asconde ancora
alla mia sessualità erettile,
inopportuna ed ansiogena.
Essere innamorato di te è un
Mistero conficcato nel palpito.

(poesie tratte da “Decimo dan“, Edizioni La Gru, 2022)

 

Morsa l’epidermide sopra l’osso frontale in cucina,
convivente,
torna tutto nelle rifiniture o nella ceramica di un pavimento insoddisfacente.
Occhi, divieto di cinque anni fa,
aumentata secrezione lacrimale dal Falerio.
Calore in dispersione da ricarica.
L’ultimo giorno di scuola a colazione ad un certo punto ha detto: “Aheee,
aheee, aheee” alla scolaresca allibita dall’ipotesi infondante.

Le espressioni di una religiosità interiorizzata
giustappostandosi sul letto nel sonno
del passaggio dal solstizio all’equinozio.

(inedito)

 

*

 

Esisti perimetrata da muri abbraccianti,
calpestata su pattern persiani
dissepolti su stoffa,
gioia di questo giorno immune.

Né fiori né ombre sotto al neon.

Arrivare nudi a nuove cadenze.

*

Guerra nuova in riscaldo,
fredda pareva.
Non diremo agli alunni
che non avremmo più temuto
scacchieri
forieri
di missili a lungo raggio
e tremato come balaustre d’allumimio
appoggiate da mani malferme.

Qualcuno assemblerà
futuri tavoli, robusti,
di noce,
per firmare accordi
e preparare voli d’oltreoceano.

(Queste ultime due poesie inedite provengono da un laboratorio di poesia tenutosi a Macerata che aveva come temi rispettivamente la “gioia primaverile” e il “futuro”)

Marco Plebani (1978). Insegnante di lettere presso la Scuola Media “Enrico Fermi” di Macerata (MC). Pubblicazioni: “Un giorno qualsiasi” (Ed. OTMA, Milano, 2011) secondo classificato al premio A.U.P.I. (Albo Ufficiale Poeti Italiani) (2011), “Decimo Dan” (Ed. La Gru, Latina, 2022). Segnalazioni su blog, riviste e rubriche: Poesia del Nostro Tempo, Versante Ripido, Niederngasse, L’Estroverso, Independent Poetry, ‘900 Letterario, Poesia Ultracontemporanea (a cura di Sonia Caporossi), La Poesia e lo Spirito (a cura di Fabrizio Centofanti e Pasquale Vitagliano), Di Sesta e di Settima Grandezza (a cura di Alfredo Rienzi), Almanacco (pagina di Puntoacapo Edizioni), La Rosa in più (a cura di Salvatore Sblando), Le parole di Fedro (a cura di Sergio Daniele Donati), Fare Voci (bimestrale a cura di Giovanni Fierro), Il Tasto Giallo (a cura di Rosanna Frattaruolo e Antonio Corona), Bibbia d’Asfalto, Margutte, Monolith Volume, Limina Mundi, Brainstorming Culturale, Emme24, Pelagos, Il Passaparola dei Libri, Federico Preziosi (blog), L’Osservatore, Neobar, Casa della Poesia Torino, TuttaToscana Libri, PoetryDream (a cura di Antonio Spagnuolo), Il Mangialibri, Enea Biumi (blog letterario), Dianora Tinti (blog letterario), Lucaniart Magazine, Dissonanze Letterarie (a cura di Giulia Scialò), Libri e Recensioni, Verso Libero (a cura di Patrizia Baglione), Libriamoci, Circolare Poesia, Cultura e Letteratura (a cura di Lorenzo Spurio), Arcipelago Itaca (blog magazine), L’Altrove, Il Giornalaccio, Lo Specchio Magazine, traduzione di Antonio Nazzaro in spagnolo di “Adriatica” per il Centro Cultural Tina Modotti, Scafffale (Rai 3 Marche).

 

Un grazie all’autore per avere autorizzato la pubblicazione di questi versi.

NOTA REDAZIONALE: “Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”. Per rafforzare il sostegno al progetto invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica. 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 264° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Carlone.
Una favola di Natale

Carlone
Una racconto di Natale

Neve neve e ancora neve. Sconosciuta in città da più di dieci anni, la neve si era presa una formidabile rivincita. Era arrivata col primo buio della Vigilia e nella notte si era mutata in tempesta. Il mattino di Natale il vento era caduto ma da un cielo di ghiaccio continuavano a scendere fiocchi leggeri, grossi come pagnotte di pane.
Alle nove terminava il turno della prima colazione, gli ospiti della mensa della Caritas uscivano alla spicciolata dal grande portone di via Brasavola 19, ma nessuno se ne andava, stavano fermi lì, occupando tutta la stretta strada medievale, la neve fino alle caviglie e gli occhi al cielo a godersi lo spettacolo di Natale. Agitavano le mani, si battevano sulle spalle, parlavano e gridavano le loro lingue. Sembravano quasi felici, ma Mohamed era addirittura entusiasta, rideva, saltava, le braccia al cielo a ringraziare Allah.

Aveva quasi trent’anni Mohamed, scappato dalla sua Siria, più di metà della sua vita l’aveva passata in Italia; a Napoli, a Roma, a Torino e ora a Ferrara. Qui lo chiamavano Momo; più corto, più semplice. Quella neve lo portava indietro, al freddo inverno di Aleppo, quando il vento gelido scendeva dalle montagne e imbiancava tutta la città, la grande porta, le moschee, le chiese cristiane, la sinagoga, perfino il suo campo profughi.
Sotto la neve Momo era l’uomo più felice del mondo e allora si voltò per cercare il suo amico Carlone.
Era impossibile non notarlo, era più grosso e più alto di tutti, una torre con un berretto rosso di lana grossa su una nuvola di riccioli bianchi.
Ma Carlone non c’era. Momo tornò sui suoi passi verso la sala mensa.

Non se n’era accorto nessuno. A fine colazione Anna e Rodrigo passavano per la pulizia del salone. Ci misero una mezzora per arrivare in fondo, agli ultimi tavoli, e fu lì che trovarono Carlone, che non sembrava neanche lui, incastrato tra la panca e il pavimento di piastrelle, la faccia verso il soffitto e gli occhi aperti, azzurri e vuoti. La sua grande collana di ferro con la croce argentata toccava quasi terra. È Carlone, disse Rodrigo. Certo, è Carlone, rispose Anna, solo lui è così grosso. Anna gli toccò la faccia. Povero, almeno è morto al caldo. Smisero di pulire e andarono ad avvertire il responsabile della mensa.

Don Andrea si trovò subito un grosso problema da risolvere, perché Carlone era un vecchio a dir poco monumentale, facciamo 150 chili, facciamo pure 180 chili. Bisognava portarlo via da lì, liberare il tavolo, si doveva apparecchiare il pranzo di Natale. Ma c’era un secondo problema: dove portare il corpo di Carlone? Gli venne in mente il posto più vicino, il piccolo ambulatorio medico a pochi passi dalla sala mensa. Lì Carlone poteva starsene a dormire tranquillo.

Don Andrea, la sua efficienza eguagliava quasi la sua bontà, afferrò il cellulare e chiamò in cucina. Subito spuntarono i tre volontari richiesti, due sulla sessantina e uno giovanissimo. I loro nomi vanno citati, ora che sono entrati nella storia: Giuseppe e Giovanni i due valenti pensionati, Gigi il ventenne, appena arruolato dalla parrocchia dell’Immacolata per far fronte al superlavoro natalizio.
Tutti e tre, più Don Andrea, più Anna e Rodrigo fanno cerchio attorno al morto, guardano con attenzione quel corpaccione rovesciato, da sopra e da sotto, cercano di capire da che parte prenderlo. In quel tempo arriva di corsa Momo, si fa strada con le braccia, rompe il cerchio e raggiunge il suo amico. Afferra la sua mano enorme, lo accarezza sulle guance, piange.
C’è bisogno di tutti, anche di Momo che continua a singhiozzare, per trasportare il corpo di Carlone nell’ambulatorio. È più pesante da morto che da vivo. A fatica riescono ad alzarlo e a metterlo lungo disteso sul tavolo dell’accettazione. A faccia in su. Ma sembra ancora un sacco informe. Gli levano il vecchio cappottone tutto rattoppato. Meglio, sotto è tutto un altro vedere, indossa una tuta fiammante rossa e blu con i bordi d’oro. Gli stivali? No no, quelli sono impresentabili. Li togliamo, dice Gigi. Li prendono in mano: questi qui avranno almeno cent’anni, peseranno cinque chili l’uno.

Si dice che a volte i morti li guardi in viso e sembrano sorridere, ma forse sono i vivi che vogliono vederlo quel sorriso a fior di labbra.  Però adesso Carlone, morto stecchito e senza stivali, rideva, rideva a piena bocca. Rideva in silenzio, ma rideva, tanto che anche il suo amico Momo aveva smesso di piangere. Insomma, così elegante (senza stivali erano apparsi anche due splendidi calzettoni rossi), la fluente capigliatura e il candido barbone, non era mai stato cosi bello. E da morto come da vivo saltava agli occhi una impressionante somiglianza con Karl Marx. Proprio lui, il famoso filosofo attaccabrighe di Treviri, e proprio da Marx aveva preso il suo soprannome, quel Carlone con cui era conosciuto in tutta la città.

Don Andrea è pieno di dubbi. Gestire un morto è la prima volta che gli capita, e poi oggi, proprio il giorno di Natale. Ma Carlone merita un trattamento speciale, lo conosce da parecchi anni, è un ospite fisso della mensa. Grande, grosso, ingombrante, ma educato. Un gigante buono, un uomo mite, a parte quella sua mania, quell’odio verso Amazon e i suoi pacchetti. Appena vedeva un corriere con un pacco in mano, lo inseguiva. Non gliene scappava uno. Affrontava lo sventurato, gli strappava di mano il pacchetto e scappava come una lepre. Come una lepre, nonostante il suo quintale e mezzo di peso.

Era stato fermato più volte dalle forze dell’ordine  e si era fatto anche qualche notte in questura. Documenti? Nessun documento. Permesso di soggiorno? Nemmeno, ho fatto la fila ma non me lo vogliono dare. Professione? Pensionato, prima facevo il postino, ero piuttosto bravo. Nazionalità? Apolide, cittadino del mondo, un po’ qui e un po’ là: scriva quello che vuole. Ma alla fine lo lasciavano sempre andare. C’era la sua crociata contro Amazon (un testimone l’aveva sentito sussurrare: mi hanno disoccupato, maledetti capitalisti di merda), ma quel Carlone era totalmente inoffensivo. Si comportava in modo eccentrico ma esemplare; nessuno conosceva la sua storia ma era benvoluto da tutti. E ai bambini regalava caramelle.

Don Andrea prende in mano la croce argentata che pende dal collo del morto: giusto, pensa, per lui ci vuole anche una messa come si deve. Magari qui accanto, in fondo alla via, nella chiesetta di Santa Teresa del Bambino Gesù, le Carmelitane non avranno obiezioni. Ora però deve chiamare le autorità competenti, ma uno di cui ci si può fidare, ad esempio il maresciallo Di Francesco, va a messa tutte le domeniche a Santa Maria in Vado.

Quando arriva Luigi (detto Gino) Di Francesco, maresciallo della Benemerita, c’è solo Momo a vegliare il morto. Gli altri sono tutti impegnati con il pranzo in mensa. Il maresciallo conosce Carlone e fa subito le condoglianze. A Momo, perché c’è solo lui nell’ambulatorio trasformato in camera ardente provvisoria.
Il maresciallo ispeziona con cura il defunto. Al polso sinistro, semicoperto dalla manica della tuta, vede spuntare un gigantesco orologio d’oro. Sembra di gran valore, commenta a voce alta il maresciallo. Con delicatezza scopre la manica fino all’avambraccio. L’orologio pare antichissimo; forse è scarico, o è rotto, segna un’ora strampalata.
Sul lato interno dell’avambraccio c’è una strana scritta, un tatuaggio con numero inciso, sette cifre, si legge male ma si legge: 1121957. Il maresciallo rimane di sale, quelle cifre le ha già viste, sono una firma inconfondibile. Solo chi è stato ad Auschwitz, solo i pochi sopravvissuti possono esibire quel marchio infame. Ma, aspetta un attimo, allora questo Carlone era un ebreo, non un cristiano. Un sosia ebreo di Carlo Marx, che tra parentesi era ebreo pure lui. Però ad Auschwitz ci mandavano a crepare anche i comunisti. Forse allora Carlone non era nemmeno ebreo, era un comunista. Un semplice comunista rompicoglioni. Magari sempre in omaggio a quel suo famoso nonno comunista, il più marxiano dei marxisti, quello che aveva dato inizio a tutta la storia.
A questo punto al maresciallo Gino Di Francesco gira un po’ la testa. È intelligente ma realista. E ragiona: sono un carabiniere, non un detective, e questo non è un giallo, qui c’è solo un uomo morto, cristiano o ebreo o comunista non fa nessuna differenza, almeno per me. Guarda Momo e gli rifà le condoglianze: Lei è un parente? No, solo un amico. Si faccia coraggio. E non si preoccupi, penso io a chiamare l’azienda mortuaria.

Il pranzo di Natale è finito. Oggi che è un giorno speciale c’è stata anche un po’ di musica, ma poi le canzoni sono finite e i poveri sono usciti dal portone. Ognuno per la sua strada, Sotto la neve, che non ha smesso per niente. Il portone dovrebbe chiudere alla cinque di sera, ma Don Andrea e Momo stanno ancora aspettando gli addetti delle pompe funebri.
Invece, come una folata di vento, entrano correndo dal portone una folla di uomini e donne in miniatura. Sono alti non più di una cinquantina di centimetri, vestiti tutti di verde con in testa un cappellino a punta rosso. Potrebbero essere nani, gnomi, o forse elfi, leprecauni, o folletti del bosco. Difficile dirlo, in ogni caso, anche se li vedi coi tuoi occhi, fai fatica a credere nella loro esistenza. Sono creature di un mondo che esiste solo nelle fiabe o nelle poesie. Il gruppo degli elfi (Don Andrea e Momo hanno scelto questa ipotesi) non sembrano per niente spaesati. Hanno un compito preciso da svolgere. E hanno una gran fretta.

Mohamed detto Momo esce in strada seguendo il gruppo di quei piccoli esseri verdi. Sono almeno in venti a reggere sulle spalle la grande tavola di legno dove giace disteso il loro re. Gli hanno anche rimesso gli stivali e ornato la punta con due campanellini d’oro.
Usciti dal portone gli elfi voltano a sinistra, procedono lentamente in mezzo alla via ingombra di neve. Cantano sottovoce una nenia dolce e incomprensibile. Momo li segue a qualche passo di distanza. Arrivati in fondo a via Brasavola, di fronte ai ruderi della chiesa di Sant’Andrea, il corteo volta a destra per via Camposabbionario, e subito a sinistra per via Coperta. Ora si dirigono verso la grande area verde delle Mura di Ferrara.
Continua a cadere neve su neve ma la processione non si ferma, affronta con coraggio la breve salita che conduce al baluardo della Montagna. Momo è sempre dietro il corteo, non capisce dove stanno portando il suo amico Carlone, poi finalmente riesce a vederlo: sopra il torrione, vicino al bordo dove la mura strapiomba nel vallo, c’è uno strano oggetto di legno chiaro. Sembra un carro ma è senza ruote. Attaccati a quel coso ci sono dieci cavalli sbuffanti, pronti per la partenza. Cavalli con in testa le corna? Mai visto dei cavalli del genere, pensa Momo, nemmeno ad Aleppo.

Ora gli elfi hanno issato Carlone a cassetta, è molle come la gomma, ce ne vogliono due per lato per sostenerlo e tenerlo seduto, qualcuno gli ha rimesso in testa il suo berrettone rosso. Si sente un grido sottile, un segnale, la carrozza si alza in una verticale perfetta, si ferma per qualche secondo appena sopra la cima gli alberi, poi parte improvvisamente, senza uno sbuffo, veloce e silenziosa come un’astronave aliena.

In copertina:  Le Mura di Ferrara  sotto le neve.

Natale al Cafè Puškin di Mosca.
– un racconto di Natale

Natale al Cafè Puškin di Mosca

Una leggenda d’altri tempi

Siamo in pieno inverno, quello che in Russia arriva presto e che da noi arriva sempre dopo. Pochi giorni al Natale, quello che tempo fa, a Mosca, era ancora sereno, quello dove trascorrevo giorni di condivisione e di profonda amicizia, in attesa di un nuovo anno che sarebbe stato migliore, senza guerre e in pace, ne eravamo certi. Oggi non più.

Si avvicina il momento del tepore, della ricerca di un luogo dove rifugiarsi che accolga con una calda cioccolata in tazza, con un thè verde dall’aroma avvolgente e intenso. Ricordi. Quanti. Il tempo cambia, l’umore e noi stessi pure. La magia si avvicina comunque.

Cafè Puškin, Simonetta Sandri
Cafè Puškin, Simonetta Sandri

Nevica, quelle candida neve leggera che, costante e paziente avvolgerà presto tutta la città, accarezzerà i suoi parchi e giardini eleganti, ammantando tetti e cortili. Un vento frizzantino sfiora alberi e guance, ancora poche ore al Natale e ci siamo, mentre luci di ogni colore avvolgono tronchi e antichi palazzi. I pensieri sono lievi e lontani. Siamo sul viale Tverskoy. Improvvisamente eccoci davanti a una cascata cristallina, quasi di puri, lucenti e trasparenti diamanti, sembra di avere davanti un castello delle favole, vi entriamo piano piano, con rispetto e timore quasi reverenziale, accolti da un educato cameriere che ci accoglie dall’alto della sua bella livrea sfolgorante color melagrana. Se fuori sembra tutto luce e fatto di sola luce, dentro ci accoglie un’illuminazione delicata e soffusa.

Cafè Puškin, Simonetta Sandri

C’è musica, in sottofondo, le note di un’arpa delicata e di un flauto leggero. Gli occhi vanno coccolati, la mente lasciata libera. L’atmosfera è incantata, ci si sente una bella e sontuosa principessa, anche in assenza del principe azzurro che ora si trova lontano. Tutto è imperioso, maestoso, elegante, sfolgorante, accogliente. Oggetti antichi che sanno di oro, come librerie, volumi, cannocchiali e mappamondi affascinano subito e riportano ad altri tempi solenni, quelli magici, quelli fastosi e letterari. Più di 50 anni fa, quando il noto chansonnier francese Gilbert Bécaud si esibì a Mosca, al suo ritorno a Parigi scrisse la canzone Nathalie, dedicata alla sua affascinante guida russa, e raccontò di una cioccolata al Cafè Puškin. Quella che mi piace tanto.

La Piazza Rossa era vuota / Davanti a me marciava Nathalie / Aveva un nome carino, la mia guida / Nathalie. La Piazza Rossa era bianca / La neve faceva un tappeto / Ed io seguivo per quella fredda domenica / Nathalie / Parlava in frasi sobrie / Della rivoluzione di ottobre / Io pensavo già / Che dopo la tomba di Lenin / Si poteva andare al Cafè Puškin / A bere una cioccolata. (…) Niente più domande su frasi sobrie / Né della rivoluzione di ottobre / Non eravamo più là / Finita la tomba di Lenin / La cioccolata da Puškin / Era già lontano. / Ora la mia vita mi sembra vuota / Ma so che un giorno a Parigi / Sarò io a servirle da guida / Nathalie

La canzone divenne popolare in Francia, ma pochi sapevano che quel caffè non esisteva, che si trattava di una fantasia poetica del cantautore. Ma sarà più tardi quella stessa canzone a ispirare Andrei Stellos, un artista e restauratore franco-russo che aprì il Cafè Puškin, il 4 giugno 1999, sul viale Tverskoy, luogo caro al poeta da cui prese il nome. All’inaugurazione, lo stesso Bécaud cantò la sua ormai famosa Nathalie. Questo luogo è ormai una leggenda, ospitato in un palazzo risalente alla fine del XVIII secolo, voluto da un nobile al servizio di Caterina la Grande, che qui si trasferì dopo interventi di architetti italiani.

Cafè Puškin da sito web

Al piano terra vi era una farmacia (che oggi ne mantiene il nome), dove i clienti, in attesa della preparazione della loro medicina o pozione miracolosa, potevano gustare bevande, the, caffè o cioccolata calda. Vi sono specchi, stucchi e soffitti, tutto delicatamente affrescato ed elegantemente dipinto. I soggetti dei soffitti arrivano dal mondo della mitologia: Leda e il cigno, Apollo e le Muse, Pegaso e Perseo, Atena e Afrodite. Ci sono orologi a pendolo, globi, microscopi, porte con griglie di bronzo, copie di statue egizie del British Museum. Il bancone della farmacia è ben conservato, alle sue spalle antiche e preziose porcellane, vasi, bottiglie dalle iscrizioni latine, che, ancora una volta, ricordano pozioni, essenze, lozioni e tinture delle favole. Anche qui sempre e solo magia. Quelle che emanano le stelle lucenti.

Cafè Puškin da sito web

Ci sono anche molti oggetti interessanti che ricordano i grandi progressi tecnologici del XX secolo, come una macchina da scrivere made in Amburgo, una teiera inglese, tazze da cioccolato o un cavatappi. Busti di grandi filosofi del passato salutano e omaggiano il visitatore curioso: sono Diderot, Seneca, Voltaire, Molière, Lomonosov, Socrate e Cicerone a dare il loro caloroso e fortunato benvenuto. Un privilegio per ogni ospite.

Al piano superiore ci accoglie la libreria e il suo mezzanino, l’ambiente più sofisticato, con oltre tremila volumi che vanno dal XVIII al XX secolo. La letteratura russa è rappresentata da Pushkin, Gogol, Belinsky, Turgenev, Saltykov-Shchedrin, Leskov, Tolstoy, Fet, Derzhavin, Zhukovsky, Chekhov e Dostoevsky, quella inglese da Shakespeare, Dickens, Scott e Moore, la francese da Rousseau, Diderot, Maupassant, Voltaire e Montesquieu, l’italiana da Dante e Petrarca, la tedesca da Goethe, Heine, Schiller e Hegel. Ci sono tutti gli ingredienti per una splendida e tranquilla serata.

Credetemi, è un ambiente davvero incantato, dove ci si perde facilmente fra le parole dei libri, la musica delicata, l’eleganza della clientela, l’incanto di un’atmosfera d’altri tempi. Ovviamente gustando cibo delicato tipicamente russo. La porta d’entrata, avvolta in cristalli di neve, annunciando magia, non ha mentito. Mai. Nulla qui vi deluderà. Parola di scout dalla memoria lunga. Allora come ora. E magari anche domani.

Cafè Puškin, Viale Tverskoy, Edificio 26-A, Mosca, http://cafe-pushkin.ru/

 

Il sogno di Erode.
– un racconto di Natale

Il sogno di Erode.  un racconto di Natale

Un temporale si avvicinava da Oriente. Grosse nubi nere rotolavano mimetiche nel buio della notte. Radi lampi squassavano il cielo illuminando la città sottostante. Nel palazzo di Erode nessuno dormiva. Il sangue di migliaia di bambini innocenti teneva svegli uomini e animali. Pochi fuochi sparsi qua e la, tentavano invano di dar calore alla reggia, mentre i cani del re vagavano inquieti per le enormi stanze gelide, fiutando il temporale imminente. Nelle scuderie i cavalli irrequieti nitrivano e battevano gli zoccoli, raspando fra lo strame, senza alcun motivo apparente e gli stallieri non riuscivano a calmarli. Erode non aveva detto una parola, dalla notizia portata dai messi, che l’ultimo primogenito nato da madre era stato ucciso. Stava seduto sul trono, in silenzio, ad occhi chiusi. Aveva paura, l’orrore di quanto compiuto dai suoi spietati mercenari quel giorno, lo aveva raggiunto d’improvviso. Temeva il sonno e con tutte le forze cercava di mantenere la veglia. Non voleva dormire, ma dormì, e – purtroppo per lui – sognò. L’incubo venne a visitarlo quella notte.

Lo immerse dapprima in una nebbia cupa e fitta, lo fece gemere e singhiozzare a lungo. Tornò bambino, solo e disperato. Attorno a lui nessuno, soltanto nebbia gelida, che entrava nelle ossa. Erode bambino camminava nudo, piangendo e chiamando a gran voce la sua nutrice, quando vide davanti a sé un uomo enorme, una lama corta e lucente in pugno. Si gettò a terra, la testa fra le piccole mani. Non accadde nulla e allora, facendosi coraggio, riaprì gli occhi e vide sua madre, lontana da lui, sempre più lontana. Sorrideva. Ma non a lui. Provò una grande rabbia e all’improvviso vide sbucare dalla nebbia un bambino che si reggeva appena sulle gambe, poi un altro, e un altro ancora. Una miriade di bambini e bambine circondava ora sua madre, che senza alcun sforzo apparente li abbracciava e baciava tutti, come brezza lieve che accarezza le cime degli alberi. Si senti perduto, e iniziò a piangere, correndo verso la madre, ma l’immagine svanì e si ritrovò nuovamente solo. La nebbia  lentamente saliva e, in un tempo che dovette sembrargli eterno, rivelò un paesaggio di rovine che a stento riconobbe. Era il suo palazzo, o meglio ciò che ne restava. Si ritrovò vecchio, molto più vecchio di quanto non fosse. Iniziò a frugare febbrilmente fra le pietre, i resti delle travi, dei muri. Ma ogni volta che trovava qualcosa: una moneta, una pietra preziosa, un monile, questa si sbriciolava fra le sue mani, lasciando soltanto un po’ di polvere. Cadde in ginocchio e pianse amaramente, lo sconforto era tale che non vedeva un minuto oltre. Sentiva di essere perduto. Se solo avesse visto quel bambino fra gli altri, forse lo avrebbe riconosciuto, e allora l’avrebbe implorato di togliere l’odio dal suo cuore. Ora sapeva. Sapeva che la strage era stata vana, che quel bambino viveva, sarebbe vissuto lontano da Betlemme, e capì. Capì quanto era stato crudele e accecato dall’odio, dalla brama di potere: quel bambino avrebbe rovesciato un giorno tutti i troni, non soltanto il suo. Avrebbe letto il libro dell’Apocalisse e giudicato i vivi e i morti. Vide il bambino diventare grande, raccogliere discepoli e apostoli, predicare in Samaria, in Galilea, compiere miracoli e suscitare l’odio di Farisei e Sacerdoti. Lo vide morire di Croce, fra atroci tormenti, ed ebbe pietà, un’immensa e smisurata pietà. E in quel momento comprese, capì che in quel bambino Dio si era fatto uomo, e allora si gettò a terra, rotolandosi nella polvere, urlando e gemendo per l’abominio che aveva compiuto e credette, d’improvviso credette.

Erode visse ancora pochi anni, ma dopo quel sogno non fu più lo stesso. Si ritirò nel deserto e c’è chi giura di averlo visto poi fra i seguaci del Battista, l’unico che se ne stava in disparte, l’unico che non volle mai ricevere il battesimo, sostenendo di non esserne degno.

Per leggere gli altri articoli e i racconti di Stefano Agnelli  su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Siria: le donne e le libere città curde in pericolo

Siria: le donne e le libere città curde in pericolo

Al di là di come i mass media stanno presentando il ‘nuovo barbuto ” siriano, come liberatore, in realtà l’asse Isis-Erdogan è il vero artefice di una situazione drammatica, dove si punta ad abbattere le minoranze e comunque gli ambiti realmente democratici. Prima di tutti, nel mirino ci sono i curdi e le loro città libere. Pubblichiamo un loro appello.
(La redazione di Periscopio)

 

Care e cari,

Come sapete negli ultimi 15 giorni, con la caduta del regime di Bashar al-Assad, l’Esercito Nazionale Siriano (SNA) ha attaccato le nostre città di Shebah, Tal Rifat, Sherawa e Manbij.
200.000 persone sono state sfollate e costrette a trovare riparo a est dell’Eufrate, in pieno inverno. A queste persone è stato dato riparo in ogni luogo possibile, scuole, edifici pubblici e case, ma le difficoltà sono molte e la situazione umanitaria è disastrosa.

Nel frattempo le Forze Democratiche Siriane stanno cercando di difendere la terra del Nord-Est da una imminente invasione, specialmente su Kobane, nel 10° anniversario della sua liberazione.

Per questo vi chiediamo, in questo momento così delicato per la rivoluzione delle donne del Rojava, di prendere iniziative istituzionali e non nelle vostre città, e regioni, anche simboliche. 

Per difendere l’Amministrazione Autonoma Democratica della Siria del Nord-Est e il suo popolo c’è bisogno di voi, e di tutto ciò che potrete fare nei vostri quartieri e nelle vostre città affinché non rimangano soli.

Inoltre, se volete contribuire economicamente, a seguire  trovate i conti correnti della nostra associazione e della Mezzaluna Rossa Kurdistan Italia.

UIKI – Rete Kurdistan

Ufficio di Informazione del Kurdistan In Italia Onlus

Codice Fiscale: 97165690583

IBAN: IT89 F 02008 05209 000102651599

BIC/ SWIFT: UNCRITM1710

 

Mezzaluna Rossa Kurdistan Italia ETS

C.F.: 92123770494

IBAN: IT53 R050 1802 8000 0001 6990 236

www.mezzalunarossakurdistan.org

e-mail: mezzalunarossacurda@gmail.com

Filastrocca di Babbo Natale

Filastrocca di Babbo Natale

Se tuttavia Babbo Natale
Non fosse tale e quale
E venisse all’improvviso
Mostrando un altro viso,
Gli faresti ancor le feste
O butteresti via le ceste?
Se lui fosse un nigeriano
Stringeresti la sua mano?
E se fosse un algerino
Gli vorresti star vicino?
Se lui fosse un albanese
Lo terresti al tuo paese?
E se fosse un moldavo
Con lui faresti il bravo?
Se lui fosse un rumeno
Ci viaggeresti in treno?

E se fosse un vietnamita
Conosceresti la sua vita?
Se lui fosse un honduregno
Di star qui sarebbe degno?
Non so ben le tue risposte
Le mie non son nascoste.
Uniche sono le persone
senza alcuna eccezione.
Diversità è una ricchezza
Ci salverà la sua bellezza.
Immagina se gli umani
Si prendessero le mani,
Si ascoltassero col cuore,
Non badassero al colore.
Immagina se sulla terra
Non facessimo la guerra.

Immagina, se ti piace,
di iniziare a far la pace.
Puoi partir, sarebbe bello,
accogliendo tuo fratello:
Se lui viene da lontano
Ha bisogno di una mano,
Se si sente come straccio
C’è bisogno dell’abbraccio.
Se lo credi una persona
Anche lui una cosa dona:
la speranza che un domani
saremo tutti un po’ più umani!

 

Per leggere tutti gli articoli, i racconti e le filastrocche di Mauro Presini clicca sul nome dell’autore.

Parole e figure /
Viva la danza! – Strenne natalizie

Didier Lévy e Magali Le Huche ci conducono nel mondo della danza. Un nuovo Billy Elliot che vola sui tetti di Parigi con la spensieratezza di Mary Poppins!

Natale, tempo di sogni, tempo di leggerezza, tempo di danza, quella che riscopro entrando nei locali della biglietteria del Teatro Comunale di Ferrara. tempo di ultimi regali. Dagli scaffali spunta il libriccino “Viva la danza!”, di Didier Lévy e Magali Le Huche, Edizioni Clichy. Lo prendo, è mio!

Mi piacciono subito i disegni, adorabile l’atmosfera. Si sentono le note del lucente ed elegante pianoforte a coda, i bisbiglii delle ballerine e i delicati ed eterei passi di danza.

I genitori di Ettore, ragazzino super vivace, decidono di iscriverlo a un corso di danza classica, magari si tranquillizza e si calma un pochino… ma… Colpo di fulmine, Coup de foudre! Da quel momento Ettore fa tutto ballando: va a scuola ballando, riordina la camera ballando, si lava i denti ballando, porta a spasso il suo cane Pistacchio danzando…

Nessuno se lo aspettava: Ettore diventa ancora più fastidioso, la gente chiacchiera, si stancherà? Pare davvero di no… Mentre Madame Ivanova suona.

Ora però basta! Quando è troppo, è troppo…. Il papà decide di intervenire, ma il nostro piccolo appassionato danzatore si rifiuta di smettere!

Prende una bella rincorsa e in uno slancio incredibile si alza 4 metri da terra e continua a ballare lassù, fra i lampadari di cristallo. Impossibile farlo scendere! Ma attenzione, la leggerezza è contagiosa e anche la mamma finisce a volteggiare in aria! Per recuperare la sua famiglia, al papà non resta altra scelta che una bella piroetta: e 1 e 2 e 3…

Un album che salta sugli stereotipi e sulla volontà! L’umorismo tenero e devastante di Magali Le Huche funziona al meglio. Su un argomento forte, la danza, fatta per lei!

“Danzano tutti per aria. Danzano sulle strade, sui passanti stupefatti, sulle piazze. Danzano su tutta la città. … e di quello che pensa la gente, ebbene, se ne fregano COM-PLE-TA-MEN-TE!!!”

Didier Lévy, Magali Le Huche, Viva la danza!,  Edizioni Clichy, collana Carrousel – Albi illustrati per bambini, 2024, 36 p.

Didier Lévy, nato a Parigi nel 1964, è uno tra i maggiori autori francesi per l’infanzia, conteso dalle più prestigiose case editrici d’oltralpe. Autore talentuoso e sensibile, capace di affrontare con linguaggio semplice i grandi temi della vita e le tappe fondamentali della crescita.

Magali Le Huche è nata nel 1979 a Parigi, da piccola si inventava delle storie che la facevano stare sveglia tutta la notte, allora ha iniziato a disegnare per ritrovare il sonno. Da grande, la voglia di inventare storie e di disegnare non l’ha abbandonata, così è partita alla volta di Strasburgo per frequentare l’Accademia di Arti decorative. È una delle illustratrici di riferimento di Clichy.

 

Natale SENZA (2)
Lettere dal carcere

Natale SENZA (2)
Lettere dal carcere

Natale è una festa da passare CON, con i figli, con i genitori, con fratelli e sorelle. Per le persone detenute invece il Natale è SENZA, senza i figli, senza i genitori, senza fratelli e sorelle. Quei figli, quei genitori, quei fratelli e quelle sorelle preparano ogni Natale un posto a tavola, destinato a rimanere vuoto.
 
Pubblichiamo la seconda parte delle lettere dei Carcerati. I testi che seguono sono pezzi di vita poco natalizi, storie di Natale tristi: noi li dedichiamo prima di tutto a chi potrebbe fare qualcosa per cambiare le condizioni di vita delle persone detenute, e in particolare i loro rapporti con la famiglia. Siamo sicuri che con il nuovo anno tante persone si uniranno a noi per chiedere più umanità nei rapporti delle persone detenute con i loro cari.
Molti già l’hanno fatto, e vogliamo ringraziarli di cuore, e ringraziare tutte le persone detenute che hanno deciso di affiancarsi a noi, raccogliendo firme, scrivendo le loro testimonianze, coinvolgendo le loro famiglie. Il modo migliore per sentirsi tutti un po’ meno soli.

La redazione di Ristretti Orizzonti – Casa di reclusione di Padova

 

Cerco di abbracciare con la voce mia moglie e mio figlio
Paradossalmente, mi chiamo proprio Natale, sono detenuto da circa 25 anni, e se dovessi rispondere con una formula alla domanda sul Natale “dentro” direi “Malinconia per 2 elevata alla quinta”, unito al forte desiderio di far passare quei giorni in un battito di ciglia! Ma non si può modificare il tempo, a noi umani non è consentito poterlo fare, quindi, ogni anno si deve affrontare questo mare di malinconia che ti pervade senza pietà, fino ad annichilire quella forza interiore e quel “facciamo finta che questa sia vita…” che ci accompagna assiduamente nelle normali giornate dell’anno.
In questo periodo, ci si alza comunque, cerco di fronteggiare quel giorno, quei giorni, iniziando a pensare alla telefonata da fare a casa per abbracciare con la voce mia moglie, mio figlio, qualcuna delle mie sorelle che si trovi lì per l’ occasione, Poi si cucina qualcosa di particolare, si porta qualche fetta di panettone a qualche compagno con il quale ci si frequenta più che con altri, si prende un caffè insieme, ci facciamo i conti del dolore unito e silenzioso che si prova per la lontananza dalla famiglia cercando di carpire chi soffre più tra noi, ma ci accorgiamo che nessuno “vince”, c’è una livella in tal senso che ci accomuna tutti, e tutti ci auguriamo che il prossimo Natale possa essere trascorso tra l’abbraccio dei nostri cari. Troviamo altresì il tempo di pensare a chi sta peggio di noi per un motivo o per un altro e immancabilmente ci si affida a questo Gesù bambino che non si stanca mai di ricordare all’ umanità intera che è lui la speranza per gli uomini, a prescindere delle condizioni in cui ci si trova.Mai perdere la speranza.
Natale Bonafede

Natale senza i miei cari è tanta tristezza
Mi chiamo Iulian e sto soffrendo tantissimo a passare anche questo Natale qui in carcere. Per me il Natale in questo posto è soprattutto il dolore di stare senza la famiglia, mi mancano tutti i miei cari tanto, troppo. Soprattutto mia madre, mio padre e mia sorella.
Il ricordo più bello è la grande tavolata dove tutti mangiamo insieme, e qui non è possibile. Ricordo le tradizioni del mio paese, la Romania, i bambini vengono a recitare poesie e canzoni e in cambio gli adulti danno piccoli regali, o dolci, oppure qualche soldino. Tutto questo calore nel freddo della mia cella non lo posso trovare. Natale senza i miei cari è tanta tristezza.
Iulian M.

Un Natale amaro per tutta la famiglia
Per questioni di lavoro due, tre volte all’anno venivo alla Casa di reclusione di Padova per ritirare il buono o ordine di servizio, dopo aver vinto la gara per la manutenzione antincendio e forniture varie. Quello che mi colpiva di più era quante auto erano presenti nei parcheggi antistanti l’ingresso.
Sembrava l’ingresso di una grande azienda più che di un carcere.
E pensavo cosa ci faceva tutta quella gente dentro un luogo molto distante dalle mie aspettative di lavoro, mai e poi mai avrei immaginato un giorno di far parte di questo contesto.
Comunque il mio Natale era sempre molto sentito nella mia famiglia. Si cominciava con l’addobbare in giardino i vari alberelli, poi si appendevano le ciocche sulla porta, e si cominciava a mettere le luci attorno ai balconi, e si passava a fare l’albero con tutte le palline e le luci. Ricordo che ogni giorno arrivava qualche dono da amici e parenti, poi da mia moglie per me per mio figlio e per la nuora, ma più di tutti erano i regali per mia nipote Matilde.
La notte di Natale si andava a messa, si passava a bere una cioccolata per poi tornare a casa ad aprire i regali, e lì cominciava una grandissima festa che finiva dopo il pranzo di Natale. Oggi mi trovo in carcere e il mio cuore è molto triste, immagino di già che il giorno più bello per me lo passerò in cella con il mio compagno, anche se è di un’altra religione spero di fare comunque una bella festa, pensando ai miei cari che come me passeranno un Natale amaro, ma la vita va avanti e spero di tornare quanto prima dalla mia famiglia.
A me piacerebbe in sezione andare a messa il giorno di Natale, poi dopo averlo organizzato fra compagni di sventura, fare un pranzo tutti assieme in saletta.
Ma so già che questo non sarà possibile perché siamo in tanti, e tutti non la pensano come me, comunque io ci provo!!!
Questo sarà un Natale molto amaro per me e i miei cari, ma soprattutto per mia nipote, ma sono consapevole che dal male può nascere il bene, ed avrò altre occasioni di passare le feste con i miei cari. Ringrazio la redazione di Ristretti Orizzonti per avermi introdotto in questo gruppo dove si parla di tutto il buono che si può trarre in questo luogo e si impara a confrontaci per tirane fuori il meglio da ognuno di noi. Grazie a tutti e buon Natale.
Gianni M.

Speravo in un Natale diverso per i miei cari, per me e per molti miei compagni
Mi presento, mi chiamo Fatmir e sono un ragazzo albanese di 31 anni e sono nella redazione di Ristretti da qualche mese, ma in carcere ormai da otto anni.
Ho una moglie e un figlio di 11 anni che non vedo fisicamente da quasi un anno a causa della distanza, perché loro vivono a Bolzano, a circa 300 km da Padova.
Quando c’è stata la sentenza della Corte Costituzionale inerente agli incontri intimi in carcere nel mio cuore ho gioito, perché finalmente pensavo di poter riabbracciare in maniera quasi normale le persone che amo. Invece, dopo dieci mesi non è successo nulla, passerò anche questo Natale nella più completa solitudine. Ma la stessa cosa sarà per mia moglie e soprattutto per mio figlio.
Questo sistema infernale, che non vuole cambiare veramente, uccide a poco a poco i sentimenti e ti fa crescere tanta rabbia dentro. Perché noi reclusi dobbiamo pagare due volte la carcerazione? Io spero che chi deve far partire questa iniziativa degli incontri intimi possa esser spinto dalla “magia” del Natale e capire che per noi, ma soprattutto per i nostri cari, è molto dura la lontananza, e non devono pagare anche loro.
Pensavo e speravo in un Natale diverso per loro, per me e per molti miei compagni di sezione ed invece ancora una volta prevale l’indifferenza. Io capisco che ci sia indifferenza per chi ha fatto un reato, ma i sentimenti delle famiglie non meritano di essere dimenticati.
Fatmir M

Natale senza tutto ma non senza la speranza…
Natale con… la gioia, la famiglia, l’allegria, i regali, chi ami. E invece no, sono qui a scrivere di un ennesimo (il terzo) Natale senza…
Chi legge si chiederà “senza chi o senza cosa”. In realtà, se è un detenuto come me a scriverlo, è un Natale senza tutto ciò che ho nominato.
Senza la GIOIA: per me la gioia era vedere il sorriso, gli occhi che si illuminano, la contentezza delle persone con le quali fuori condividevo questo giorno, magari scambiandoci i regali; la gioia dell’attesa che arrivi il Natale. Attesa che qui in carcere è infinita per ogni cosa: per un permesso, per incontrare un parente, per parlare con il magistrato e soprattutto per il giorno dell’uscita.
Senza la FAMIGLIA: il Natale rappresenta la famiglia, e qui dentro è ciò che manca di più. Che Natale può essere senza aver vicino chi ami? I figli che vorrebbero tanto averti accanto, ed invece, con enormi sensi di colpa, non puoi accontentare per cui diventa una sofferenza per loro e per te.
Senza ALLEGRIA: una tavola imbandita, un albero pieno di regali, il presepe ricco di luci… tutte cose che danno allegria e pace nel cuore. La pace di un cuore che qui dentro è costantemente ferito e non riesce a trovare allegria. Puoi solo immaginare quella che possono avere i tuoi cari e che tu qui puoi solo sfiorare.
Però un Natale non sarà mai senza… la SPERANZA. Speranza ovvia di uscire, speranza di una nuova vita, e di tanta tanta serenità da donare a tutti quelli che ami e che con te stanno attraversando questa tempesta. Le tempeste di neve natalizie portano qualcosa di Magico… Io spero che questa magia entri nel cuore di chi sta vivendo qui tra queste fredde mura e possa portare a ognuno di noi qualcosa di Speciale.
Mattia G.

Mi manca mio figlio, e non voglio arrivare tardi quando avrà bisogno di me
Il “Natale senza” è una cosa che mi fa pensare sempre a mio padre, che ora purtroppo non è più con me a darmi consigli e aiutarmi nella vita di tutti i giorni.
Sono arrivato in Italia quando avevo circa 18 anni sperando in un lavoro, e con la motivazione di aiutare la mia famiglia in Albania, prendendo il posto di mio papà che purtroppo si era ammalato.
Avevo trovato un lavoro e iniziavo a guadagnare dei soldi, cosa che mi avrebbe consentito di prendere quel posto fondamentale di capofamiglia, e questo grazie ad alcuni miei parenti che vivono in Italia.
Mio padre è morto e non sono stato capace di fare quello che mi ero ripromesso, ora sono una persona matura, seria e soprattutto sono padre. Vorrei, appena finita la detenzione, prendermi cura di ogni percorso di vita di mio figlio, aiutandolo, e soprattutto essere presente come mio padre fece con me.
Il “Natale senza” per me è quella mancanza della mia famiglia, con la quale non vivo più ormai da oltre dieci anni, ma soprattutto quella voglia di essere come mio padre.
Mi manca mio figlio, e spero solo di non arrivare tardi quando avrà bisogno di me.
Besim X.

Per mia sfortuna non sono nato né cresciuto in una famiglia gioiosa
Fin da bambino ho sempre amato il Natale! Però non ho mai avuto modo di avere un natale “famigliare”, così come vedevo o come immaginavo che una famiglia normale potrebbe avere.
Per mia sfortuna non sono nato né cresciuto in una famiglia gioiosa, dall’età di 4 anni sono cresciuto senza la mia mamma, con un papà presente, ma molto assente nello stesso tempo.
Ricordo che nella mia infanzia Babbo Natale è passato una sola volta, non per il fatto che io non fossi un bambino bravo, ma soltanto per il fatto che ero dato sempre per scontato, come se essere bravo fosse la cosa più facile.
Nella mia vita ho odiato e amato tante cose, cosi come tantissime cose le ho date per scontate. Ma il Natale mi piaceva! Mi trasmetteva quella meraviglia, quell’amore che a me mancava, una gioia che nelle altre feste non riuscivo a cogliere.
Proprio per questo motivo quando avevo chiesto alla mia ex ragazza di sposarmi lo avevo fatto alla vigilia di Natale! pensando che se il Natale mi rendeva felice, sicuramente rendeva felici anche gli altri!
Nel 2016, una volta entrato in carcere, questa gioia del Natale spariva, non riuscivo più a cogliere quella meraviglia e quell’amore che il Natale mi offriva, fino al 2023, quando ho incontrato una persona speciale! Un’amica, un’amica come una sorella! che mi insegna a sognare ed a sorridere!
Arrivati sotto Natale, lei insieme a suo marito mi hanno fatto un regalo, un gesto d’affetto che ha acceso in me quella luce, quel desiderio, l’armonia e la gioia del Natale!
Ormai sono adulto, ma a Natale mi sento ancora un bambino bisognoso di essere amato e coccolato!
Credo che il senso del Natale sia di esprimere il fanciullino che c’è in ognuno di noi e la gioia di sentirsi a casa e sentirsi amati! Per il semplice fatto che l’amore dura finché si continua ad amare.
Filip A.

L’impossibilità di dimostrare alla mia famiglia che posso prendermi cura di loro
Dopo tanti anni di sofferenza, incertezze e problemi, in quest’ultimo anno sono riuscito a fare qualcosa che mi porta ad essere veramente consapevole di me e delle mie azioni. Probabilmente negli anni precedenti, se qualcuno mi avesse formulato la domanda “Cos’è per te il Natale?”, avrei elencato mille cose futili e materiali che avrebbero solo potuto brillare per compiacere qualcosa di estremamente superficiale, le stesse cose che mi hanno portato in tutti questi anni ad entrare e uscire dal carcere. Oggi, dopo un percorso che dura ormai da troppi anni, tra alti e bassi sto cercando di avere quella profonda consapevolezza degli errori commessi e, guardandomi attentamente davanti allo specchio della vita, capire esattamente chi sono e ciò che voglio.
Il carcere sa essere uno strumento duro e severo, che ti allontana da ogni affetto e amore, ha nei suoi molti spazi bui grande sofferenza, in tante sere e notti cupe sa essere uno dei giudici più crudeli che abbia mai incontrato e darmi una sentenza di “fallimento” senza poter essere difeso o sperare in un altro grado di giudizio.
Penso alla mia famiglia, che purtroppo non vedo spesso, che prepara le luci, gli addobbi e tante cose da mangiare, proprio come quando, dopo una giornata dura di lavoro, si rientrava a casa e mia madre, dopo essere anche lei tornata dalla sua giornata faticosa, si prendeva cura di noi e con amore guardava mio papà come se volesse rassicurarlo e ringraziarlo di aver provveduto a noi.
Proprio questo senso di amore e sacrificio è diventato per me una spada che mi trafigge l’anima, la stessa che mi ha dato la forza e fatto sentire il dovere di migliorarmi e abbandonare la vita che avevo condotto fino a quel momento.
Oggi posso dire che per me il “Natale senza” è quella mancanza di mia mamma, di mio papà e di tutti i miei famigliari, ma soprattutto l’impossibilità di dimostrare che sono quella persona che può prendersi cura di loro, una persona seria, affidabile, su cui poter contare, che è in grado di essere quel valore aggiunto che, riportato dentro alla società, non è un pericolo ma una persona nuova.
Il “Natale senza” però è anche la mancanza in carcere di un percorso equo, di una giusta valutazione che metta in evidenza le possibilità e la dignità di un uomo, che valorizzi ciò che è riuscito ad imparare in un mondo pieno di pregiudizi. Ma quello che più di tutto vorrei è il regalo di riuscire a essere il punto di riferimento delle persone più importanti della mia vita, la mia famiglia.
Armando M.

In copertina: murales di Banksy sul carcere inglese di Reading

Le storie di Costanza /
Le stelle di Natale della zia Costanza

Le storie di Costanza. Le stelle di Natale della zia Costanza

La zia Costanza sta spostando verso la portafinestra le stelle di Natale che si sono riempite di foglie rosse. Sono le stesse piante dello scorso anno e degli anni precedenti. Spostandole di qua e di là nel cortile e rincasandole quando fa freddo, riesce a tenerle a una temperatura costante di almeno quindici gradi, rendendole più belle di anno in anno.

La zia col giardinaggio è molto brava, legge sempre manuali di botanica e sa tutte le novità in fatto di floricultura. Ormai è dicembre e buona parte delle sue piante sono state trasportare in case e posizionate nei punti in cui c’è maggior luce. Ce ne sono nel grande soggiorno, sulla scala che sale al secondo piano, sul pianerottolo, in cucina e anche sul davanzale interno della finestra del bagno.

Solo le più robuste e resistenti al freddo sono ancora all’aperto, sotto il portico della vecchia casa di Via Santoni Rosa 21. Sono rimaste fuori tre grandi agavi e tre palme, un piccolo nespolo e quattro ortensie. Se la zia vede che una pianta perde brillantezza la sposta e continua a rifare la stessa operazione fino a quando trova un angolo dove la pianta recupera vitalità. Uno dei suoi fiori più belli è un’azalea con i petali rossi.

È un regalo dei gemelli Cominelli, amici di vecchia data dello zio Pietro, si conoscono da sempre. I Cominelli sono due “tappetti” con gli occhiali e delle folte chiome di capelli biondi, amanti dello sport e della buona cucina. Hanno una casa di proprietà sul lago di Parda, dove lo zio Pietro andava in vacanza d’estate quando era un giovane studente universitario.

Nel 2021 hanno regalato alla zia Costanza un’azalea e lei è riuscita a trovarle subito la posizione perfetta. L’ha messa vicino alla porta esterna del soggiorno, su un treppiedi di ferro arrugginito che ha sicuramente visto tempi migliori. Sopra il treppiedi ha posizionato un sottovaso marrone, e su questo la pianta.

Quando fa freddo il vaso viene interamente avvolto con del panno verde che era in origine il tappeto di un tavolo da biliardo del Bar Ghepardi. Qualche anno fa, Iris e Bella, le nostre cugine di Cremantello che gestiscono il bar, hanno deciso di cambiare il tavolo da gioco e ci hanno regalato il panno che lo ricopriva.

Il riciclo è una delle buone abitudini dei santoniani (gli abitanti di via Santoni), così il tessuto è stato sezionato in lunghe strisce pronte per l’uso. Avvolti dal panno verde, i fiori affrontano l’inverno ad una temperatura che permette loro di non congelare.

La morte delle piante è una delle preoccupazioni di Costanza, più della nebbia impenetrabile e delle esondazioni del Lungone, i due eventi climatici che animano i brutti sogni degli abitanti di questa zona. Anche la scelta dei vasi da lasciare all’esterno e da avvolgere nel panno non è banale, oltretutto il tessuto in questione non si deve bagnare per assolvere al meglio la sua funzione di protezione. Chi dà da bere alle piante deve perciò stare attento a questo particolare habitat e bagnare solo la terra, evitando accuratamente il vaso e il panno.

Con tutte queste attenzioni e con un po’ di fortuna data dalla resistenza congenita della pianta, l’azalea regalata dai Cominelli prospera magnifica e si riempie due volte all’anno di splendidi fiori. Sono così tanti che le foglioline verdi spariscono e si vede solo una macchia colorata omogenea e brillante. Sembra un quadro impressionista reso tridimensionale dall’intelligenza artificiale, invece è solo la bravura della giardiniera di casa.

Lo scorso anno Mario Cominelli ha commentato “Questo fiore è bellissimo!” e Costanza gli ha risposto “Me l’hai regalato tu tre anni fa!” Mario non si ricordava del regalo, oppure non l’aveva riconosciuto tanto aveva prosperato. È rimasto incantato a guardare la pianta.

L’ha fotografata e postata sui social con la scritta “La bellezza ci salverà”, poi l’ha trasformata in sfondo del suo cellulare. Io ho messo subito un like col cuore e, nel giro di mezz’ora, ne sono arrivati altri cento. Così, in pochissimo tempo, un capolavoro della zia è diventato virale.

La velocità di questa diffusione stride paurosamente con la lentezza con cui la pianta cresce e con il tempo che ci vuole per curarla, nutrirla, salvarla dai parassiti e ripararla dal freddo. Un lungo tempo per la cura, un brevissimo tempo per la diffusione della sua immagine. È come se un semplice like volesse pareggiare la fatica della zia, bruciare il tempo e portarsela via, chissà dove.

Un tempo bruciato è senza cuore. Il tempo buono è quello lento, che si espande, che rallenta i secondi, che ci permette di vedere in ogni attimo che passa una briciola di bellezza e un presagio d’eternità. A ogni evento va data la sua giusta importanza. Un like dura pochissimo, un secondo può espandersi fino a diventare eterno. Però a volte i social sono utili, tutti hanno visto la bellezza dell’azalea e io di questo sono contenta. Sono orgogliosa della bravura della mia amatissima zietta. Il mondo sarebbe più brutto senza di lei.

L’azalea è un’acidofila, quindi serve un terreno particolarmente acido e drenato. Esistono fertilizzanti specifici per queste piante, ma la zia non li usa, le innaffia con l’acqua del nostro acquedotto che lascia depositare nei secchi almeno due giorni, poi continua a spostarle cercando la combinazione di luce e aria che ritiene più idonea.

Una specie di Feng Shui casalingo, nostrano e floreale. Il Feng Shui è un’antica arte geomantica taoista della Cina, ausiliaria dell’architettura, affine alla geomanzia occidentale. A differenza di questa prende però in considerazione anche aspetti della psiche e dell’astrologia. Secondo i suoi sostenitori, esistono direzioni più propizie per le varie attività nella casa, nella vita, e nei viaggi.

Anche le forme e i colori di mobili, degli oggetti e delle piante devono avere assonanza con i cinque elementi chiave del Feng Shui: legno, metallo, fuoco, acqua e terra.  Una casa ben costruita dovrebbe essere quadrata o rettangolare senza angoli o parti mancanti e con forma regolare, dovrebbe avere un drago verde ad Est (delle piante alte che proteggano questo lato), una tigre bianca ad Ovest (possono esservi anche da questa parte delle piante, ma più basse), una tartaruga nera a Nord (una collina o un grosso masso) e la fenice rossa a Sud (può essere anche sotto forma simbolica, ad esempio un sasso con un filo rosso avvolto intorno).

Quando la zia si è messa a spiegare a Mario Cominelli la teoria del Feng Shui e la sua particolare e unica applicazione al mondo santoniano, lui ha commentato con tono laconico: “Tutto è vero fino a prova contraria. Qui di prove che questa specie di teoria abbia un senso non ce ne sono. Forse è la tua interpretazione molto libera che è efficace, ha davvero poco di ortodosso. Comunque, le piante sono belle e il giardino magnifico”.

Il gemello di Mario Cominelli si chiama Luigi. Non gli importa molto delle piante della zia e nemmeno di quelle che crescono nel giardino della sua casa vicino al lago. “Ciò che sopravvive, sopravvive e ciò che non sopravvive, non sopravvive”. Questa è la filosofia che sottende il suo approccio al mondo vegetale, lasciando poco scampo alle piante che per questione di siccità, parassiti, malattia, eccesso di acqua e incidenti di varia natura, soccombono.

È vero che la natura si rigenera in modi e forme sorprendenti ed è altrettanto vero che le modalità rigenerative selvagge sono affascinanti. Però un giardino con delle belle piante curate appaga la vista, trasmette tranquillità. A Luigi piacciono di più i grandi alberi, come gli ulivi. Nel suo giardino ce ne sono cinque. Da quelli raccoglie le olive e le porta al frantoio che in cambio gli fornisce l’olio in quantità proporzionale ai chili di frutti consegnati. Lo zio Pietro va quasi tutti gli anni ad aiutarli nella raccolta. La zia non ci va, la sua cervicale ne risentirebbe in maniera preoccupante.

I gemelli Cominelli non abitano più a Pontalba da molto tempo ma, quando si avvicina il Natale, vengono sempre a trovarci. Uno si è sposato e abita vicino a Vergania, l’altro abita direttamente in città. Stanno relativamente vicini, così se uno ha bisogno l’altro lo può aiutare, come ci si può aspettare da due gemelli.

La nonna Anna è stata la loro maestra e li rivede ogni anno con simpatia e orgoglio. Li abbraccia e dice sempre “i miei bambini …”. Io guardo sempre con piacere questo quadretto casalingo, penso che sia uno dei simboli del nostro Natale.

Questo ritrovarsi un po’ prevedibile ma comunque festoso, piace a tutti. Perché il Natale è così, è fatto di tradizioni che si ripetono sempre un po’ uguali, di incontri prevedibili, sereni e forieri di speranza nel buon cuore dell’umanità. Li trovo incontri belli, quella bellezza che partendo dagli occhi arriva al cuore, si mescola ai buoni propositi e li nutre.

La mescolanza tra buoni sentimenti e belle visioni crea la bellezza più vera, quella che mette insieme occhi e anima. Auguro a tutti un Natale fatto di incontri con persone amiche, di un tempo lento che ci permette di capire chi ci vuol bene, guardando i comportamenti e ascoltando le parole.

Non esiste un amore senza la sua manifestazione, non esiste un sentire senza un fare, senza un approccio al mondo che comprende sensibilità e gestualità. È per questo che la bellezza ci salverà ed è per questo che l’augurio di questo Natale comprende il “bello” che diventa festa.

Pensando a tutto questo rivedo con la mente la mia super-zietta in mezzo alle sue Stelle di Natale. Quell’immagine di una persona che si fonde con il suo mondo, con i suoi fiori e con le sue innumerevoli piante, mi sembra un bellissimo quadro Natalizio. Una fusione con la natura, con la terra, col vento e, alzando gli occhi verso il cielo, con l’idea di un bambino Santo che nascerà. Un’immagine che diffonde serenità in chi la sa vedere e crede che il Natale porti appresso la felicità.

Costanza e il suo mondo sono solo apparentemente diversi e distanti dal mondo che usiamo definire “reale”, e quasi sovrapponibili ad ogni mondo interiore.

Chi fosse interessata/o a visitare gli articoli-racconti di Costanza Del Re, può farlo cliccando [Qui]

Natale SENZA (1)
Lettere dal carcere

Natale SENZA (1)
Lettere dal carcere

Natale è una festa da passare CON, con i figli, con i genitori, con fratelli e sorelle. Per le persone detenute invece il Natale è SENZA, senza i figli, senza i genitori, senza fratelli e sorelle. Quei figli, quei genitori, quei fratelli e quelle sorelle preparano ogni Natale un posto a tavola, destinato a rimanere vuoto.
 
I testi che seguono sono pezzi di vita poco natalizi, storie di Natale tristi: noi li dedichiamo prima di tutto a chi potrebbe fare qualcosa per cambiare le condizioni di vita delle persone detenute, e in particolare i loro rapporti con la famiglia. 
Li dedichiamo al nostro Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, perché nel suo discorso di fine anno si ricordi delle famiglie più maltrattate, quelle delle persone detenute, che pagano colpe non loro.
Li dedichiamo al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e ai sottosegretari che si occupano delle carceri.
Li dedichiamo al Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Russo, alla Vice Capo Lina Di Domenico e al nuovo Direttore della Direzione Generale Detenuti e Trattamento, Ernesto Napolillo, al Capo del Dipartimento della Giustizia Minorile e Di Comunità, Antonio Sangermano.
Li dedichiamo a tutti i parlamentari: a quelli che si sono detti disponibili a fare una nuova legge per liberalizzare le telefonate e permettere colloqui riservati senza controllo visivo per le persone detenute e le loro famiglie, ma anche a quelli che non si sono interessati di questo problema, ma possono farlo, e siamo sicuri che lo faranno perché le famiglie delle persone detenute sono INNOCENTI, e meritano un altro trattamento. E perché la Corte Costituzionale ci ha detto che le persone detenute hanno DIRITTO ai colloqui intimi, e noi speriamo che le nostre Istituzioni diano l’esempio di come si devono rispettare le leggi e la Costituzione, SEMPRE.
Li dedichiamo a operatori, magistrati, volontari, e a tutti coloro che possono fare qualcosa per rendere la vita in carcere meno disperata. Perché è assurdo discutere di un suicidio in più o uno in meno, si deve solo fare tutto il possibile per prevenire questi disastri.
E per finire, li dedichiamo a Papa Francesco, perché siamo sicuri che, se ha avuto il coraggio di dire che l’ergastolo è “una pena di morte nascosta”, avrà senz’altro anche il coraggio di difendere le famiglie delle persone detenute, e in particolare le famiglie degli ergastolani. 

Siamo sicuri che con il nuovo anno tante persone si uniranno a noi per chiedere più umanità nei rapporti delle persone detenute con i loro cari.
Molti già l’hanno fatto, e vogliamo ringraziarli di cuore, e ringraziare tutte le persone detenute che hanno deciso di affiancarsi a noi, raccogliendo firme, scrivendo le loro testimonianze, coinvolgendo le loro famiglie. Il modo migliore per sentirsi tutti un po’ meno soli.
La redazione di Ristretti Orizzonti – Casa di reclusione di Padova

Quegli occhi accusatori di mio figlio
Per i miei cari faccio finta di stare bene, faccio finta di festeggiare il Natale, ma è tutta una finzione e lo e anche il Natale per chi è detenuto.
Per motivi legati al carcere da 25 anni a questa parte non abbiamo riunito più la famiglia a Natale, da 5 anni ho un bambino e ogni anno che cresce faccio sempre più fatica a giustificare la mia assenza, e questo mi crea un gran senso di colpa. Quegli occhi accusatori di mio figlio, che parlano, mi dicono “dove sei?” e non mi fanno dormire la notte ricordandomi della sua infanzia.
In futuro non avrà mai un ricordo di un Natale passato con me. Mi tormenta il fatto che un giorno avrò un suo giudizio negativo, spero che mi perdoni per avergli provocato delle mancanze e mi impegno per riscattarmi in futuro. Perché il papà c’è e ti augura un buon Natale con tutto il suo cuore.
Salvatore F.

Natale in carcere diventa il giorno più brutto dell’anno
Il mio sesto Natale in carcere. Il sesto Natale lontano dai miei figli Medison e Domenic. Mi ricordo gli occhi di Medison l’ultimo Natale trascorso insieme. Aveva solo 9 anni e gli occhi pieni di felicità mentre apriva il suo regalo. Era un giorno pieno di colori e di gioia. Lui era così piccolo e sapere che adesso ha 15 anni mi rende molto triste. Ormai è un ragazzo, ma soprattutto è un ragazzo cresciuto senza padre.
Per noi adesso il Natale non è più un giorno di gioia ma un giorno di malinconia. Di Domenic invece che dire? Quell’ultimo Natale aveva 4 anni e oggi ne ha 9. Noi due non ci siamo vissuti mai un vero Natale insieme, o almeno non a casa ma solo ai soliti colloqui in carcere. Racconto questo perché credo sarebbe molto bello avere qui un posto riservato ai festeggiamenti del Natale in famiglia, perché i nostri figli hanno il diritto di trascorrere questo giorno di festa con i loro padri. Uno spazio in cui poter fare un pranzo, scartare i regali e stare vicini ai nostri affetti. Invece questo non è possibile e Natale ogni anno qui dentro diventa il giorno più brutto dell’anno.
Jody G.

Sono 32 Natali che ti aspetto, papà
Sono Francesca, la figlia di un detenuto condannato all’ergastolo e da 33 anni aspetto che ritorni a casa, non nascondo che purtroppo ho perso le speranze.
Quando mio padre è stato arrestato io avevo solo 15 mesi, non mi ricordo mio padre a casa perché ero troppo piccola, ora sono mamma e desideravo tanto che almeno adesso potesse tornare a casa per poter far il nonno, visto che il papà non l’ha potuto fare, desideravo tanto che tutto quello che ha perso come padre potesse recuperarlo con i miei figli.
Questo dovrebbe essere il periodo più bello dell’anno, ma purtroppo per me e per tutti i figli dei detenuti, a dicembre oltre alle luci, i colori e soprattutto i regali c’è dietro tanta tristezza, sofferenza e mancanza, quella mancanza che si sente ancora di più allo scoccare della mezzanotte del primo dell’anno, quando tutti si abbracciano e si fanno gli auguri per un nuovo anno, io oltre a non poterlo abbracciare e augurargli buon anno dico tra me e me “è un altro anno che se ne va senza di te, mio caro papà.
Sono 32 Natali che ti aspetto, papà, pensavamo di avercela fatta due anni fa con quei pochi permessi che ti avevano dato, e invece ci hanno illuso perché purtroppo ti hanno trasferito e poi negato i permessi, tu ti sei sempre comportato bene in ogni permesso ed è proprio per questa illusione e soprattutto delusione che mi sento vuota, mi sento più triste che mai perché penso che piano piano, a un passo alla volta, potevamo recuperare almeno un minimo, ma invece siamo tornati indietro, anzi peggio perché ti hanno trasferito in un carcere ancora più lontano e difficile da raggiungere visto che è in un’isola, e proprio per questo ancora non conosci, perché non l’hai mai incontrato in presenza, il mio piccolo Tommasino, il tuo ultimo nipotino. Aspettavo un permesso per fartelo conoscere di presenza e invece te l’hanno negato e dovrò portartelo in carcere, mi dispiace moltissimo soprattutto per te per la delusione che provi, perché avevi fatto un percorso soprattutto di cambiamento e la cosa più bella è che eri cambiato davvero, mi dispiace per l’ennesimo Natale che passi senza la tua famiglia, senza il calore dei tuoi amati nipotini, non so se mai ci sarà l’occasione di passarlo insieme, purtroppo ho perso la speranza, ma come ogni anno io sotto l’albero vorrei il mio regalo più prezioso che aspetto da tanto tempo ormai.
Francesca R.

È il trentatreesimo Natale che mi tocca passare in solitudine
Mi chiamo Antonio P. e sono un ergastolano in carcere dal settembre 1992.
Anche quest’anno senza Natale e lontano degli affetti più cari. Sono trascorsi trentatré anni, anni nei quali non conosco più cos’è il Santo Natale. Una volta il Natale era sentito da tutti, gli emigranti facevano migliaia di chilometri per tornare al paese d’origine per trascorrere il Santo Natale con i propri famigliari e amici d’infanzia.
In questi trentatré giorni di Natale trascorsi in questi luoghi capita che quando si avvicinano le feste natalizie i ricordi affiorano e mi portano a quei Natali trascorsi assieme ai miei familiari, i cenoni che si facevano la vigilia, anche se poveri e poco nutrienti, erano ricchi d’amore e d’affetto, e finché durano questi ricordi mi sento felice e sto bene, poi quando i ricordi svaniscono appaiono i fantasmi della notte che prendono possesso del mio corpo e si divertono a tormentarmi.
Quest’anno speravo di stare lontano dei fantasmi e trascorrere il Natale assieme ai miei familiari fuori da questi posti, in quanto dopo 32 anni di carcere, da marzo avevo iniziato ad usufruire dei benefici penitenziari, cioè dei permessi premio. Dopo aver fatto nove permessi premio e nell’avvicinarsi del Santo Natale questo spiraglio di luce, che si era acceso, con un piccolo soffio di vento si è spento, spariti ogni speranza e ogni progetto.
Ripeto, dopo aver beneficiato di nove permessi premio ho fatto la decima istanza di permesso ma questa volta mi è stato negato. La motivazione è perché in questi giorni un mio figlio è stato arrestato, ma io cosa c’entro? la legge dice che la responsabilità è personale, perché devo pagare colpe non mie? pertanto anche questo Natale mi tocca passarlo in solitudine per cose a me ignote.
Purtroppo non c’è da farsi meraviglia, viviamo in un Paese dove le leggi, quando sono a discapito del detenuto, anche se è estraneo ai fatti vengono applicate con grande rapidità, mentre invece quando si tratta di applicare un diritto ai carcerati si trovano spesso mille scuse per non applicarlo, un esempio è la sentenza della Corte Costituzionale sui colloqui intimi, che è stata pubblicata quasi un anno fa e ancora non viene applicata. Nel frattempo a me hanno vietato il Natale.
Antonio P.

Natale in carcere, spinoso fuori e malinconicamente dolcissimo al suo interno
Alla domanda su com’è il Natale in carcere risponderei che è per me simile ad un frutto, il ficodindia, spinoso fuori e malinconicamente dolcissimo al suo interno.
Mi chiamo Santo, sono in carcere da oltre 32 anni, e se non fosse per una data, quella del mio arresto, non saprei più contare quanti Natali sono passati da allora.
Quello che mi ricordo bene è, che sono stati, e saranno, tutti uguali: carichi di tristezza con tanto contorno di malinconia, e per dessert, la voglia dio starsene a letto dalla vigilia fino al 7 gennaio. Ma non si può, sarebbe egoistico da parte mia, principalmente nei confronti delle persone che amo, e poi, anche per alcuni compagni di detenzione con i quali condivido quella quotidianità del qui dentro, e che versano nelle mie medesime condizioni emotive.
Le festività natalizie si passano in una cella insieme, cercando di preparare del cibo “fac-simile” di quello di casa, tipo: pasta al forno, ma cotta in un tegame sul fornelletto a gas, oppure della carne impanata con contorno di patate al forno, sempre cotte in tegame e naturalmente senza forno. Poi si improvvisa qualche dolce creato da noi con gli ingredienti che abbiamo disponibili “del tipo consentito”, che alla fine non riesce mai ad addolcire quell’amaro che alberga in fondo al cuore di ciascuno.
Ci basta guardarci negli occhi per riuscire a vedere il vero stato d’animo di ognuno.
Non manco mai, alla vigilia di Natale, di sperare in cuor mio che un giorno possa divenire realtà quel sogno ad occhi aperti di poter trascorrere nuovamente un Natale in famiglia, con mia moglie, i miei figli, e quei nipotini che, come i miei figli, ho visto crescere e abbracciati soltanto nelle salette colloqui di ogni carcere che ho passato in tutti questi anni, tuttavia, auguro BUON NATALE a tutti.
 Santo B.

Non so cosa darei per trascorrere un Natale con tutta la mia famiglia
Il Natale preme alle porte da 33 anni che sono dentro, io ho trascorso 33 Natali qui dentro e ogni anno è sempre molto toccante, perché sono festività che sono pesanti da passare in questi brutti luoghi, ma quello che mi pesa di più è che ho quattro figli, ma con il più piccolo non ho mai passato un Natale o una festa, perché quando sono stato tratto in arresto mio figlio è nato sei mesi dopo. Per me è ogni volta sempre più pesante perché mi viene molta nostalgia e non so cosa darei per trascorrere un Natale con tutta la mia famiglia, con figli moglie e i miei nipotini, sarebbe un grandissimo Natale e penso il più bello della mia vita, spero che si avveri presto questo mio sogno.
Ignazio B.

Natale senza colore, senza calore
Le festività natalizie, nella nostra cultura, anche per chi non crede alla festa religiosa che il Natale celebra nei propri riti, sono diventate sinonimo di famiglia, di calore umano, di festa, spensieratezza e clima gioioso da trascorrere e condividere con le persone che si amano.
Ritrovarsi in carcere, ristretti senza la possibilità di allungare una carezza ai propri figli, senza il calore delle luci che colorano i ritmi delle festività, senza il dolce tatto della propria compagna di vita, rinchiusi in un ambiente angusto e grigio in compagnia di perfetti sconosciuti, anch’essi attanagliati dalle tue stesse buie malinconie; senza colore, senza calore. Privati non solo della libertà personale, ma anche di quella affettiva.
Non è Natale se non lo trascorri con i tuoi affetti. Se non assapori le emozioni che solo l’atmosfera natalizia sa far scaturire, se non vivi l’emozione della condivisione con i tuoi cari. Un bacio dato e ricevuto. Magari trascorrendo qualche ora lieta con la mamma e il fratello che vedi di rado. Un pranzo in famiglia, tutti riuniti, anche solo a discutere di stupidaggini.
Mi assalgono un doloroso rammarico e una profonda nostalgia.
Natale senza la vicinanza delle persone che si amano è solo una triste ricorrenza segnata in rosso sul calendario.
Questa è la prima volta che trascorro un Natale lontano dalla mia compagna e dai miei figli. Il solo pensiero mi devasta. Non solo la nostalgia dei riti natalizi: l’apertura dei regali, pranzi e cene in famiglia, rivedere affetti dopo mesi e poter condividere idee e riflessioni, ma anche la leggerezza di pensiero che regala il clima natalizio: qualche giornata di festa in più del solito concede spazi di spensieratezza che non si vivono in nessun altro periodo dell’anno. Anche la serenità e la libertà mentale di trascorrere qualche ora in più in intimità con la mia dolcissima Roberta. Quest’anno mi mancherà moltissimo anche questo, e mi mancherà soprattutto non poter approfittare del maggior tempo libero e di un pizzico di allegra fantasia in più per concederci qualche ora solo per noi.
Ormai da nove mesi sono lontano da casa. Mi manca il contatto fisico. Mi rattrista non poterla accarezzare, lei mi manca davvero tanto. Natale senza lei non è Natale.
Andrea C.

In copertina: immagine da PesciolinoRosso.org

Babbo Natale è al verde.
un racconto di Natale

Babbo Natale è al verde

Tanto tanto tempo fa nel paese di chissà dove viveva un uomo buono e generoso. Aveva la barba lunga e un grosso pancione che dentro sembrava avesse un pallone. Il suo nome lo san tutti: grandi, piccoli, belli e brutti. Tutti  sanno che esiste un tale che porta il nome di Babbo Natale. Una mattina di dicembre si svegliò presto presto, guardò fuori e vide cadere la neve dai vetri della sua finestra.

Brrr brrr questa neve è troppo fredda, è caduta sopra al tetto e io che faccio? Quasi quasi torno a letto!

Non poteva tornare a letto tra pochi giorni sarebbe stato Natale. Doveva andare a fare la spesa e comprare i regali da distribuire a grandi e piccini.

Andò in camera e prese il suo portafoglio di corteccia, che gli avevano regalato gli gnomi, suoi vicini di casa. Lo aprì e dentro non c’era nulla, era vuoto. Le bollette aveva pagato, l’assicurazione delle renne era salata. Poi la spesa era aumentata.

Sono al verde, senza danaro, come farò i regali a comprare?  I bambini aspetteranno che gli porti tutto quanto: bambole, giostre e chitarrine, piste, astucci e pupazzini, anelli, collane e maglioni di lana. Tutti in attesa del loro regalo.

– Cosa dirò ai bambini domani? Babbo Natale non può fare regali, perché l’inflazione è sempre più cara. Cosa ne sanno i bambini dell’economia, lasciamoli vivere nella fantasia.

Babbo Natale non sapeva come fare, era triste e non volle mangiare.

Ma la fata Natalina che abitava su in collina scese a valle dal suo amico con la borsa piene di matite.

– Babbo babbo tu sei al verde,  ma i bambini ti aspetteranno e non puoi giocar d’inganno.

Ora scrivo una letterina a tutti i bambini, ognuno metterà sul davanzale il gioco che più non usa. La fata Natalina aveva avuto proprio una bella idea. La notte di Natale ogni bambino mise un gioco sulla finestra. Babbo Natale quatto quatto passò a ritirare i giocattoli, ne riempì un gran saccone e con fata Natalina distribuì il bel bottino.

A Luca diede il trenino di Marco; a Marco diede la palla di Eugenio; a Francesca diede la bambola di Lucia; a Lucia diede la corona di Matilde; a Eugenio diede il pupazzo di  Maria e a Matilde diede un regalo di un altro bambino e quello di un altro bambino ad un altro bambino ancora e così via per tutta la notte. Tutti i bambini ebbero un gioco che per loro era nuovo. La generosità aveva salvato Babbo Natale.

Babbo Natale e fata Natalina, tornarono nel paese di chissà dove cantando così:

Che bella nottata abbiamo passato, quanti bambini abbiamo accontentato, ognuno ha dato qualcosa di sé e ha ricevuto un regalo da te.

 

Verso la pace in Ucraina?

Verso la pace in Ucraina?

Zelensky ha dichiarato al vertice Nato dello scorso 18 dicembre quanto sostengono da 3 anni molti esperti:  “l’Ucraina non ha le forze sufficienti per conquistare Donbass e Crimea. Lo dichiara dopo poche ore dall’uccisione del generale russo e del suo vice per via di un attentato del suo servizio di intelligence. E’ evidente che queste dichiarazioni nascono dopo l’elezione di Trump (che si insedierà il 20 gennaio prossimo) in quanto cade l’ipotesi, che a lungo l’amministrazione Biden aveva caldeggiato (seguita dall’improvvida Europa), di una vittoria dell’Ucraina sulla Russia. Trump ha fatto capire che intende cessare gli aiuti made in Usa a Kiev e chiudere una guerra molto dispendiosa per gli americani e impossibile da vincere (come avvenne in Vietnam e poi in Afghanistan) , anche perchè dietro la Russia ci sono la Cina e i Brics che hanno dimostrato come l’economia russa (sotto sanzioni occidentali) non si riesca ad indebolire. Si prospetta dunque un cessate il fuoco e, speriamo, una pace.

Da questa guerra escono sconfitti non solo gli ucraini che perderanno definitivamente tutte le regioni russofile (Donbass -20% del territorio- e Crimea) ma anche tutta l’Europa che ha pagato un prezzo enorme alla fine del dialogo commerciale con la Russia. La caduta dei governi tedesco e francese sta lì a dimostrarlo, ma anche l’Italia non se la passerà meglio: tutto il nostro sistema produttivo (e le famiglie) è indebolito da un prezzo di elettricità, gas e materie prime molto più alto della media UE e che avrà effetti depressivi di lungo periodo.

L’idea che la Russia voglia invadere anche altre parti dell’Europa è del tutto funzionale ad un’ Europa succube delle scelte Usa. Le ragioni geopolitiche dell’invasione della Russia del Donbass e dell’annessione della Crimea erano più che note agli esperti: la Russia non vuole la Nato ai suoi confini, non vuole un allargamento ad est fino ai suoi confini, come Putin ha, peraltro, ripetutamente detto negli ultimi 15 anni, così come gli Stati Uniti non accetterebbero ai suoi confini un Messico o Canada nella sfera Cina-Russia. L’Europa, seguendo la via americana, ha fatto forse il più grande errore dalla sua nascita, che avrà ricadute di lungo periodo sui suoi cittadini e imprese.

Una difesa comune europea (che ora tutti reclamano) si potrebbe fare spendendo la metà di quello che i singoli Stati spendono oggi, che è pari a 315 miliardi – il triplo della Russia che ne spende 126 e un terzo degli Stati Uniti che sono leader mondiali con 900 miliardi. Purtroppo le principali cancellerie europee pare siano invece intenzionate ad un massiccio riarmo come se dovessimo prepararci ad una guerra, il che avrebbe come effetto di deprimere ulteriormente le spese europee per scuola, sanità e pensioni.

La guerra si poteva fermare già in primavera 2022 quando le due delegazioni (Ucraina e Russia) avevano avviato le trattative. Ma sia Gran Bretagna (Boris Johnson) che Usa (Biden), sotto la spinta delle multinazionali delle armi, sabotarono l’azione diplomatica.

Come disse all’Università di Ferrara all’indomani dell’invasione della Russia Khrystyna Gavrysh, ricercatrice specializzata in cooperazione giudiziaria internazionale e diritto penale internazionale, sarebbe stato sufficiente, per evitare la guerra e un milione tra morti e feriti, rispettare gli accordi di Minsk che lo stesso Zelensky aveva promosso, salvo poi farli naufragare il 29.8.2019 per seguire strategie geopolitiche di emanazione anglosassone che pensavano di indebolire la Russia e, per questa via, la Cina. L’effetto è stato tutto il contrario: la Russia si è rafforzata sul piano mondiale e tutto il sistema dei BRICS ha preso forza. Chi subirà un effetto depressivo di lungo periodo saranno i cittadini europei. Di seguito riportiamo un estratto dell’ intervento di Gavrysh in Unife:

Gli accordi di Minsk rappresentano un compromesso tra le aspirazioni imperialiste della Russia e l’esigenza dell’Ucraina a preservare la propria integrità territoriale. “, Tali accordi sono stati firmati dai rappresentanti della Russia, dell’Ucraina e dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OCSE), …oltreché dai due rappresentanti delle regioni separatiste. La conclusione di questi accordi è stata altresì favorita tramite i negoziati promossi in seno al c.d. Formato Normandia, composto dai rappresentanti dell’Ucraina, Russia, Germania e Francia… Tale dichiarazione è stata anche inserita nell’allegato 2 alla risoluzione n. 2202/2015 del Consiglio di sicurezza che recepisce altresì il secondo accordo di Minsk, rendendo peraltro l’organo delle Nazioni Unite un ulteriore garante, oltre all’OCSE, dell’esecuzione di quanto disposto negli stessi. …
Tra gli obblighi più rilevanti degli Accordi di Minsk vi è il cessate il fuoco da ambo le parti, il ritiro delle truppe da parte della Russia e una riforma costituzionale sul decentramento territoriale in capo all’Ucraina entro la fine del 2015. Quest’ultimo obbligo, in particolare, è sancito dall’art. 11 del secondo accordo di Minsk ed è indicato dall’art. 9 dello stesso come presupposto necessario affinché la Russia ceda il pieno controllo sulla frontiera nelle zone del conflitto al Governo ucraino, creando così una subordinazione normativa tra le due disposizioni.

Il successivo governo ucraino ha mostrato un atteggiamento piuttosto ambiguo in relazione agli accordi. In effetti, Petro Poroshenko – l’ex presidente ucraino che ha promosso la loro stipula, conferendo all’uopo i poteri di rappresentanza a Leonid Kuchma – è stato sottoposto ad un procedimento penale per alto tradimento per fatti connessi alla conclusione degli stessi e, in particolare, per gli accordi di fornitura di carbone con le regioni separatiste. Il procedimento però è finito con un’assoluzione. C’è stata anche un’inchiesta parlamentare sulla possibile violazione della Costituzione ucraina connessa sempre alla stipula degli accordi di Minsk e alle successive riforme promosse proprio da Poroshenko per adeguarvisi. D’altro canto, Volodymyr Zelensky – subentrato a Poroshenko nel 2019 – ha più volte confermato l’intenzione di attuarli, ma anche l’esigenza di rinegoziarli, mai presa in considerazione dalla Russia. Al di là di questi rilievi, rimane però intangibile un dato fattuale: la riforma costituzionale sull’autonomia territoriale – seppur oggetto di una specifica proposta di legge costituzionale n. 2217а del 1° luglio 2015, che avrebbe apportato significative modifiche all’art. 133 della Costituzione ucraina in materia di organizzazione territoriale – a favore delle regioni separatiste, imposta dall’art. 11 del secondo accordo di Minsk, non è mai stata attuata per eccessive divergenze politiche in seno al Parlamento ucraino, venendo definitivamente revocata il 29 agosto 2019.

Ma veniamo ora alle ragioni sovente invocate … per asserire la carenza di vincolatività giuridica degli accordi di Minsk e, dunque, la loro mera valenza politica (Markov et al.), “Legal Nature Issues of the Minsk Agreements (International and Legal Analysis)”, Law and Safety, no. 4, 2020, p. 20 ss.). Gli argomenti principali sono due: mancata espressione della volontà a vincolarsi mediante la ratifica, ai sensi dell’art. 9, par. 1, della Costituzione ucraina, da parte del Parlamento ucraino (Verchovna Rada) e mancato conferimento di pieni poteri a Leonid Kuchma e, dunque, violazione degli articoli 3, 5 e 6 della legge ucraina n. 1906-IV del 29 giugno 2004 sugli accordi internazionali (recanti norme sul procedimento interno da rispettare in materia di conclusione dei trattati) in combinato disposto con l’art. 103, par. 3, della Costituzione ucraina sulla competenza del Presidente a concludere gli accordi internazionali.

Per comprendere se il conferimento dei pieni poteri fosse incompleto o viziato, occorre, dunque, analizzare il documento con il quale esso è stato effettuato. Orbene, si tratta dell’ordine n. 953 dell’8 luglio 2014, intitolato «Sull’autorizzazione di Kuchma a partecipare al gruppo di contatto tripartito per la risoluzione pacifica della situazione nelle regioni di Donetsk e Luhansk. Al fine di attuare il piano del Presidente dell’Ucraina sulla soluzione pacifica della situazione nelle regioni di Donetsk e Luhansk e di raggiungere accordi sulla sua attuazione». Dal testo del documento non paiono esserci dubbi che si tratti di un vero e proprio conferimento di pieni poteri.

Passando… alla mancata ratifica ai sensi dell’art. 9, par. 1 da parte del Parlamento ucraino, va precisato che in effetti la fattispecie in oggetto – ossia la stipula di un accordo di pacificazione– ricade nelle ipotesi in cui l’atto di ratifica è richiesto dall’art. 9, par. 2, lett. a), della legge n. 1906-IV/2004 sugli accordi internazionali. Tuttavia, la conclusione degli accordi in forma semplificata e, dunque, attraverso l’espressione del consenso mediante la firma, rappresenta una prassi piuttosto consolidata nel diritto internazionale….In applicazione dei principi ivi sanciti, si può giungere alla conclusione che il conferimento dei pieni poteri e il testo degli accordi mediante l’utilizzo di una terminologia assolutamente imperativa faccia pensare senz’altro alla volontà di creare un vincolo giuridico sul piano internazionale. … Del resto, l’Ucraina non ha mai invocato ufficialmente la nullità degli accordi di Minsk.

Fugati i dubbi sulla validità degli accordi oggetto di questa disamina, non pare però ci siano le condizioni sulla loro possibile estinzione, ufficialmente invocata da Putin nella conferenza stampa del 22 febbraio, concessa a seguito del discorso alla nazione in cui riconosceva pubblicamente le Repubbliche indipendenti di Donetsk e Luhansk. Il presidente russo adduceva due argomenti a supporto di tale estinzione. Anzitutto, egli afferma che «questo compromesso [rappresentato dagli accordi] è rimasto lettera morta per colpa dell’attuale Governo ucraino. Gli accordi di Minsk sono stati uccisi ben prima del riconoscimento delle Repubbliche di Donetsk e Luhansk, ma non da me e nemmeno dal Governo delle Repubbliche, bensì dal Governo ucraino. Già da tempo il Governo di Kiev ha pubblicamente affermato che non era intenzionato a rispettare tali accordi (…). A questo punto gli accordi di Minsk non esistono più» (posizione assunta anche dall’ambasciatore russo alle Nazioni Unite Vasily Nebenzia, in seno al Consiglio di sicurezza e in qualità di suo presidente, all’incontro n. 8974 del 23 febbraio 2022, UN Doc. S/PV.8974). L’estinzione in questo caso rappresenterebbe una reazione all’inadempimento da parte dell’Ucraina ai sensi dell’art. 60 della Convenzione di Vienna. In secondo luogo, il leader russo ribatte ai giornalisti che insistono sull’importanza degli accordi: «Cosa dobbiamo rispettare se abbiamo riconosciuto l’indipendenza di queste regioni?!», facendo così leva sul mutamento fondamentale delle circostanze previsto dall’art. 62 della Convenzione di Vienna. Tuttavia il diritto internazionale non ne riconosce l’estinzione e dà validità agli accordi di Minsk.”

 

In copertina: riproduzione opera “Der Krieg”, Marc Chagall, licenza Creative Commons

Per leggere gli altri articoli e interventi di Andrea Gandini, clicca sul nome dell’autore.