Dalla Civiltà delle macchine alla (in)civiltà degli algoritmi. La lezione di Leonardo Sinisgalli.
Saranno robot iperspecializzati a scavare le miniere e a esplorare le profondità degli oceani e dello spazio. Saranno i cobot a intervenire chirurgicamente sul nostro corpo e a prendersi cura di noi; saranno le macchine a guida autonoma a spostarci, “camminarci”, e forse “finirci”; sarà l’AI a fare giornalismo, fotografia, letteratura e persino arte.
È sotto gli occhi di tutti: oggi il sapere viene prodotto con (e dalle) macchine.
Come avvertito da molti autori a cominciare dal nostro Roberto Calasso (L’innominabile attuale, Adelphi, 2017) o da Byung-Chul Han (Psicopolitica, Nottetempo, 2016), l’idealismo kantiano scaturito dalla fede nel soggetto umano quale unico produttore della conoscenza è stato sostituito dalla (apparente) consistenza degli algoritmi: l’essere umano ha abdicato alla propria posizione di produttore del sapere e consegna la propria sovranità agli algoritmi.
L’…algorismo ha posto fine all’idealismo e all’umanesimo.
Se volessimo tentare una lettura del presente attraverso la parabola seguita da macchine e materiali che, nel corso della storia, sono diventati di volta in volta sempre più leggeri e invisibili (si pensi al passaggio dai giganteschi server all’impalpabile cloud o quello dal piombo delle tubature romane all’atomo di Hiroshima e Chernobyl), non potremmo che farci accompagnare da un poeta-ingegnere antesignano del marketing digitale e dell’epoca dei Big Data che stiamo vivendo.
Chi volesse dettagliate informazioni storiche e biografiche su Leonardo Sinisgalli, può fare riferimento al ricchissimo e dettagliato archivio della sua fondazione [Qui]. In questo contributo ci limiteremo a ripercorrere brevemente il suo ruolo editoriale di riviste aziendali per mettere meglio a fuoco la sua idea di “macchina”.
Nel 1929 Leonardo Sinisgalli ha 21 anni ed è studente di ingegneria all’Università di Roma. Dopo essere stato selezionato da Enrico Fermi nel 1927 per fare parte di un gruppo di ricerca d’avanguardia (i famosi ragazzi di Via Panisperna), declina l’invito per seguire la sua più autentica vocazione che è la poesia: la musa Calliope dunque prevalse sulla musa Urania.
Conseguita la laurea in Ingegneria Industriale continuò comunque a frequentare le due muse attraverso attività letterarie vere e proprie e prime collaborazioni con l’industria: fin da questi esordi si occuperà della redazione di riviste aziendali tanto da venir notato da Adriano Olivetti che lo volle responsabile dell’ufficio tecnico della pubblicità ( quello che oggi si chiamerebbe ufficio marketing).
È molto probabile che fu proprio Sinisgalli a mettere in contatto Adriano Olivetti con Enrico Fermiper intraprendere la produzione di calcolatrici elettroniche nel 1949.
Dopo la tecnica, Sinisgalli venne chiamato alla Pirelli come direttore artistico, figura che a quel tempo iniziava a occuparsi non solo della pubblicità aziendale ma anche dell’allestimento di mostre, della preparazione di convegni e della sperimentazione di nuove forme di comunicazione.
Forte delle proprie capacità di ideazione e scrittura Sinisgalli pose al centro di questa attività una rivista aziendale che divenne il primo esempio di cross contamination fra arte, scienza, tecnica e letteratura. A questa esperienza milanese seguirà quella romana presso Finmeccanica ( azienda che oggi si chiama Leonardo) per la quale Sinisgalli fonderà il suo gioiello editoriale rappresentato dalla Civiltà delle macchine una rivista iconica nel nome e ricchissima di contenuti e sulla quale venivano invitati a scrivere, scienziati, letterati, filosofi, artisti, architetti, registi, manager aziendali, ingegneri, rappresentanti dei lavoratori.
Già nella concezione di questa “opera editoriale” si riesce a riconoscere l’idea che Sinisgalli aveva della “macchina”: non si trattava di una cosa strettamente collegata al modo di produzione, per lo meno non solo a questo. Sinisgalli poeta era ben consapevole dei problemi che la meccanizzazione spinta avrebbe potuto produrre e amplificare: era chiaro per lui che l’avvento della macchina avrebbe portato alla parcellizzazione delle competenze, all’alienazione degli operai dalla visione del tutto, alla trasformazione dei cittadini in consumatori.
La macchina per Sinisgalli dunque non poteva essere altro dall’attività umana, riconoscendo nella tecnica la vera natura dell’uomo. Pertanto la macchina costituiva una sorta di protesi delle capacità umane in grado sia di spalancare nuove possibilità ma anche provocare inquietudini: in ogni caso essa restava il segno inequivocabile di una nuova fase della civiltà e un punto di non ritorno.
L’estetica delle macchine sulle quali Sinisgalli indugiava aveva sempre un’origine e un fine umani e dunque a fianco all’estetica era necessaria un’etica delle macchine: la macchina non doveva costringere l’uomo a rinunciare alle proprie prerogative ma porsi come complemento indispensabile per operare trasformazioni fuori e dentro di noi.
La macchina pertanto non poteva e non doveva essere autonoma!
Potremmo dire che l’etica delle macchine di Sinisgalli è un’etica della complementarità.
È facile riconoscere l’assoluta attualità di questa concezione rispetto all’analogo moderno delle macchine o di quello che sono diventate. Attualità che possiamo comprendere trasferendo il concetto di macchina e di transizione tecnologica dagli anni del boom economico ai nostri anni.
Se a quel tempo l’industrializzazione e l’innovazione tecnologica furono caratterizzate da macchinari ingombranti e dispiegati nelle loro fisicità e fascinazione estetica, nella nostra epoca non ci sono più macchine ingombranti, ma soprattutto c’è una tendenza all’impalpabile, all’immateriale messa ancora più in luce dalla differenza tra hardware e software.
I recenti sviluppi hanno portato alla quasi evaporazione degli ingombranti macchinari quali i server nella “nuvola” virtuale: una volta operata questa traslazione da hardware a software, da macchina reale a macchina virtuale (l’algoritmo!), l’etica delle macchine di Sinisgalli potrebbe farci comodo: le macchine non devono essere autonome!
Le automobili a guida autonoma, i droni e gli altri apparati quali i robot e i collaborative robot in grado di “sfuggire” anche per un solo attimo al nostro controllo:si pensi all’ultimo Big Crash che ha mandato in tilt i terminali degli aeroporti di mezzo mondo) impongono la necessità di recuperare quella sana inquietudine e chiara attenzione sul loro impiego.
Vale la pena quindi citare l’appello che Leonardo Sinisgalli lanciò ai poeti e di riflesso agli intellettuali nel 1951 e tenerlo presente per scongiurare una possibile inciviltà degli algoritmi:
“Ma che cosa sono questi strumenti e mezzi meravigliosi che hanno smisuratamente allargato il potere delle nostre pupille?[…] Sono tante similitudini di un’onda, sono le metamorfosi di un raggio, sono le luci plurime che ci servono nella nostra difficile esplorazione. Che la retorica e il buon senso possano trascurare queste meraviglie, queste conquiste, può essere perfino comprensibile. Ma sarebbe una grave sciagura se di queste ipotesi si disinteressassero i Poeti. L’Arte deve conservare il controllo della verità, e la verità dei nostri tempi è una qualità sottile, è una verità che è di natura sfuggente, probabile più che certa, una verità ‘al limite’ che sconfina nelle ragioni ultime, dove il calcolo serve fino a un certo punto e soccorre una illuminazione, una folgorazione improvvisa. Scienza e Poesia non possono camminare su strade divergenti. I Poeti non devono avere sospetto di contaminazione.”
[L. Sinisgalli, Natura, calcolo, fantasia, in Pirelli, III (1951), 52-53]
Duran Duran: la mia band ottimista preferita (di pessimiste ne ho già tante)
Capodanno 1982, un paio d’ore dopo il malaugurato brindisi. Nell’ atmosfera paludosa e senza scampo della pianura padana, cerco di scavallare la notte intruppato senza un motivo dentro un circolo Arci locale. Vago da una saletta all’altra incrociando gente senza volto che tossisce, immersa nel grigio, nel fumo, e nella noia. Ad un certo punto vengo catturato da una piccola televisione che trasmette in loop dei videoclip con colori vividi ambientati in luoghi esotici, ora giungle ora templi ora mercati all’aperto, attraversati da cinque ragazzi vestiti pastello che si muovono come dentro il plot di un Bond movie. Una macchia di colori e suoni, rock ma come ricoperti da una patina cromata che li attutisce e li stilizza, che esce da una scatoletta racchiusa dentro uno scatolone bianco e nero. L’effetto è straniante, come se gli anni ottanta avessero lanciato un fumogeno multicolore dentro gli anni settanta. Lì dentro è tutto così prevedibilmente scuro, compresa la musica, io sono annoiato e depresso come tutti lì dentro, come ogni ultimo dell’anno e come gli altri giorni di quell’anno – tranne quelli appiccicosi e folli di Paolo Rossi. Quelle immagini mi ipnotizzano e, per qualche motivo, hanno il potere di portarmi verso il mattino scacciando l’istinto suicida dell’essere teenagers a san silvestro. Da quel giorno i Duran Duran diventano la mia band ottimista preferita. Di artisti pessimisti preferiti ne avevo già e continuerò ad averne.
Duran Duran è un nome ossimoro per la frustrata stampa musicale italiana, che ne pronostica l’estinzione entro la fine degli anni ottanta. E infatti il 23 luglio 2024 li ho visti al Lucca Summer Festival, e non per un concerto revival, nel senso che non sono mai spariti. Dal 1978 al 2024 hanno continuano a fare nuova musica e nuovi concerti, perdendo e ritrovando se stessi e alcuni membri fondatori lungo la strada. Del resto, alzi la mano uno che non si è mai perso in vita sua, e che frequenta ancora assiduamente quattro amici conosciuti 45 anni fa.
Video killed the radio star
Nonostante abbiano lavorato con David Lynch, loro grande fan; nonostante Lou Reed abbia affermato che la loro versione di Perfect Day sia fatta meglio di come l’ha fatta lui; nonostante le collaborazioni con David Gilmour, Graham Coxon, John Frusciante, Milton Nascimento; nonostante William Burroughs sia comparso in un video degli Arcadia – quel Burroughs il cui racconto gay pornThe Wild Boys ispirò la canzone omonima; nonostante Korn e Deftones, stimate metal band, abbiano fatto cover della loro inarrivabile “The Chauffeur”; nonostante tutto questo, in Italia dopo quarant’anni gli chiedono ancora di quella tipa che scrisse “Sposerò Simon Le Bon”. La Duranmania in Italia arrivò in ritardo e ne fu proiettato mediaticamente solo l’aspetto isterico, che prima di loro riguardò anche i Beatles ed Elvis Presley, ma a loro fu perdonato; forse perché gli uni si estinsero, l’altro morì ed entrambi divennero quindi sacri oggetti di culto per la critica, quella che si prende molto su serio. I Duran Duran invece hanno alcune colpe imperdonabili: la prima è quella di essere ancora vivi. La seconda è di piacere molto alle donne, fatto che il critico serio e snob detesta perché è maschio, polveroso e non se lo fila nessuno. La terza colpa è forse la peggiore: sbattere in faccia a tutti il jet-set way of life, yacht e belle donne mentre altri gruppi cercavano di “cambiare il mondo”- perché gli anni ottanta sono stati fatuità, effimero ma anche impegno sociale, sono stati tutto e il suo contrario, leggere Pier Vittorio Tondelli per credere.
Tanto per cominciare, non era uno yacht (nel senso in cui lo intendiamo noi) ma una barca a vela. Inoltre i membri della band provengono da famiglie piccolo borghesi, i loro primi vestiti li prendono nelle boutique post punk di Birmingham. La moda griffata arriva dopo, quando anche parte di questi sarti diventano celebrità. Quanto al cambiare il mondo: è come dire che Miami Vice è reazionario mentre Starsky e Hutch è progressista, o che James Bond è uno stronzo perché sessista, razzista e reazionario (lui un pochino lo è, in effetti, ma la politically correctness non può rivaleggiare con il fascino di Sean Connery). Quindi: un gruppo che prende il suo nome da un personaggio (Durand Durand) del film Barbarella di Roger Vadim, una science fiction del ’68 ambientata in un lontano futuro in cui la protagonista/viaggiatrice dello spazio si fa un sacco di gente strana, sarebbe reazionario? O piuttosto attinge ad un immaginario che anticipa i temi della liberazione sessuale e della sessualità fluida?
Questi quattro artistoidi da Birmingham (più il cantante, nato a Bushey) hanno il fiuto di percepire in anticipo l’enorme potenziale delle nuove tecnologie – prima coi video e MTV, poi con Internet – lavorando su un’immagine fancy con meticolosa pianificazione, il che ha oscurato le loro doti di musicisti e soprattutto creatori di gioielli verse/chorus, anche se ha regalato loro una fama irraggiungibile per tutti i coevi. L’immagine, la parte visuale, è stata quindi al contempo la loro delizia e la loro croce. Non è possibile sentire una canzone dei Duran senza “vedere” i Duran, un binomio che in precedenza solo David Bowie aveva esplorato tanto, sicuramente con un taglio più trasgressivo – anche se pure i Duran hanno subito la censura (Girls on Film) o lo stigma del politically correct (Electric Barbarella). Quando penso ad entrambi li vedo più come artisti multimediali che come semplici musicisti.
Sing blue silver
Ma il concerto di Lucca quindi? Da appassionato che cerca di rendere più oggettiva possibile la sua percezione, affermo che Simon Le Bon ha un ottimo terapista vocale: nel 2011 si giocò di brutto alcuni semitoni della gamma, ma poi ha fatto riabilitazione e continua a cantare molto alto (non così alto come su disco, ma molto più alto di qualunque popstar vivente) e becca le note in modo più dritto e meno lezioso di quanto facesse all’apice della fama. La sezione ritmica dei Taylor è precisa ed essenziale, a volte quasi funambolica – i virtuosismi sono banditi in questo gruppo, chiedere un assolo di batteria a Roger Taylor equivale a fargli venire l’orticaria; tuttavia John Taylor è autore di alcune linee di basso memorabili, cito Rio per tutte; la chitarra elettrica è passata di mano in mano, ma Dom Brown adesso fa la sua figura, e ci mancherebbe visto che ormai la sua permanenza nella band supera quella dell’originario sferzante rocker Andy Taylor e dello zappiano Warren Cuccurullo (del quale rimpiango la eccentrica creatività e la capacità armonica). La macchina elettronica del controller Nick Rhodes ormai funziona da sola: lui è il più visionario programmatore di intelligenza artificiale applicata alla musica (quanto poco, in apparenza, muova le mani sulle tastiere rispetto al tappeto sonoro che produce è una cosa che non finisce di sorprendermi). Iniziare il concerto con Nightboat e proporre The Chauffeur è stato un omaggio all’anima scura del gruppo, altra apparente contraddizione (in realtà diversi darkettoni, liberatisi con l’età dalla vergogna per il ludibrio del branco, amano questo lato della band); ma il momento più emozionante della serata è stata la nuova versione di New Moon on Monday, che per qualche misteriosa ragione ha riportato molti ragazzi di sessant’anni ad avere una pelle d’oca, legata al proprio vissuto personale, che è diventata collettiva oltre le aspettative.
Torno infine all’adolescente del 1982. L’incidenza del look duraniano sulla fluidità del “gender” è stata più massiva (soprattutto sui maschi) rispetto al primo Bowie o ad altri protagonisti estremi dell’en travesti (Sylvester, Boy George), perchè più convenzionale e rassicurante: i Duran non erano muscolosi, indossavano accessori femminili, si truccavano, mettevano le spalline e si cotonavano i capelli, ma a differenza dell’alieno Bowie restavano maschi etero che potevi incontrare per la strada, dopodiché diventarono simboli erotici attaccati a migliaia di muri (anche se da quel momento incontrarli per strada divenne impossibile per un decennio). Questo esercitò un’enorme influenza sui ragazzi timidi (altra contraddizione solo apparente) riassumibile nel concetto “non ho bisogno di esibire il testosterone per piacere alle ragazze”. L’individualismo veicolato non fu quello (anti) sociale della Thatcher, ma quello del costume e dello stile: non avere timore di esprimere te stesso.
‘Vision d’été’, una realtà perturbante, la nostra.
Proiettato a SiciliAmbiente, il corto-documentario ‘Vision d’été’, di Anna Crotti, Anais Landriscina e Lucrezia Giorgi, ci porta in un mondo che crolla, quello di oggi.
Le registe si sono aggiudicate la Menzione speciale per il film Vision d’été nella sezione cortometraggi della XVI edizione delSiciliAmbiente Film Festival.
Vincitore del Premio Segni, sezione Cinema in Trasgressione, ‘Vision d’été’ non fa sconti e tratta, con grande attenzione, originalità e sensibilità, la deriva del mondo moderno.
Coinvolgenti la voce narrante di Sophie Zayan e le musiche di Domenico Clapasson.
Cambiamento climatico, questa mostruosa creatura umana
Nel mezzo di un’estate torrida, come quella che stiamo attraversando in questo giorni infuocati, la protagonista, una giovane francese, chiama sua madre confidandole in maniera concitata di sentirsi stritolata dall’atmosfera cittadina e dalla crescente gentrificazione del territorio su cui sorge la sua città natale, Marsiglia.
Qui, una volta di più, il cambiamento climatico appare in tutta la sua inarrestabile potenza: è l’inizio di un viaggio quasi drammatico, di una fuga disperata che non troverà risposte ma solo altre domande. Domande senza risposte.
Marsiglia va a fuoco
Le prime immagini introducono immediatamente al tema: foschia, una terra arida e brulla, industrie in lontananza, una fiaccola. E poi i grattacieli, i manifesti elettorali con mille proclami, una foto strappata di Martin Luther King, anno 1963. La parola resistenza pare campeggiare sui muri che restano muti e inermi di fronte allo scempio umano.
Marsiglia è multiforme, cangiante, mediterranea, nelle sue vie si parlano il provenzale, il Patuet (il dialetto della lingua catalana parlata nel Maghreb, soprattutto in Algeria, durante l’amministrazione francese), il dialetto (l’argot). Ci sono africani, armeni, mediorientali, una città multicolore e multiforme. Salsedine che si scioglie sotto la lingua, gocce di sudore sotto un hijab nero pece, cemento consunto dei marciapiedi. Caldo, tutto va a fuoco.
Case alveari
Le case sono quasi impilate, una sopra l’altra. Il grande condominio che pare un alveare dà l’idea di chi soffoca, di chi si perde nella moltitudine. La camera che si concentra su quella costruzione mostruosamente tentacolare fa perdere l’individualità. Uno fra tanti, un giovane maghrebino strizzato in una tuta di plastica incandescente quasi si vergogna. Si teme di venir contaminati, la gente del centro in quel quartiere non va, ha paura. Lì si vive quasi incastonati e incastrati fra le rocce. Isolamento soffocante. Qui si nasce e si muore senza sapere nulla degli altri. Non che altrove vada meglio. L’unico segno distintivo è un tendone a righe colorate, qualche pianta. Il resto è piatto, tutto uguale, il resto è noia.
Le foto in bianco e nero e il (bel) tempo che fu
Sfilano immagini in bianco e nero, fra passaggi di Seneca e dell’Apocalisse di Pietro, vecchie fotografie riportano alla memoria momenti passati e spensieratezza e leggerezza. Ricordi di un bel tempo che fu, di attimi fuggenti fatti di felicità e serenità. Ma il circo incombe, i tori combattono contro i drappi rossi che un uomo triste ed egoista gli pone davanti per il suo unico divertimento e compiacimento.
Animali che si inginocchiano, lagune che, al tramonto, cercano uno spazio.
“E’ per questo che sono partita. Ma ora, nella quiete profonda, comprendo infine che quando tutto sarà stato consumato, non resterà altro che il silenzio. E in mezzo a questa immensità assordante, solo un gemito flebile si farà strada, dalle viscere risalendo su fino al cielo, la terra martoriata piangerà il suo destino, ma nessuno potrà sentirla”.
E, su note melodiose, mentre le vallate e le cime dei monti dormono, insieme ai rettili, alle fiere e alle api, le immagini si soffermano sugli uccelli dalle lunghe ali e gambe. I fenicotteri dominano con il loro colore rosa, quel colore che più è intenso e più conquista la componente femminile di quella specie meravigliosa. Il corteggiamento ha il colore rosa. Sulle lunghe ed agili zampe, sul piumaggio del corpo. Rosa forever. Qualche speranza.
La natura non ha forma
Un vecchio senza nome e cittadinanza ricorda che quando c’è un angolo o un’ombra, c’è un’aggressività insopportabile. La natura, invece, è straordinaria. Tutto si muove, le forme ortogonali non esistono da nessuna parte. L’uomo ha invece otto volanti, capannoni, sfere e monete, il tempo delle camere ad ore, degli amori fugaci, del mordi e fuggi. Tutto gira, tutto ha un valore edonistico ed economico, nulla resta.
Le terre fertili, i boschi pieni di frutti, la pesca primordiale, i ruscelli carichi d’acqua, la bellezza, il sole che bacia i campi di grano, a noi interessano altri valori. C’è un’altra realtà lontana dai casermoni in cemento. Questa ci piace. Perché noi siamo Terra.
ANNA CROTTI, nata a Bergamo, nel 1998, si è laureata in Scienze Sociali presso l’Università degli Studi di Milano con una tesi sul documentario come mezzo di ricerca antropologica. Attualmente frequenta il Master in Media e Sistemi Editoriali presso l’Università degli Studi di Bergamo.
LUCREZIA GIORGI, classe 1994, si è laureata in Antropologia, Religioni e Civiltà Orientali presso l’Università di Bologna con indirizzo Studi Africani in Svezia, ha poi conseguito un Master in Storytelling: Letteratura, Cinema, TV presso la IULM di Milano. Lavora nell’editoria.
ANAÏS LANDRISCINA, nata a Milano nel 1999, è diplomata in Scenografia, Drammaturgia e Spettacolo presso la Libera Accademia di Belle Arti di Brescia.
ZIBALDONE. Appunti di viaggio: Recanati – Scanno – Villalago
Recanati mare
E mentre sono all’ombra, seduta su una panchina del lungo mare di Recanati, osservo tre bambini assorti nel disegnare su dei sassi bianchi e piatti con le matite colorate. Ai bambini piace colorare e fare disegni, lo fanno con passione, con concentrazione massima, con spontaneità, pitturano su qualsiasi superficie.
Porto Recanati spiaggia
Porto Recanati lungomare
Penso che, purtroppo, questa naturale creatività verrà imbrigliata da regole e giudizi e la maggior parte dei bambini non si avvicinerà più all’arte come esigenza estetica e immaginativa. Verrà archiviata in quella che le neuroscienze chiamano memoria implicita, dove i ricordi sensoriali ci sono, ma non sempre intercettabili e muti.
I disegni, tacciati come cose da bambini appunto, andranno sostituiti dalla storia dell’Arte, dalla fruizione delle opere (i capolavori, i geni), con un atteggiamento per lo più concettuale e colto, il gusto di creare dalla autorevolezza inconfutabile dei critici del bello e, non ultimo, dal valore stabilito del mercato.
Ma mentre seguo le mie elucubrazioni, i tre bambini si accorgono del mio interesse e mi chiamano per farmi vedere le loro opere.
Le dispongono in bell’ordine, mi spiegano le figure che hanno disegnato: una casa, il sole, “mamma ti voglio bene”, accostamenti di colori. Sono molto accalorati nel parlare e poi…
Poi non credo alle mie orecchie. Mi dicono:“ i sassi piccoli costano 50 centesimi, quelli grandi 1 euro, per gli altri ci mettiamo d’accordo”.
Rimango un po’ stralunata. Sono sassi, ne posso trovare a migliaia nella spiaggia vicina! Ho con me gli acquarelli! Non è neppure una operazione tanto originale come souvenir.
Arriva la mamma di uno dei tre e chiede: “quanto avete fatto su?”…Però! E non è ancora l’ora del passeggio”.
Non ci posso credere, si vende anche la naturalezza, la spontaneità dei bambini diventa un prodotto da commerciare.
Certo per i bambini rimane soprattutto, fortunatamente, l’aspetto ludico. Lo abbiamo fatto tutti: “io faccio la signora del negozio e allora tu mi dicevi: “ signora voglio tre etti di prosciutto” e poi io, mimando il gesto, li affettavo e ti dicevo “ va bene così’?” e allora tu mi pagavi e, con le mani vuote, mi davi i soldi che non c’erano e io li prendevo nell’aria e con la voce imitavo il suono della cassa”.
Quindi niente di scandaloso ad imparare “come fanno i grandi” per stare al mondo e capire che i soldi hanno un valore.
Ma qui? Il gioco è commercio e il guadagno reale servirà per comprare cose e prepararsi ad essere, senza aspettare di diventare grandi, dei buoni consumatori.
E i sassi della spiaggia? Beh! verranno depredati finché ce ne sono.
Confesso.
Un sasso l’ho comprato, mi hanno anche fatto un prezzo di favore. Ma, a mia discolpa, volevo giocare anch’io e scacciare i pensieri avvilenti.
Recanati città dell’Infinito
Siccome sono a Recanati come non andare in pellegrinaggio nella “sua” città.
Obbligo il mio compagno che è un insegnante di italiano a raccontarmi la vita di Giacomo, a spiegarmi le poesie, a farmi capire la filosofia di quel giovane favoloso.
Se a scuola mi sembrava di una pesantezza insopportabile, adesso mi intriga e voglio sapere sempre di più.
Soprattutto voglio sedermi sulla famosa panchina e sentire l’effetto del mio sguardo che incontra l’Infinito.
Così si va’. È a pochi chilometri dal mare. Si sale tra verdi colline.
Sono emozionata.
La prima cosa che vedo è il cartello di Recanati che titola La città dell’infinito. Certo come non vantarsi di tale cittadino!
Poi incontro “Pizzeria A Silvia”, giusto nella via della casa di Leopardi, sappiamo la storia…
Procedendo verifico che anche le librerie non vendono solo libri ma calamite e gadget vari intitolati al poeta. Ogni altro negozio ha insegne con versi dei suoi poemi che danno lustro alla macelleria, al tabaccaio, al bar.
Pizzeria “A Silvia” – Recanati
Amaro locale di Recanati
Ci avviciniamo sempre più al Parco dell’Infinito. Mi dico: qui ci sarà un’atmosfera magica.
Mentre avanzo le vie diventano sempre più affollate di turisti. Stanchi di stare al mare sono qui a prendere il fresco.
In ciabatte, calzoncini, occhiali da sole, tutti rossi, tutti sudati, attraversano il paese in due minuti spuntando la lista- cosa c’è da vedere a Recanati- e prendono d’assalto bibite e gelati in centro.
Mordono e fuggono.
Non desisto, io lo sento che, quando guarderò oltre la siepe, tutta questa superficialità vacanziera incontrata non lascerà traccia nei miei ricordi pronti a intercettare molto di più.
Finalmente arrivo! Ma per salire sulla torre, quella famosa, bisogna pagare un biglietto. Ma scusate l’orizzonte e l’infinito non sono di tutti?
Il FAI ha comprato la torre e per proteggere questo patrimonio artistico non chiede ai visitatori di essere educati, silenziosi, decorosi, pochi per volta! NO chiede quattrini e poi : ”sciabatta ignorante come vuoi!”
Non pago. Non sono in cima, ma l’orizzonte lo vedo anche da questa terrazza naturale limitata da siepi.
Paolo mi declama tutta la poesia e diventa dolce naufragare in questo mare.
Scanno e gli orsi
Dopo questa pausa di avvicinamento ci spostiamo verso la nostra vera meta, Scanno. Un Borgo meraviglioso dentro un parco, riserva naturale protetta.
Qui hanno sparato a Morena un’orsa femmina, per paura.
Ma adesso c’è Gemma, sempre un’orsa, che gli abitanti conoscono da almeno quattro anni. Gemma viene in Paese per mangiare, cambia ristorante ogni sera. Ieri, ci raccontano, ha preferito una pizzeria. L’hanno trovata che dormiva pancia all’aria nelle vicinanze. “Pazienza” dice il gestore.
Per strada ci sono manifesti che titolano: “ Queste le regole per salvare la vostra vita e quella degli orsi”. Ci sono volantini con le istruzioni anche sui comodini del mio bed and breakfast (camera con caffè si dice dalle parti di Gallipoli e mi piace molto di più).
C’è gentilezza in questo luogo verso i non umani e c’è coscienza che gli animali sono animali.
Per una possibile convivenza ci vuole rispetto e conoscenza degli altri esseri che vivono con noi.
Il proprietario della pizzeria non è arrabbiato, non ha messo taglie per la cattura né chiesto l’espatrio forzato di Gemma, è giustamente seccato per lo sporco lasciato, per i sacchi di farina rotti. Ma si assiste quotidianamente ad atti di vandalismo da parte dei nostri consimili e non per fame.
Però, diciamola tutta, l’orso produce pubblicità al paese e a Scanno la sua immagine è ovunque, souvenir, dolci, dediche. E non tutti, purtroppo, parteggiano per Gemma.
Villalago: Quando la banda passò
Io l’orso non l’ho visto, ma più volte ho pensato che tra i boschi e le selvatiche e affascinanti gole, lui sbirciava curioso e annusava l’aria per conoscermi.
In compenso un pomeriggio succede una cosa da favola.
Passeggio nel borgo di Villalago, si sta preparando una importante festa religiosa. Una donna al parcheggio tiene il posto per il furgone dei croccanti in arrivo, mi spiega che è una festa tradizionale, che dura tre giorni, oggi la madonnina verrà trasferita in una piccola chiesa da quella in cima al paese e poi ci sarà la processione per le strade.
Luminarie e concerti. Oggi è stata invitata la banda, che suonerà attraversando strade e vicoli in faticosissima pendenza.
Io la sento già che fa degli accordi di prova e desidero seguirla.
Mi piace la banda, mi dà gioia, e mi ricorda quando, ancora bambina, a Ferrara si fermava davanti alle case a Capodanno per dare il buon anno e tutti, col sorriso, buttavamo dalla finestra qualche soldino. Una casa e dopo un’altra fino a sera.
Lasciamo i ricordi, sono immersa in questa atmosfera, calma, lenta, antica e sto cercando la banda quando…Noo! Impossibile! Davanti sbucano silenziosi con i loro occhi dolci e in tutta la loro bellezza, due cervi.
Mi guardano, rimangono tranquilli e, sulla scia della musica e nella scenografia di queste case di pietra, riprendono il cammino. Mi invitano a seguirli, mi aspettano quando esito, ammutolita e con gli occhi sgranati che sono diventati enormi e dolci come i loro
Procediamo, poi, in un punto ben preciso, svoltano convinti, sempre a passi leggeri.
Li seguo e Oh mio Dio! In un piccolo parco c’è un intero branco che bruca. Dietro di loro la montagna che è casa.
Non mi accorgo dell’arrivo di un uomo anziano che in dialetto risponde alla domanda che non avevo ancora formulato. “ Vengono perchè hanno paura dei lupi. Quando hanno i figli vengono qui per chiedere protezione”.
Ma non vi fanno danni ai giardini agli orti? “Signura, “stace”(che sarà mai). Ci sono i lupi e ci stanno le creature”.
Mi risveglio, la banda adesso la sento più forte, deve essere vicina.
Lascio il branco a brucare e ritorno al mio proposito.
L’uomo mi saluta, è tornato qui dopo aver lavorato tanti anni in Germania. “Ciàve (ciao) Signura ci vediamo capabballe (giù dalla discesa) che la banda arriva in piazza”.
Affretto il passo e ho un senso infantile di gioia, come quando guardavo Biancaneve di Disney che cantava in coro con gli uccellini, gli scoiattoli e “i bambi” e ci credevo.
“lu muànn’ jé cchiù bbèlle ‘ndurn’ a tta” (il mondo diventa più bello intorno a te) [Da ‘Na matèine (a la Marèine) Fernando D’Annunzio]
Cover: Il lago di scanno foto di Giovanna Tonioli
Per leggere gli articoli diGiovanna ToniolisuPeriscopioclicca sul nome dell’autrice
La stagione referendaria si apre col tentativo di cancellare l’Autonomia Differenziata, ma proseguirà con ogni probabilità con i referendum costituzionali su premierato e separazione delle carriere in magistratura.
È evidente che vi è un attacco alla nostra Costituzione da parte delle destre al potere, ma il male viene da lontano, e la sinistra “sinistrata” ne è complice ed anzi protagonista.
Non ci riferiamo tanto a questioni specifiche, pur molto gravi, come per esempio la riforma del Titolo V della Costituzione, voluta dalle sinistre, e che ha aperto la strada alla Autonomia Differenziata. Riteniamo, più in generale, che la classe politica italiana nel suo complesso, a partire dalla “seconda Repubblica”, e anzi ancor prima nel corso degli anni Ottanta, sia completamente venuta meno al compito storico che i padri e le madri costituenti le avevano assegnato scrivendo la nostra Carta fondamentale.
Nelle intenzioni originarie il potere legislativo e il potere esecutivo dovevano essere il luogo di ciò che il vecchio P.C.I. chiamava “la democrazia progressiva”: garanzia (ovvia) dei diritti civili e politici e affermazione di sempre nuovi e sempre più significativi diritti sociali. Sappiamo come è andata a finire.
Per la verità le attuali difficoltà sono anche dovute ad un limite originario. I Costituenti presi dall’ebrezza di un ottimismo populista, figlio della vittoria nella guerra partigiana, immaginavano il futuro come una marcia radiosa e lineare verso il realizzarsi del potere popolare. Che la storia potesse tornare indietro pareva impossibile.
Si propose, ad esempio, di mettere in Costituzione il sistema elettorale proporzionale, ma poi non se ne fece nulla, molto probabilmente (e paradossalmente) perché la cosa sembrava ovvia ed erano tutti d’accordo. (Non si mette in Costituzione che due più due fa quattro!).
Comunisti e socialisti inoltre attaccarono con violenza l’idea di una Corte Costituzionale, ritenendo che in questo modo si volesse mettere un freno al parlamento, espressione della lunga marcia del popolo dentro le istituzioni. Gli altri partiti, invece, la difesero temendo che i comunisti andando al governo trasformassero l’Italia in un paese socialista. Lo so che si stenta a crederlo, ma questo era il clima del tempo!
In questo contesto nacque quell’art. 138 della nostra Carta che è l’unico (parere personale) che andrebbe modificato.Grazie ad esso per approvare una legge di revisione costituzionale basta la maggioranza assoluta dei voti di ciascuna Camera.
In pratica, a parte la possibilità del referendum, qualunque maggioranza parlamentare, in qualunque momento, può modificare la Costituzione.
Errore! La Costituzione non si cambia, tranne che non intervenga un nuovo processo costituente, figlio di una nuova “rivoluzione”, o comunque di una forte cesura storica.
Al massimo, giusto per dare spazio a questioni universalmente accettate, si potrebbe modificare l’art.138, prevedendo che le leggi di revisione costituzionale debbano avere una maggioranza dei tre quarti degli aventi diritto di ciascun ramo del parlamento. (Si potrebbe pensare anche ai due terzi, ma solo con una legge rigorosamente proporzionale).
Ciò, naturalmente, non darebbe nessuna garanzia che la Carta non possa essere modificata nei fatti, o resa inattiva con operazioni più o meno “subdole” e “striscianti”. Gli esiti dello scontro politico non possono essere decisi dalle norme costituzionali, ma le garanzie e gli indirizzi generali che la Carta prescrive andrebbero sempre rispettati.
Antonio Minaldi Militante nei movimenti fin dal 68. Esponente del movimento studentesco del 77 e fra i fondatori dei COBAS SCUOLA nell’87. Si occupa di attualità politica e di studi di filosofia collaborando con varie riviste.
In occasione dell’uscita del suo nuovo libro “Un azzurro spietato”, abbiamo intervistato l’amica autrice Rita Bonetti.
1) Sono innumerevoli le definizioni della “parola” poesia che avrai incontrato fino ad oggi e chissà quante ne incontrerai! Che cosa significa per te questa parola? Per quanto mi riguarda, la Poesia non può essere definita. È, allo stesso tempo, tutto e niente: dunque una contraddizione che si afferma non lasciandosi prendere, che non c’è ma è dentro di noi. Non ho assunto un ruolo per migliorare il mondo, motivo per cui la mia poesia, quella che scrivo, è per me consolatoria. Perché consolatoria risulta la sua capacità di mettermi davanti a quel che sono e a quel che mi accade o mi è accaduto.
NON SO SCRIVERE UNA POESIA
Io che scrivo in versi a dire il vero non ne sono capace la poesia non mi accade
fabbricare una poesia riuscì a qualche artigiano del secolo scorso oppure anche di questo ma nessuno ancora lo sa con certezza
bisogna avere la magia di chi vive la luna in pieno giorno o la calma di chi sta dalla parte dell’infinito
io che scrivo d’amore e di luce d’estate al mattino fabbrico solo sogni e memorie senza nostalgia
2) “Street poetry” è una poesia che hai inserito in questa tua ultima silloge. In “Parole a capo” l’ho già pubblicata, a margine di uno dei readings organizzati a Ferrara dall’Associazione Culturale Ultimo Rosso di cui sei una socia fondatrice. Come l’hai ideata? Ho conosciuto l’Associazione Culturale Ultimo Rosso in quanto mi era stato riferito, qualche anno fa, che organizzava readings di poesia in diversi luoghi pubblici della città di Ferrara. Ho pensato che questo approccio coincideva con il mio desiderio di proporre una poetica accessibile e popolare: se hai una poesia, ti serve solo uno spazio per renderla pubblica, non esiste un modello per fare poesia metropolitana. La parola d’ordine è la stessa per tutti: gettare parole al vento come semi, perché nelle strade fiorisca la poesia: quindi è nata “Street Poetry”. [vedi Qui]
3) “A Francesco in memoria” è una struggente lirica che hai dedicato a Francesco Lorusso, studente ucciso l’11 marzo 1977 a Bologna da un carabiniere. Ricordi di un periodo movimentista che, credo, ci abbia accomunato. Nella mia mente c’è scolpito il ricordo del lunedì successivo, in quel surreale funerale al cimitero, in una Bologna blindata, incredula e un po’ straniera. Cosa ti è rimasto di quel periodo e di quei sentimenti? Ho il ricordo dei momenti che precedettero quel giorno, quella sensazione di leggerezza, del poter essere tutto o niente, anche “cani sciolti”, che ci faceva sentire vincenti rispetto ai fratelli maggiori sessantottini. Invece quel giorno tragico forse fu lo spartiacque fra la leggerezza e quelli che poi furono gli “anni di piombo”. E noi che eravamo giovanissimi, ci trovammo grandi all’improvviso, cresciuti nelle tragedie.
(A FRANCESCO IN MEMORIA)
la neve scendeva ogni stagione dalle sfere di vetro capovolte e il mare d’estate toccava immaginarlo in un disco per l’estate
il cortile con gli ippocastani e il palazzone popolare che lo circonda adesso ha un muro zeppo di graffiti più grandi della solitudine di quella madre che affogò il suo bambino in un lago di sangue e di quell’unica panchina dove hanno trovato Daniele morto di eroina
poi, bandiere e lotte già perse in partenza nomi e volti bendati alla memoria: il tuo sangue ghiacciava la terra nello spazio di un lenzuolo funebre mentre l’orrore esplodeva intorno
dove siamo andati noi in quei giorni in quelle ore con le impronte profonde nel petto per imparare a tacere negli anni?
le nostre parole inciampano sui nomi dei morti ora che è tardi ora che la giostra del tempo ha divorato ogni cosa
4) Nel secondo capitolo “Della morte, delle domande inevase, delle mancanze”, affronti come “elemento sostanziale dell’umana vicenda” (come scrive Antonio Valentino nella prefazione) il tema della morte. “Un azzurro spietato” è il titolo di una poesia inserita in questo bel libro e che ha dato il nome alla tua silloge. Qual è la genesi di questo titolo? La morte c’era sempre stata nei miei versi ma era in gran parte una sorta di lente per prendere le distanze. Invece nell’ultimo periodo quel motivo è diventato l’esatto opposto: un antidoto preso per partecipare meglio al teatro del mondo, una sorta di punto di vista sulla vita, di illuminante per assaporare il tempo. La fine della vita costringe a riflettere sul proprio destino, la propria storia, diventando strumento di illuminazione. La poesia “Un azzurro spietato”, da cui il nome della silloge, raccoglie miei pensieri e riflessioni in occasione del funerale di mio padre. Il cielo così splendente di quel giorno, così contrastante con la situazione dolorosa, mi ha ricordato l’indifferenza della Natura leopardiana.
UN AZZURRO SPIETATO
Sei nel nero che cancella il mondo
per ultima dimora un’urna grigia di cenere nel silenzio freddo di eternità la mente va a un passato altrove chissà se esisti ancora da qualche parte di certo non c’è nulla che ci faccia superare la distanza il valzer si è interrotto e il cielo è di un azzurro spietato
5) Spesso ritornano frammenti di memoria legati ad amori finiti (anche con sferzante ironia come in “Ecologia di un amore”, esperienze di gioventù. Poesia, memoria, ricordi si rincorrono e si mescolano spesso... Il lettore della mia raccolta deve aspettarsi un vortice di suoni d’amore, l’amore rimane sempre il fil rouge del mio scrivere. Dall’amore che fugge all’amore che torna passando per gli amori effimeri. Qui sono descritti momenti d’amore, una continua ricerca, sperando sempre nel ritorno. Non devono tornare le persone ma il sentimento. In questa raccolta ci sono anche amori di quando avevo 16 anni e oltre, vissuti tra l’amore e la ricerca dell’amore perduto. Così, nel ricordo di un amore, ritornano luoghi e sensazioni, emozioni e pensieri che credevo perduti.
ECOLOGIA DI UN AMORE
Volevo un amore compostabile
ma non era un ambiente sostenibile parole come scorie veleno nelle arterie lasciavo i giorni andare e i fiori lì a seccare
Io con l’acqua dentro gli occhi a sperare l’impossibile e tu come sempre, riciclabile
MANCANO LE INDICAZIONI
E’ mai possibile che nessuno sappia dov’è il capolinea? Se qualcuno lo sa, non me lo ha detto mancano le indicazioni nemmeno un cartello, come nei piccoli paesi del sud
seguo l’unica carreggiata possibile nell’ignoto segmento di tempo che scorre veloce di ore non so più fare un balzo oltre un masso sono attenta a non inciampare potrei spezzarmi le caviglie di cristallo
Un tempo mi illudevo di giungervi per caso e trovare ristoro all’ombra buona di un albero sulla panchina dove mia madre mi aspettava la domenica pomeriggio
E’ sempre più disabitata nel mio procedere, la strada e tutta quella musica e risate e urla dalle case hanno lasciato il posto al ronzio degli insetti
chissà dove sono finiti gli sguardi da sogno il miele dei sorrisi e l’apparente noncuranza dell’invidia forse sono avanti al mio passo o sono sangue che cresce l’erba trascurata dei campi o le radici dei rovi secchi d’arsura oppure vagano come frammenti in volo di vento
Il cartello che vedo a Ovest in lontananza è solo la pubblicità di un supermercato
Rita Bonetti nasce e vive a Bologna. Da sempre innamorata di romanzi e letteratura.
Dopo la laurea in Archeologia presso l’Università di Ferrara, inizia una stretta collaborazione di scrittura creativa con due amiche storiche e nel 2017 pubblica la prima opera narrativa, una raccolta di racconti scritti a tre mani Le Regine di Quadri. Contemporaneamente, l’autrice approfondisce la passione per la poesia e nel mese di Febbraio 2019 esce la sua prima raccolta di liriche “Persiane Blu”, Armando Siciliano Editore. Nel settembre 2019, questa raccolta di poesie si classifica al secondo posto al Concorso Internazionale POETIKA LAB. Il 18 Maggio 2019 la sua poesia Dettagli e l’11 Gennaio 2020 la sua Poesia “Scrivi per me” vengono pubblicate nella rubrica La bottega della Poesia del quotidiano Repubblica di Bologna. La sua poesia Il bacio si classifica sesta tra i dieci vincitori del PREMIO WILDE Concorso Letterario Europeo sezione POESIA D’AMORE. Nel 2020 l’autrice inizia la sua collaborazione con il sito web Lo Scrigno di Pandora, per la pagina della poesia. Nel 2021 viene pubblicato “D’amore e di altre storie”, Bertoni Editore. Nel 2024 esce “Un azzurro spietato“, Bertoni Editore. In “Parole a capo” sono state pubblicate altre poesie di Rita Bonetti l’8 aprile 2021, il 3 novembre 2022, il 27 luglio 2023, e in altre occasioni collettive.
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.
“Confiteor”, il nuovo libro di Piergiorgio Paterlini: come una notte di veglia e di parole.
Mia nonna – la cito perché anche Piergiorgio Paterlini (PGP) parla a lungo di sua nonna nel suo ultimo bellissimo libro – diceva mia nonna, grande lettrice, e traduco dal dialetto ferrarese: “Si scrive si scrive … e poi scopri che l’hanno già scritto”. Così, quando incominciate le prime righe di un nuovo libro, almeno questa è la mia esperienza, capita spesso di riconoscere una eco, uno stile, una sintassi, una scelta dei vocaboli, un mood che avete già incontrato altre volte, in altri libri e in altri autori.
Non è il caso di Piergiorgio e del suo Confiteor (Piemme edizioni, 2024), ma lo stesso si potrebbe dire di molti altri suoi libri. Confiteor, una confessione appunto. Quindi, non un romanzo tout court, non un pezzo di storia d’Italia, non una collana di pensieri forti. E neppure una autobiografia, come mi pare abbiano inteso la maggior parte dei recensori.
Oppure sì, una autobiografia, che al centro del libro c’è comunque Piergiorgio e la sua vita, ma nelle mani dell’autore il genere autobiografico subisce una mutazione, devia dal canone per assumere altre coloriture, altri sentieri, e riserva inaspettate sorprese e illuminazioni.
Piergiorgio Paterlini, che in seminario ha trascorso gli anni della primissima adolescenza e che così bene ci racconta, non si confessa davanti a un ministro del culto e nemmeno davanti a Dio: due o tre volte nel libro ricorre una frase sintetica e senza appello “Ètutta la vita che faccio a botte con Dio“. Giobbe naturalmente.
Per intendere, però, che tipo di confessione sia quella di Piergiorgio, immaginate di passare con un amico o un’amica (a me è capitato) una notte di veglia e di parole. In quella notte passato e presente si intrecciano e la voce, il tono (lo stile) si alza e si abbassa, si alternano la storia, il ricordo, il racconto per poi lasciar spazio ai grandi e controversi temi civili. E qui Paterlini mette coraggiosamente le mani nel piatto (per chi lo conosce non è una novità), ribalta il punto di vista corrente e propone una lettura non convenzionale dei grandi temi di carattere intimo, pubblico e civile.
Così, mentre continua a fare a botte con Dio, Piergiorgio regola i conti con una certa categoria di cattolici. Non i lefebvriani o gli attivisti del movimento per la vita (troppo semplice, come sparare sulla croce rossa), ma un certo tipo di “cattolici progressisti” con l’insopportabile presunzione di etichettare come cristiani chi cristiano non è. A loro, con un felice salto stilistico, dedica una sentenza che ha il sapore del Woody Allen migliore : ” I cattolici, se Dio Esiste, sono straconvinto non li sopporti”.
Nel suo Confiteor c’è spazio per il tema della “normalità omosessuale” (spero che PGP mi passi la definizione), che era già al centro della sua attenzione più di trent’anni fa: il suo Ragazzi che amano ragazzi (uscito nel 1991 e continuamente ristampato). Già allora Piergiorgio ha prodotto un pensiero nuovo, segnando una piccola rivoluzione culturale, il passaggio dalla categoria della identità a quella della preferenza sessuale.
C’è poi un altro tema, legato al primo, molto più importante e che Paterlini continua a esplorare, quello del desiderio, della affettività, dell’amore. Pagina 305: “Non è ideologico ma oggettivo che non esiste una minoranza sessuale, esistono maggioranze e minoranze diverse per ogni aspetto dell’affettività e della sessualità. E continua: “Oggi, ma da molto tempo, sono molto più curioso di sapere perché qualcuno si innamora cinque volte al giorno e qualcun altro una volta soltanto della vita.”
Il desiderio, l’attrazione, l’affettività, l’amore, ognuno di noi li vive in modo differente. Se ci concentrassimo su questo, “diventerebbe lampante quanto sia poco interessante che uno si innamori di una persona del proprio o dell’altro sesso”. Già, l’amore, Piergiorgio ne parla come di un miracolo, l’unico miracolo in cui “credere”, ne esiste forse un altro sulla faccia del pianeta?
E proprio l’amore, la sua inaudita potenza, è al centro del suo romanzo breve Lasciate in pace Marcello (ristampato da Einaudi), la prova narrativa più riuscita di Paterlini, dove si avverte la lezione di Ignazio Silone; non il Silone del celebratissimo Fontamara, ma di quello che io considero il suo romanzo capolavoro, Il segreto di Luca.
Poi in Confiteor c’è la storia, tanta storia, micro e macro, personale e collettiva. Il libro è diviso in tre grandi sezioni: Ottocento, Novecento, Duemila. Una storia lunga tre secoli, vissuta direttamente dall’autore, nato nel 1954 in un piccolo borgo della campagna reggiana. Da quel punto, prima della scomparsa delle lucciole, prima del carrarmato del Boom, prende avvio la storia: la storia di un bambino che si guarda intorno, che vorrebbe fare domande di cui ancora oggi cerca le risposte.
Ecco l’Italia contadina preindustriale, la casa dei familiari e degli antenati, le leggi non scritte della società patriarcale. Le pagine dove Paterlini rivive e ci racconta questo orizzonte, che coincide in tutti i sensi con “il tempo dell’infanzia”, sono affascinanti, ma soprattutto vere, senza cedimenti alla nostalgia. Nessuna aureola bucolica. Perché quel mondo scomparso non era, per il solo fatto di essere scomparso, più bello e più facile di quello contemporaneo, era un mondo misterioso, duro, a volte crudele.
Infine, e non potrebbe essere altrimenti, c’è il lavoro, il Paterlini giornalista, scrittore, autore teatrale, editor e tanto altro. Perché da quasi 50 anni, per riprendere una sua espressione, Piergiorgio “fa a botte con le parole”. Una quindicina di libri pubblicati, l’invenzione insieme a Michele Serra e Andrea Aloi del “settimanale di resistenza umana” Cuore (quanta nostalgia oggi, in un’editoria italiana che ha abolito umorismo e satira), la lunga collaborazione a Linus, e le sue rubriche, i suoi blog, i suoi articoli su tanti quotidiani. Impossibile dar conto della varietà, della quantità, della qualità soprattutto, delle esperienze e delle invenzioni di PGP.
Conterà però almeno dire di una cosa che mi ha sempre colpito (e che ho spesso invidiato) nella scrittura di Piergiorgio. Per farlo, può servire una storica rubrica collettiva di Linus, cui anche io ero stato arruolato. Il titolo di quella rubrica – Racconti di notizie – proponeva una scommessa, dichiarava la voglia di un linguaggio nuovo. Raccontare le notizie, dunque: miscelare giornalismo e letteratura, uscire dagli stereotipi del genere giornalistico, trasformare un articolo in un racconto.
Tutta la carriera e la scrittura di Piergiorgio Paterlini è piena di sfide come questa. Così in alcuni suoi libri le interviste si trasformano in racconti in prima persona (uno per tutti Matrimoni, Einaudi) e le auto-biografie (l’ultima quella scritta con il Nobel Giorgio Parisi) diventano libri a quattro mani, un intenso dialogo rivelatore.
PGP, non credo che la critica se ne sia accorta a sufficienza, non è solo un bravo scrittore, ma è uno dei pochi che ha lavorato e continua a lavorare sul linguaggio. Leggere i suoi libri è sempre un vento nuovo chiusi come siamo nel pigro scatolone del giornalismo e della letteratura italiana contemporanea. Una boccata d’aria che consiglio a chiunque.
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Quella cosa chiamata città. PENSIERI SPARSI SUL FUTURO URBANO
Da anni in tanti lavoriamo su città circolari, attive, resilienti, lottiamo contro il consumo di suolo, sul rapporto tra città e salute, sulla mobilità dolce, sull’abitare sociale, abbiamo inoltre riflettuto sugli effetti del Covid 19 nell’organizzazione delle città e nelle pratiche dell’abitare.
Nelle università si lavora da anni su questi temi, con sempre meno soldi e sempre più burocrazia, necessaria per testare la qualità del lavoro di ricercatori esasperati e disillusi. Abbiamo i cassetti pieni di progetti, ricerche e studi che prefigurano un paese e un mondo diverso. Si propongono strategie e visioni si elaborano progetti di dettaglio, tutto nel totale disinteresse della politica e della governance, come si dice oggi.
Poi arriva l’archistar di turno et voilà i problemi dell’abitare nell’era del Corona Virus sono risolti. A quel tempo, ogni giorno sui grandi quotidiani neoliberisti si intrecciavano articoli e interviste dove il gioco era a chi la sparava più grossa.
Ci vuole il “Ministero alla Dispersione” (è arrivato il nuovo Kropoktin?) perché nelle città accentrate non si può più vivere. Siamo pieni di bellissimi di borghi vuoti dobbiamo ritornare a viverci, certo, bell’idea, ma perché si sono svuotati? L’intuizione viene colta dall’allora Ministro alla Cultura che destina denari PNRR per un borgo a regione; dunque, un borgo ricco circondato da borghi abbandonati, ma il problema non era nelle strategie per le aree interne?
Dobbiamo rilanciare l’uso della bicicletta: che intuizione! E le piste ciclabili chi le fa e, quando le fa, come le fa? Visto che siamo sul tema mobilità, perché non mettiamo anche qualche tram in città e trasporto metropolitano tra le città per renderle un sistema metropolitano come nella Randstad?
Qualche giorno dopo un’altra archistar se ne esce con l’intuizione: diamo importanza all’aria e al verde. Ottima idea, ma non l’avevano già proposta i fondatori dell’Urbanistica a metà dell’Ottocento, Olmsted a Boston e a Amsterdam nel 1927 non si avvia la costruzione del grande bosco urbano?
Poi arriva quello che vuole piantare alberi dappertutto, a prescindere da dove siamo, perché noi umani dobbiamo imparare dal mondo vegetale che non è competitivo, sarà vero? Però bisogna anche migliorare le abitazioni creando gli opportuni spazi per lo smartworking, ma lavorare a casa richiede la prossimità e quindi a 15 minuti devo avere commerci e servizi.
Ottima idea, peccato che le abitazioni costino 10.000 € a mq., questo non le rende selettive? E nei quartieri sociali che facciamo, dove spesso le case sono devastate dalle muffe, e non ci sono, oltre ai mezzi pubblici (e quindi devo portare mia madre a fare le spesa in automobile nell’ipermercato), i soldi per “rigenerarle”?
La pandemia e la crisi climatica hanno accentuato la proliferazione di costruttori di “eco-tecno visioni”, ovviamente sempre più green, che, se realizzate, porterebbero qualcuno di noi, i più benestanti se non ricchi, a vivere in spazi svuotati dalla percezione dei problemi del mondo e dalle differenze che in esso vi si incontrano.
Nei nuovi quartieri di Milano, Parigi, Londra, New York, o nelle nuove città di Dubai, Neom Line, Akon, New Cairo gli abitanti abiterebbero in spazi e appartamenti con boschi nei balconi, mentre altri, a Busan, in bolle iper-condizionate, mangiando verdure e frutti idroponici e muovendosi in spazi di relazione tutti identici, iperconessi, in un tuttocosì smart da toglierti il piacere di decidere qualcosa della tua quotidianità, perché già prestabilito dall’intelligenza artificiale.
Un tempo l’attacco a terra degli edifici definiva il livello di complessità e interazione urbana e sociale dell’architettura (nelle case delle nonne le porte erano sempre aperte). Oggigli edifici della città neoliberista trasformano in bisogno l’autosegregazione e la separazione, ricorrendo alle rigide recinzioni, alle pareti a specchio riflettenti, che nascondono una guardiola, o la presenza di un poliziotto privato che ti intima di andartene se ti affacci allo specchio della parete, o se lungo la strada (pubblica) fai una foto che riprende anche un edificio dove abita l’influencer del momento.
Beato lo spazio della mescolanza, di cui parla Guy Debord, perché è uno spazio non rappresentabile.
Mentre rifletto sul futuro urbano che ci aspetta leggo il giornale. L’intervistatore del quotidiano La Repubblica inizia dicendo che nel mondo ci sono 3 miliardi e mezzo di “rifugiati” quindi dobbiamo ripensare le nostre abitazioni. Buon inizio penso, da giornalismo d’inchiesta.
L’archistar Massimiliano Fuksas che, essendo un nomade che vive tra Roma, la campagna senese e Parigi, se ne intende di “rifugiati”, risponde che dobbiamo prevedere spazi per l’isolamento, così come ora si prevedono i garage e le soffitte; e un intero piano comune per lo smart working, un po’ come negli USA, dove ci sono gli spazi per il fitness (chissà a quali Stati Uniti pensa? Non certo quelli dove vivono i White o i Black Trash).
Leggo, esterrefatto per tanta banalità e presunzione, e mi aspetto che il noto giornalista Francesco Merlo gli risponda: “…ma architetto lo sa che più di un miliardo di persone nel mondo vive in slum e favelas e sono destinati a raddoppiare? Lo sa, che nel densissimo quartiere di pescatori di Saint Louis du Sénégal, in una famiglia si fanno i turni per dormire: chi dorme al mattino, chi al pomeriggio, chi alla notte, perché non c’è spazio per tutti: dove mettiamo lo spazio per lo smart working?”
Questa domanda però non arriva, ma arrivano altre ‘perle’ di Boeri, di Cucinella che vegetalizza la facciata di San Petronio per contrastare le isole di calore, mentre Mancuso vuole riempire Piazza Maggiore con grandi vasi e dentro grandi alberi. E infine Renzo Piano, che afferma con tono sapiente che “l’opposto della città non è la campagna ma è il deserto”, evidentemente non conosce il deserto e le civiltà urbane che ha espresso, resilienti da secoli.
Per leggere tutti gli articoli e gli interventi di Romeo Farinella, clicca sul nome dell’autore
Ogni giorno, Abu Ali Zahir si avventura tra le macerie della sua abitazione nella speranza di ritrovare vivi alcuni dei 23 parenti rimasti seppelliti dopo un attacco delle forze israeliane. “Vado tra le macerie e urlo i loro nomi, sperando che qualcuno mi risponda”, dice al Guardian. Finora, a 60 giorni di distanza dal bombardamento, sono stati estratti 16 corpi dei suoi familiari. Gli altri sette risultano ancora dispersi.
Secondo il Comitato internazionale della Croce Rossa (CICR), sono circa 6.400 i palestinesi ritenuti dispersi dallo scoppio della guerra tra Israele e Hamas il 7 ottobre, in gran parte rimasti intrappolati tra le macerie, come i parenti di Abu Ali Zahir, oppure sepolti senza essere stati identificati o detenuti da Israele, scrivono Lorenzo Tondo e Sufian Taha in un articolo sul Guardian.
“Ogni settimana possiamo ricevere tra le 500 e le 2.500 segnalazioni”, afferma Sarah Davies, portavoce del CICR. “Ci sono innumerevoli ragioni per cui le persone vengono separate in una zona di guerra. Se ci sono esplosioni nelle vicinanze, le persone sono in preda al panico, fuggono e si perdono. A volte è buio ed è pure difficile vedere. Oppure, in queste situazioni caotiche, può capitare di perdere i propri telefoni, le connessioni possono essere interrotte, le schede sim vengono cambiate”. In molti non sono in grado di sapere neanche in quali ospedali i propri familiari feriti vengono trasportati.
Le limitazioni per l’accesso di esperti forensi e dei diritti umani e gli attacchi sugli ospedali complicano ulteriormente gli sforzi di documentare le vittime e identificare i deceduti. “L’intensità degli attacchi aerei israeliani e delle ostilità tra le parti – così come le bombe inesplose e i missili tra le macerie – rende troppo pericoloso per le famiglie, i primi soccorritori e gli operatori umanitari cercare le persone disperse tra le macerie”, afferma Save The Children in un recente rapporto.
Finora, dal 7 ottobre, il CICR ha segnalato più di 8.700 palestinesi scomparsi a Gaza. Di questi, 2.300 persone sono state individuate: questo significa che le famiglie sono riuscite a trovare i parenti dispersi, vivi o morti. Ma, spiega il CICR, il numero effettivo di palestinesi dispersi è probabilmente notevolmente più alto, in parte perché non tutte le famiglie sanno di poter contattare la Croce Rossa, in parte perché in alcuni casi sono state uccise intere famiglie e nessuno può dunque denunciare la loro scomparsa.
Nei giorni scorsi gli attacchi non hanno risparmiato né scuole né zone che dovrebbero essere al riparo da attacchi. Il ministero della Sanità di Gaza, gestito da Hamas, ha dichiarato che 141 palestinesi sono stati uccisi e 400 persone sono rimaste ferite da attacchi aerei israeliani da sabato scorso.
Un bombardamento ha colpito la zona di Al Mawasi, dove sono rifugiate moltissime persone rimaste senza casa. Al Mawasi era stata definita una “zona umanitaria sicura” dall’esercito israelianio. E invece le forze israeliane hanno ugualmente attaccato l’area, densamente popolata, a loro dire per colpire un leader di Hamas, Mohammed Deif. Tuttavia, né l’esercito né il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu hanno potuto confermare che nel bombardamento sia stato ucciso Deif. Quel che è certa è l’uccisione di centinaia di persone rifugiate in un’area che ritenevano sicura. Secondo un’analisi delle immagini aeree del bombardamento da parte del New York Times , nell’attacco sarebbero state usate bombe da 2mila libbre (circa 900 chilogrammi) che vengono usate raramente in aree densamente popolate da civili per il loro effetto devastante.
Nelle scorse settimane altri attacchi hanno colpito diversi edifici scolastici. “Quattro scuole sono state colpite negli ultimi quattro giorni. Dall’inizio della guerra, due terzi delle scuole UNRWA a Gaza sono state colpite, alcune sono state bombardate, molte sono state gravemente danneggiate”, ha dichiarato il Commissario generale dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel vicino oriente (UNRWA), Philippe Lazzarini, in un post su X.
Il 9 luglio, almeno 25 persone sono state uccise dopo un attacco israeliano vicino a un edificio scolastico che ospitava sfollati gazesi nella parte orientale di Khan Younis, nel sud di Gaza. Alcuni giorni prima, il 6 luglio, un altro attacco aveva causato almeno 16 morti in una scuola dell’UNRWA a Nuseirat, nel centro di Gaza, a cui hanno fatto seguito il 14 luglio altri bombardamenti su una scuola di Gaza City che ospitava centinaia di rifugiati e che hanno causato la morte di 22 persone.
“Quanti bambini, medici, donne, anziani e semplici residenti uccisi a Gaza vale Mohammed Deif? Quanto sangue deve essere versato per l’appetito dei vertici militari e politici? Quante persone potrà uccidere Israele fino a quando tutto questo non sarà considerato un crimine ai suoi stessi occhi? Dove si ferma il massacro?”, si chiede il giornalista israeliano Gideon Levy su Hareetz. “La risposta è preconfezionata: ‘Quanti sono necessari’. In altre parole: non c’è un limite”.
In copertina: Gaza bombardata – frame video Channel 4 News via YouTube
BIBLIOTECHE E FORMAZIONE DEGLI ADULTI. Viaggio ad Atene di una volontaria della Biblioteca Popolare Giardino
C’è un tema che dal 2021 appassiona noi volontariə della Biblioteca Popolare Giardino di Ferrara: i viaggi all’estero. Grazie ad una proficua collaborazione con la Cooperativa EQUILIBRI di Modena è possibile effettuare permanenze all’estero nell’ambito di un Progetto Erasmus dell’Unione Europea per l’educazione permanente degli adulti.
Tali ‘attività di mobilità’, come si legge nella Presentazione curata dalle operatrici di EQUILIBRI, hanno l’obiettivo di organizzare incontri formativi sui temi della biblioteca sociale, al fine di “trasformare le biblioteche ancora di più in luoghi di apprendimento permanente per tutta la cittadinanza, migliorare e ampliare le attività culturali dipromozione ed educazione alla lettura, includendo gruppi socialmente più svantaggiati e migliorare la formazione degli adulti”.
In occasioni estive differenti alcunə volontariə hanno potuto visitare biblioteche finlandesi, francesi, tedesche, danesi e approfondire la conoscenza del modello e delle esperienze di istituzioni aperte, vissute come luoghi sociali, luoghi di costruzione della comunità e di interazione con gli altri.
Tutte situazioni in cui si è potuto toccare con mano come la partecipazione sia la base fondamentale per la vita sociale: partecipazione come bisogno umano; senza la partecipazione di utenti veri e la considerazione delle situazioni di utilizzo reali, i risultati dei processi progettuali restano spesso in superficie.
I momenti di restituzione delle esperienze, svolti oltre che a Modena con tuttə i/le partecipanti, anche tra di noi nella nostra sede alla base del Grattacielo, hanno consentito scambi di stimoli, riflessioni, osservazioni e hanno contribuito alla crescita individuale e collettiva e alla individuazione di percorsi creativi e attività nuove da proporre ai nostri utenti.
Quest’anno io e la mia amica Silvia siamo state le fortunate: lei è andata a giugno a Barcellona, dove sono state effettuate visite a varie biblioteche della rete cittadina (tra cui la mirabolante Federico Garcia Lorca), con l’obiettivo di osservare gli aspetti fondanti di biblioteche come luoghi di comunità, anche in contesti di particolare vulnerabilità.
Io ho partecipato, dall’8 al 13 luglio, a un corso dall’accattivante titolo “Creare una comunità multiculturale attraverso la biblioteca”, presso la Biblioteca e Centro culturale plurilingue WE NEED BOOKSnel quartiere Kypseli di Atene.
WNB il tavolo dei nostri lavori
WBN scaffali e libri
Eravamo in 14: dieci bibliotecariə, io volontaria e due operatrici di EQUILIBRI accompagnate da una collaboratrice. EQUILIBRIdi Modena è una cooperativa sociale con una lunga storia che parte dal 1984 grazie ad alcuni pionieri nel campo della promozione – anzi incitamento – alla lettura, oggi praticata nella forma di numerosi progetti proposti alle scuole, alle biblioteche e alla gente, cui si aggiunge il settore della editoria giovanile (libri da leggere), nonché della produzione di profondi, agili e utilissimi ‘manuali’ (libri per far leggere).
WE NEED BOOKS è uno spazio contemporaneo pionieristico che offre servizi culturali alla comunità, permettendo di accrescere il desiderio di leggere, fornendo strumenti di miglioramento delle proprie abilità e competenze a utenti di ogni età ed estrazione sociale, greci e stranieri.
A novembre 2019, nel vibrante e diversificato quartiere Kypseli, è stata aperta la prima biblioteca multilingue, con l’importante obiettivo di creare una società libera dalle discriminazioni, offrendo libero accesso alla conoscenza entro uno spazio che incoraggiasse alla comunicazione, alla immaginazione e alla gioia.
Qui si opera per favorire l’uguaglianza, la solidarietà e la difesa dei diritti umani. Si promuovono il multiculturalismo e l’empatia nelle vite quotidiane degli Ateniesi. Gli obiettivi belli e profondi e la ‘mission’ dell’associazione, nata principalmente con l’attenzione rivolta ai rifugiati politici, ci sono stati appassionatamente illustrati dalle due operatrici Johanna e Emma e dalla volontaria Margherita.
Il ricco programma dei quattro giorni di corso ha visto un accorto alternarsi di presentazioni teoriche e osservazioni sul campo, giochi di ruolo e discussioni e confronti. Ci è piaciuta molto la scelta di non chiudere al pubblico la biblioteca mentre noi eravamo là, sedutə attorno al lungo tavolo, ad ascoltare, parlare, leggere… e vedere in tal modo intorno a noi alcuni bambini aggirarsi tra gli scaffali, giocare, fermarsi a leggere.
Abbiamo desiderato entrare a far parte di questo colorato universo, per cui ci siamo associatə e, secondo una modalità bella che ci ha ricordato l’usanza napoletana del “caffè sospeso”, abbiamo lasciato le nostre “tessere sospese” …
Mi è sembrata particolarmente efficace, nella prima mattinata, la proposta di ‘gioco’ utile ad autopresentarci: siamo statə invitatə a scegliere, girovagando fra gli scaffali ricchissimi di ben 14.000 libri in 60 lingue differenti, uno o più di uno che ci ‘parlasse’ o che ‘parlasse di noi’, favorendo così lo scambio e la reciproca conoscenza.
Anche i momenti conviviali sono stati opportunamente collocati nel programma con scopi sensati ed efficaci: i break a metà mattinata, le passeggiate nel quartiere e i pranzi insieme alle operatrici. Ci sono stati forniti materiali di studio, bibliografie, suggerimenti che porteremo con noi e arricchiranno il nostro lavoro in biblioteca.
Il percorso svolto ha anche contribuito a creare e/o a rafforzare relazioni stimolanti, certo favorite dal comune interesse verso gli argomenti che via via venivano trattati, ma anche dal clima positivo, leggero, sorridente e appassionato che si è venuto a creare.
È bello poter constatare come, anche in pochi giorni, si possa verificare la trasformazione di quello che era nato come “gruppo destino” in un ben assortito “gruppo progetto”, cui si è aggiunto e perfettamente integrato, il giovane John-Mark, professore scozzese presso la UEA (University of East Anglia a Norwich) appassionato di biblioteche multiculturali.
La città di Atene ha fatto da cornice speciale e di riguardo alla nostra fantastica avventura. Già la sera del nostro arrivo si è rivelata palese l’attitudine del nostro bel gruppo alle camminate – ed è proprio così, come curiosi flaneurs, che si scoprono e si gustano le città.
La meta scelta, il Lofos Lykavittos (Collina del Licabetto) ci ha regalato, dopo un bel tratto a piedi e quello conclusivo in una pittoresca funicolare, un panorama a 360°, che abbiamo dovuto conquistare passo dopo passo, praticamente sgomitando tra la folla di turisti per lo più impegnati a cercare le inquadrature più efficaci per i loro selfie (e vi risparmio le mie tirate sul turismo di massa…).
La mattina seguente il tragitto da compiere per andare dall’hotel alla sede di WE NEED BOOKS ci ha fatto conoscere ed attraversare il Pedio Areos (Parco di Ares), il più grande parco di Atene (XIX secolo), dai larghi viali costellati delle statue degli eroi della guerra d’indipendenza (1821-1832) dall’Impero Ottomano.
Quello stesso giorno, il primo del corso, Iohanna e Margherita ci accompagnano, a ora di pranzo, in giro per il quartiere Kypseli, “multietnico e popolare ma anche alternativo il giusto…rappresenta l’Atene vera per i veri Ateniesi”, come scopro curiosando nei siti turistici che offrono tour ‘al di fuori dei soliti tracciati’.
Il quartiere Kypseli – Atene
Il quartiere Kypseli – Atene
Anche le strade intorno al nostro hotel, in zona Viale Alexandras, ci appaiono animate e vivaci, con il loro alternarsi di edifici ristrutturati e altri purtroppo abbastanza cadenti, se non addirittura fatiscenti, ma resi pittoreschi dai numerosi graffiti intensi e coloratissimi… Percorrendole mi è venuto da pensare, che sembra di stare in un ‘Centro Sociale a cielo aperto’…
Naturalmente, non potevano mancare, nelle nostre peregrinazioni durante i momenti liberi dal corso, i ‘pezzi forti’: l’Acropoli, ammirata in notturna da lontano e in successive passeggiate in avvicinamento prima della necessaria visita pomeridiana, sotto il sole cocente mitigato da un vento piacevolissimo.
Non posso aggiungere nulla se non condividere le emozioni davanti al Teatro di Erode Attico, pronto per ospitare concerti e spettacoli serali, o durante la salita dei Propilei, o al passaggio accanto all’Eretteo con le bianche Cariatidi e la sosta alla base del Partenone, il più grande amore della mia vita, ma anche la Fondazione Stavros Niarchos con il Centro Culturale, la Biblioteca Nazionale ‘nuova’ e l’Opera Nazionale Greca progettata da Renzo Piano.
Di quest’ultima recupero una affascinante descrizione in un articolo comparso su Donna di Repubblica nel novembre 2017: viene intervistato Costas Voyatzis che con il suo sito Yatzer, fondato nel 2007 è considerato uno degli influencer globali più apprezzati e che usa, per descrivere la ‘nuova’ Atene, aggettivi come energica, creativa, travolgente.
Per lui “Atene è la città perfetta per chi ama passeggiare, divertirsi e fare il pieno di storia sotto un cielo sempre incredibilmente blu”. E suggerisce una visita proprio allo “Stavros Niarchos Foundation Cultural center a Kallithea, appena ultimato: lo splendido, gigantesco parco, dice, collega l’edificio di Renzo Piano con il mare da un lato e la città dall’altro. La vista, grazie alla collinetta artificiale, è mozzafiato”.
Tutto vero anche per noi, che ci estasiamo nella terrazza coi divanetti bianchi e grigi, gustandoci la vista strabiliante che ci ripaga da impressioni non positive vissute, da alcunə più, altrə meno, vedendo tante, troppe guardie giurate (volute dalla Fondazione, ci dice la gentilissima direttrice) nelle sale della Biblioteca, a fronte di una frequentazione di utenti e visitatori che ci colpisce, perché davvero bassa.
Il che ci porterà la mattina seguente ad affrontare la questione con le nostre amiche di WE NEED BOOKS e a discutere sulla efficacia della creazione di simili “cattedrali nel deserto” in una zona così lontana dalla gente e, come da noi stessə sperimentato, non facilmente raggiungibile.
Io sono un po’ di parte, perché adoro Renzo Piano e difendo la sua scelta e sostengo che la bellezza deve essere portata nelle periferie, a patto che poi ci si adoperi per far sì che anche la gente, i giovani, i bambini, gli anziani, vengano portati a godere della bellezza e stimolati a frequentare Biblioteca, Centro Culturale e Opera Nazionale.
Come si evince, questa volta la parte ‘turistica’ del mio reportage, non è condita, come altre volte, con riferimenti a romanzi letti: non ho avuto, prima di partire, il tempo di arricchire il panorama delle mie letture dei libri di Petros Màrkaris, che ambienta i racconti delle indagini del commissario Charitos prevalentemente ad Atene, con indicazione dettagliata di strade e piazze ed edifici salienti.
Però non ho resistito alla tentazione di fare una ricerca su cosa di nuovo avrei potuto leggere e ho scoperto due volumi che sicuramente acquisterò e li vivrò come un prolungamento della visita a posteriori, in attesa di nuove possibilità di recarmi in Grecia. Si tratta di Ad Atene con Markaris, di Patrizio Nassirio e di Atene nel metrò, di Petros Màrkaris stesso.
Bibliografia:
Cartoville Atene, Touring Editore, 2019
DCASA, novembre 2017
Patrizio Nassirio, Ad Atene con Màrkaris, Giulio Perrone Editore 2023
Petros Màrkaris, Atene nel metrò, La nave di Teseo 2023
Le foto della cover e nel testo sono di Maria Calabrese
Per leggere gli articoli diMaria Calabresesu Periscopio clicca sul nome dell’autrice
Diario in pubblico. La postura del Graal (non santo)
Dal mio osservatorio-balcone, che dà nella ormai non via Zanella, scruto con interesse come viene tenuto il nuovo Graal naturalmente laico e incapace di suscitare meditazioni di carattere etico, spirituale o normalmente abitudinario.
Si sarà capito che parlo delcellulare.
Partiamo dai giovani, che inventano posture originali e diversissime. Le ragazze – o chi si pone come loro – vezzosamente lo fanno scorrere tra i capelli, lo avvicinano e allontanano dal seno con lenta circumnavigazione e infine delicatamente lo appoggiano sotto l’ombelico. Le più abili riescono con contorcimento impeccabile ad avvicinarlo ai glutei, rimanendo come un foglio di carta attorcigliato. L’età media non supera la ventina.
Altro discorso per le più giovani di solito pettinate a treccioline e con ombra di rossetto sulle labbruzze. Se ne intuisce il rispetto che portano all’oggetto perché il passo si fa solenne, la vestaglietta si ricompone, l’andatura si fa decisa e il Graal è posto come un panino che si sta per addentare.
Meno fortunati (senza distinzione di sesso) chi sta in carrozzino. Il desiderio da loro espresso sarebbe quello di usarlo a mo’ di ciuccio, ma viene impedito loro da inflessibili madri che glielo allontanano dalla bocca, mentre con l’altra rispondono alle chiamate perentorie del loro apparecchio.
La solennità dell’uso è però speciale nelle signore di mezza età che sanno di poter dominare le fila sparse della condizione, come quando è il momento di distribuire lo spaghetto casereccio. Di solito molto serie e mai eccessivamente magre lo tengono costantemente appoggiato all’orecchio destro, mentre il lato sinistro del corpo si attiva nell’esercizio del potere. Il sorriso non è contemplato.
È come ritornare ai miei tempi infantili, quando si udiva il “Via! March!” delle assistenti scolastiche. Una amica mi racconta che, quando le suddette signore indossano i pantaloni, pongono il Graal nella tasca posteriore e se necessità le costringe alla minzione, l’oggetto inevitabilmente finisce “in water”.
Non parlo delle anziane -la mia categoria preferita- che con sorriso angelico biascicano un “non sento”, quando vien loro avvicinato il Graal all’orecchio. Allora s’alza potente la ripresa orale dell’accompagnatore e loro felicemente giocherellano col nuovo aggeggio.
Sportivamente consapevole delle possibilità concesse, come in una partita del cuore, ma non diretta da ‘Gnazio’, il giovanetto maschio lo usa a mo’ di pallone, addirittura stringendolo fra i denti mentre caracolla in bicicletta o addirittura s’erge sulle spalle del compagno che pedala. Il grido è imponente: risveglia gabbiani, colombacci, cicale che accolgono con un entusiastico consenso il nuovo compagno animale.
Di solito le maggiori esibizioni si svolgono tra le due-tre di nottefino alle sei, quando il mostro di ferro che sbarra la via comincia a prepararsi per il suo urlo unico e il rimbombo copre ogni altro tentativo d’imitazione. Più riflessiva l’età media dei maschi che, fingendosi cronisti di qualche importante rete televisiva, tengono aperto un giornale e borbottano preziosi consigli non si sa rivolti a chi.
Ciò è stato controllato di persona ad un caffè del Laido che si chiama “dall’alba al tramonto”. Accanto a loro l’enorme sacca del corredo da spiaggia dove i radiocronisti si recano solo al bar per prendere un aperitivo, mentre implacabile l’urlo di chi gioca a tennis da spiaggia rimanda i risultati delle partite a chi ascolta con il Graal in mano.
Mi si potrebbe giustamente chiedere quale sia la mia condotta, a cui rispondo con una punta di timore, in quanto tutto ciò che sa di innovativo è per me fonte di mistero e di preoccupazione. Lo tengo nel borsello quando esco di casa e il suono mi risveglia timori nascosti.
Premo il tasto e, quando non riesco a capire nulla, il mio lamento si espande e coinvolge chi mi sta attorno. Lo afferro poi con due dita e di nuovo lo nascondo alla vista, salvo per poi esibirlo a mo’ di giocattolo quando i passanti rivolgono gli occhi al balcone,dove soggiorno quasi tutto il tempoper non affrontare il Laido, la sua spiaggia e soprattutto i ricordi.
Per leggere gli altri articoli di Diario in pubblico la rubrica di Gianni Venturiclicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.
Del resto il Governo Meloni dovrà far fronte nei prossimi anni ad un taglio sulle spese, imposto dalle misure di austerità dell’Unione Europea, di 12 miliardi all’anno (nei prossimi 7 anni fanno 84 miliardi), oltre a finanziare 1,7 miliardi di nuove armi da inviare all’Ucraina nel 2025. Inoltre incombe sempre l’ordine di aumentare di 10 miliardi il budget delle spese militari per arrivare a quel famoso 2% sul Pil richiesto dalla Nato.
Così si fa “cassa”: tagliando sui poveri. Il Reddito di Cittadinanza, il sussidio introdotto nel 2019 su spinta del Movimento 5 Stelle, non c’è più. Quella misura costava 8,8 miliardi all’anno (prima di alcuni tagli) e poneva fine allo scandalo di un’ Italia che, con la Grecia, era l’unico paese europeo a dedicare pochissimi aiuti alla popolazione più indigente.
Il Pd di Gentiloni nel 2017 aveva introdotto il Reddito di Inclusione (RdI) con molte meno risorse (2 miliardi ma a regime) che era però meglio disegnato, in quanto era gestito a livello locale – quindi i poveri si conoscevano bene e questo diminuiva il rischio di frodi – e consentiva a chi trovava un lavoro (spesso temporaneo) di mantenere il 60% del sussidio, favorendo la ricollocazione al lavoro. Il M5S ha più che quadruplicato le risorse, ma ha alzato troppo il sussidio individuale (dal pochissimo che era col RdI -187 euro al mese – a 550 euro) e insieme ha deciso di toglierlo a chi trovava lavoro, disincentivando il lavoro regolare soprattutto al Sud, dove in molti settori il salario in nero è attorno ai 700-800 euro al mese. In tal modo, oltre a esporsi alle frodi, era iniquo per le famiglie numerose e per i poveri del Nord Italia il cui costo della vita è di un terzo superiore al Sud.
La proposta M5S rispondeva però a un’esigenza reale, in un’Italia che per 20 anni era stato il solo Paese europeo a non avere alcuna forma di sostegno ai poveri assoluti, mentre questi triplicavano negli ultimi 20 anni fino a 5,7 milioni (i poveri relativi sono invece 11,5 milioni).
Il Governo Meloni ha sostituito il Reddito di Cittadinanza con due misure: 1 “Assegno d’inclusione ADI” (da gennaio 2024) e 2.”Supporto per la Formazione e il Lavoro SFL” (da settembre 2023).
L’Inps ha diffuso il 9 luglio l’ammontare dei sussidi erogati nei primi 6 mesi del 2024 per l’”Assegno di inclusione”, che costano allo Stato appena un miliardo e 39 milioni di euro (i calcoli sono miei), quando nel primo semestre dell’ultimo anno di funzionamento pieno, il 2022, il Reddito di cittadinanza aveva erogato circa 4,4 miliardi, comprensivi però delle spese SFL che sono state pari a 81 milioni nei primi 6 mesi del 2024. I sussidi ADI sono relativi a 698.000 domande accolte, pari a 1,7 milioni di cittadini e a un importo medio di mensile di 618 euro.
Non si sa però quante siano le domande fatte (pare 1,2 milioni) e rifiutate in base a parametri molto più restrittivi di ADI rispetto a RdC. Anche le famiglie numerose beneficiarie, che il Governo Meloni aveva promesso di privilegiare rispetto ai single, sono calate (118mila con importo medio di 706 euro contro le 130mila per 741 euro di RdC) . In realtà il taglio dei sussidi è enorme e riguarda tutti, famiglie numerose incluse. I sussidi ai non italiani sono solo il 10%.
Quanto al “Supporto formazione e lavoro (SFL)”, cioè il percorso offerto agli adulti ritenuti in grado di lavorare, ha riguardato solo 96.000 persone nei primi 6 mesi del 2024 (su 250.000 potenziali). Il bonus da 350 euro mensili pagato per una media di 3,7 mensilità, mostra come i corsi di formazione necessari per ottenerlo sono pochi e intermittenti. I beneficiari (e stiamo parlando di corsi di formazione, non di lavoro vero) sono molti meno di quanto previsto dallo stesso governo.
Sussidi ADI nei primi 6 mesi e beneficiari SFL da settembre a giungo 2024 per regione (fonte: Inps)
In sostanza, l’Italia dal 2024 ha fatto un taglio netto degli aiuti ai 5,7 milioni di poveri assoluti italiani di circa il 70%, molto di più di quanto messo a bilancio dallo stesso Governo Meloni (7,1 miliardi l’anno -5,3 di ADI+1,3 di SFL, contro gli 8,8 miliardi del Reddito di Cittadinanza), nonostante il numero dei poveri sia salito anche nel 2023 (+78.000 e +435.000 dal 2021, dati di fonte Istat, basati sulle rilevazioni sui consumi o le domande di assistenza sociale ai Comuni).
I risparmi riguardano anche il Sussidio Formazione e Lavoro: doveva costare 1,3 miliardi, è costato nei primi 6 mesi dell’anno 81,4 milioni. Era ovvio che molti poveri non avrebbero avuto occasioni vere di lavoro tramite improbabili corsi di formazione, in quanto l’80% dei possibili beneficiari ha al massimo la licenza media e circa la metà dei disoccupati lo è da oltre 5 anni. Quasi impossibili da ricollocare. Infatti nel 2023, anche se si sono visti quasi mezzo milione di occupati in più, la povertà in Italia è aumentata.
Alla fine il governo risparmierà sui poveri 6 miliardi all’anno (2/3 del budget RdC), confermando le bugie della Meloni – quella che fa la lotta alle élites e difende la povera gente.
Del resto lo avevano già scritto tre economisti della Banca d’Italia – Giulia Bovini, Emanuele Dicarlo, Antonella Tomasi – con uno studio (https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/qef/2023-0820/index.html) del dicembre 2023 sulla «revisione delle misure di contrasto alla povertà», da cui risulta che il decimo dei residenti in Italia con il reddito familiare più basso subisce un taglio dell’11% (da circa 11.800 euro all’anno a 10.500 circa), mentre per gli altri cittadini non ci sono vantaggi significativi, in quanto i pochi soldi tolti ai poveri non danno alcun vantaggio al restante 90% dei cittadini. Ma per un terzo di quel 10% dei più poveri, i più poveri di tutti, la perdita è una mazzata enorme, in quanto il loro reddito scende di circa 4.000-4.630 euro, pari ad un terzo delle loro entrate: cioè, vengono nuovamente sbattuti in una condizione feroce.
Dove finiranno i 6 miliardi risparmiati sui poveri? Probabilmente a finanziare la conferma degli sgravi ai contributi dei lavoratori fino a 35.000 euro di reddito (che costano 20 miliardi per anno) e alle spese militari per l’Ucraina, spostando gli aiuti dai poveri ai ceti medio-bassi e verso le spese militari.
Nel complesso quindi la manovra delle destre è la seguente:
a chi evade il fisco viene offerto, con il concordato biennale preventivo, il diritto legale di pagare solo una quota ridotta delle tasse dovute;
ai titolari delle concessioni balneari viene offerta una difesa a oltranza dei privilegi acquisiti, ben oltre il senso comune e non solo oltre la legge europea.
ai concessionari auto viene offerto l’uso del miliardo di euro destinato alla ristrutturazione dello stesso settore auto integralmente in incentivi all’acquisto di vetture nuove; in questo modo i fondi pubblici andranno tutti a case produttrici estere (cinesi) e ai proprietari italiani dei saloni di rivendita, invece che a imprese produttrici della filiera perché investano e diventino più competitive;
i Comuni subiscono un taglio di 250 milioni;
la scorsa legge di bilancio prevede 20 miliardi di euro di privatizzazioni in tre anni, anche nella forma di vendita ai privati di quote azionarie di grandi imprese pubbliche (Eni, Enel, Poste, FFSS,…);
nella sanità, sempre più privatizzata, si confermano i tagli già decisi dal precedente Governo Draghi; diventa sempre più una sanità per chi se lo potrà permettere;
ai poveri che non hanno una lobby (era il M5S) e non sono in grado di comprare beni e servizi essenziali, un taglio netto degli aiuti (nonostante crescano in Italia);
alla Nato il favore di aumentare le spese militari.
Poiché l’Europa impone all’Italia un taglio di bilancio di 12 miliardi all’anno nei prossimi 7 anni e la Nato pretende più spese militari, non sarà semplice rilanciare i servizi senza tassare i ricchi (il ceto medio è già tartassato). Si tratta di un problema aperto anche in Gran Bretagna e in Francia, con le destre (Farage in GB è cresciuto dal 2% al 14,3%) pronte a cogliere l’occasione tra 5 anni, se poco si farà per ridurre l’enorme malumore del 70% dei cittadini europei, che si stanno impoverendo anche in paesi più forti dell’Italia.
Alcuni ricorderanno l’allarme di Peter Glotz per la società dei 2/3. Il socialdemocratico tedesco era preoccupato che il “sistema” producesse vantaggi (era il 1989) solo per 2/3 dei cittadini. Che dire oggi che il sistema ne produce solo per 1/3?
LA STORIA DELL’ARTE IN BREVE RACCONTATA DA GENNARO SANGIULIANO
(con il tacito consenso di E. H. Gombrich)
Tutto cominciò con Giotto da Vinci che, volendo disegnare una pecora sopra ad un masso, fece in realtà una gigantesca mela verde con bombetta. Il suo maestro Magritte, a cui venivano solo manghi e papaye, lo riempì talmente di legnate che il povero Giotto divenne cubista e, assieme al Punturicchio, inventò l’iniezione antidolorifica.
Poi fu il turno di Raffello Carrà che, sulla base delle teorie di Galilei, inventò il Tuca-Tuca ed i gessetti colorati alla frutta, che si potevano anche mangiare tra un affresco e l’altro, nelle Stanze vaticane. Nello stesso periodo, Giorgio Morandi, ubriaco perso, si schiantò contro un platano, andando a cento allora, perché aveva fuso il Bronzino, inventando così la natura morta con bottiglie vuote. Ricoverato in manicomio, assieme al grande capo indiano e scrittore Torquato Pazzo, autore del romanzo di fantascienza: La striscia di Gaza liberata, conobbe il Giorgione, un infermiere gigantesco dal peso di duecentocinquanta chili, che puzzava come un Goya.
Assieme al Tintoretto, i quattro aprirono una lavanderia a gettoni, dove Jackson Pollon fece le sue prime esperienze di Action Painting, decolorando con la candeggina, al grido di: “sembra talco ma non è, serve a darti l’allegria!”, la Dama con la civetta di Leonardo Sciascia. Ma non finisce qui. Botero, stufo di disegnare ciccioni, divenne un agente Herbalife, mentre Botticelli dipinse La Primavera, in versione Soft Porn, per il paginone centrale di Playboy, di cui era divenuto direttore il Beato Angelico. Vittore Carpaccio illustrò il ciclo de Le storie di Sant’Ursula, per la sala del Parlamento europeo e per arrotondare, aprì un ristorante con il Pollaiolo.
Si arriva così ai giorni nostri, dove Salvini Dalì dipinge Giorgia delle sfere, ispirandosi alla vivacità dei discorsi della Meloni, e Michelangelo partecipa a Temptation’s Island, sbaragliando la concorrenza. Per forza, il programma è un’assoluta Pietà.
Cover: Arte parodiata
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Il giorno della liberazione Io lo chiamo dell’oppressione Afferma l’uomo della malga Guardo i suoi occhi Lo ascolto Se non fosse stato Per i cosacchi E i tedeschi Ci avrebbero fatto Tutti slavi Qui i partigiani
A guardarlo Si vede L’aquila Carnica Che Volteggia In una Selva d’azzurro
Ogni domenica Periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
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L’armonica, eh, ci vuole l’armonica. E anche la voce, per cantare come Van Morrison, Robert Plant, Freddie Mercury, Eric Clapton e tutti gli altri. L’importante è stare in scena.
Lui viveva proprio per questo. Per che cosa, se no? Da una vita porca bisogna pur uscire in qualche modo. Con le serate. Con le donne. Con le birre e il whisky. Con le canne, la coca, l’ecstasy. Soprattutto con il casino, che più ne fai, più ti diverti. Anche se hai cinquant’anni. Perché bisogna essere beyond the barrier, oltre l’ostacolo. Andare al di là del bla-bla di tutti i giorni, dei legami, delle convenzioni, oltre la forma che l’esistenza t’impone schiacciandoti, riducendoti a un niente.
E così suonava con una compagnia di svitati come lui alle serate nei dintorni, a qualche rave in capannoni dismessi delle periferie, a feste di compleanno in cui tutti bevevano come spugne, alle fiere grandi e piccole dove per spendere poco gli organizzatori si affidavano a chiunque mettesse insieme quattro note in modo decente. Quella era la sua vita vera, l’altra era un’abitudine biologica, un tempo per campare facendo lavoretti.
Un giorno lo chiamarono per un concerto, in sostituzione di un cantante rock degli anni Sessanta che all’ultimo momento aveva dato forfait. Si preparò con cura maniacale, litigando aspramente con quelli del suo gruppo perché secondo lui sbagliavano troppo. Provò decine di volte davanti a uno specchio per studiare tutti i movimenti per il palco. Studiò e ristudiò le canzoni del suo repertorio. Trovò un vestito che avrebbe potuto indossare Mick Jagger. Trascorse ore e ore a suonare la chitarra, l’armonica e a cantare.
Giunse finalmente la sera tanto attesa. La sala era grande, rumorosa, piena di gente. Lui e la band arrivarono un po’ tardi per creare aspettativa. Salirono sul palco e cominciarono a suonare. Dopo qualche brano lui iniziò a correre sul palco come un ossesso, cercando il feeling con il pubblico.
Corse e saltò fino a quando, dopo aver tentato un volo alla Nureyev lanciandosi dalla batteria di amplificatori, cadde rovinosamente sull’assito, battendo il capo e restando immobile, come un burattino senza fili. In sala calò un silenzio assoluto che durò lunghi attimi. Poi dal fondo partì un coro: Forever young, I want to be forever young…
Padre Marcello (Carlo Zucchetti), carmelitano scalzo nasce a Vighignolo, frazione di Settimo Milanese (Mi) il 29 Novembre 1914, muore a Ferrara il 13 luglio 1984. Sono passati 40 anni, ma in coloro che custodiscono la sua memoria, per dirla con il salmista «appena un turno di veglia nella notte».
Nel libro della Cronaca del convento di S. Girolamo dei Padri Carmelitani Scalzi di Ferrara si legge: «P. Marcello è morto all’Arcispedale S. Anna il 13 luglio 1984 dopo sessantacinque giorni di malattia. I funerali si sono svolti il giorno della Madonna del Carmine con larga partecipazione di fedeli e sacerdoti e di due arcivescovi, mons. Luigi Maverna, Ordinario della Diocesi e mons. Mosconi, emerito arcivescovo di Ferrara. I sacerdoti presenti concelebranti erano 82».
Padre Marcello, o dell’essenziale
«Si potrebbe dire: p. Marcello o dell’essenziale.
Non diceva una parola di più di quanto occorreva, né in confessionale né fuori. Come un novizio di altri tempi, sapeva sorridere senza ridere. Camminava a passi brevi, ma senza affrettarsi.
A questo tratto esteriore corrispondeva la sua immagine interiore. Era disponibile nell’intrattenersi senza tirare in lungo e senza dare corda a conversazioni non indispensabili.
Ascoltava con interesse, senza mostrarsi curioso. Era attento al prossimo quanto bastava per servirlo, senza lasciarsi distrarre dal suo dialogo interiore.
Dire l’essenziale non significa dire poco. E cosa ci sarà da dire di un religioso che ha diviso i suoi quasi quarant’anni di vita ferrarese tra il confessionale e l’ospedale dei bambini?
L’eccezionale nel quotidiano: era il sospetto che si imponeva a chi incontrava p. Marcello. La prova è venuta dopo. Dopo la morte, quando tanti hanno dovuto dire: «Non ardeva forse il nostro cuore mentre ci parlava lungo la strada?».
Quest’uomo, inspiegabilmente ricercato in vita, viene comprensibilmente ricordato in morte. Tutti ricordano, in fondo, cose molto semplici, ma per loro così importanti, cosi ricche.
Essenziale in vita; essenziale in morte. P. Marcello, prima di chiudersi nel silenzio e nell’assenza, in cui rimase per tante settimane, ha avuto l’opportunità di lasciarci il suo testamento, anch’esso naturalmente essenziale: «Vado in paradiso, vogliatevi bene». Come dire: “nada” e “todo”, tradotti per noi «duri di cuore e lenti a capire» (Dalla presentazione di Giulio Zerbini, a D. Libanori, Padre Marcello dell’Immacolata o.c.d. Un ritratto, Gabriele Corba Editore, Ferrara, 1997, 5,-6).
Una porta di speranza (omelia alla messa in S. Maria in Vado)
Cosa cercava chi andava da padre Marcello? Andava cercando speranza, una parola di speranza, il dono della speranza: Come è detto nel salmo 81 del Dio che libera il suo popolo dal giogo della schiavitù egiziana: «Un linguaggio mai inteso io sento: Ho liberato dal peso la sua spalla, le sue mani hanno deposto la cesta». Anche padre Marcello ha preso in mano la cesta pesante delle nostre umanità mortificate liberando dal peso che impediva il cammino della speranza.
Ci ha ricordato la preghiera di colletta all’inizio della messa che “Nell’umiliazione e abbassamento del suo Figlio unigenito il Padre ha risollevato in noi la speranza è venuto liberandoci dalla schiavitù del peccato e ha ridonato la gioia di sperare in lui”.
Ma anche le letture della liturgia di oggi aprono uno squarcio di speranza: Os 14,2-10; dal Sal 50 (51); Mt 10,16-23. Il profeta Osea è profeta del Dio sposo che conduce con sé nel deserto e parla al cuore del suo popolo come l’amato parla all’amata e dice “Le renderò le sue vigne e trasformerò la valle di Acor in porta di speranza”. È la valle vicino a Gerico il cui nome significa ‘valle di afflizione e tormento’.
Ecco padre Marcello è stato una porta di speranza nelle nostre afflizioni e turbamenti. Anche in lui sono risuonate per noi le parole profetiche di Osea nella prima lettura:
“Io li guarirò dalla loro infedeltà, li amerò profondamente,
Sarò come rugiada per Israele; fiorirà come un giglio
e metterà radici come un albero del Libano,
si spanderanno i suoi germogli e avrà la bellezza dell’olivo
e la fragranza del Libano.
Ritorneranno a sedersi alla mia ombra, faranno rivivere il grano,
fioriranno come le vigne, saranno famosi come il vino del Libano.”
La speranza: «è come la rugiada del monte Ermon che scende sui monti di Sion, là il Signore manda la sua benedizione, la sua vita per sempre» (Sal 133, 3)
La rugiada sulla terra è simbolo della speranza che viene dall’alto, dal cielo. Così pure la rugiada è paragonata al pane disceso dal cielo; pane è speranza. Rugiada feconda è l’eucaristia, pegno dato per nutrire la nostra speranza.
È molto carmelitano questo, non foss’altro perché la parola rugiada ritorna cinquanta volte sotto la penna di Teresa di Gesù Bambino del Volto santo, ed ella fa certamente un’associazione d’idee tra la rugiada (rosée, in francese), la rosa (il suo fiore) e il sangue, senza dimenticare le lacrime (cfr. Ms A, 71r°).
Il sangue di Cristo è rugiada, che nutre la vita come nella simbologia dell’inno gregorianoPie Pellicane Iesu Domine. E racconta la piccola Teresa che la prima parola che scrisse era cielo, perché una sera, rientrando con il padre, gli indicò alcune stelle a forma di T dicendo che il suo posto era la. Ma al cielo non era anche sempre rivolto lo sguardo di padre Marcello quando guardava sulla terra, non attingeva alla speranza in alto per irrorarla sulle nostre disperanze?
Il salmo penitenziale di Davide è invito alla lode: “La mia bocca Proclami la tua lode”, è invocazione allo Spirito il quale è come rugiada; l’epiclesi del canone secondo non afferma forse questo “Ti preghiamo: santifica questi doni con la rugiada del tuo Spirito”? Lo spirito è colui che guida e porta a compimento la speranza che riapre sempre il cammino verso di essa.
Triplice sorgente della speranza è per noi la stessa Trinità nascosta in questo salmo 50; fu il vescovo Luigi Maverna a farmi comprendere questo significato mistico riportando l’esegesi di Origene:
Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo. (Non è forse lo Spirito del Padre? Fonte di speranza) Non scacciarmi dalla tua presenza e non privarmi del tuo santo spirito. (Non è forse lo Spirito santo? Cammino di speranza) Rendimi la gioia della tua salvezza, sostienimi con uno spirito generoso. (Non è forse lo Spirito del Figlio? Grazia Dono di speranza?)
Nel Vangelo di oggi poi ci viene ricordato che anche nella persecuzione e nelle tribolazioni davanti ai giudici nei tribunali, anche in quelli della quotidianità, nei contrasti, nei rifiuti di non disperare: «non preoccupatevi di come o di che cosa direte, perché vi sarà dato in quell’ora ciò che dovrete dire: infatti non siete voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi le parole della speranza».
Come sentinella alla porta di Acor
La profezia di Padre Marcello è stata quella di annunciarci e ricordarci che Dio riapre sempre a noi la porta della valle di Acor, quella della speranza, che lui teneva sempre aperta.
Padre Macello ha abitato la soglia della porta della speranza come custode, come insonne sentinella. Lì la sua dimora angusta, la soglia e il confessionale e l’incontro con le persone: non sono luoghi comodi. E tuttavia, siccome a quella porta arrivavano trafelati, come i prigionieri di Sion ricondotti dal Signore, egli per incoraggiarne il transito, sorrideva loro, dischiudendo anche la porta gioiosa e profetica dalla sua bocca con l’espressione: “Avanti, avanti”, senza timore, il Signora cammina con voi.
Suo è allora il salmo 125 che traduce l’esperienza della speranza per lui e per noi ora e per il futuro. “Quando il Signore ricondusse i prigionieri di Sion, ci sembrava di sognare. Allora la nostra bocca si aprì al sorriso, la nostra lingua si sciolse in canti di gioia. Chi semina nelle lacrime mieterà con giubilo. Nell’andare, se ne va e piange, portando la semente da gettare, ma nel tornare, viene con giubilo, portando i suoi covoni”.
Fu questa pure l’esperienza, davvero indicibile, di Charles Peguy, il quale fa dire a Dio, nell’opera poetica Il portico della seconda virtù: «La fede che preferisco, dice Dio, è la speranza. Ma la speranza, dice Dio, questa sì che mi stupisce. Me stesso. Mi stupisce. Che dei poveri figlioli vedano come tutto avviene credano che domani andrà meglio. Che vedano quel che accade oggi e credano che andrà meglio domani mattina. Questo stupisce, ed è la più grande meraviglia della nostra grazia».
Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.
I TERRITORI SONO DI CHI LI VIVE DAL DON BOSCO AL RESTO D’ITALIA, FERMIAMO LA COLATA DI CEMENTO Bologna, Parco Don Bosco, 26 e 27 luglio 2024
Le mani sulle città: da nord a sud, nelle aree urbane, assistiamo all’assalto alle ultime aree verdi con i progetti più vari, dai supermercati alle scuole ai tram; perfino le piste ciclabili diventano un ottimo pretesto per spargere cemento e soldi. Le aree verdi sono considerate “vuote”, zone inutilizzate da “valorizzare”.
Le mani sulle montagne: dall’arco alpino a tutta la dorsale appenninica è un continuo susseguirsi di impattanti progetti di nuovi impianti di risalita,strade e strutture turistiche dove la neve è solo un ricordo del passato.
Le mani sui mari e sui porti: gassificatori, sbancamento dei porti e dei litorali per accogliere mostruose navi da crociera.
Ovunque in Italia i/le cittadin3 si stanno organizzando per decidere sulla gestione dei territori dove vivono: a Bologna, la difesa del minuscolo parco Don Bosco è diventata un simbolo di questa nuova presa di coscienza e di attivismo contro la speculazione e il consumo di suolo; le conseguenti violenze poliziesche dell’ultimo assalto mostrano anche come il neoliberismo, incarnato a Bologna nel PD, detesti e tema questa nuova lotta.
Nella temuta imminenza di un nuovo tentativo di sgombero, il Don Bosco chiama a raccolta solidali, comitati civici, realtà ambientaliste e tutti i movimenti per la difesa del territorio di Bologna e del resto del paese per il 26 e 27 luglio, per un incontro di coordinamento, scambio, mobilitazione e convivialità. Per affermare che i problemi del territorio si devono affrontare a livello politico e non con i manganelli.
SIAMO PURTROPPO AI PRIMI POSTI IN ITALIA PER CONSUMO DI SUOLO (L’ALLUVIONE DEL MAGGIO 2023 CE LO HA RICORDATO), attraverso lo scambio di pratiche ed esperienze, vorremmo che anche da qui passi la costruzione di una rete di realtà ecologiste ed ambientaliste, che rilanci future mobilitazioni.
Se il famoso libero mercato dell’energia costa di più di quello pubblico
Uno dei progetti più interessanti del Labour di Keir Starmer è la creazione di una Agenzia Nazionale pubblica dell’Energia che agevoli la transizione green verso energie sostenibili.
E pensare che in Italia abbiamo i giganti Eni ed Enel fondati da Enrico Mattei (a dispetto delle sette sorelle del petrolio anglosassone) ancora pubblici che potrebbero farlo, anche se agiscono, purtroppo oggi, con logiche privatistiche da spache il Governo Meloni vuole ulteriormente accentuare con la vendita di quote azionarie nei prossimi 3 anni (è scritto sulla legge di bilancio del 2023) per fare “cassa”, non volendo in alternativa tassare i veri ricchi e continuando a favorire sia l’evasione fiscale sia l’elusione fiscale (agevolazioni per legge).
Intanto procede lo smantellamento nel settore gas ed energia elettrica della presenza del “pubblico” con lo sviluppo del “libero mercato” (si fa per dire) con le 700 utility create in Italia, tanto il prezzo del gas e dell’elettricità lo pagano i cittadini, mica lo Stato. Un prezzo, quello dell’energia elettrica che è per i 30,1 milioni di consumatori domestici e le 7 milioni di imprese il più alto d’Europa (vedi l’ultima Relazione annuale di Arera) pari per i clienti domestici a 38,6 cent per kWh nel 2023(+6,1% in più del 2022) che è superato tra i 27 paesi europei solo dalla Germana (42 cent) e Belgio (40 cent), i quali hanno però un potere d’acquisto quasi doppio del nostro e con salari reali doppi e in crescita da anni mentre i nostri sono la metà e in calo del 6,9% dal 2019 come certificato anche dall’ultimo report OCSE. In Spagna si pagano 26 cent, in Francia ancora meno 23,6 cent, in Finlandia 22, Svezia 20, Olanda 32, Norvegia 12,8 senza arrivare agli 11 cent di Bulgaria e Ungheria che comprano ancora il gas dalla Russia.
In Italia si pagano 7,7 cent solo di oneri e tasse, essendo venuta meno la fiscalizzazione dei Governi precedenti. I clienti industriali italiani hanno pagato meno (28,9 c€/kWh), ma anche qui in media più dei partner europei, anche se le cose vanno meglio nel 2023 rispetto al 2022 in termini di confronto.
Nel 2022 il prezzo totale del gas per i consumatori domestici (cioè comprensivo di imposte e oneri) era superiore in Italia del 13% rispetto alla media UE, mentre nel 2023 è sceso a 11,36 c€/kWh e si è collocato nella fascia intermedia. Il prezzo 2023 più elevato si è registrato in Svezia (25,2 c€/kWh) e nei Paesi Bassi (20,5 c€/kWh), mentre i prezzi più bassi si sono osservati in Romania (5,6 c€/kWh), Croazia (4,5 c€/kWh) e in Ungheria (3,3 c€/kWh). Nel 2023 la differenza tra il prezzo medio corrisposto dai clienti non domestici italiani (8,2 c€/kWh) e il prezzo medio pagato nell’Area euro (8,0 c€/kWh) si è molto assottigliata rispetto al 2022, quando era dell’11,8%, ma è rimasta positiva e pari al 2,7%.
Nella sua relazione annuale (luglio 2024) Stefano Besseghini, presidente diArera, l’Authority pubblica con 238 dipendenti che controlla il mercato delle 700 utility, ha dichiarato che i 3,6 milioni di clienti che sono ancora nel sistema pubblico della “maggior tutela” (over 75, vulnerabili malati, disabili,…)hanno prezzi di luce e gas inferiori di quelli (14,7 milioni) che sono migrati nel libero mercato, nonostante i forti sconti che quelli che sono passati di recente avranno nei prossimi 3 anni, fatti per prendersi i clienti ai quali con ogni probabilità verranno aumentati i prezzi dal 2027 per rifarsi di questi sconti.
Besseghini ammette anche che è vero che ci sono alcuni (come il sottoscritto) che pagano meno pur essendo nel “libero mercato”, ma si tratta di pochi clienti in quanto “la comprensione delle dinamiche di mercato è patrimonio soltanto di un insieme ristretto di consumatori”. Detto in parole semplici (parla come mangi) significa che quelli che si possono permettere di perdere ore di tempo a confrontare le offerte e capirci bene avendo tutte le conoscenze sono davvero pochi.
Del resto non è così per tutte le altre offerte che ti arrivano (banche e finanziarie incluse) scritte in corpo illeggibile e formate da 20-30 pagine che tutti firmiamo e nessuno legge?. Anche questo è un modo “democratico” per ridurre le tutele sostanziali, favorendo chi ha potere verso chi non lo ha.
Per quanto poi riguarda i rigassificatori (Piombino, Ravenna…) che trasformano il gas liquefatto che arriva dagli Stati Uniti ci sarà, sempre Besseghini: “un rimarchevole incremento dei costi”, come era prevedibile in una narrazione che ci vuole fare tutti fessi.
E’ una bella soddisfazione sentire per noi queste parole perché sosteniamo da anni (pur non essendo affatto contrari al libero mercato purché sorvegliato) che in alcuni settori (sanità, energia,…) un grande operatore pubblico fornisce prezzi e servizi migliori di quelli di tanti operatori in concorrenza nel libero mercato (ma lo stesso Adam Smith lo ammetteva).
Ciò vale a maggior ragione per l’Italia che non ha materie prime energetiche e che avrebbe bisogno di un grande operatore pubblico, controllato da una Authority, che già c’è (si chiama Arera), in grado di acquistare sul mercato internazionale enormi volumi di gas ed energia e così offrire prezzi più bassi ai 30 milioni di clienti domestici italiani e ai 7 milioni di imprese e servizi che invece devono da un lato subire prezzi mediamente più alti e dall’altro impazzire perdendo ore di tempo a confrontare tra le offerte di 700 utility private. Lo ha capito anche il moderato nuovo ministro britannico Starmer del Labour che vuole appunto istituire un’Agenzia pubblica Nazionale per l’Energia.
Quella cosa chiamata città. IL BRASILE, LA FORESTA E LA CITTÀ DEI COLONIZZATORI
Ailton Krenak sostiene che il mito della sostenibilità è ormai una narrazione creata dalle aziende capitaliste (o di cui se ne sono appropriate) per conquistare i consumatori con l’idea che ciò che si consuma è prodotto in modo sostenibile, ma è una bugia.
L’acqua della fonte che sgorga nella foresta è straordinariamente buona, la grande azienda che la commercializza in tutto il mondo è in regola con i requisiti di sostenibilità previsti dalle legislazioni, ma siamo certi che è sostenibile prelevare quest’acqua, in questo luogo e commercializzarla ovunque?
L’idea della ancestralidade introdotto da Krenak (filosofo brasiliano di origine amazzonica) è un pensiero indigeno che contrasta con quello della sostenibilità, e si basa sulla constatazione che le nostre vite lasciano troppe tracce e quando una cultura ne lascia troppe è insostenibile, al contrario di un uccello che quando vola in cielo, un istante dopo, del suo passaggio non rimane traccia.
Hisilicon Balong
Krenak quando parla di “vita selvaggia” pone l’attenzione sulle condizioni di esistenza di culture altre, di poetiche dimenticate dai processi di globalizzazione e di sviluppo, che hanno sempre favorito il pensare che non potessero esistere delle forme di civilizzazione al di fuori dai modelli della razionalità occidentale.
Un corollario di questa affermazione ci porta a pensare che tutto ciò che è dentro le città rappresenta una forma di progresso civile, controllata da regole non sempre condivise, mentre il resto è barbarie, è vita primitiva. In ciò che rimane delle foreste del mondo vi sono comunità portatrici di altre forme di razionalità e di adattamento al contesto e all’ecosistema. Circa 1,6 miliardi di persone tra cui oltre 2.000 culture indigene vivono delle foreste, a cui è legata la loro economia e il loro benessere. Non si tratta dei disboscatori.
La “vita selvaggia” riguarda quelle che Philippe Descola definisce le tribu-espèce che in Amazzonia stabiliscono nel loro ambiente di vita un rapporto con le comunità “non umane” non diverso da quello stabilito con le comunità umane. Quelle comunità che noi definiamo selvagge e povere, e che Descola definisce “animiste”.
Per noi europei “razionalisti”, gli umani sono una specie che esprime una conscience reflexive, che ci porta a distinguerci dalle altre specie naturali, mentre per i popoli “animisti” è il contrario e quindi anche le specie animali, non umane, hanno una loro interiorità, ma si distinguono per la loro fisicità che li porta a stabilire rapporti particolari e distintivi con l’ambiente naturale nel quale vivono.
L’ipotesi è verosimile perché ogni specie, quindi anche quelle umane, intrattengono un rapporto particolare con la natura: di integrazione e adattamento per le tribù animiste, in quanto si considerano parte della foresta, di sfruttamento da parte nostra perché ci consideriamo portatori di una civiltà superiore e dominante.
I modelli urbani che il capitalismo neoliberista cerca di imporre oggi nel global south, si basano su stili di vita occidentali, dove emerge il divario tra poveri e ricchi. Ma spesso l’idea che noi abbiamo della povertà è conseguenza della nostra parziale (ma potente) visione del mondo, come ci rammenta la giornalista brasiliana Eliane Brum.
Noi “bianchi” abbiamo l’ossessione di ritenere che tutte le storie inizino con il nostro arrivo. La giornalista brasiliana racconta, in un libro dedicato all’Amazzonia, del suo dialogo con i nativi (popoli-foresta) di una zona della grande foresta, che furono espropriati della loro terra, dove vivevano da secoli, per costruirvi delle centrali idroelettriche.
La città foresta
Queste persone che vivevano in interazione diretta con la loro madre terra, di cui erano una delle componenti naturali, non si erano mai sentiti poveri, ma hanno scoperto di esserlo, quando di forza sono stati prelevati dalle loro terre e messi negli alloggi precari costruiti ai margini nella nuova “città” fondata per sfruttare economicamente la foresta.
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“Certe volte questa stanza è l’unico posto dove voglia stare. Eppure mi alzo, e mi sento un guscio vuoto.”
(Charles Bukowski)
Il mondo è una foglia verde tremante
e tutto sembra improvvisamente immobile
racchiuso in una goccia d’ambra
come gli insetti
e i fiori di un tempo lontano.
A volte mi sembra di vivere
in una cartolina illustrata
osservo per ore intere
la città distesa
fino al limitare del cielo
coperto di fiori di ghiaccio.
*
Stanco e triste
penso alle case in cui ho abitato
alle poesie che ho pensato
per una certa idea di estate in città
che lasciano posto solo a un desiderio sfinito
poesie che hanno una temperatura cerebrale
che arrivano dritte allo stomaco e al cervello.
Vorrei non avere ricordi
vorrei che certe cose non fossero mai successe
per il semplice fatto che io non riesco a gestirle
l’alba si fa strada attraverso l’erba
le rocce
la polvere
le foglie
riscaldate al sole
è allora che bisogna provare
a non essere più infelici
perché il corpo si stanca ad essere triste sempre.
*
Il pensiero che fuori non esiste più nulla
ci atterrisce e ci conforta
riscaldati dall’ultimo sole dell’intero universo
ovvero una vecchia lampadina di un abat jour
appoggiata su case strade volti
me ne sto con una coperta addosso steso sul letto
e ho comunque freddo
guardo fuori
il cielo è tutto pieno di stelle.
C’è tanta luce al mattino
e nel tardo pomeriggio
quando il sole inclina a occidente
lo spazio circostante si tinge di viola
sembra di assistere a un film strano
dai colori spenti
che parla di storie concluse e di porte chiuse
con tutto il loro carico di umanità
il senso di perdita
lo scorrere del tempo
o anche solo il ricordo di conversazioni
sotto il cielo.
*
Nel buio notturno
nel nero assoluto
le stelle navigano nel vuoto
il cielo viene giù pezzo per pezzo
frammenti di verità portate a riva
come i rami che la risacca del mare
lascia sulla spiaggia.
Una luce cinerea
la luce dei giorni in cui la luna
si interpone tra il sole e la terra
rende fantasmatiche le immagini tremolanti
dietro il buio che rende specchi
i finestrini di un treno.
*
Un fiammifero non bruciato
non porta luce nelle ossa
nella mia testa mi sento enormemente distante
seduto sul pavimento della stanza
mentre le tenebre si fanno strada
nel mondo fuori dalla finestra
non riesco a trovare la forza di alzarmi
e accendere quella luce.
Non ho abbandonato le mie paure
ma non le ho neanche superate.
*
La poesia è una trascrizione di una visione
e di una sensazione nel momento presente.
A volte basta solo cambiare il racconto
per migliorare la storia
magari rispolvererò il libro
che non ho mai pubblicato
imparando che voltare pagina
e cercare nuovi sogni
non è un fallimento
oggi i miei desideri
sono diversi dalle aspirazioni di un tempo
vorrei essere il tipo di uomo
che passeggia sul lungo mare
che continua a scrivere
che è felice
e di quella serenità ne conserva i semi
ancora non ci sono arrivato
e adesso sono qui
giusto qualche gradino indietro.
(Queste poesie fanno parte della silloge “Il poeta che non aveva scritto ancora una riga”, Attraverso Edizioni, 2023)
Daniele Cargnino è nato e vive a Torino. Ha pubblicato tre raccolte poetiche con la casa editrice Ensemble dal titolo La sposa nella pioggia (2018), Blu oltremare (2019) e I depressi odiano l’estate (2021). Del 2022 sono le sillogi Fallimentare urgenza creativa (Il Leggio) e Anoressia sentimentale (Porto Seguro). Alcuni suoi componimenti sono apparsi sul quotidiano “La Repubblica“. Partecipa e organizza reading e presentazioni librarie, festival di letteratura e poesie e circoli letterari.
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.
In questi giorni sto leggendo un bel libro intitolato “Dietro le sbarre”. Lo aveva scritto un bravissimo maestro, un giornalista preparato, un ottimo ricercatore, una persona meravigliosa: Dino Tebaldi. Il volumetto, un’autoedizione non in commercio con prefazione dell’allora Provveditore agli Studi: Giuseppe Inzerillo, racconta delle sue prime esperienze di insegnamento nella Casa Circondariale di Ferrara nell’anno scolastico 1995-1996. È mia intenzione farlo conoscere anche a chi non possiede una delle 400 copie del libro perché esprime la stupenda umanità di una persona di cultura, umile e generosa, convinta che l’istruzione possa rendere l’uomo più libero e consapevole. In questo post, il primo capitolo intitolato “A scuola dietro le sbarre”. P.S. La foto della biblioteca del carcere è del sottoscritto. (Mauro Presini)
Le voci da dentro. A scuola oltre le sbarre
di Dino Tebaldi (1998)
Alla “block house” – con un disarmato sorriso ed un amichevole gesto della mano destra – mi faccio aprire il cancello; saluto ruffianamente l’agente che mi spiana davanti la mitraglietta; consegno il documento d’identità al capo posto.
Alla fine, mi sottopongo all’ispezione.
Le tante paure di ieri oggi sono scomparse del tutto: così presto, non me l’aspettavo.
Sono riconosciuto come l’insegnante del corso di alfabetizzazione, e mi vien dato il “pass” da mettere al bavero.
Posso andare dove mi aspettano, seguendo l’agente che fa da guida e da scorta.
Traverso un vastissimo, disadorno, lunare cortile.
Spontanea la riminescenza dei versi danteschi: “Per me si va tra la perduta gente…”
Ho l’impressione d’esser tenuto d’occhio da un legittimo, diffidente, nascosto… guardone TV.
In lontananza sento uno sferragliare ritmico e ripetitivo, come in nessun altro luogo prima d’ora ho avvertito.
Qui dev’esser la regola.
Gli agenti ispezionano le celle e battono le inferriate con un corpo metallico.
Qualche voce incompleta rimbalza – provocatoriamente – da una finestra a quell’altra.
Non alzo lo sguardo; faccio finta di niente; rivolgo domande soltanto a me stesso.
E cerco da solo – impegnando un poco di logica – le più elementari risposte, per dare un senso a questa nuova esperienza scolastica.
Mi vien da pregare: “Signore, qui dentro – per me – sia fatta la tua volontà…”
Per arrivare all’ “area pedagogica”, attraverso altre cinque o sei porte blindate o cancelli, e passo davanti ad una dozzina di agenti, nessuno armato, se non di chiavi d’ottone che debbono pesare mezzo chilo ciascuna.
Anche questi giovani – a fine giornata – con giusta ragione citeranno Pavese: “Lavorare stanca“.
Saluto tutti, e tutti mi salutano con immediata compitezza: questi…arruolati angeli custodi – con divisa, ma senza sorriso – inchiodati per un turno davanti alle sbarre, han forse voglia – alla buon’ora – di vedere in faccia un… povero diavolo, che viene spontaneamente dal mondo delle cosiddette persone perbene.
Nei lunghi luminosi corridoi senza finestre, qualche uomo si muove come un rassegnato, mite e muto fantasma: o lustra i pavimenti che nessuno ha sporcato; o trascina neri sacchi di plastica gonfi d’impensabili rifiuti domestici; o spinge – da un inferriato cancello ad un altro – un carrello dalle ruote felpate di gomma.
Sono detenuti che han meritato “fiducia”, adesso mobilitati per lavori da poco, in cambio d’una somma non scandalosa, che loro chiamano “la spesetta” perché basta per comperare non tante cose.
Sono i primi a salutare – con un breve gesto del capo – chi arriva: e – ricevendo in risposta il saluto – guardano con occhi sorpresi.
Vedono bene che io non sono in divisa, porto il “pass” al petto della giacca borghese, e qui non resterò per gran tempo.
Pare che mi chiedano, senza sprecar le parole: “Tu, perché vieni qui dentro?“.
Nell’area pedagogica – finalmente – dovrei sentirmi come in casa od a scuola.
Però questa è una scuola “sui generis“, e gli scolari hanno dei “precedenti“.
Li accompagna nell’aula – pochi alla volta – l’agente di turno, che per me dovrebbe fungere da “bidello” e da “guardia del corpo“. L’impatto è corretto fin dal primissimo istante: dopo pochi minuti – appena la guardia lascia che ce la sbrighiamo da soli – par d’essere una sola, collaudata, confidente famiglia… unisex, inquadrata da una telecamera immobile e vigile, a tre-quattro metri d’altezza, che guarda freddamente ogni gesto e forse registra anche ogni voce.
Con il lavoro, l’ascolto, le chiacchiere, le ore cominciano a passare in fretta, qui più che in tutte le altre scuole in cui ho insegnato.
Quand’è ora di far l’intervallo, avviso l’agente: “Gli alunni possono andare nella saletta d’aspetto, per fumare una sigaretta, se l’hanno”.
Vanno in gruppo, tranne il turco, il colombiano, ed il più giovane dei marocchini, che restano a scrivere.
L’ultimo dei tre citati – diciannove anni soltanto – mi guarda come ad un babbo o ad un nonno: confida che, da qualche giorno, tanti fanno totale o parziale astinenza dal fumo: non è arrivata la “spesetta”, ed il tabacco scarseggia o manca del tutto, a tutti ed a lui.
Io non fumo e non posso aiutarlo come vorrei fare per un figlio, un amico, un nipote.
Gli alunni tornano in aula appena io batto le mani.
Sono contenti della pausa goduta, e riprendono – senza fiatare – il lavoro interrotto.
Dopo, faccio trascrivere e completare una “scheda”, che ho preparato per una classe di soli adulti stranieri.
Sono io a dire quand’è ora – per loro – d’andare a mangiare; ma loro prima di uscire chiedono il compito: cioè pagine da copiare in cella, nel pomeriggio.
L’ozio l’han già conosciuto, e adesso vogliono vincerlo.
Io sono venuto qui apposta per aiutarli, e loro già l’hanno capito.
Con l’altro insegnante, esco quand’è l’ora precisa.
In una scuola del genere, non si sgarra per ritardi od anticipi.
Gli agenti si dànno la voce: “Collega!“; oppure “Cancelli!”; od anche: “Alla terza!”, ecc.
I cancelli, uno ad uno, vengono aperti con sincronismo perfetto, senza nemmeno che io chieda, o dica, o piagnucoli che ho ii diritto e la voglia d’andarmene a casa.
Mi sono sentito – stando dentro – d’essere un “signor detenuto”; ma quando esco, mi sento un poveretto cui sarà lasciato un gran privilegio: andare e venire ogni giorno, secondo il calendario scolastico.
Varcato l’ultimo tunnel, guardo il cielo, respiro a pieni polmoni, e ritrovo – dentro di me – i versi di Dante: “E quindi uscimmo a riveder le stelle“.
Non è una “commedia divina“, ma – per tanti – una umana tragedia.
Io la condivido per quattro ore ogni giorno, e mi sembra che ciò possa fare bene a chi ha avuto ed ha – dalla vita – molto meno delle mie poche reali fortune.
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Presentato al festival di Taormina e in uscita il 18 luglio, “Madame Luna” è un film del regista svedese di origine cilena Daniel Espinosa. Tratto da vicende realmente accadute, narra di un gruppo di migranti appena sbarcati in Calabria e mostra la realtà complessa e le insidie nelle quali vengono a trovarsi. Una volta lasciato l’inferno libico, essi tornano a essere preda entro i nostri confini di chi approfitta della loro vulnerabilità. Protagonista è Almaz, una donna eritrea intraprendente e colta, la quale parla italiano, inglese, francese e alcune lingue africane, tanto da trovare modo di farsi strada tra gli italiani entrando nelle grazie della criminalità organizzata, quella che si appropria dei fondi statali destinati agli immigrati e sfrutta il loro lavoro nei campi.
Presto Almaz è riconosciuta da Eli, una sua giovanissima connazionale, come la terribile “madame Luna”, colei che in Libia aveva in mano le vite dei disperati che volevano raggiungere l’Europa. Malgrado sia stata inflessibile e crudele Madame Luna ora condivide la sorte degli scampati alla traversata del Mediterraneo. Eli la detesta, ma non può fare a mano di affidarsi ad Almaz, così abile, per farsi aiutare. Daniel Espinosa ci conduce pian piano alle vicende che hanno portato l’istruita Almaz, ex donna di potere, a sbarcare sulle nostre coste e, nella nuova condizione, alla maturazione dell’empatia verso i compagni e al desiderio di cambiare vita. Ci riuscirà?
Vedendo “Madame Luna” torna in mente l’orribile fine di Satnam Singh, il bracciante indiano che, dopo aver perso un braccio in un incidente sul lavoro a Latina, era stato abbandonato dal padrone davanti alla porta di casa con l’arto tagliato. Chi guarda, attraverso le esperienze vissute in Calabria da Almaz ed Eli, conosce la parte più odiosa della nostra cosiddetta “civiltà”: i trafficanti di esseri umani non sono solo in Libia, ma anche qui. Con un film ben fatto, che scorre come un thriller – senza far dimenticare le radici che affondano nella realtà – grazie a bravi attori, Espinosa ci mostra come la violenza non abbia confine e come la possibilità di arrivare a una vita degna passi attraverso una traiettoria impervia, nella quale le condizioni di partenza sono, salvo miracoli, decisive.
Madame Luna
Un film di Daniel Espinosa con Meninet Abraha, Hilyam Weldemichael, Claudia Potenza, Luca Massaro, Emanuele Vicorito.
Genere: Drammatico
Durata: 110 minuti.
Produzione: Svezia 2024.
Uscita nelle sale: giovedì 18 luglio 2024
In copertina: (Foto di Juan Sarmiento, Ufficio stampa Echo Group)
Riceviamo dal nostro più giovane collaboratore, il tredicenne Luca Guzzinati in vacanza al Lido degli Estensi, un intelligente e spassoso racconto sull’ultimo insulto urbanistico dei lidi ferraresi. La Redazione)
Le casette di via Zanella e il nuovo arrivato
di Luca Guzzinati
Luglio 2023.
Iniziarono misteriosi, degli smantellamenti riguardo la piscina del vecchio Hotel 3 stelle, ormai chiuso da tanto tempo. Il proprietario aveva cercato di vendere la struttura, ma nessuno era interessato all’acquisto di un palazzo popolato da barboni che lì trovavano un comodo letto dove dormire.
Lentamente i muri della putrida piscina si trasformavano in pannelli di compensato dotati di cartelloni che illustravano il progetto della costruzione e la famosa azienda edilizia Old Effe. Successivamente demolirono l’intero palazzone vecchio e marcio.
Quello sarebbe stato l’inizio di lavori lunghissimi e rumorosi, con tanto di bestemmie e ogni tipo di parolaccia in albanese o in italiano.
Sarebbe stato l’inizio anche di una serie di imprecazioni da parte degli abitanti delle casette che si sarebbero trovati un mostro di 14 piani che impediva alla luce di raggiungere quest’ultime.
Voi penserete: “poveri residenti!”.
Ma perché per una volta non pensate anche a noi povere casette?!?
Cavolo! Ci ritroveremo quel mostro altissimo che ci impedirà di vedere l’alba! Non ci vogliamo nemmeno pensare.
“Ehi Gialla io per la verità mi ero rotta le scatole del sole. La mia vernice è rovinata grazie a lui…Parla per te!”.
Ed è fortunata che ci sono ancora le impalcature.
Questa che ha parlato è Bianca, la mia vicina di… casa? E mi sta molto simpatica a dir la verità. La casa davanti a me si chiama Arancia ed è molto gentile perché tutto l’anno scorso s’è offerta di ospitare una intera famiglia di gabbiani.
E poi c’è Bianco, il mio fidanzato, che ha ospitato Paolino per 3 anni e tutt’ora lo accoglie sul suo bel tetto piatto.
Paolino è un gabbiano che tutte le case di Via Zanella conoscono. Alcune per amicizia altre per inimicizia, dato che è stato sfrattato almeno tre volte, non capiva che non doveva fare i bisogni proprio sulla loro testa!
Ah dimenticavo, ci sono io, mi chiamo Gialla e sto cercando di interrompere i lavori in corso.
“Ehi Bianco, stavo pensando se era una buona idea fare una riunione per trovare un piano per interrompere i lavori… ci stai?”.
“Si, magari! Non ne posso più di quest’ombra”. “Raga stavo pensando alle formiche alate che sono capaci di mangiare un intero palazzo.”
“E quindi Bianco?”
“Potremmo chiedere a Paolino se chiama la sua amica formica alata.”
“Aó Bianco, me sembra ‘na bonissima idea, tu che dici Gialla?”
“Sì, okay, ma come?”
“Beh, potremmo chiedere a Paolino di dire alla formica di formare un esercito intero”.
“Sì sì come no, sono stra antipatiche e diciamo che non sono in buoni rapporti con loro; penseranno come minimo che sono abbastanza idiota a chiederle aiuto.”
“Aspettate, noi abbiamo il controllo dell’elettricità della casa e quindi anche di tutti i dispositivi elettronici al nostro interno. Possiamo scrivere al comune di avere un incontro urgente per dire di placare l’attività”.
“Già così ci auto sradichiamo e andiamo in comune?”
“Ma vaffanmuro va….’”
Alla fine non abbiamo raggiunto nessun piano o tipo di ragionamento. Sarà un’impresa impossibile.
Ormai sono già pronta a passare tutte le estati senza intravvedere un singolo filo di luce.
Me ne sto qui e direi per forza, dato che sono una casa, però in questo momento non lo vorrei essere, vorrei avere le gambe, per scappare e godermi il caldo sole. Peccato che non sia possibile. Una casa è un qualcosa di fermo, che resta lì tutta la sua vita e deve accettare anche dove l’hanno posizionata, in che quartiere, in quale posto del mondo.
Paolino è venuto sul mio tetto a salutarmi e a consolarmi e dice che agli abitanti un po’ di ombra può piacere.
Mi ha detto che non era neanche finito il “mostro” e che magari mi facevo troppi pregiudizi. Forse può essere simpatico. Non ci avevo pensato. Poi ho accettato tutto quanto e forse eravamo state un po’ scontrose con la Old Effe.
Alla fine ho capito che devi accettare anche le cose che non ti piacciono.
Rapporto Invalsi 2024; a che punto siamo con gli apprendimenti negli studenti italiani?
Invalsi ha distribuito i risultati delle prove del 2024 in Italiano, Matematica e Inglese degli studenti italiani. Nel rapporto nazionale ci sono anche i dati per regioni e alcune cartine per provincia [Vedi qui il Rapporto Invalsi 2024]
I risultati sono in lieve miglioramento rispetto all’anno scorso (specie per Inglese che migliora in modo costante da vari anni) ma, escluso Inglese, sono ancora peggiori di quelli pre-pandemia del 2019 sia per Italiano che Matematica. La lunga chiusura delle scuole nel 2020 (di cui l’Italia ha il record mondiale) e il passaggio alla DAD (Didattica A Distanza) ha inciso in modo devastante, per cui ancora nel 2024 non si è riusciti a raggiungere i livelli di apprendimento del 2019 per Italiano e Matematica. In Inglese si migliora ma potrebbe incidere la quota sempre più numerosa degli immigrati che hanno maggiori difficoltà in Italiano e Matematica, mentre, come dice lo stesso Rapporto Invalsi 2024 “sono maggiormente predisposti ad apprendere le lingue straniere poiché già esposti ad almeno due lingue (quella d’insegnamento e quella parlata a casa)”.
Sta di fatto che i nostri studenti hanno livelli di apprendimento ancora inferiori a quelli del 2019, a conferma (se c’era bisogno) che la DAD e l’assenza prolungata da scuola ha inciso in modo rilevante sugli apprendimenti, in particolare, degli adolescenti. Risultati poi pessimi al Sud, inteso come Campania, Basilicata, Calabria e Isole, che ha vistose differenze con il Nord, anche se la spesa per alunno è quasi simile (-9%) a quella del Nord.
La dispersione “esplicita”(cioè chi non raggiunge il diploma) cala: dal 25% del 2001 al 10,5% del 2024 e si potrebbe quindi raggiungere l’obiettivo del PNRR (9% al 2026). Si tratta però di un dato più formale che sostanziale in quanto il diploma non garantisce che si siano raggiunti gli apprendimenti di base minimi. Il Rapporto infatti menziona che gli studenti “fragili” sia in Italiano che in Matematica dopo 13 anni di studi a scuola (al 5° anno delle superiori), che sono ancora ad un livello 1 e 2 (cioè non raggiungono la sufficienza) sono il 32,7%, cioè un terzo degli alunni, anche se in calo sul 2023, ma molti di più del 2019 quando erano “solo” il 25,4% (+7,3 punti). Meno peggio va alle elementari (+3,9 punti sul 2019) e alle medie (+6,6 punti) ma, nel complesso, si potrà notare la situazione di grave degrado avvenuta nel post-Covid che permane dopo 3 anni. Gli adolescenti delle superiori sono quelli che hanno subito i maggiori danni: nel 2023 i “fragili” erano saliti al livello “monstre” di 37,1% (+11,7 punti sul 2019).
Un dato che conferma quanti danni abbia fatto la DAD e la prolungata chiusura. Lo conferma anche la dispersone “implicita” (chi esce col diploma ma di fatto ha una competenza da 3^ media inferiore): 6,6% la media nazionale (era 8,7% nel 2023) che in Campania vola al 15,7% degli alunni rispetto a 1,2% del Trentino. [Vedi Qui]
Il Rapporto segnala anche che le differenze tra scuola e scuola dello stesso tipo (anche nella stessa provincia), alle elementari sono di oltre il 15%, che viene considerata la “soglia fisiologica”. Ciò significa che si apprende in modo molto diverso secondo la scuola elementare dove vai, a conferma di quanto sarebbe importante una Authority pubblica che sappia indicare scuola per scuola i livelli (di tutti i parametri) in modo da responsabilizzare docenti, dirigenti, famiglie e Istituzioni locali su come migliorare scuola per scuola. Si naviga invece nella nebbia (che sta bene a tutti), in quanto i dati, disponibili quando va bene per provincia (ma li puoi avere solo se sei un docente universitario), non consentono alcuna vera analisi e quindi rimedio.
Al Sud in 3^ media solo il 50% dei 14enni raggiunge la sufficienza di Italiano contro il 64% dei settentrionali e in Matematica va pure peggio: 40% contro 63% del Nord. Alla fine delle Superiori al 5° anno i sufficienti in Italia sono 56% in Italiano (64% nel 2019) e 50% in Matematica (61% nel 2019).
Le ragazze vanno meglio in Italiano (+6 punti) ma peggio in Matematica (-8 punti). Un quadro deludente su cui si fa poco e nulla (del resto mancano i soldi) se non vietare (e va bene) i telefonini dal prossimo anno alle elementari e medie.
Qualche giorno fa La Repubblica ha scritto un articolo demenziale in cui si diceva che “la didattica a distanza ha migliorato gli apprendimenti…e che i giovani si trovano bene nella loro cameretta al sicuro…”, uno dei tanti articoli sponsorizzati, questa volta probabilmente dalla piattaforma gostudentche vende attività on line di tutorig e ripetizioni delle lezioni.
E’ davvero incredibile che dopo tanti studi scientifici in cui si è dimostrato quanto la DAD abbia contribuito al crollo negli apprendimenti si dicano corbellerie del genere. Mentre La Repubblica esalta le magnifiche sorti e progressive della DAD, segnalo che il gruppoEuCARE continua a studiare e mostrare cosa stia capitando ai ragazzi a causa delle scelte sbagliate fatte nella gestione della pandemia.
Nel mio articolo su un primo consuntivo della gestione del Covid apparso su queste colonne [vedi Qui] ho evidenziato (a mio modesto parere) gli aspetti positivi e negativi della strategia italiana. Tra quelli negativi ricordavo l’eccessiva chiusura delle scuole e l’uso massiccio della DAD che ha portato (oggi lo sappiamo) a enormi perdite di apprendimento. In Svezia non c’è stata nessuna chiusura delle scuole e, pertanto, nessuna perdita di apprendimento per gli studenti nel 2020 e 2021 e nessun danno per studenti provenienti da contesti svantaggiati, a differenza di quanto avvenuto negli altri paesi (dall’Italia agli stessi paesi nordici come Olanda, etc.) dove la perdita di apprendimento è stata generalizzata e maggiore nelle classi sociali più basse, con crescita del divario sociale. Fortissimi sono stati i disagi psicologici in bambini e adolescenti (in particolare maschi, scuola infanzia ed elementare, chi non aveva spazi all’aperto, nelle classi sociali più basse, chi non ha fatto attività fisica, chi usava più spesso dispositivi mobili). Raddoppiati negli adolescenti i decessi per droga, suicidi e incidenti stradali correlati ad alcol e depressione.
Fa piacere leggere su Il Corriere della Sera un articolo di Gloria Saccani Jotti (13.7.2024) che manifesta allarme sulla crescita dell’antibiotico-resistenza nel mondo e cita il premio Nobel per la medicina Domagk che aveva detto nel 1939 che “non c’è nessuna distruzione di batteri senza la collaborazione dell’organismo” per cui oggi per contrastare i patogeni si fa sempre più uso dell’immunità naturale come coadiuvante di farmaci e vaccini…quello che ha appunto fatto la Svezia.
Il Congresso ICAR 2024 ha mostrato che la perdita di apprendimento è stata più marcata negli studenti italiani con un basso livello socio-economico e tra quelli con genitori meno istruiti, in particolare le madri. La didattica a distanza è stata vissuta male dagli studenti più bravi in matematica, mentre coloro che avevano difficoltà a socializzare hanno mostrato i peggiori risultati in italiano. Il contesto socio-economico ha influenzato non solo le prestazioni scolastiche, ma anche la condizione psicologica degli studenti. Nell’anno scolastico lo studio EuCARE, il 2022/2023, ha infatti osservato che gli studenti provenienti da contesti socio-economici più svantaggiati hanno mostrato maggiori problemi emotivi, di iperattività e difficoltà nelle relazioni con i pari. Francesca Incardonaè stata la coordinatrice dello studio.
“FINANZIAMENTI PER IL SOSTEGNO DI PROGETTI DI RILEVANZA LOCALE PROMOSSI DA ORGANIZZAZIONI DI VOLONTARIATO, ASSOCIAZIONI DI PROMOZIONE SOCIALE E FONDAZIONI DEL TERZO SETTORE, ACCORDO DI PROGRAMMA SOTTOSCRITTO TRA IL MINISTERO DEL LAVORO E DELLE POLITICHE SOCIALI E LA REGIONE EMILIA-ROMAGNA AI SENSI DEGLI ARTICOLI 72 E 73 DEL D.LGS. N. 117/2017 RECEPITO CON DGR. N. 1596/2022 – ANNUALITÀ 2024 – 2026”
DGR 903/2024
Il Centro Servizi Terre Estensi informa dell’uscita del Bando in oggetto e qui allegato, i cui beneficiari delle risorse, in rete con altri soggetti pubblici e privati, sono:
Organizzazioni Di Volontariato
Associazioni Di Promozione Sociale
iscritte nel Registro unico nazionale del Terzo settore (RUNTS) alla data di approvazione del presente bando e aventi la sede legale nel territorio della Regione Emilia-Romagna.
Fondazioni Del Terzo Settore
iscritte all’anagrafe di cui all’articolo 11 del decreto legislativo 4 dicembre 1997, n. 460 (Anagrafe Onlus) alla data di approvazione del presente Bando se non ancora iscritte al RUNTS ed aventi sede nel territorio della Regione Emilia-Romagna.
Si comunica inoltre che il CSV Terre Estensi, secondo quanto definito con apposita procedura dalla Regione Emilia-Romagna e in raccordo con gli Uffici di Piano di tutti i distretti della provincia, è incaricato di gestire il percorso progettuale e favorire la creazione di partnership inter-associative a livello distrettuale candidabili ai finanziamenti previsti dal bando di cui sopra.
Si specifica che l’adesione al suddetto percorso da parte dei soggetti interessati non è obbligatoria, ma costituirà oggetto di premialità in fase di valutazione delle proposte.
Obiettivi, criteri, budget e modalità di presentazione dei progetti sono disponibili nel documento in allegato.
Le domande e la relativa documentazione dovranno essere trasmesse esclusivamente per via telematica, tramite l’applicativo SIBERentro e non oltre le ore 13 del 31.07.2024. Si segnala che per accedere a tale piattaforma è necessario lo SPID di livello 2 di persona fisica, CIE o CNS.
Per presentare il bando e avviare il percorso di costruzione delle reti progettuali, che dovrà comunque tenere conto delle indicazioni e delle aree tematiche definite insieme agli Uffici di Piano dei singoli distretti, sono previsti i seguenti incontri territoriali a cui tutte le organizzazioni di volontariato e le associazioni di promozione sociale iscritte nel registro regionale sono invitate a partecipare.
Vi ricordiamo i contatti utili per richieste in merito al bando:
Sempre più spesso penso che l’al di là ci riguardi, o almeno che ci guardi. L’idea che mi regge credo sia infantile ed è questa: c’è persistenza fuori dalla vita che respira, un prima e un dopo ai quali diamo il nostro contributo nel tempo in cui siamo vivi. Quando non lo siamo più, tuttavia, altri ripetono lo stesso paradigma dell’esistenza e in questo ci rinnovano.
Se poi lasciamouna traccia di quello che abbiamo respirato, pensato e comunicato, ci rinnovano ancora di più, dialogando con noi attraverso una distanza temporale che non è più una barriera. Già in vita, dalla rivoluzione telematica in poi, non ci sbarra il passo nemmeno la distanza nello spazio, qualunque essa sia.
Detto questo, faccio intanto accomodare Saba e Pasolini e chiedo loro un commento sulla finale dei Campionati Europei di calcio che domenica sera, 14 luglio 2024, ha incoronato come vincitrice la squadra spagnola.
Di Umberto Saba sappiamo che il suo amore per il calcio arrivò in età matura, forse sulla scia della passione per la squadra della Triestina che aveva Carletto, il suo storico socio alla libreria antiquaria di Via San Nicolò, che al secolo faceva Carlo Cerne.
Nelle Cinque poesie per il gioco del calcio con sensibilità autentica di poeta Saba osserva i giocatori, specie i portieri delle due squadre avversarie, distingue quelli “superbi” dai giovani “acerbi” che hanno voce stridula da “galletto”.
Nella finale vista iersera il chiccirichi di Lamine Yamal si è sentito meno che in altre gare: la festa del diciassettesimo compleanno appena passata, l’emozione straordinaria per la partita decisiva possono avergli tolto un po’ di voce.
Certo, non gli sono mancati quel vigore fisico, quella energia da vita intensa che tanto piacque a Giacomo Leopardi quando la riconobbe in Carlo Didimi e gli dedicò nel 1821 la canzone A un vincitore nel pallone.
Yamal non viene da un paese vicino a Recanati, Treia, bensì dalla provincia di Barcellona, ma abbiamo detto che oggi lo spazio non è più una barriera, o almeno non dovrebbe esserlo, e dunque la lode di Leopardi, in qualità di terzo Commissario Tecnico, si attaglia perfettamente sulla performance di Lamine.
I due portieri: ben visibili nella loro divisa spuria, gialla per l’inglese e nera per lo spagnolo, hanno occupato i bordi dello schermo, facendosi vedere spesso in movimento, stando fermi solo per brevi tratti a controllare il gioco.
Poi, come ha commentato Fabio Capello – un altro C.T. che essendo ancora in vita a fine gara ha potuto dire la sua in uno studio televisivo – il portiere inglese si è trovato a parare cinque magnifiche azioni da gol degli attaccanti spagnoli e ne ha fermate tre. Bravo: le altre due, tuttavia, hanno dato la vittoria agli avversari.
Tre in tutto, le reti: segna la Spagna con gol di Williams al 47′, pareggia l’inglese Palmer al 73′ e poi a pochi minuti dalla fine Oyarzabal manda sul podio dei campioni la sua Spagna. Lo stadio esplode di entusiasmo, vengono inquadrati variopinti tifosi di ogni età e di uguale sentire: tra loro non stonerebbe la figurina incollata di Saba, preso nel vortice del comune entusiasmo con la sua sensibilità spendibile ma anche defilata, “dagli altri diversamente – ugualmente commosso” direbbe lui.
Dal canto suo Pasolini parlerebbe bene del fraseggio espresso dalle due squadre. Avrebbe parole di ammirazione per la sintassi complessiva del gioco, concentrata a centro campo per quasi tutto il primo tempo e più spesso in area nel secondo. Che frasi poetiche quelle cinque che hanno espresso gli spagnoli facendosi i passaggi giusti sotto la rete inglese. Che efficacia il tiro di Palmer, appena entrato in campo e subito in gol in una specie di assolo espressivo.
Sì, perché Pier Paolo Pasolini nel corso di una intervista apparsa su Il Giorno il 3 gennaio 1971 assegnò alcalcio lo statuto di vero e proprio linguaggio, i cui segni chiamò podemi. Nelle azioni di gioco di volta in volta diverse i podemi si combinano liberamente, dando vita a momenti di gioco ora prosaici, ora invece carichi di estro.
Direbbe perciò che alla prosa del primo tempo, giocato con sfoggio di tecnica calcistica, un tempo di studiata strategia corale, è subentrato il secondo tempo con la sua rappresentazione scenica allargata alle aree da gol e con le azioni vincenti piene di inventiva poetica.
Per quello che so dei codici linguistici e della poesia, credo che a Pasolini potesse piacere l’intreccio tra il gioco di squadra e gli assoli, vere parole-chiave in una armonia di vocaboli, un intreccioefficace e di grande bellezza tra sintassi e lessico del calcio.
Note bibliografiche:
Umberto Saba, Cinque poesie per il gioco del calcio, in Canzoniere, volume terzo, sezione Parole (1933-19349, Mondadori, 1994
Giacomo Leopardi, Canti, Loescher, 1974
Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice
I daini
Hanno sognato
Con Noi
Le mani
Detergere
Il cielo
Dalle nuvole
Del tempo
E l’azzurro
Ci portava
In braccio
Ogni domenica Periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
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