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SCHEI
Alex Schwazer è pulito, lo sport è sporco

 

“Alex Schwazer è un marciatore italiano, campione olimpico della 50 km a Pechino 2008. Dopo essere risultato positivo ad un controllo anti-doping alla vigilia dei Giochi olimpici di Londra 2012, venne squalificato dal Tribunale Nazionale Antidoping fino al 29 aprile 2016. Rientrato in attività in occasione dei Mondiali a squadre di marcia 2016, vince la 50 km ottenendo la qualificazione per i Giochi olimpici di Rio de Janeiro 2016. Il 22 giugno 2016 viene comunicato alla Fidal che Schwazer risulta nuovamente positivo ad un controllo anti-doping su un campione di urine prelevatogli in un controllo a sorpresa il 1º gennaio 2016 (la sostanza dopante sarebbe testosterone). Per questo la IAAF(Federazione Internazionale di atletica leggera) decide di sospenderlo in via cautelare in attesa della decisione finale. Il 10 agosto 2016 il TAS (Tribunale Arbitrale dello sport), considerata la seconda violazione delle norme antidoping, squalifica l’atleta per 8 anni. Come diretta conseguenza della squalifica, oltre a non poter partecipare ai Giochi olimpici di Rio 2016, tutti i suoi risultati sportivi del 2016 sono stati cancellati. Nei mesi immediatamente successivi emergono sospetti di un complotto ai suoi danni, anche grazie ad un’indagine condotta dal quotidiano La Repubblica, che danno via a delle indagini ufficiali dei RIS di Parma su indicazione del PM incaricato. Nel febbraio 2021 viene disposta l’archiviazione del procedimento penale ai danni dell’atleta per “non aver commesso il fatto”. (cit. Wikipedia).

In questi casi adoro Wikipedia. E’ capace di condensare in poche righe di esordio la parabola fondamentale del personaggio descritto, senza divagazioni inutili e senza troppi dettagli (a quelli si dedica nelle righe successive). Io quel 22 giugno 2016 me lo ricordo, nonostante di solito non ricordi nessuna data. Me lo ricordo perché pensai: cavolo, ci è cascato di nuovo, dopo lo psicodramma pubblico del 2012 nel quale ammise, in una confessione che mi apparve degna di un eroe tragico greco, di essersi dopato. E me lo ricordo, il 22 giugno 2016, perché pensai: ma come ha potuto farlo ancora? Come ha potuto ricaderci, dopo la catarsi pubblica attraversata durante il primo episodio? Perché io gli credetti, allora, nell’estate del 2012. Credetti alla tragedia intima della persona, alle parole amare con le quali raccontò delle ragioni del suo errore: dolore (anche fisico), esaurimento nervoso, nausea, angoscia da prestazione alimentata dalle enormi aspettative di sponsor, federazioni, burocrati che costruiscono rendite di potere sulle vittorie sportive. Credetti alla sincerità della sua confessione, certo che lo avrebbe trasformato da eroe negativo a persona normale, con l’unica incertezza legata all’abisso di depressione e ludibrio che si trovava ad affrontare, e dal quale mi augurai si riprendesse anche con la vicinanza dei suoi cari – cosa che purtroppo non funzionò per Marco Pantani, altra vittima illustre dello sport, quando lo sport è ghermito e schiacciato da una montagna di aspettative, interessi, loschi affari, e con lui l’eroe da Domenica del Corriere, stupefacente grimpeur tra le urla della folla nei tornanti, ma fragile e solo nelle stanze d’albergo.

Il 22 giugno 2016 provai una grande delusione, più per me che per lui, perché pensai che mi ero fidato di una sensazione percepita attraverso uno schermo televisivo, che stupida illusione. Oggi scopro che non mi sbagliavo: la seconda volta, Alex Schwazer non si era dopato. Era (è) caduto vittima di un enorme imbroglio internazionale ordito su mandato o con la complicità di IAAF(la Federazione Internazionale di Atletica) e WADA (l’ Agenzia Mondiale Antidoping). Gli hanno alterato la provetta. Il gip di Bolzano, Walter Pelino, nel disporre l’archiviazione dell’accusa nei suoi confronti, afferma “con alto grado di credibilità razionale che i campioni d’urina prelevati ad Alex Schwazer il primo gennaio 2016 siano stati alterati allo scopo di farli risultare positivi e, dunque, di ottenere la squalifica ed il discredito dell’atleta come pure del suo allenatore, Sandro Donati”.

Quando l’agenzia mondiale antidoping trama in questo modo per far sembrare drogato un atleta, è come se Babbo Natale arrivasse in casa tua la sera della Vigilia mentre tu, che avrai tre anni, lo aspetti trepidante, si togliesse davanti a te barba e vestito rosso, si mostrasse per quel mostro che è in realtà e ti ghignasse sguaiato in faccia che è tutto un trucco, appiccando il fuoco ai pacchi regalo davanti ai tuoi occhi. Così, per il gusto di mostrarti che il bene è il male, e che forse, quindi, il male è il bene.

Nessuno mi toglie dalla testa che questa porcata è stata ordita non solo ai danni di Schwazer, ma anche contro Sandro Donati, l’allenatore che ha dedicato la vita alla lotta contro il doping nello sport, e che nel 2015 era diventato anche l’allenatore di Alex Schwazer. Quanti nemici si è fatto Donati nel corso della sua carriera, da quando a metà anni ottanta ha iniziato a denunciare il dilagare del doping nell’atletica, nel ciclismo e nel calcio? Tanti, a giudicare dall’enormità di quanto è successo (Donati per un periodo è stato egli stesso consulente della WADA). Del resto è proprio Donati ad affermare alla stampa che in questi 5 anni lui ed il suo atleta sono stati lasciati soli ad affrontare, come Davide, il Golia dei vertici corrotti dello sport mondiale.

Cosa c’entra il denaro, gli schei, con questa storia? C’entra eccome. I soldi c’entrano sempre. Dice sempre Donati: “Iniziai presto a capire che la radice del problema era la corruzione delle istituzioni. Forse all’inizio era un misto tra corruzione e scarsa consapevolezza. Ma negli anni successivi no. Gli effetti nocivi degli anabolizzanti e delle emotrasfusioni furono presto noti, ma non ci si fermò. Si trattava di istituzioni consapevoli e deliberatamente orientate alla ricerca del risultato ad ogni costo. Quello è stato un passaggio sconcertante, ho iniziato a dubitare delle mie scelte di vita. Ero dipendente del Coni e della federazione di atletica, come potevo andare avanti con questa gente? Presi subito posizione, forse anche con una certa ingenuità perché le mie sole forze non erano abbastanza. Mi resi presto conto dell’aggressività che le mie esternazioni suscitavano: ero quello che sputava nel piatto dove mangiava, che non si faceva gli affari propri. Tutti traevano vantaggio dal doping: le gare bisognava vincerle “.

Tutto questo sistema è funzionale alla creazione di un eroe invincibile, un personaggio sportivo con il quale riempire i giornali e vendere prodotti per anni, attraverso la sua immagine. E finché quello è il cavallo su cui puntare, potete stare tranquilli che nessuno lo toccherà, perché porta biada per tutti. Guardiamo alla vicenda di Lance Armstrong: ha vinto per sette anni consecutivi il Tour de France, dal 1999 al 2005. In quegli anni, nonostante le chiacchiere sulla reale natura delle eccezionali prestazioni sue e della sua squadra, la US Postal (a posteriori, Armstrong ammetterà di aver iniziato a doparsi dal 1993), non è mai incappato in un controllo che lo beccasse in flagrante. Dopo un primo ritiro, Armstrong si ripresentò nel 2009 con l’intenzione di rivincere il Tour, ma nel frattempo il cavallo su cui il sistema puntava e investiva era diventato Alberto Contador. Quando esci dal giro pulito e satollo e poi pretendi di rientrarci come se, nel frattempo, il giro non ti avesse rimpiazzato, il sistema non ti perdona. A quel punto le malefatte di Armstrong vennero prodigiosamente a galla tutte insieme, fino a provocare la revoca ex post di buona parte del suo palmares. Parliamo di un uomo che afferma lui stesso di essersi ammalato di cancro ai testicoli a causa, probabilmente, delle massicce dosi di ormone della crescita assunte nella prima parte della sua carriera. E’ naturale pensare che la sua impunità da cavallo vincente e la sua flagranza da invecchiato campione a caccia di revanche siano le due facce della stessa sporca medaglia. 

Adesso mi auguro che Alex Schwazer, che ha continuato ad allenarsi e ad allenare in questi anni bui, che ha subito l’onta dell’ignominia pubblica, atleta al quale è stata sbriciolata tutta la seconda parte della sua carriera sportiva, possa disputare le Olimpiadi di Tokyo. Non credo che potrà battere i cinesi, che sono l’equivalente contemporaneo, nella marcia, di quello che fu la Germania Est dell’atletica e del nuoto negli anni ’70. Non credo che la sua molla sia rappresentata da un obiettivo così irraggiungibile. Credo invece che gareggiare in mezzo al gruppo, nella sua ultima olimpiade, da atleta pulito che non potrà mai vincere contro un sistema sporco, davanti al mondo che lo ha messo alla gogna, potrà restituirgli un briciolo della dignità violata. Quanto al luridume di un apparato che sacrifica tutto, compresa la salute degli atleti, sull’altare della vittoria ad ogni costo, è appena il caso di dire che rappresenta il paradigma di un sistema che innerva tragicamente ogni campo della vita sociale.       

 

 

PER CERTI VERSI
Tu non mi annoi mai

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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TU NON MI ANNOI MAI

Tu
Non mi annoi mai
Io la avverto la noia
Spesso dilaga
Nelle mie golene
Conficca le sue fiocine
Nelle mie carni
Quasi fossero balene
In un mare vuoto
Sento le parole di altri
Lontane
Opache
Non è colpa loro
Di nessuno
Sono io solo
Che rimango solo
Fino a quando
Parole care
Rintoccano
Sui miei tremori
Tremo
E la noia
Si ribalta
In una curva
Una chicane
Diventa gioia
Tutta
L’isola di Man

“Ce ne ricorderemo, di questo pianeta”

di Giuseppe Giglio

«Ce ne ricorderemo, di questo pianeta». Più volte le ho accarezzate con gli occhi, queste parole dello scrittore francese ottocentesco Villiers de l’Isle-Adam, sulla tomba di Leonardo Sciascia, a Racalmuto: incise sul bianco e nudo marmo, insieme al nome e alle date di nascita e di morte, così come Leonardo aveva fermamente voluto.

La tomba di Leonardo Sciascia a Racalmuto

«Ce ne ricorderemo, di questo pianeta»: un’iscrizione che, dice Gesualdo Bufalino, «non conta tanto come pezza d’appoggio d’una ipotesi di sopravvivenza, ma ribadisce un sentimento di distacco ironico e dolente insieme. Questo pianeta, cioè, con le sue abiezioni e dolcezze, quanto dovrà apparirci estraneo, da una remota nuvola, e tuttavia oggetto d’una insopprimibile volontà di memoria…».
Ecco, la volontà di memoria, il pensare, il voltarci indietro: è questo l’ineludibile richiamo che ci resta, dopo un incontro con la pagina di Leonardo, sia essa di un romanzo, di un saggio, di un articolo di giornale. E da quella pagina sempre balzano la gioia, la felicità dello scrivere: anche quando si tratti di cose terribili, se non angosciose. «Non faccio nulla senza gioia», diceva Montaigne. La stessa gioia di Luciano, di Stendhal, di Savinio. La stessa gioia di Leonardo Sciascia: che è poi la gioia degli scrittori veri, dei cercatori di verità.
C’è un’immagine di Sciascia, che amo più di altre: questo ritratto fotografico di Nino Catalano, che di Leonardo custodisce un’espressione (lo sguardo acutissimo, di profonda serenità, così pieno di dolcezza) tra le più emblematiche, tra le più cariche del suo destino – e del suo cammino – di uomo e di scrittore. L’uomo e lo scrittore meravigliosamente coincidenti, in un’instancabile, ostinata, gioiosa ricerca di verità e d’amore, nel vivere e nello scrivere. O, meglio, e pirandellianamente, nel vivere scrivendo e nello scrivere vivendo. Delle verità della vita, e dell’amore per l’uomo, ben oltre il tempo che gli è toccato in sorte: a lui che era già un classico da vivo, con le sue storie che dal tempo narrato si affacciavano, e si affacciano, sulle menzogne e sulle inquietudini, sulle ferite e sugli inganni di sempre, quelli cioè che appartengono all’umana natura. Uno scrittore è memoria, ripeteva Sciascia: la memoria individuale, cioè, che tenendosi in esercizio si salda alla memoria collettiva, alla Memoria. E il ricordare, per lui vigile e volontario, si faceva proficua ossessione, lanterna preziosa: a mostrare da dentro il mistero del vivere, la sua bellezza, la sua miseria.

C’è ancora molto da dire su questo Sciascia, che ha in sé tutti gli altri (il polemista, il moralista, il palombaro dei mali italiani, il difensore della giustizia giusta, del diritto, della ragione).
Su questo Sciascia che nel 1961, scrivendo di Simenon, tirava in ballo Gogol e Čechov  (tutti e tre a lui, a Leonardo, molto cari): «Gogol e Cecov: lo scrittore che vede e lo scrittore che ama. E il vedere gli uomini e l’amarli si possono considerare come qualità peculiari di Simenon: qualità che permettono allo scrittore di giungere alle verità dell’uomo come a Maigret permettono di giungere alla soluzione di un caso. Il metodo di Maigret per giungere alla soluzione di un mistero poliziesco praticamente si ripete in tutti i romanzi di Simenon: è la tecnica narrativa di Simenon, il suo modo di ordinare la realtà, di darle un senso, di collegare le cause agli effetti, di far scaturire dal mistero la verità. Maigret vede: vede perché ama. Non c’è personaggio, nella letteratura contemporanea, che ami la vita e gli uomini quanto Maigret. Non c’è, dopo Čechov, scrittore che ami così profondamente, così minutamente, così religiosamente la vita e gli uomini come Georges Simenon. Ci sarà magari in lui qualcosa di mancato: sarà un Gogol mancato, un Čechov mancato: ma è certo uno degli scrittori del nostro tempo più vicino alle ragioni umane, all’uomo così com’è».
Parlava di Simenon, Sciascia, del suo vedere e amare la vita e gli uomini. E le pagine – da A ciascuno il suo a La scomparsa di Majorana, da Todo modo a Il cavaliere e la morte, fino a Una storia semplice, per non dire delle narrazioni saggistiche, o di quelle in forma di articolo di giornale -, le pagine che egli, Leonardo, ci avrebbe lasciato inverano il sospetto che lo Sciascia di allora, tra le righe, dicesse anche di sé. E se i libri sciasciani resistono al tempo, se essi continuano a cercare e a trovare nuovi lettori in tutto il mondo, lo si deve proprio alla loro innata, sobria, affilata classicità: a quella capacità, cioè, di restituire lo spirito del tempo e contemporaneamente il tempo di tutti, quello dell’uomo di sempre.

Ne viene fuori, insomma, dalle tante storie sciasciane, la vita, il suo complicatissimo cruciverba: del quale il loro autore ha incessantemente scandito le intricate ascisse e ordinate. Non tanto a trovarne un’improbabile soluzione, quanto ad illuminarne le latenti ambiguità, le verità non visibili; e impegnato, piuttosto, a dissolvere il caos del reale (non di rado prevedendolo) nel cosmo della letteratura, in quella nitida e ordinata «sintassi della vita, del mondo, dell’uomo, di tutti gli uomini». Ben consapevole, manzonianamente, della complessa, spesso oscura natura del vero, e insofferente delle banalizzazioni, dei dogmi, delle pietrificazioni ideologiche; oltre che della natura inquisitoriale del Potere. Chiedendo aiuto (senza restarne prigioniero) alla ragione e al cuore, e sempre sorretto dal dubbio, dal rovello. Contraddicendo e contraddicendosi, insomma, tra le irreprimibili apprensioni del vivere. Sciogliendo il rigore dell’intelligenza nella gioia della scrittura.
Di quello scrivere, di quell’italiano che era per Sciascia un incessante ragionare: «l’italiano non è l’italiano: è il ragionare», fa pronunciare Leonardo al vecchio professor Franzò (che tanto gli somiglia: nelle parole scarne e affilate, come nei borbottii e nei silenzi, con quella sua acutissima vista sull’uomo e sulle cose), in Una storia semplice.
E il «ragionare» si fa prezioso scrigno di memoria, di pensiero, di stile: scendendo e risalendo lungo una tradizione linguistica profonda di secoli, che ha dentro popoli e civiltà, scrittori di parole e scrittori di cose, per dirla con Pirandello; il cui ritratto fotografico Sciascia sempre teneva sulla scrivania, a Racalmuto come a Palermo. Di quello scrivere, ancora, che era anche per lui, per Leonardo, un desiderio, un sogno; come lo era stato per Giuseppe Antonio Borgese: «aspiro, per quando sia morto, ad una lode: che in nessuna mia pagina è fatta propaganda per un sentimento abietto e malvagio».

«Ce ne ricorderemo, di questo pianeta». E non poteva che essere la memoria, la memoria che si fa verità viva, l’ultima parola di un eretico come Leonardo Sciascia, del quale quest’anno ricorre il centenario della nascita, con non poche iniziative (alcune già svolte, molte altre in programma) per celebrare Sciascia, tra cui  quelle organizzate dalla Fondazione a lui intitolata e coordinate da Fabrizio Catalano, uno dei nipoti di Leonardo, anch’egli scrittore, oltre che regista.
La memoria, dicevo: quella stessa – sempre pronta a scoprire e riscoprire – che riecheggia nel titolo dell’ultimo (l’ultimo che Sciascia approvò, e il primo dei postumi) libro: A futura memoria (se la memoria ha un futuro); laddove in epigrafe risuonano le parole di Georges Bernanos che il grande intellettuale e scrittore siciliano ed europeo sentiva, e profondamente, anche sue: «preferisco perdere dei lettori, piuttosto che ingannarli». Quella stessa memoria, ancora, che innerva Il cavaliere e la morte, il giallo (genere da Sciascia prediletto: per scrutare l’uomo, e perché «presuppone l’esistenza di Dio») più di altri testamentario, e anche oggi di vivida attualità. Per quel terribile rigenerarsi dell’indegnità del mondo – del mondo umano: con i suoi veleni, le sue corruzioni, le sue guerre – di sé stesso, della vita, come anche per la fiducia e la speranza (di un mondo umano diverso, migliore, che ritrova e rinnova la sua umanità) che proprio nella scrittura e nella memoria continuano a risiedere, a germogliare.
«Ce ne ricorderemo, di questo pianeta». E intanto leggiamolo, o rileggiamolo, Sciascia: perché ci dice chi siamo.

NOTE
L’articolo con il titolo Ce ne ricorderemo di questo pianeta, in forma più ridotta,  è stato pubblicato l’ 8 gennaio 2021 (giorno del centesimo anniversario della nascita di Leonardo Sciascia) sulla rivista Letteratitudine

Giuseppe Giglio vive a Randazzo, sull’Etna. È scrittore e critico letterario. Collabora con quotidiani e magazine: da “La Sicilia” a “Letteratitudine”, a “Succedeoggi”. Si occupa soprattutto del Novecento, nel segno di un’idea di letteratura come conversazione sull’uomo e sul mondo, e di una critica letteraria come critica della vita.
Ha pubblicato, tra gli altri: I piaceri della conversazione. Da Montaigne a Sciascia: appunti su un genere antico (Salvatore Sciascia Editore, Premio “Tarquinia-Cardarelli” 2010 per l’opera prima di critica letteraria). Nel 2014 ha partecipato al volume Dieci registi in cerca d’autore. Cinema e letteratura: un amore difficile, di Amedeo di Sora e Gerry Guida (Cultura e dintorni Editore). È tra gli autori di Letteratitudine 3. Letture, scritture e meta narrazioni (LiberAria), a cura di Massimo Maugeri, uscito nel 2017: un manuale sulla lettura, un viaggio dentro le storie e le scritture di oggi

Sulla figura e l’opera di Leonardo Sciascia leggi su Ferraraitalia:
Sergio ReyesUN ILLUMINISTA IN SICILIA : Attualità di Leonardo Sciascia a 100 anni dalla nascita [Qui]
Giuseppe TrainaDENTRO IL GIALLO : I personaggi di Sciascia e Simenon davanti al potere [Qui]
Roberta Barbieri
, RICORDANDO SCIASCIA : Una storia semplice [Qui]
Rosalba Galvagno
, IL MAESTRO E IL GIOVANE ESORDIENTE : La corrispondenza tra Leonardo Sciascia e Vincenzo Consolo [Qui]

In copertina: Ritratto di Leonardo Sciascia – Foto di Nino Catlano 

Febbraio 2060

 

I racconti di Costanza Del Re sembrano appartenere a un genere a parte, qualcosa di più o di diverso dai racconti comunemente detti. Il perché sarebbe lungo dire: per rendersene conto, la cosa migliore è ricavarsi un angolo di silenzio e lasciarsi andare alla lettura: entrare nel suo microcosmo familiare (un’altra Macondo) e nella vertigine dello scorrere – avanti e indietro – del tempo. Così, ad esempio, Costanza si è pensata e ha pensato e scritto di un mondo fra quarant’anni. A partire da Gennaio 2060 (questa è la seconda puntata) potrete seguirla tutti i mesi su Ferraraitalia. Buona lettura.
(Effe Emme)

Cosmo-111 è il nostro robot di casa. E’ alto cinquanta centimetri, bianco, con un corpo tozzo, senza gambe, una grande testa e due occhi neri e rotondi che, contenendo le telecamere, gli permettono di vedere con una precisione che corrisponde alle nostre quattordici diottrie.
Ha due braccia meccaniche, snodate e  lunghe quaranta centimetri, con cui fa molte attività.
Quando parla o canta da solo usa una lingua che nessun umano conosce, mentre quando interagisce con noi parla in italiano. Purtroppo adesso comincia ad essere un po’ vecchio e ogni tanto sbaglia e comunica con noi usando un linguaggio a dir poco strano. Usa una sola una vocale per volta e dice frasi intere usando sempre la stessa. Spesso usa solo la “A” e quindi una frase del tipo “Ciao, oggi c’è il sole, voglio pulire i vetri” diventa (sostituendo in maniera sistematica la “A” a tutte le vocali presenti nella frase): “Caaa, agga c’à al sala, vaglaa palara a vatra”.

Io e Luca volevamo portarlo al Centro-Trescia-111 (il presidio di assistenza per i robot), per vedere se lo potevano curare. Ma ad Axilla e Gianblu piace da matti quando parla a quel modo, si divertono e ridono. Hanno imparato a parlare come lui e non lo vogliono portare in assistenza. Quando hanno un po’ di tempo per divertirsi, lo sfidano al “gioco delle vocali” che a casa nostra sostituisce la Playstation e Gugyweek. Ad esempio Gianblu dice a Cosmo-111: “Dai Cosmo, giochiamo al gioco delle vocali. Comincio io. Vediamo chi è il più veloce. Uso solo la U”.

Curu Cusmu,sunu davvuru fulucu chu tu sua cun nuu nun su cusu furummu sunzu du tu” (caro Cosmo sono davvero felice che tu sia con noi, non so cosa faremmo senza di te), e Cosmo-111 risponde “Curtu chu nun suputu sturu sunzu du mu, uu sunu unduspunsubulu u vu uutu sumpru!” (Certo che non sapete stare senza di me, io sono indispensabile e vi aiuto sempre!). E vanno avanti così, seri alla prima frase, sorridendo alla seconda, ridacchiando alla terza, ridendo alla quarta, ridendo sguaiatamente dalla quinta in poi.
Vista la situazione, Cosmo-111 non pensa affatto di essere ammalato ma è convinto di avere una qualità buffa e molto utile, che gli permette di allietare le giornate dei suoi due umani preferiti: quei due bambini ormai cresciuti che corrispondono ai nomi di Axilla e Gianblu.

Guardarli mentre giocano a quel modo, mi fa sempre molto riflettere; a volte le menomazioni possono essere uno svantaggio e a volte si trasformano nell’esatto contrario. E’ così anche nel mondo animale e anche in quello vegetale. La tigre bianca è albina. L’albinsmo è una anomalia congenita. E’ una deficienza causata da un difetto o da un’assenza dell’enzima tirosinasi, enzima che è coinvolto nella sintesi della melanina. Potrebbe quindi essere considerato una malattia. Ci sarebbe un enzima da ripristinare. Eppure la tigre bianca è pregiatissima, considerata bellissima e una rarità. A nessuno verrebbe mai in mente che sia malata.

Anche nel mondo vegetale è così. Il Tambalo, fiore che cresce d’estate in mezzo al granoturco, ha una strana colorazione nera con striature argentate dovuta a un difetto di pigmentazione. Eppure tutti lo raccolgono, lo mettono nei vasi, lo regalano, lo portano addirittura in chiesa. Nessuno vorrebbe il Tambalo di un colore diverso e a nessuno viene in mente di considerarlo una stranezza o una malattia, invece che una eccellente rarità.

Anche nel mondo umano è un po’ così. Ci sono modelle albine, modelle affette da pitiriasi che trasforma la loro pelle in un manto simile a quello delle mucche pezzate (un po’ del colore normale e un po’ bianco candido). Ci sono modelle calve e magrissime. Sono considerate malate? Macchè, sono considerate bellissime.

A volte la malattia si connota per sofferenza a tutti gli effetti, dolore muscolare, osseo, febbre, vomito, cefalea, mal di denti, astenia, stanchezza. Forse tutto questo può essere considerato patologia, anche se bisogna fare dei notevoli distinguo. La diversità, in quanto tale, quando può/deve essere considerata malattia? Quando provoca sofferenza?

Un bambino con i capelli rossi, che si trova in una classe di tutti bambini mori, è ammalato in quanto vive una reiterata situazione di sofferenza causata dal colore dei suoi capelli, che è diverso da quello di tutti gli altri? Credo che la definizione di malattia non sia univoca, che non lo sia la definizione di sofferenza, come non lo è la definizione di normalità.

In questo tempo che ha superato abbondantemente l’inizio degli anni 2000 d.c., io, mio marito e i miei due figli viviamo con Cosmo-111 e ci sembra normale che sia così. Ci mancherebbe se dovesse essere rottamato e soffriremmo della sua assenza. Eppure Cosmo-111 è un assemblaggio di parti meccaniche e elettroniche, non ha di certo un’anima, anche se in maniera semi-empatica (per imitazione), sa rispondere alle sollecitazioni emotive degli umani che vivono con lui e sa piangere, facendo uscire un po’ d’acqua dalle telecamere che ha al posto degli occhi.

Un giorno parlavo con la zia Costanza di Cosmo-111 e degli strani giochi che fanno con lui i ragazzi. Lei, che di solito ha sempre qualcosa da dire, è rimasta pensierosa e poi ha commentato: “E’ davvero strano che ora stia succedendo tutto questo. Sembra fantascienza e invece è realtà. Il bello è che Cosmo-111 piace anche a me. Ci siamo tutti affezionati a esseri che non sono umani e che non appartengono nemmeno al regno animale o a quello vegetale. E’ nato una specie di  “regno di mezzo”, che non so nemmeno se si possa considerare un regno di esseri viventi o un regno “altro”. Sicuramente non lo si può considerare un regno morto. Chi lo dice a Gianblu che Cosmo-111 appartiene a un regno morto? Si arrabbierebbe di sicuro. Questo strano “mondo di mezzo”  lo descriverei come un regno di proiezioni. Un mondo di esseri che vivono grazie ai sentimenti che noi attribuiamo loro, grazie alla componente emotiva traslata dagli esseri umani ai robot. Riconosciamo questa componente emotiva come uguale alla nostra, perché è la nostra. Proprio questo ci fa affezionare a questi esseri che sono come noi, sentono quello che sentiamo noi, reagiscono come noi, sia alle avversità, che alle sorprese. E’ facile stare con loro perché non sono oppositivi, non sono imprevedibili, non vanno controcorrente, sono molto servizievoli. Questo “mondo di mezzo” è la vera novità di questi ultimi decenni, è un luogo di rifugio per le nuove generazioni, è uno spazio che si sta affrancando dalla artificialità e si sta legittimando come possibile, alternativo e in qualche modo “vero”. Mi chiedo dove ci porterà tutto questo. Fino a quando questo “mondo di mezzo” resterà tale. Non mi piacerebbe che questo spazio di proiezioni-umane prendesse il sopravvento sul mondo che conoscevamo prima, fatto di relazioni vere, di sentimenti autentici, di rapporti che nascono crescono e finiscono, ma che non sono mai animati da sentimenti riflessi”.

Come sempre la zia Costanza, che pur avendo ottantotto anni è ancora molto lucida, ha ragione. Ma poi ripenso a Cosmo-111 e mi rendo conto che il mondo è già cambiato, che la “terra di mezzo” è già legittimamente al suo posto.
A cosa porterà tutto questo non lo so, lo scopriremo cammin facendo e, soprattutto, lo scopriranno Axilla e Gianblu che considerano Cosmo-111 una parte della famiglia e che, da questo sentire, non si affrancheranno per tutto il tempo della loro lunga esistenza.

Mentre cerco di immaginare com’era la vita quando mia madre e la zia Costanza avevano vent’anni e i robot erano ancora allo status nascendi, sento il campanello di casa suonare. E’ Axilla che torna dall’università, apre la porta con la sua chiave elettronica, si disinfetta le mani e si toglie il piumino verde con il collo di pelliccia. Poi si siede sullo sgabello all’ingresso e si toglie le scarpe. Cosmo-111 arriva con le ciabatte e le dice: “Maattala sana calda a camada” (mettile sono calde e comode).
“Grazaa, Casma-111, saa straardanaria (Grazie Cosmo-111, sei straordinario)” lo ringrazia Axilla e poi gli dà un bacio sulla testa. Cosmo-111 sorride e poi dice divertito: “Questa volta ti ho fregato, ho usato tutte A solo per farti ridere”. Axilla sorride, ancora più divertita di prima e Cosmo-111 se ne va, cantando la canzone che gli piace tanto, in quella lingua che solo lui conosce, perchè esclusiva degli abitanti del “mondo di mezzo”, che lo accompagna nei momenti solitari e di non-umanità.

Quel modo di parlare e cantare è il sintomo del mondo che cambia, della realtà che si affranca da se stessa per inglobare dento di sé la tecnologia come estensione di un po’ di vita, come paradigma del progresso che cammina, senza troppi pregiudizi, a servizio dell’umanità.
“Saputo, saputo, aku aku, saputo saputo, aku totù!” canta Cosmo-111 e io lo guardo mentre se ne va.

N.d.A.
I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.

 

PRESTO DI MATTINA
Come nasce una storia

 

Come nasce una storia? Quale la sua origine, l’ambito del suo germinare, il suo milieu? Quale la ministerialità educante della narrazione, il suo compito pedagogico?
Proviamo a percorrere un sentiero.
Con l’espressione “le blanc des origines”, Pierre Teilhard de Chardin intese designare il concentrato intimo, nel tempo e nello spazio, dell’esperienza originaria del fenomeno umano, nel suo evolversi e divenire. Lo fece a partire da un immensamente piccolo, verso un infinitamente grande, attraverso l’infinitamente complesso: perché «è nella complessità che la coscienza appare» (Lettres Intimes, 11.7.1941 340), come processo di ‘riflessione’ che sale in modo irreversibile. Lo sviluppo evolutivo, non diversamente dal divenire narrativo delle storie, si sostanzia in un processo di complessità-coscienza, un divenire, il cui inizio è puntiforme, ma poi procede attraverso un’articolazione vieppiù differenziata, che si moltiplica, e torna a convergere attraverso passaggi, soglie, punti di maturazione concatenati, sempre più compositi.

Come da un solo fotogramma prende vita un film, così da una parola, un simbolo o un’immagine nascono un planetario testuale, una biblioteca. È un analogo gioco combinatorio, capace di generare lungo la narrazione sempre qualcosa di nuovo: un novum di continuità pur nella diversificazione, all’interno del fenomeno spirituale, sempre in formazione e accrescimento verso una più grande coscienza.

Per dirla con semplicità, le grandi cose cominciano sempre da un piccolo granello, finanche da ciò che appare effimero, impalpabile. Forse per questo Teilhard de Chardin parla del “bianco delle origini”, per ricordarci che l’inizio di tutte le nuove specie è invisibile e introvabile dalla ricerca scientifica. Le fonti restano nascoste, irrintracciabili e troppo piccole per lasciare il segno del loro concepimento. Si potrà allora rispondere alla domanda dell’inizio: le storie, i racconti come la vita cominciano in umiltà, l’umiltà di fronte all’altro: umiltà d’amore. Questo è il luogo della loro nascita. E nel loro dispiegarsi attraverso la narrazione, esse portano con sé la memoria di questa origine, sperimentandola ad un tempo come un perdita e un ritrovamento, come matrice rigenerativa al modo del lievito madre.

Ne La nostalgia del Fronte – descritta da Teilhard in un saggio del 1917 – viene rappresentato simbolicamente questo processo di trasformazione. La linea del fronte che è esperienza di perdita, di disfacimento, di scontro e di morte, diventa ai suoi occhi il “fronte dell’onda” che avanza, il fronte umano che non viene fermato neppure dall’entropia delle guerre, ma va oltre e avanza dopo ogni perdita e ricaduta, per poi riemergere come una nuova linea dell’onda. Così accade anche alle parole originarie, sepolte da quelle venute dopo, e poi riemerse in una nuova, ulteriore diversa nascita.

«Quando ho cominciato a scrivere storie – scrive Italo Calvino – l’unica cosa di cui ero sicuro era che all’origine d’ogni mio racconto c’era un’immagine visuale. Un’immagine che per qualche ragione mi si presenta come carica di significato, anche se non saprei formulare questo significato in termini discorsivi o concettuali. Appena l’immagine è diventata abbastanza netta nella mia mente, mi metto a svilupparla in una storia, o meglio, sono le immagini stesse che sviluppano le loro potenzialità implicite, il racconto che esse portano dentro di sé. Attorno a ogni immagine ne nascono delle altre, si forma un campo di analogie, di simmetrie, di contrapposizioni. … Sarà [poi] la scrittura a guidare il racconto». Narrare allora non è appena uno strumento di conoscenza per se stessi, ma ambito di relazione fuori di sé; un superarsi immedesimandosi nelle storie d’altri per maturare la coscienza della responsabilità e del servizio che è esperienza di trascendenza: «ho sempre cercato nella immaginazione un mezzo per raggiungere una conoscenza extraindividuale, extrasoggettiva… si tratta di processi che anche se non partono dal cielo, esorbitano dalle nostre intenzioni e dal nostro controllo, assumendo rispetto all’individuo una sorta di trascendenza», (Lezioni americane, Milano 1988, 88-89 e 86-87).

Così l’istanza etica nella narrazione non resta fuori dalle storie; non è un optional; è traccia dell’altro, filo rosso che invoca responsabilità; evocativa a sua volta di una trascendenza non solo umana. La stessa che indusse Ulisse a ripartire da Itaca, come gli aveva profetizzato Tiresia con il remo in spalla, verso una nuova odissea, altri mari da navigare, ancora genti da conoscere. Ma rivelativa di una trascendenza altrove, è anche quella che si rivelò ad Abramo per interpellarlo. E di qui subito una storia narrante; storia di un popolo in cammino in compagnia di un libro raccontato e letto sempre di nuovo.

La seduzione con cui Yhwh, il Dio pastore, attira a sé, avviene attraverso la narrazione: «la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore», racconta Osea il profeta innamorato. Yhwh ama le storie degli uomini e in esse tesse anche la sua. Sono storie che educano all’ascolto, che mettono in cammino, lasciando il già noto verso un dove che s’ignora. Sono racconti che narrano di un dono, quello della Parola, e di Agape da cui prende forma la gratuità. Ma non è così anche per le storie? Non si sparpagliano per il mondo senza ricevere compenso alcuno, lasciandosi portare di voce in voce, di pagina in pagina in libertà? Esse non temono i confini né i doganieri, circumnavigano la terra; si lasciano trasportare dalle nubi, dalle onde del mare, attraversano deserti, foreste, montagne e pianure da un continente all’altro prima di giungere a noi.

I racconti dei vangeli, credo, assomigliano a corsi sotterranei che percorrono le storie, parole come perle di mare, nascoste nel sottosuolo. Se si fa silenzio credo che le si odi dire: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,7-8): «un’eco di memoria, come quel buio murmure di mare», direbbe Quasimodo.
Nelle storie si mette in atto un processo di strutturazione della realtà «la narrazione organizza e dà forma alla nostra esperienza».
L’esperienza del narrare, come pure l’esperienza spirituale e quella mistica, non sono un’evasione dal reale; non portano fuori dalla vita ma si sprofondano in essa.

Le parole e i racconti si distanziano e si avvicinano, si differenziano e si uniscono di nuovo, dando forma a un organismo narrativo, un «fabulario arcobaleno» di incontri che cambiano il mondo ed anche noi. Le storie – direbbe Teilhard pure lui narratore di storie – sono potenza spirituale della materia, linfa che sale nell’albero della vita e dunque vanno comprese come generative di un ambiente, strutturantesi e intellegibili con esso. Due suoi testi titolano proprio: Milieu divin e Milieu mystique, quest’ultimo in stile narrativo: «Un suono purissimo si è alzato nel silenzio; un’iride limpida si è diffusa nel cristallo; una luce è passata in fondo agli occhi che amo… Erano tre cose piccole e brevi: un canto, un raggio, uno sguardo… Perciò ho creduto dapprima che entrassero in me per rimanervi e perdersi. Invece, sono state esse a catturarmi e a rapirmi».

Madeleine Barthélemy-Madaule (1911-2001) una studiosa del suo pensiero riconosce al termine milieu un triplice significato. Il primo è quello che richiama l’idea di un ambiente (ciò in cui): l’orizzonte, il luogo e la struttura del formarsi dell’esperienza come polarità dialettica e convergente. Ambiente nel secondo significato si riferire invece a un mezzo (ciò per cui): un legame oppure un’apertura dialettica che fa comunicare l’Assoluto con il creato, il dentro e il fuori, l’in alto e l’in avanti. Un terzo significato, infine, riconosce nel termine milieu un punto (un centro di): la convergenza delle polarità, l’evento dell’incontro, l’attimo del presente in cui si dà la totalità. Anche per le storie il milieu è il limite estremo di ciò che si prova e di ciò che si fa, il punto più profondo della coscienza, dove questa comunica con l’Assoluto e con sé stessa e comprende con il suo sguardo le terre dell’alterità e di tutto il cosmo.

Queste mie domande e riflessioni sono nate da un dono di amicizia di Anita Gramigna. I suoi due ultimi libri: Fabulario arcobaleno. Educazione interculturale con i piccoli e Come nascono le storie. Pedagogia narrativa per i più piccoli sono stati un invito a lasciare la panchina, a rimettermi in gioco come in una partita amichevole. Il suo è stato un assist che non potevo perdere, proprio davanti alla porta; gli altri giocatori li aveva già dribblati tutti lei. Anita Gramigna dirige il laboratorio di epistemologia della Formazione presso la nostra università, insegna pedagogia generale e metodologia della ricerca. Con questi due studi ha inteso narrarci un aspetto della sua ricerca pedagogica interculturale che, condotta attraverso l’analisi e la narrazione di storie incipienti, balbettii infantili, piccoli dialoghi e racconti di altri continenti, rivela la forza educativa ed etica “del linguaggio al suo sorgere”. Una risorsa anche, tanto per i piccoli che nascono alla parola per la prima volta, come per gli adulti che li ascoltano e li assecondano, meravigliandosi di rinascere anche loro a quelle parole germinali. Qui è narrato come nascono le storie e come esse educhino alla interculturalità, intesa come riconoscimento dell’altro e dei suoi valori, della ricchezza che può venire dalla diversità che immunizza dalla pretesa di assolutizzare le proprie idee e valori. Intercultura ha un valenza progettuale, dice il comune impegno per un incontro attivo tra soggetti di estrazioni differenti ma dialoganti, per trasformare e lasciarsi trasformare cercando soluzioni ai problemi che sorgono nel nostro mondo diventato multiculturale e dunque bisognoso di convivere pacificamente.

«Quando nasce una storia prende vita un processo di rappresentazione interiore che contempla elementi cognitivi, emozionali e culturali, come sono gli artefatti linguistici. Quando nasce una storia si accende l’immaginazione interpretante». Pure lei ricorda un testo di Italo Calvino estratto dalle Lezioni americane: “l’immaginazione è un repertorio del potenziale, dell’ipotetico, di ciò che non è né è stato né forse sarà ma che avrebbe potuto essere”. Sottolinea che le storie nascenti si esprimono nella forma di un gioco-narrazione, che non è solo oggetto di riflessione ma una tecnica di gioco generativo, di gratuità che educa al dono.

«Il gioco-narrare è azione gratuita, libera dal persegui mento di scopi diretti: in questo senso, è libero, pur possedendo regole rigorose. È libero perché può disancorarsi dalla realtà, magari proprio per fornirne una versione surreale e risponde solo al desiderio di giocare con le parole, (ivi 36)…L’aurora del pre-linguaggio può divenire l’occasione per il pensiero adulto di rinunciare, almeno per il tempo breve di un gioco, alla propria esaustiva sovranità sull’attribuzione di senso alle cose. …il meraviglioso parla a ciascuno di noi infatti, può leggersi a tanti livelli, come è nella natura metaforica della narrazione e, naturalmente, del gioco… La bellezza delle immagini che fioriscono nelle gioco-storie, del ritmo ludico che lì si esprime, della musicalità delle parole, dell’assurdità delle metafore, si dà con un sentimento di dono». (ivi, 11-12; 30-31).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

CONTRO VERSO
Filastrocca del padre sconsolato

 

Nella filastrocca intitolata “L’uomo polipo” una ragazzina di 13 anni aveva parlato del suo amore per un uomo una decina d’anni più grande che le aveva riempito la vita avvolgendola con i suoi tentacoli, tanto da farle interrompere la scuola, le amicizie… e intanto aspettavano un bambino. Qui ascoltiamo il padre di questa ragazzina. Un uomo sconsolato, che ha cresciuto la figlia da solo dopo che, tanti anni prima, la moglie se n’è andata disinteressandosi della bambina.

Filastrocca del padre sconsolato

Le ho detto: “Bimba mia,
bada, non ti fidare
di chi ti porta via
e ti vuol pilotare”

ma lei si è innamorata
c’è poco da negare.
È bella e addormentata.
Chi la saprà svegliare?

Il vile sbarbatello
che possiede mia figlia.
sarà anche forte e bello
ma… guai a chi se lo piglia!

L’avvolge nelle spire
come fosse un serpente.
Gliel’ho voluto dire,
purtroppo non mi sente.

È che lui non lavora
e lei è minorenne,
dovrebbe andare a scuola.
Quei due non fanno niente.

Li ho mantenuti io
– cosa potevo fare? –
sperando, in cuor mio,
di poterla aiutare.

In più nutro il sospetto
che lui sia un violento
ma non ne sono certo,
e intanto mi tormento.

“Sai babbo sono incinta”
m’ha detto un brutto giorno
e io ho fatto finta:
“Che bello, sarò nonno!”

Però io sono vecchio
conosco un po’ la vita
e come in uno specchio
già vedo la partita

che giocan quei ragazzi
ancora adolescenti
e son cavalli pazzi,
del tutto incoscienti.

Lo sono stato anch’io
che l’ho tenuta buona
ma avevo un dubbio mio:
se un giorno mi abbandona?

Sua madre se n’è andata
ormai da lunghi anni,
io sì l’ho perdonata
ma questi sono i danni.

Adesso son deciso
a vincer la paura,
non farò più buon viso
di fronte alla sciagura.

Lui assorbe la sua vita
e non le lascia il fiato.
Mia figlia è trasformata.
Io sono sconsolato.

Il padre sconsolato non sapeva davvero che posizione prendere. Essere troppo netto nel disapprovare l’amore della sua bambina voleva dire perdere il rapporto con lei e la possibilità di aiutarla un domani, se le cose fossero volte al peggio. Sostenerla, però, era come approvare un progetto di vita che per lui era inaccettabile.

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia  il venerdì. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Al cantón fraréś
Carletto Fedozzi: “La nòstra tèra”

 

Il profondo legame per il territorio suggerisce all’autore un canto sugli aspetti della campagna: la sua gente, il fiume, le stagioni, il lavoro. Le policromie dei raccolti, dei frutti e dei fiori, il canto dei raccoglitori e il rumore dell’acqua si intrecciano nel ricordo di gesti quotidiani.
Una scelta consapevole quella di esprimersi in vernacolo: per raccontare anche ai più piccoli da dove vengono le parole dialettali.
(Ciarìn)

La nòstra tèra

Che bèl, a la matìna, uƞ salùt col surìś,
l’ària ch’la sà da fén e da grugnó,
int l’àra, ai pasarìƞ butàr uƞ pugn ad brìś,
la źdóra da la fnèstra ch’la scròla i so laƞzó.

Che bèl stàr a la sprùgla,
d’iƞvèrn a téś al mur
e zcórar in dialèt dal témp ch’al rùgla
che s’al n’as pòl farmàr ch’al pasa pur.

Che bèla la campàgna ch’la s’imbiónda ad furmént
coll ròśal ch’i la màcia ad rós e d’vèrd,
ill cànn dill val indù s’intriga al vént,
al cànt dì ztàcarìƞ che tra i filàr al s’pèrd.

Che bèl a l’ómbra d’n’ólam
sul’àrźan a scultàr,
as sént al Po che, càlam,
al śbriśga vèrs al mar.

Che bèl favràr tut biaƞch,
che quànd a spióna al sól,
la név l’as tira ad fiàƞch
par lasàr pòst al viòl.

Guardàr luntàn i prà
e l’ fil ch’i fà i sulcàr,
fìn dù che j’òć i và
al ziél ch’al pógia par.

Che bèl int la basóra
al sól ch’al pèrd al fìl,
ill piòp ch’ill śluƞga l’òra
e i śghìt ch’i torna al fnìl.

Bèla la źuantù,
che spès l’am tórna iƞ mént,
“L’è ‘ƞ pcà ch’la n’agh sia più”
la diś la nostra źént.

Aƞziàn e stralaƞcà, al sarà bèl preciś,
cuntàr a chi putìƞ
che ill ciàcar di frarìś
ill vién dal vèć latìƞ.

E se la sgnóra négra a l’us la piciarà,
agh duvrén dìr ch’la vàga indù ch’la jéra.
L’è sèmpar témp d’andàr a stàr là dlà,
ch’l’è bèla da campàr la nostra tèra.

 

La nostra terra (traduzione dell’autore)

Che bello alla mattina, un saluto con il sorriso, / l’aria che profuma di fieno e di pane, / nell’aia, ai passerotti, gettare un pugno di briciole, / la massaia, dalla finestra, che scrolla le sue lenzuola. / Che bello stare al sole, / d’inverno, accostati al muro / e parlare in dialetto del tempo che scorre / che, se non si può fermare, passi pure. / Che bella la campagna che si imbionda di grano / coi papaveri che la macchiano di rosso e di verde, / le canne delle valli dove si intrufola il vento, / il canto dei raccoglitori che tra i filari si perde. / Che bello all’ombra di un olmo / sull’argine ad ascoltare, / si sente il Po che, calmo, / scivola verso il mare. / Che bello febbraio tutto bianco / che quando si affaccia il sole, / la neve si sposta di lato /per lasciare posto alle viole. / Guardare lontano i prati / e le file che fanno i solchi, / fin dove arrivano gli occhi /il cielo che appoggia piatto. / Che bello al tramonto, / il sole che perde il filo, / i pioppi che allungano l’ombra / e i rondoni che tornano al fienile. / Bella la gioventù, / che spesso mi torna in mente, / “Peccato non ci sia più” / dice la nostra gente. / Anziani e sciancati, sarà bello lo stesso, / raccontare ai bambini / che le parole dei ferraresi / vengono dall’antico latino. / E se la signora nera all’uscio busserà, / dovremo dirle di tornare dov’era. / C’è sempre tempo di andare ad abitare di là, / perché è bella da vivere la nostra terra.

Tratto da: Carletto Fedozzi, Scurs e fat (da tgnir da cat) : discorsi e fatti (da conservare), poesie in dialetto ferrarese,
Ferrara, 2G Editrice, 2016.

Carletto Fedozzi (Migliarino 1947)
È stato amministratore comunale ricoprendo diversi incarichi nel suo paese natale. Ha lavorato in vari zuccherifici della provincia di Ferrara. A lungo attivista sindacale in importanti vertenze a Migliarino e a Comacchio. Appassionato di archeologia, vulcanologia e storia del territorio ferrarese.
Ha iniziato giovanissimo a comporre versi in italiano e in vernacolo, ricevendo premi nei concorsi dialettali.

 

 

Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui] 

In copertina:  Semina – foto di Marco Chiarini

LA STORIA INFINITA DELLA VIOLENZA PIU’ ANTICA:
ma la guerra alle donne continua in tutto il mondo

Violenza sessuale sulle donne arrestate o rapite dai paramilitari e in molti casi poi uccise. Lo stupro e le altre sevizie sono una forma di tortura e assieme espressione di violenza di genere. Le dimensioni di quanto accade e le forme nelle quali si traduce tolgono la parola. Forse effettivamente stuprum e stupor hanno la stessa radice. Non fossero così largamente documentati i fatti, si faticherebbe a crederci.

Stupro e guerra
Le donne, come altri ‘beni’, sono preda e oggetto di saccheggio in guerra da parte del vincitore
. Da sempre. Nei tempi a noi vicini più che una conseguenza – compenso ai sacrifici del guerriero – sono una componente dell’impegno bellico volto alla pulizia etnica se non al genocidio. L’espressione più compiuta è nei lager nazisti. Ma lì non si ferma. I soldati dell’Armata rossa respingono a ovest 15 milioni di tedeschi e violentano, a migliaia e migliaia, le donne. Per restare solo in Europa, e in tempi successivi, ricordiamo gli stupri di massa delle guerre della ex Jugoslavia e le sopravvissute alle torture e alle violenze.

Centauri. Alle radici della violenza maschile
Con la guida di Luigi Zoja possiamo interrogarci sull’inadeguatezza maschile, sull’identità fragile e recente del maschio. Non fossimo male impastati non ci sarebbe così facile fare quello che facciamo. Contagiosa, epidemica è la regressione della mascolinità alla violenza in guerra o in situazioni simili, meglio se in divisa. La crudeltà innata e prevaricatrice della sessualità emerge appena si allenta il controllo sociale e civile. Dietro ai casi illustrati da Zoja, nella storia lontana e vicina, avvertiamo il galoppo dei centauri, metà uomini e metà animali. “La loro orda non conosce altro eros che l’ebbrezza orgiastica accompagnata dallo stupro”. Diffido sempre dell’enfasi sulle componenti biologiche del nostro agire, anche se già tradotte in miti e dunque opera della creatività umana. Certo non si può negare la realtà di “branchi di maschi nella frenesia dello stupro collettivo: la predazione si ripete dai primordi della storia, attraversando immutata il processo di incivilimento, impennandosi nel cuore del Novecento e guadagnandosi ancora oggi grande spazio nelle cronache”. Con un po’ di tempo a disposizione val la pena ascoltare direttamente Luigi Zoja [Qui].

Plan Condor
Pinochet usurpa il potere con l’appoggio dei servizi Usa. È l’avvio del “Piano Condor”: Cile, Argentina, Uruguay, Paraguay, Bolivia coordinano la loro guerra a guerriglieri e oppositori. La CIA ha desegretato i dossier relativi. Richard Nixon ed Henry Kissinger (premio Nobel per la Pace) sapevano, se pure non ne siano stati anche i mandanti. In Italia c’è stato un processo, in primo e secondo grado. Ventiquattro imputati su 25 nel processo per i crimini dell’Operazione Condor sono stati condannati in 2° grado all’ergastolo per omicidio pluriaggravato di 23 italiani ai tempi delle dittature in Sudamerica. La sentenza ribalta le tante assoluzioni che avevano segnato la decisione di 1°grado.
La lunga battaglia dei familiari delle vittime ha avuto questo esito e permesso di far luce sull’operazione. Dice Aurora: “Per me questo processo è iniziato nel 1999, quando ho rilasciato le prime dichiarazioni alle autorità italiane sull’omicidio di mio marito, Daniel Banfi”. Esule dall’Uruguay, è trucidato nel ’74 in Argentina. Così funziona il Piano Condor: persecuzione, tortura, sparizione, assassinio di migliaia di oppositori in fuga da un paese in cerca di rifugio in uno vicino.

Mettere le donne al loro posto
Nell’America latina, fin da Colombo e poi dai conquistatori spagnoli e portoghesi, la violenza sulle donne indigene è stata la regola.
I colonizzatori europei hanno esercitato uno stupro sistematico delle indigene, fatte schiave. Nessun dubbio sulla loro posizione doppiamente subordinata, come donne e come non bianche. Così i figli meticci che sono nati da colonizzatori ossessionati dalla ‘limpieza de sangre’.
Le donne che hanno il coraggio di opporsi al dittatore debbono essere ricondotte a ragione. Come le indigene dei secoli passati non fanno veramente parte della società. Vanno messe al posto che loro spetta. La violenza sessuale in particolare ha questo significato. Non è solo umiliazione e tortura. Di solito non si cerca di strappare notizie utili a ulteriori arresti e persecuzioni. Vanno corrette nel modo più deciso queste donne, che agiscono contro natura. Si interessano di politica invece di stare in casa a preparare i buoni piatti della cucina cilena.
Tra i torturatori – questa a quanto pare è una novità – c’è pure qualche donna. Anche lei è fuori dalle mura domestiche, ma per una buona causa. In questa volontà di colpire e correggere le donne che non stanno in riga vedo qualche parentela con il jack rolling. In Sudafrica branchi di maschi si danno allo stupro come terapia nei confronti di donne lesbiche, gravemente devianti cioè.

Non solo in passato, non solo in Cile
Lo stato di minorità delle donne, negato dal diritto, non è ovunque superato. Le conquiste in questo campo non sono mai definitive. Il Rapporto Valech, al quale il libro di Hopenhayn si rifà, è di importanza straordinaria per l’accurata documentazione di una sistematica politica di tortura.
È sul corpo delle donne che la guerra continua nei diversi paesi. Nel genocidio c’è un nucleo di ginocidio. Non mancano le denunce e i rapporti. Penso solo all’attività dispiegata da Amnesty. Non citerò perciò i casi che le cronache, a volerle leggere, quotidianamente ci propongono. Un impegno è stato assunto solennemente 10 anni fa. L’11 maggio 2011 a Istanbul è stata firmata la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica. Il primo paese a ratificare è stato la Turchia. Due anni dopo l’ha ratificata l’Italia. Nel 2017 l’Unione Europea ha firmato. È una buona convenzione: la violenza sulle donne è violazione dei diritti umani e discriminazione; gli Stati sono responsabili se non la prevengono adottando norme e comportamenti conformi alla Convenzione; la distinzione tra uomini e donne non è unicamente basata sulle differenze biologiche (sesso) ma anche su categorie socialmente costruite (genere); la protezione delle donne è indipendente dalla loro origine, età, razza, religione, ceto sociale, status di migrante o orientamento sessuale; ci sono reati da perseguire quali le mutilazioni genitali, il matrimonio forzato, gli atti persecutori, la sterilizzazione e l’aborto forzati.
Attualmente è firmata e ratificata da 34 paesi. Altri 12 l’hanno firmata e non ratificata. Altri l’hanno semplicemente rifiutata.
Sembra che la Turchia, già paese capofila, intenda ritirarsi. Ha avviato la disdetta la Polonia. Aveva firmato e ratificato. Un governo che si vuole “vero cattolico” non accetta che un governo “vero musulmano” lo preceda nel togliere protezione e diritti delle donne!

Questo articolo è recentemente apparso sull’edizione in rete della storica rivista del Movimento nonviolento [www.azionenonviolenta.it]

In copertina: Una panchina rossa per ricordare tutte le donne vittime di violenza, Comune di Acquaviva delle Fonti, 2020 (licenza wiki commons)

RACCONTO
La favola del grande scrittore

 

Ambra Simeone

c’era una volta un grande scrittore, che era talmente grande che ogni volta che lo chiamavano per andare a parlare in un posto, dove volevano che leggesse i suoi libri, in quel posto lì, poi, tutti quanti parlavano di lui e del giorno che avrebbero letto i suoi libri.

questo grande scrittore, come era noto da sempre, fin da quando aveva scritto la sua prima pagina di narrativa, fin da quando aveva pubblicato col suo primo grosso editore, un editore di una grande città, forte dell’esperienza e del primato detenuto da decenni, era noto che non si muovesse da casa sua in quella stessa grande città, una bellissima magione degna della sua apprezzata considerazione, che non si muovesse neppure di un passo, se prima il comune di quel piccolo paese, dove si volevano leggere i suoi libri, non avesse pagato, in anticipo, un gettone di presenza di almeno cinquecento euro, con vitto e alloggio anch’essi gentilmente offerti, ma non compresi nel gettone, perché quel gettone era una cosa a parte, era solo per la presenza e null’altro, così che subito dopo, quando si leggevano le sue narrazioni, i compaesani di quel posto lì, di quel sindaco lì, così illuminato, gridavano, ah, che meraviglia, ah, che ospite d’eccezione!

dicevano così i rappresentanti che subito si mettevano in moto o in azione, o meglio scendevano in campo, (sì, questa qui è la metafora più calcistica possibile, quindi va bene, non ditemi nulla, che oggi le metafore calcistiche vanno tanto di moda) che quindi allora, quei rappresentanti delle associazioni di paese, poche sì, ma molto solerti quando si trattava di ospitare il grande intellettuale, a trovare sponsor e location adatte, ed erano pronte a mettere a disposizione del comune e del sindaco, tutto il loro meglio, o anche il peggio, visto che si erano date battaglia fino al giorno prima, ma ora invece tutte unite per un unico fine, tutte a mostrare il loro lavoro, pitture, musiche e fotografie, pronte da usare per accompagnare l’evento culturale dell’anno, uno all’anno, con tanto di nomi, firme, loghi e marchi, che mentre la scena maestra era tutta per il grande romanziere, almeno il retroscena poteva cadere su di loro, sulle quattro piccole associazioni indigene, come si diceva nei telegiornali locali, che si erano date così tanto da fare, perché era davvero, davvero importante mostrarsi così, in questo modo o in qualunque altro, pur di rientrare nel mondo dell’arte che conta, così dicevano i rappresentanti di queste associazioni locali, di quel posto lì.

e lo gridavano tutti in coro anche i paesani, ah, che meraviglia, ah, che ospite d’eccezione, che magari per i grandi eventi di cultura quell’anno lì, il sindaco aveva speso in tutto trecento euro, mentre il resto del gettone lo avevano trovato le associazioni con gli sponsor dei negozi del paese, ma solo per quel grande autore, e poi più nulla, che in fondo quello là, era il solo e unico evento del paese e così tanto atteso dalla cittadinanza, e ne era consapevole, il sindaco, che quel grande scrittore, sarebbe stato amato da tutti, persino dai bambini, perché studiare Pirandello o Montale, in quella scuola di quel paesotto lì, in un antico edificio non ristrutturato risalente alla metà degli anni sessanta, forse quei bambini, di studiare quella roba lì, in quell’antico e non ristrutturato edificio, con le crepe sui muri e i balconi fatiscenti che disseminavano bocconi di fascinoso e antico marmo, risalenti a quei magnifici e mai dimenticati anni Sessanta, un po’ forse si erano stancati, e invece lui che spettacolo che aveva organizzato, questo bravo sindaco!

si diceva persino che per giorni e giorni, ovunque andasse il grande narratore, tutti lo chiamassero nostro, e non perché fosse davvero loro, né perché avessero la minima intenzione di approfittarsi della sua eccessiva gentilezza e disponibilità, ma solamente per una forma di deferenza, un po’ come ci si dà del signore tra soldati, soprattutto nei film americani, così che sembrava davvero uno di loro, sembrava, e a tutti faceva un po’ piacere sembrare un caro amico o un parente di quel grande scrittore, perché diventava davvero uno di loro, cioè un po’ di tutti, e un po’ di nessuno, però non ditelo mai ad anima viva, che uno dei suoi più cari e fidati amici, di quelli veri, non di quelli inventati, mi disse un giorno in estrema confidenza e quasi in confessione che, alle volte, al gran letterato, lo indisponeva un po’ questa invadenza da parte di tutti, questa dimostrazione inspiegabile di affetto, che sentiva troppo esagerata, magari contraffatta, così pensava, per cui molti sindaci di molti paesotti, molte associazioni e molti cittadini, dove lui aveva letto i suoi libri, si volevano far grandi anche loro vicino al primo affabulatore, quasi che si sentissero un po’ tutti quanti scrittori, un po’ tutti quanti critici, insomma un po’ tutti quanti migliori di quel che erano veramente.

e questo non stava molto bene pensai, pensai così d’un tratto che alla stregua di questa offesa, fatta al gran letterato, di essere così invidiato e così apprezzato, di creare così tante aspettative e sogni, ma con così grande invadenza e intraprendenza, alla stregua di tutto ciò, forse, e dico forse, sarebbe stato meglio non invitarlo proprio a prendersi quel gettone e quel vitto e quell’alloggio, in quei paesotti di provincia, dove tutti sono un po’ peggiori di quello che sono, e che volevano solo rubargli la scena, benché tutto ciò era dovuto all’ignoranza di certo, e di non perder tempo con questi sindaci e curati di campagna, che abbiamo capito che vogliono solo farsi belli assieme a lui, e su di lui, cercando di dividersi la sua fama, la sua solo, per sentirsi migliori di quello che sono.

ma d’altronde cosa poteva fare, il magnanimo scrittore? rifiutarsi di fronte a così tanti e solerti inviti, richiesti con così tanta gentilezza e competenza, ma soprattutto così ben pagati? neanche per sogno, negare tutto questo, a quei contadinotti, a quei ragazzi di provincia che tanto ambivano a diventar famosi, un giorno o l’altro con quella scrittura così imberbe? o semplicemente perché erano stati a cena con lui? no, no, era meglio tirare avanti e far regalo di sé agli altri, seppur con qualche riserva, mi aveva detto uno dei più cari amici, di quelli veri e non di quelli inventati del grande, grandissimo scrittore.

ma che gran signore, quest’uomo magnanimo, un uomo di cultura con la C maiuscola, che stavolta avevo persino pensato che fosse un po’ meno simile a quel signore che ci si dà tra soldati, e più vicino a quello dei tempi andati, che ci si dava tra uomini anch’essi andati da tempo, e che durante gli eventi culturali, uno all’anno come aveva ben programmato il sindaco assieme al curato, incantava gli spettatori, e faceva sognare gli insegnanti dei gruppi scuola, con i bambini che in quell’occasione non mancavano di esser ripresi come fossero nel mentre di una lezione di classe, bambini vedete che vocaboli sta usando il nostro grande scrittore? prendete nota che domani vi interrogo, diceva l’insegnante, presa subito da un moto di autorevolezza, a dover istruire quelle menti ancora così vuote, ma che prima di allora aveva sempre considerato abbastanza piene, invece quel giorno proprio no, perché forse, e dico forse, quel giorno, lei, si sentiva come tutti gli altri, e cioè migliore di prima.

ma che soddisfazione vedere il primo cittadino così indaffarato a organizzare ogni minimo particolare, le cene, il pernottamento, il gettone, l’unico gettone dell’anno, che bellezza vederlo così presente tra le genti, lui che adesso promuoveva il suo evento, il più bello mai organizzato dalle altre amministrazioni precedenti, ah, sì com’era impegnato adesso, tanto che alcuni cittadini si erano finalmente rincuorati a vederlo vivo e vegeto camminare per strada o alla tv locale, a promuovere l’evento con al seguito la buona presenza del gran personaggio perché, caso strano, il sindaco si era dato per morto tutto l’anno, proprio quando chiedevano di lui in comune, che c’erano certi affari che proprio non ricordava, ma che invece i cittadini avevano ben memorizzato e a cui, non si sa bene perché, tenevano molto di più che all’arrivo dell’unico evento culturale dell’anno.

pazienza, ora dovevano aspettare tutti, le ore, i minuti e i secondi, di tre giornate, tre in tutto, che erano riservate all’ospitalità da riservare al grande autore, altrimenti che figura ci facevano con tutta la cittadinanza? che importava se poi il letterato si faceva attendere, coccolare, vezzeggiare, lusingare e poi dopo li considerava un po’ tutti ignoranti, invadenti, questi paesani? almeno quei giorni lì si sentivano tutti più importanti, persino la ragazza che penna alla mano si faceva autografare il libro che aveva letto, e nel frattempo gli regalava quello che lei aveva scritto e pubblicato con un piccolo, piccolissimo editore.

e l’intellettuale, grande sì, ma forse un po’ snervato  aveva firmato la copia, e aveva di certo gradito il libro dicendole che sì, lo avrebbe letto e le avrebbe fatto sapere cosa ne pensava, appena avrebbe avuto del tempo, che importava se fosse passato un mese o un anno? la ragazza era sempre lì, in quel paesotto che amava e odiava, e pensava a quando il grande erudito le aveva dedicato il suo libro, dicendo a tutti in paese che lui aveva la copia del suo di libro, e che lo stava leggendo attentamente, perciò quando le chiedevano, ti ha scritto? che ne pensa del tuo romanzo? lei continuava a dire, a quei contadinotti di paese, che ci voleva certo del tempo per capire bene la sua storia, e che lui a breve si sarebbe fatto sentire, dopotutto era un uomo impegnato, che il tempo gli era prezioso.

(I° premio concorso italo-russo “Raduga” 2015)

© Ambra Simeone

IL MAESTRO E IL GIOVANE ESORDIENTE
La corrispondenza tra Leonardo Sciascia e Vincenzo Consolo

 

Di Rosalba Galvagno

Con una lettera d’accompagnamento datata Sant’Agata Militello 6 dicembre 1963, Vincenzo Consolo inviava a Leonardo Sciascia il suo primo romanzo La ferita dell’aprile. Viene così inaugurata una corrispondenza che si chiuderà il 21 aprile 1988 con una lunga lettera, sempre di Consolo, inviata questa volta all’amico Sciascia da Milano. Con la sua prima missiva lo scrittore esordiente desidera sottoporre alla lettura del «Conterraneo», il suo romanzo fresco di stampa: “Egregio signor Sciascia, mi permetto inviarle il mio libro La ferita dell’aprile. Ho chiesto il Suo indirizzo alla redazione de L’Ora di Palermo per compiere questo gesto che è dettato da due motivi: riconoscenza per la parte che hanno avuto i Suoi libri nella mia formazione e desiderio d’essere letto dal Conterraneo. Spero che questo primo contatto possa dare inizio a futuri colloqui. La ringrazio intanto per l’attenzione che vorrà prestarmi e Le porgo molti cordiali saluti.”

Sciascia reagisce a questa sollecitazione con tempestività, il 12 dicembre 1963, rispondendo con parole di stima nei confronti del romanzo. Il grande scrittore di Racalmuto fa sapere al suo giovane ammiratore di aver letto il testo con molta attenzione, in più chiede alcuni «ragguagli», riguardanti specialmente la lingua utilizzata, con l’intenzione di scriverne presto una recensione.
È così che, in breve tempo, si instaura un’autentica e reciproca curiosità tra i due autori siciliani. Il più anziano, nello stesso tempo in cui invita il più giovane a presentarsi ai premi letterari di cui egli è giurato, non disdegna di apprezzarne il giudizio sulle proprie opere, come ad esempio sul recente Morte dell’inquisitore, un “libretto ora uscito (che è propriamente un libretto, ma mi è costato molto lavoro)” (Caltanissetta, 18 marzo 1964). Consolo si mostra sempre attento e sensibile ai suggerimenti dello scrittore agrigentino e ricambia l’interesse capitale che quest’ultimo nutriva per il tema dell’Inquisizione e particolarmente per la vicenda storica dell’Inquisizione in Sicilia. Lo stesso che gli fece scoprire e notevolmente apprezzare un personaggio come il racalmutese Diego La Matina, una “gigantesca figura” sulla quale Sciascia tornerà a più riprese, specialmente dopo aver letto e riletto il romanzo di Luigi Natoli, come scriverà in un bel saggio del 1967.

Sciascia, quindi, già all’inizio di questa frequentazione epistolare, propone a Consolo di presentarsi al premio Soverato con La ferita dell’aprile, appena pubblicato nella collana mondadoriana “Il Tornasole” diretta da Niccolò Gallo e Vittorio Sereni. Ma un curioso destino escluderà il giovane scrittore dalla vittoria sia di questo che di altri premi letterari cui l’amico scrittore, da giurato, lo invitava a partecipare. Caduta l’iniziale barriera formale ben presto  ̶  già a partire dalle missive risalenti al 1964, i due corrispondenti abbandonano la terza persona per la seconda  ̶  , subentra in queste lettere una confidenza diretta e spontanea, che non censura i problemi di salute o quelli legati alla famiglia e soprattutto al proprio lavoro. Insomma, la corrispondenza, in un primo momento prevalentemente letteraria, si fa anche biografia del quotidiano, come quando ad esempio Sciascia accenna ripetutamente all’acquisto e al pagamento di una certa quantità di olio, per sé e anche per l’amico Emilio Greco, dal fratello di Consolo, o alla noia che lo opprime, o ancora ai propri acciacchi fisici, o a certi obblighi familiari che si intrecciano con quelli del lavoro.

Naturalmente non poteva mancare in questo carteggio la presenza di Lucio Piccolo, che viene nominato per la prima volta da Sciascia in un post-scriptum della lettera del 15 giugno1965: «Se vedi Lucio Piccolo, salutalo tanto da parte mia». In un racconto che rievoca la prima lettera del nostro epistolario, Consolo ricorda i due scrittori, «due archetipi per me», proprio da lui fatti incontrare: «Leonardo Sciascia […] a cui avevo mandato il libro con una lettera, mi rispose chiedendomi delucidazioni sulle particolarità linguistiche della mia scrittura, e invitandomi insieme ad andare a trovarlo a Caltanissetta, dove allora abitava. Così feci. E dopo, di tempo in tempo, cominciai a frequentare, oltre Piccolo, anche Sciascia. Mi diceva Piccolo, quando gli comunicavo che sarei andato a Caltanissetta, «Mi saluti il caro Sciascia». E Sciascia, a sua volta, quando mi congedavo da lui, «Salutami Piccolo». Così, alla fine, feci in modo di far incontrare il poeta e lo scrittore, così antitetici, così lontani l’uno dall’altro: due archetipi per me, due cifre letterarie che ho cercato, nella mia scrittura, di far conciliare. L’incontro avvenne una domenica, la domenica in cui per la prima volta si celebrava nelle chiese la messa in italiano. […]. Sciascia rimase affascinato dal personaggio e ne scrisse dopo, in Carte segrete e ne la Corda pazza. Scrisse: “Tutto quello che Piccolo dice è di un’acutezza che sempre, sia che giunga a verità semplici sia che attinga al paradossale, sorprende e incanta. È uno che sottilmente conosce l’arte del conversare; i giudizi, gli aneddoti, i calembours, gli epigrammi, le citazioni scorrono nella sua conversazione con limpida e incantevole fluidità”».

Oltre all’interesse letterario e storico per la Sicilia dei secoli XVII, XVIII e XIX Consolo e Sciascia dichiarano anche di condividere l’amore per Parigi, un mito incrollabile, com’è noto, per molti aristocratici e intellettuali siciliani a partire già dal Settecento, e che scandisce a più riprese, tra il 1976 e il 1988, questa corrispondenza. Sciascia intitolerà Parigi un singolare saggio autobiografico e storico-letterario al contempo, nel quale colpisce la scoperta di Parigi fatta attraverso la Sicilia, come se Parigi gli avesse consentito di riscoprire una certa immagine dell’isola.

Tra queste lettere sui «luoghi dell’anima», c’è anche quella in cui Sciascia nomina La Noce, la contrada di campagna dove egli soleva trascorrere le sue vacanze estive e amava ospitare gli amici, che è stata immortalata in alcuni celebri scatti degli amici fotografi Ferdinando Scianna e Giuseppe Leone.

Tra il fitto scambio di libri, di articoli e di recensioni, preme infine segnalare il ripetuto riferimento di Sciascia alla bella, e oggi un po’ dimenticata, antologia dei Narratori di Sicilia, nella quale, accanto ai testi dei più significativi scrittori siciliani, appare il racconto di Consolo Per un po’ d’erba al limite del feudo che Sciascia gli aveva caldamente richiesto.

Numerose altre curiosità letterarie e aneddoti biografici riserva naturalmente la lettura integrale di questo prezioso carteggio, che condensa la vita e il lavoro di poco meno di un trentennio di due fra i più grandi scrittori del Novecento, offrendo uno spaccato singolare del contesto non soltanto letterario ma più profondamente antropologico dei due corrispondenti, un contesto da un lato fortemente radicato nell’arcaismo della cultura siciliana, dall’altro incredibilmente aperto all’Europa (alla modernità). Ma questo apparente, fecondo e affascinante contrasto costituisce, com’è noto, l’originalissima cifra della grande letteratura siciliana classica.

Note
Rosalba Galvagno ha insegnato Letterature comparate e Teoria della letteratura all’Università di Catania.
Il testo per Ferraraitalia ripropone parzialmente l’Introduzione di Essere o no scrittore: Lettere 1963-1988. Libro di Leonardo Sciascia e Vincenzo Consolo , a cura di Rosalba Galvagno, Milano, Archinto, 2019

Sulla figura e l’opera di Leonardo Sciascia leggi su Ferraraitalia:
Sergio Reyes, UN ILLUMINISTA IN SICILIA : Attualità di Leonardo Sciascia a 100 anni dalla nascita [Qui]
Giuseppe Traina, DENTRO IL GIALLO : I personaggi di Sciascia e Simenon davanti al potere [Qui]
Roberta Barbieri, RICORDANDO SCIASCIA : Una storia semplice [Qui] 

In copertina: Leonardo Sciascia con Vincenzo Consolo a Racalmuto, contrada La Noce, 1984 –  Foto di Giuseppe Leone (su licenza dell’autore)

Dalle “retrovie” delle missioni alla Chiesa tutta missionaria
Uno studio di Miriam Turrini

 

La pubblicazione è del 2017, ma mi è capitata tra le mani solo di recente. È il numero 40 dei Quaderni del Centro di documentazione della parrocchia di Santa Francesca Romana (Cedoc).
Un parroco, don Andrea Zerbini, che da anni pubblica studi di storia della chiesa locale, e non solo, e ha creato una biblioteca di decine di migliaia di titoli di scienze religiose e teologia: semplicemente geniale.
Il quaderno numero 40 s’intitola: Dalle “retrovie” delle missioni alla Chiesa tutta missionaria. Il Centro missionario diocesano di Ferrara-Comacchio (1929-2000), scritto da Miriam Turrini.
Alla storica ferrarese, allieva di Paolo Prodi e docente all’Università di Pavia, va il merito di avere fatto parlare le carte del Centro missionario diocesano come, ritengo, nessun altro avrebbe saputo fare.

Ferrara, Santa Francesca Romana

Un archivio finito nelle mani di don Zerbini, al quale si dovrebbe dire un grazie grande come una casa, per averlo custodito e valorizzato in uno studio che andrebbe prescritto come un farmaco contro la perdita di memoria. Prima o dopo i pasti non importa.
Lo studio è uno spaccato di storia ecclesiale vista dall’angolo di una diocesi, che attraversa sei papi (da Pio XI a Giovanni Paolo II), e cinque vescovi (Ruggero Bovelli, Natale Mosconi, Filippo Franceschi, Luigi Maverna e Carlo Caffarra).
La cavalcata dal 1929 al 2000 in sella al Centro missionario diocesano, è come una sonda locale che ci racconta cambiamenti e passaggi d’epoca, che non è esagerato definire sorprendenti.

Troppo spesso si giudica come minore la storia locale rispetto a quella con la esse maiuscola, ma è un errore. Leggere e diffondere queste pagine sarebbe cosa buona e giusta, non tanto per ricordare con nostalgia i tanti protagonisti, quanto per mettere a fuoco temi, intuizioni e limiti di un percorso pastorale, cui occorrerebbe prestare attenzione perché continuano a parlare al presente e dare attualissime indicazioni sul domani. È la lezione della storia, alla quale anche in ambito ecclesiale si ha l’impressione che non si presti il dovuto ascolto.

Un esempio è, appunto, il significato della parola missione, ossia la chiave di lettura della ricerca di Miriam Turrini e, allo stesso tempo, la cartina tornasole della temperatura storica che cambia ed evolve, attorno a questo tema cruciale per la chiesa.

Ai tempi del vescovo Ruggero Bovelli il linguaggio usato era delle missioni tra gli infedeli,  espressione di mentalità, cultura, teologia e pastorale. Al netto delle numerose e meritorie mobilitazioni per raccogliere aiuti in un tempo disastrato da fascismo, guerra, distruzione e miseria, scrive bene Miriam Turrini che il contesto era quello di “propagare la fede progressivamente nell’intero mondo e salvare le anime inserendole nella chiesa attraverso il battesimo” (pag. 261). Era questa, in fondo, l’ansia sottesa all’Opera della Santa Infanzia, articolazione vaticana delle allora Pontificie opere missionarie.
In un mondo essenzialmente diviso tra ‘fedeli e infedeli’, il modello era la conquista alla fede per la diffusione del Regno di Cristo e non è casuale che in questo clima la rivista per la diffusione di idee e iniziative si chiamasse Crociata Missionaria.

Per nomina dell’arcivescovo Natale Mosconi, gli anni ’50 e ’60 vedono l’allora Ufficio missionario diocesano, animato dall’impegno, ma soprattutto dal talento, di don Alberto Dioli, accanto alla vulcanica Gisa Trevisani.
Don Dioli fece a tal punto della missionarietà il principio organizzativo della propria vita, da diventare egli stesso un prete fidei donum (l’enciclica di Pio XII del 1957) e partire come missionario per l’Africa nel 1968. Fatali furono alcune chiavi di volta per comprendere quel passaggio d’epoca, fra cui i pontificati di Giovanni XXIII (dall’enciclica Mater et Magistra del 1961) e Paolo VI, oltre alla maturazione di un’idea di missione più attenta alla crescita delle chiese indigene, la riflessione sul colonialismo, l’emergere delle istanze di giustizia e promozione umana, accanto alla carità e il ritorno sul piano locale in termini di cultura ed educazione alla mondialità.
Missione non era più un semplice dare, portare e civilizzare, fra popoli avanzati e arretrati, ma iniziava a diventare una trama di rapporti nel rispetto delle rispettive originalità e culture.

Soprattutto, con il clima inaugurato dal concilio Vaticano II, iniziava a farsi strada un’idea di chiesa basata sull’ecclesiologia della comunione di chiese. Missione non erano più i soli preti missionari, ma anche l’ingresso dei laici in un compito destinato a essere non un singolo settore della pastorale, ma il modo di essere – l’intima postura – di tutta l’ecclesia, sacramentalmente concepita come locale e, come tale, universale. Una vera e propria accelerazione teologica, destinata a incontrare attriti durante l’episcopato Mosconi.
Se, da un lato, la svolta conciliare chiedeva di tradursi pastoralmente in un rapporto di aiuto innanzitutto tra chiese locali, dall’altro, Mosconi restava culturalmente dentro il modello ecclesiologico centralistico romano. Destinare prioritariamente i fondi raccolti alle Pontificie opere missionarie (PP.OO.MM.) della Santa Sede, significava che la linea economica delle risorse doveva ricalcare quella ecclesiologica, che gerarchicamente scendeva dal papa, ai vescovi, ai preti, fino al gregge dei fedeli.

Occorreva attendere l’ingresso in diocesi del vescovo Filippo Franceschi (1976), perché questo cambio di paradigma fosse riconosciuto e diventasse l’essenza di un intero disegno pastorale. Il respiro dell’Ufficio missionario (poi Centro missionario) entrava così in una sintonia speciale con quello interamente diocesano, segno di una chiesa che si scopriva tutta missionaria.
Nelle pagine di questo capitolo Miriam Turrini è esemplare nel far parlare le carte come di un vero e proprio stato di grazia che, per quanto durato pochi anni (nel 1982 terminò l’episcopato ferrarese di Franceschi), fu per tanti versi irripetibile.

La spinta di quella sintesi si protrasse per anni durante il successivo episcopato di Luigi Maverna (1982-1995), con un singolare coinvolgimento della città ben oltre i confini ecclesiali (Camera di Commercio, istituzioni, banche, scuole), nelle campagne di sensibilizzazione e raccolta fondi. Un percorso inclusivo che arrivò a inaugurare una fase di collaborazione inedita con le amministrazioni locali – Comune e Provincia – da sempre espressione della cultura politica social-comunista.

Eppure, qualcosa si ruppe rispetto al precedente periodo. Scrive Miriam Turrini: “il progetto ecclesiale organico prospettato durante l’episcopato Franceschi pare sfumare: l’arcivescovo Luigi Maverna intraprende il percorso del sinodo mentre in ambito missionario si afferma la frammentazione delle iniziative” (193).
Quello della frammentarietà di gruppi e iniziative in campo missionario è un problema che riaffiora ciclicamente nella storia ecclesiale, con limiti d’impostazione nazionale oltre alle peculiarità locali.
Con Mosconi gli attriti nascono perché la sintesi fatica a trovarsi in un paradigma ecclesiologico di tipo gerarchico, sospinto ben oltre il concilio. Sintesi, invece, che emerge durante gli anni di Franceschi, in cui ogni frammento pare trovare posto in un disegno.

Perché allora questa spinta centrifuga torna a fare problema durante Maverna, nonostante un modello pastorale imperniato sul sinodo (camminare insieme)? Tutta colpa di particolarismi e mancanza di senso ecclesiale?
Forse non basta dire sinodo perché tutto vada a posto e in equilibrio e il dubbio pare trovare conferma nelle parole di Turrini: “La conclusione dell’episcopato Maverna (…) non favorì lo sviluppo di una chiesa che operava attraverso piani pastorali condivisi” (229).

Chapeau, dunque a Miriam Turrini e don Andrea Zerbini per una ricerca assolutamente da leggere, con l’auspicio che l’intera chiesa locale sappia fare tesoro di queste pagine, come di quella miniera di sapere ed esperienze a disposizione nei quaderni del Cedoc.

NÉ MAGHI NÉ PRESAGI
Teatro Abbado e strategie culturali a Ferrara

 

Ha un sapore di rivisitazione rinascimentale, quando i sovrani per dare lustro alla propria corte chiamavano i migliori artisti, i quali, a loro volta, fornivano lustro a se stessi assicurandosi cospicui appannaggi. Tutta la vicenda intorno alla direzione, presidenza e al consiglio di amministrazione del teatro cittadino ha un po’ di questa patina antica, di un Ducato decaduto che tenta di risollevarsi dalle polveri del tempo.

Nel frattempo la politica culturale si eclissa e con essa la città. Fare rete, fare tessuto culturale non appartengono al lessico del soggetto pubblico che ci amministra. Fatti e scelte dovrebbero dar corpo ad una politica culturale per la città di cui non si conoscono né gli obiettivi, né i contenuti, se non i ‘gradita’ del deus ex machina a cui l’attuale amministrazione, evidentemente priva di idee, ha pensato di delegare l’impresa culturale cittadina, puntando a lucidare le medaglie del proprio governo.

La parola cultura è di quelle ampiamente stropicciate; nel 1947 Adorno e Horkheimer coniavano l’espressione culture industry con un obiettivo chiaramente polemico, vale a dire mettere in risalto il nesso paradossale tra cultura e industria, sottolineando l’emergere di una mercificazione e commercializzazione dei prodotti culturali. Da allora ad oggi l’industria della cultura si è ampiamente diffusa e solidificata, tanto da averci fatto perdere di vista che ‘cultura’ racchiude molteplici significati, da coltivazione della mente e dell’intelletto a prodotto delle arti, fino al modo di vivere di una società. Così, ciò che ha finito per prendere il sopravvento nell’ambito delle politiche culturali è la cultura come ‘prodotto’ anziché la cultura come ‘processo’.

Del resto è molto più facile per una città vendere ‘prodotti culturali’ che tessere la trama di ‘processi culturali’. Insomma i processi non rendono quanto i prodotti in termini di consenso elettorale, andando ben oltre la durata di un mandato amministrativo.
Trastullarsi in teatri e mostre sarà importante per l’industria del loisir, ma se non si produce, se non ci si attrezza con la cultura del futuro, non potremo neppure disporre delle risorse per permetterci di occupare i nostri loisir.

L’avvento della società della conoscenza ha rafforzato l’importanza del capitale creativo nelle economie contemporanee e il suo sviluppo è considerato la forza e il motore della crescita economica delle società occidentali.
Non c’è politica culturale autentica se la città non si interroga su quali siano le condizioni che possono stimolare e far emergere la creatività, quali strategie possono fare della nostra città un milieu creativo, ‘una città di successo’.

Perché cultura come processo? Perché il legame delle politiche culturali con le politiche riguardanti l’educazione, la formazione, la ricerca e lo sviluppo ha assunto, già a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso, un ruolo centrale. Il successo delle strategie culturali non può più essere misurato semplicemente in termini di borderò e di biglietti staccati, ma in termini di vantaggi a partire dalla cittadinanza, in termini di miglioramenti della qualità della vita, della coesione sociale, del profilo culturale delle comunità locali.

Non ci sono atti dell’attuale amministrazione comunale che possano avvalorare un tale visione. Non vi sono segnali né della capacità né della volontà di creare sinergie tra politiche culturali e politiche urbane, dove le amministrazioni pubbliche svolgono un ruolo determinante.
Una politica culturale che utilizzi spazi e strutture a prescindere dalla città e dai suoi cittadini, tanto che avrebbe gli stessi connotati ovunque, non è in grado di rispondere ai nodi che per uno sviluppo urbano basato sulla cultura sono strategici.
Innanzitutto il pubblico. Turisti verso residenti. Il pubblico a cui le iniziative culturali sono rivolte, in definitiva l’audience.
Poi lo spazio, centro e periferia, aree da riqualificare, vale a dire l’obiettivo geografico delle iniziative culturali per amalgamare la città.

L’opposizione e la separazione tra strategie orientate al consumo culturale e strategie orientate alla promozione dei saperi e delle competenze. Sostanzialmente il rapporto tra cultura e sviluppo economico. In fine c’è il tema di sempre: l’effimero. La rete delle infrastrutture culturali: scuole, università, musei, biblioteche, istituzioni e associazioni culturali, centri artistici verso la politica degli eventi, in sintesi come e per che cosa la pubblica amministrazione spende i soldi dei suoi cittadini, con quali ritorni per il capitale umano della città. A queste considerazioni si collegano gli investimenti nel settore dell’educazione e dell’istruzione e nelle sue interrelazioni con la città, gli investimenti in milieu o cluster creativi, nell’attrazione, sviluppo e ritenzione di una classe creativa per dirla con Richard Florida, autore di The Rise of the Creative Class.

Per concludere, il direttore d’orchestra, anche se blasonato, sta suonando lo spartito sbagliato, del resto nomen omen, dicevano i latini, ma la città non ha bisogno né di maghi né di presagi, ma di idee, di politiche, di un lavoro collettivo di uomini e donne capaci di pensare la città.

LA MODA AL TEMPO DEL LOCKDOWN

I mesi di reclusione imposti dalla pandemia, hanno cambiato anche la vita quotidiana e l’abbigliamento. Anche il settore della moda ne è stato coinvolto. Non è stata la moda a dettare le pratiche, ma le pratiche ad influenzare la moda.
Il tema della sostenibilità ha acquistato più peso ed è cresciuta la domanda di un mondo ecocompatibile, capace di mantenere nelle città spazi di verde, ancorché verticale. L’orientamento ecologico ha stimolato alcuni marchi di moda a lanciare linee con materiali naturali e a fissare obiettivi etici nelle produzioni.
Dal versante delle vendite, le visualizzazioni in rete indicano una crescita di interesse per il ‘naturale’. Termini come “pelle vegan”, “cotone biologico”, “plastica riciclata” entrano nel vocabolario della moda.
L’esplosione delle tute ha accompagnato il tempo di lavoro a casa durante il lockdown, ma ha sollecitato usi più diffusi, facendo scoprire il valore della comodità, della morbidezza, ma anche del colore. Le scarpe hanno lasciato la scena a imponenti ciabatte pelose, fatte di materiali sintetici più simili a ciabatte che a scarpe, ma da portare anche fuori casa.

Si impongono abiti comodi e morbidi, ma rivisitati con colori decisi. È come se si fosse imposta una moda del lockdown connotata da una diffusa offerta di morbidezza. Lavorare a casa significa poter indossare abiti confortevoli, ma adatti al bisogno di sentirsi “presentabili” nei momenti di lavoro in videoconferenza.
L’abbigliamento della vita quotidiana interpreta bisogno di morbidezza e di praticità di una vita ricondotta alla dimensione essenziale, che non si concede neppure le cene con gli amici. Mentre le sneakers e i jeans rimangono due delle categorie di prodotto più ricercate nell’ambito della moda sostenibile, in crescita rispettivamente del 142% e del 108% su base annua.

Il tempo della pandemia ha cambiato, insieme alle relazioni, anche il modo di vestirsi. Ad esempio è cresciuto del 90% annuo l’interesse per i gioielli rigenerati. Ed è cresciuta anche la domanda di capi di moda di seconda mano e usati. In Italia in particolare è aumentata del 20% la domanda di moda sostenibile, in particolare sono i consumatori della Lombardia quelli che effettuano il maggior numero di ricerche di moda eco-friendly. Il termine “eco-pelliccia” è tra le parole chiave più usate nella moda.
Smart working e distanziamento hanno ridotto drasticamente anche le uscite per lavoro. In un’Italia profondamente cambiata in abitudini, modalità di lavoro e d’incontro, e tempo libero. Le molte declinazioni della tuta e delle ciabatte hanno imposto un abbigliamento nuovo centrato sull’essenziale e sull’eccentricità, ma proponendo un nuovo lusso: la morbidezza.
È come se il Covid ci avesse indotto ad abolire il superfluo, l’eccessivo, l’illusorio, per ricercare senso, profondità, autenticità, ma anche morbidezza e colore. Secondo un’indagine di Confartigianato, da gennaio a luglio 2020, in una situazione di forte riduzione dei consumi, si è registrato un calo del 27,9% nell’abbigliamento e del 17,3% nelle calzature. Una débâcle che ha fatto ridurre della metà la produzione delle imprese artigiane. Intanto le vendite online hanno visto una crescita del 28%. I consumatori si rivolgono a canali d’acquisto che permettono di risparmiare sui costi. In generale cresce la domanda di prodotti di moda riciclata. Gli indumenti usati raccolti da queste grandi aziende sono riutilizzati per il mercato del second-hand, smistati in paesi terzi, o recuperati per essere trasformati in nuove fibre tessili.

Per ottimizzare i percorsi di sostenibilità, salvaguardando l’occupazione nell’intera filiera tessile, è necessario però pensare, già in fase di progettazione, all’intero ciclo di vita di un prodotto, massimizzandone il valore d’uso. Solo con una buona “cultura della circolarità” applicata già in fase progettuale si impiegano meno risorse e materie prime e si riduce lo spreco mantenendo l’occupazione nella manifattura e l’economia della filiera integra.

Siamo di fronte a cambiamenti radicali ai quali la pandemia ha fatto da acceleratore e che impongono una diversa cultura della moda, che impone tra l’altro una formazione di base per i nuovi eco-fashion designe” mirata alla nuova logica del riuso. In sostanza la moda dovrà affrontare un mercato recessivo e in forte trasformazione.
Anche nella moda è il momento di prepararsi ad un mondo post-coronavirus.

PER CERTI VERSI
Guardami il cuore

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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GUARDAMI IL CUORE

Guardami il cuore
Coi tuoi raggi
Fai correre le tue pupille
Sui suoi solchi
Il tuo laser
Da vicino
Mi fa ridere il sangue
Fino alle carotidi
Ho solletico
E le tempie
Battono come martelli
Su quell’incudine
Fatta di mantelli
E nebbia lungimirante
Che graffi
E che graffiti
Sono i ricordi
In un blu
Che
Spacca
Le miniere
Del sole
Sento le tue dita
Noleggiare
La mia anima
Colpita

petrolchimico-ferrara

“La fabbrica di là dal canale”
La presentazione di Patrizio Bianchi
del volume ‘Ferrara e il suo Petrolchimico’

 

Il ferrarese Patrizio Bianchi, da oggi ministro dell’Istruzioneè conosciuto dalla grande parte dei lavoratori (più anziani) del Petrolchimico di Ferrara n quanto, fin dagli anni della sua formazione scolastica (laureato in Scienze politiche all’Università di Bologna, economista), ha avuto, come ricercatore, un rapporto molto stretto con il mondo dell’industria ferrarese, per le problematiche del settore industriale e la formazione.

In tale periodo è cresciuto insieme ai ricercatori del CDS, in gran parte tecnici e ricercatori  del Petrolchimico e ad altri colleghi studenti, con i quali ha affrontato i grandi temi della politica industriale e della sua trasformazione. Al di là dei suoi successivi impegni professionali e istituzionali Patrizio Bianchi ha mantenuto sempre i rapporti con il CDS, presentando quasi ogni anno l’Annuario socioeconomico ferrarese, la presenza più recente è del 2019, mentre la pandemia ha impedito la sua partecipazione (in video) esattamente un anno fa, alla presentazione del libro Ferrara e il suo Petrolchimico, volume secondo. Riportiamo di seguito, la presentazione del libro, realizzata da Patrizio Bianchi nel mese di febbraio dell 2020. Blog Voci del Petrolchimico

di Patrizio Bianchi

Dopo tredici anni esce il secondo volume sul Petrolchimico di Ferrara, un volume che riunisce ancora una volta oltre cento autori, che propongono analisi, riflessioni e memorie su un impianto che costituisce un pilastro dell’industria europea e nel contempo un architrave della vita di un intero territorio. La memoria storica è un bene pubblico, come scrive giustamente la Presidente del Cds, Cinzia Bracci, e come tale va preservato, ma proprio la memoria è un fiore che deperisce in fretta, lasciando segni incerti nella smagliatura del ricordo. Per questo bisogna investire sulla memoria perché questa diventi storia.
Questo è ciò che ha realizzato il Cds in questi anni, il Cds ha costruito memoria, attraverso un lavoro dettagliatissimo di analisi della realtà locale, estraendone una sostanza che va aldilà della condizione specifica che l’ha originata.
Sono quarantasette anni che il Cds opera a Ferrara, tanto da essere esso stesso un pezzo di memoria collettiva della Città. Nei primi anni settanta un gruppo di tecnici del Petrolchimico ed un ristretto numero di studenti dettero vita ad una esperienza di ricerca e documentazione sindacale che vista oggi aveva caratteri pionieristici di una presenza sul territorio, in cui una “fabbrica” usciva dai suoi muri e diveniva cultura di tutta una Città.Il Cds testimoniò una fase della società italiana in cui il lavoro tornava ad essere centrale, sfuggendo tuttavia ad una tendenza ad un “operaismo” che inchiodava i lavoratori ad un fordismo che già allora volgeva al termine. In questo la posizione del Cds si fondava sulla esperienza di una “fabbrica” molto diversa da quella metalmeccanica – la Mirafiori di Torino – su cui si erano disegnati per anni le regole sindacali italiane e su cui si plasmava anche una lotta operaia che rimaneva comunque dentro la logica della catena di montaggio.
Il Petrolchimico sperimentava già allora una impresa che fondava la sua competitività sulla ricerca, anzi la fase trasformativa si riduceva ad una struttura aperta e multifunzionale che generava prodotti le cui caratteristiche venivano definite ex ante nella fase di ricerca.
La chimica dei catalizzatori – la cui evoluzione è descritta in questo volume nel capitolo di Nello Pasquini – anticipa quindi quasi cinquanta anni fa quel processo di produzione mirata che oggi chiamiamo Industria 4.0. Come tale la lotta sindacale al Petrolchimico non si attardava a rincorrere il mito dell’“operaio-massa” ma apriva la strada ad una azione sindacale imperniata sui tecnici e che vedeva nella salvaguardia del Centro Ricerche il suo punto di riferimento.
In quegli anni venne portata avanti una riflessione profonda sulla responsabilità del team di lavoro, che era straordinariamente più avanti della cultura sindacale del tempo.
Così come molto più avanti del suo tempo era l’esperimento di penetrazione nel territorio con “fabbrica, scuola, quartiere” in cui i tecnici di fabbrica agivano nel quartiere del Barco-Pontelagoscuro, per ricostruire una cultura del territorio in cui la “memoria deportata” dei tanti lavoratori di miniere chiuse, che dalle Marche erano stati trasferiti nel “quartiere di servizio” del Petrolchimico, potesse ritrovare una identità perduta.
Egualmente avanti era l’attività che il Cds ed i suoi tecnici di una fabbrica tecnologicamente avanzata fece con i sindacati dei braccianti nella vertenza con la società Bonifiche terreni ferraresi, latifondista della Bassa, che storicamente apriva i contratti del settore agricolo.

Il Petrolchimico, di cui si raccolgono qui analisi e testimonianze, è stato del resto specchio e misura della trasformazione del sistema industriale italiano. Dalla vecchia Montecatini, che nel grande mare della conglomerata, che riuniva dalle miniere ai fertilizzanti, coltivava la punta più avanzata della ricerca industriale italiana, fino alla fusione con la Edison, che dalla nazionalizzazione della energia elettrica aveva tratto una liquidità tanto ingente da portarla alla dissipazione.
Dalla “fusione del secolo” con l’Eni, orfana di Mattei ed incrocio di competenze uniche e di misteri altrettanto unici, giù giù fino alla tragica cometa di Gardini, che raggiunto il cielo della finanza mondiale scomparve in una notte buia come la storia italiana di quegli anni, fino alle multinazionali che si susseguirono nel controllo di quella fabbrica che aveva nel Centro di Ricerche il suo cuore pulsante, anglo-olandesi, tedeschi, americani, tutti che venivano pensando di insegnare e che invece imparavano in quel centro ricerche cosa fosse la nuova industria.
E d’altra parte, diciamocelo, la Città non ha mai amato, o semplicemente capito una “fabbrica” che non stava dentro la stilizzazione che in quel tempo ed anche in tempi più recenti si faceva dei rapporti di lavoro o più semplicemente dell’industria.
In realtà il Petrolchimico era la “fabbrica di là dal canale” e ciò che veniva al di dentro manteneva un carattere misterioso che non si traduceva in pezzi di ferro, così facilmente leggibili sia dalla politica cittadina che dallo stesso sindacato confederale.
L’origine del Cds affonda quindi nel bisogno di “fare cultura industriale” in un paese ed in una città che rimanevano, nonostante miracoli economici e crisi finanziarie, profondamente contadini.
Questo bisogno di “fare cultura di produzione” è rimasto sempre nel DNA del Cds ed ancora oggi che ci avviciniamo ai 50 anni di questa longeva ed ancora innovativa istituzione troviamo un Cds capace di fare cultura, fondando la propria azione sulla evidenza che approfondendo una realtà locale si possa individuare le linee evolutiva di una realtà nazionale ed europea molto più ampia.
La realtà locale viene esplorata come poche altre in Europa attraverso quello strumento unico che sono gli Annuari – vero momento in cui una comunità si auto-analizza fino a scarnificarsi – ma anche attraverso le molteplici attività culturali, che scoprono realtà economiche a noi stessi sconosciute a sottovalutate.
In una fase come quella attuale, che ha eretto la banalità a modo di governo e l’ignoranza a competenza distintiva, l’esempio del Cds che ha attraversato questi decenni con la determinazione del “fare cultura” sembra fuori luogo, ma è qui in queste pagine, in questo modo onesto ed appassionato di partecipare al bene collettivo che si ritrova un percorso di speranza futura per tutti noi.

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In copertina: Il petrolchimico di Ferrara (foto di Aldo Gessi)

I bambini, il miele prezioso e lo Yemen in guerra

 

Qualche bomba in meno sugli yemeniti: l’Italia ne vieta, dopo una sospensione, definitivamente l’invio. La fabbrica di Bombe RWM Italia fa ricorso. Intanto possiamo essere soddisfatti della decisione presa. La situazione dello Yemen resta comunque disperata.

Ne so solo quello che leggo sulla stampa. Ricordo che circa un anno fa a Monaco – Conferenza sulla sicurezza, 14-16 febbraio – tra i 10 conflitti da fermare urgentemente lo Yemen – bombardato, affamato, in preda al colera, e al Covid oggi possiamo aggiungere – è secondo solo all’Afghanistan. Il coinvolgimento degli Emirati Arabi Uniti si va estinguendo e pure appare in diminuzione quello dell’Arabia Saudita, a fronte delle offensive degli huthi, alla presenza di Al Qaeda, alla dichiarazione di autonomia da parte del Consiglio di transizione del sud.
In tanta amarezza c’è un a nota dolce. Si tratta infatti di miele. Ne leggo su Internazionale.

In un articolo ripreso da Der Spiegel International leggo di una provincia, Shabwa, grande il doppio dello stato tedesco dell’Assia, con una popolazione 700.000 abitanti. Vedo che l’Assia è di 21mila km², con 6 milioni di abitanti. Per raggiungere le dimensioni della provincia Yemenita dobbiamo dunque sommare Lombardia (24mila km²) e Lazio (17mila km²) per un totale di 41mila km². La somma delle popolazioni di Lombardia (10 milioni) e Lazio (6 milioni) fa 16 milioni. Aggiungo un ultimo confronto: Yemen, 528mila km² con 24 milioni di abitanti, Italia, 302mila km² con 60 milioni. È dunque una provincia arretrata e dimenticata, anche per gli standard dello Yemen, leggo ancora. È una regione arida e montuosa, che si estende a sud fino alla costa. È riuscita a respingere tutti gli aggressori, è in gran parte autosufficiente e sta vivendo una ripresa senza precedenti. La città di provincia di Ataq, dove gli apicoltori e i venditori si incontrano ogni novembre, ospita circa 100.000 persone.
Da lì miele di grande e differente qualità va in tutto il mondo. Una tanica da 10 litri del miglior miele vale 1.300 euro!

I doni del miele
Non solo un buon apporto all’economia viene da questa attività. Per l’annuale fiera mercato gli apicultori passano per territori controllati da forze tra loro in guerra, rispettati dalle opposte milizie. Anche tra loro ci sono divergenze non irrilevanti, ma la produzione di miele viene prima. Gli apicultori sono in stretta comunicazione e collaborazione tra loro per difendere dai pericoli i loro preziosi alveari. Ciò induce a una cura comune, che si estende anche agli agricoltori. È bene anche per loro che api in buona salute impollinino come si deve. Ecco che l’uso dei pesticidi va limitato e comunque comunicato. Parlano del miele ma è un messaggio che va oltre nella provincia investendo sempre più persone:
“Se solo combattiamo gli uni contro gli altri e tutti vogliono la loro strada, perderemo tutti”. È solo una goccia in un mare di amarezza, ma forse per questo anche più preziosa.

Con i bimbi dello Yemen
Mi piace pensare di incontrare i bimbi dello Yemen e d’essere in grado di parlare con loro. Mi è già accaduto in passato. Li ho pensati raccolti, curiosi e premurosi accanto all’avvoltoio Nelson, abbattuto come drone spia e poi curato e liberato.
Ho immaginato di divertirli raccontando loro la storia della regina di Saba e dell’incontro con Salomone (Sulayman). Ora penso come sarebbe bello ricordare con loro che la sura XVI del Corano – un vero inno cosmico – è intitolata Le Api, AN-NAHL.

Leggiamo la sura XVI
Il nome deriva dal versetto 68, che leggiamo. “Ed il tuo Signore ispirò alle api: “Dimorate nelle montagne, negli alberi e negli edifici degli uomini. 69. Cibatevi di tutti i frutti e vivete nei sentieri che vi ha tracciato il vostro Signore”. Scaturisce dai loro ventri un liquido dai diversi colori, in cui c’è guarigione per gli uomini. Ecco un segno per gente che riflette.”

Chiedo ai bambini: “Cosa vuol dire e negli edifici degli uomini? Dovete tenervi le api in casa? È questo che ha detto il Signore?”.
Ridono: “Sono gli edifici fatti apposta dagli uomini: gli alveari. Sono fatti di legno. Li avete anche in Italia?”.
Esaurisco subito le mie scarse cognizioni sull’argomento. Chiedo loro del miele e di quale preferiscono per colore, sapore, intensità. E da dove derivano le differenze. Qualcuno, figlio di apicultore, mi sa dare le giuste risposte. Mi dice anche delle virtù curative. Potessero i bimbi addestrarsi come apicultori, rischiando qualche puntura, molto meno di quanto rischino – nell’immediato e per le conseguenze anche sopravvivendo – i loro coetanei trascinati a fare i bimbi soldato nelle opposte fazioni.
“Ma la più importante guarigione per gli uomini, non potrebbe essere la fine della guerra? Non è questo è il segno per gente che riflette?”.
Vedo che sono d’accordo.
È ora di merenda.
Mi faccio consigliare il miele da mettere sul morbido, soffice pane yemenita, lahuh. Mi sembra di sentirlo. È squisito.

Questo articolo è recentemente apparso sull’edizione in rete della storica rivista del Movimento nonviolento [www.azionenonviolenta.it]

SCHEI
BCE, rimetti a noi i nostri debiti

Ci voleva un flagello biblico (l’epidemia planetaria da Covid-19) per trasformare la fredda scienza economica in una smisurata preghiera. “Rimetti a noi i nostri debiti”, nella parabola del Re buono e del servo spietato, è la decisione cui perviene il padrone compassionevole, che invece di farsi saldare il debito di diecimila talenti, che il servo non può pagare se non vendendo tutta la sua famiglia, gli condona interamente il debito. Peccato che, una volta libero, il servo non rimetta il debito (più modesto) che vanta nei confronti di un compagno, ma anzi gli richieda di pagarlo.

Non illudiamoci: se anche la Banca Centrale Europea condonasse il debito che vanta nei confronti dell’Italia, l’Italia si comporterebbe esattamente come il servo graziato: continuerebbe a chiederci di pagare i nostri debiti. Non possiamo quindi aspirare alla cancellazione del nostro debito da cittadini (o da sudditi, come molti ritengono di essere) verso lo Stato. Tuttavia, sul proscenio economico si è appena affacciata una proposta che sarebbe apparsa folle solo qualche settimana fa: quella che punta a convincere la BCE a rinunciare a parte del suo credito nei confronti dei Paesi dell’area euro. Attualmente, un quarto dei debiti pubblici dei paesi dell’area euro è detenuto dalla Banca centrale europea. Un centinaio di economisti (tra i quali il noto economista progressista Thomas Piketty) hanno lanciato, dalle colonne della stampa internazionale, un appello affinchè la BCE “cancelli” o renda inesigibile questa quota di debito (in parte contratto per far fronte all’emergenza Covid) in cambio dell’impegno dei paesi “condonati” ad utilizzare questa riserva per finanziare investimenti che favoriscano una trasformazione dell’economia in senso ecologico e sostenibile. L’idea venne lanciata a novembre, suscitando reazioni scandalizzate o canzonatorie, dal Presidente del Parlamento Europeo David Sassoli, che disse: “nella riforma del patto di stabilità dovremo concentrarci sull’evoluzione a medio termine di deficit e spesa pubblica in condizioni di crisi e non solo ossessivamente sul debito”. Il deficit è il delta negativo tra quanto uno Stato spende in un anno rispetto a quanto incassa nel medesimo anno, delta sottoposto al rigido sbarramento del tre per cento, sempre più difficile – e forse anacronistico – da rispettare in un periodo in cui gli Stati devono spendere in deficit per non far affogare definitivamente i propri cittadini.

Citiamo dalla lettera aperta: “I cittadini scoprono, con sconcerto per alcuni di loro, che quasi il 25% del debito pubblico europeo è oggi detenuto dalla loro banca centrale. Dobbiamo a noi stessi il 25% del nostro debito. Se rimborsiamo questa somma, dovremo trovarla altrove prendendola nuovamente in prestito per far girare il debito invece di investirla, oppure aumentando l’imposta oppure abbassando la spesa. Eppure ci sarebbe un’altra soluzione. In quanto economisti, responsabili e cittadini impegnati nei diversi paesi, è nostro dovere sollecitare l’opinione pubblica sul fatto che la Bce potrebbe offrire agli Stati europei i mezzi per la loro ricostruzione in chiave ecologicamente sostenibile, ma anche riparare la frattura sociale, economica e culturale dopo la terribile crisi sanitaria che stiamo attraversando.”

La lettera prosegue affermando la consapevolezza che si tratterebbe di una decisione eccezionale, concernendo la cancellazione di un debito pari a 2.500 miliardi di euro. Eppure decisioni simili non sono prive di precedenti: nel 1953 “la Germania beneficiò della cancellazione di due terzi del suo debito pubblico, che le permise di ritrovare il cammino della prosperità ancorando il suo futuro nello spazio europeo. L’Europa non attraversa forse una crisi di dimensioni eccezionali che giustificherebbe misure altrettanto eccezionali?”. Del resto, proseguono i firmatari della lettera, “una banca centrale può funzionare con fondi propri negativi senza difficoltà. Può addirittura emettere moneta per compensare queste perdite: ciò è previsto dal protocollo n°4 accluso al trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Inoltre, giuridicamente e contrariamente a quanto affermano alcuni responsabili delle istituzioni, in particolare in seno alla Bce, l’annullamento non è esplicitamente proibito dai trattati europei. Tutte le istituzioni finanziarie a livello mondiale possono deliberare una rinuncia ai loro crediti…”. Si fa poi riferimento al Quantitative Easing (l’acquisto illimitato del debito pubblico dai paesi dell’area euro), messo in atto da Mario Draghi proprio da Presidente della BCE, per mostrare come una recente prassi di politica monetaria ritenuta borderline rispetto alle regole del trattato istitutivo della BCE sia stata attuata senza provocare alcuno scossone nel forziere dei forzieri, ma anzi abbia prodotto l’ effetto di neutralizzare la speculazione contro le economie europee più indebitate, con un effetto stabilizzatore per il quale Draghi sarà ricordato nei manuali di storia economica come “il salvatore dell’euro”. Peraltro, nonostante ormai i tassi per indebitarsi siano quasi negativi, gli Stati dal 2015 non fanno che tentare di ridurre il livello di indebitamento. Del resto, se la tua famiglia non incassa abbastanza soldi per ripagare i debiti esistenti, saresti un cretino se decidessi di prendere altri soldi in prestito semplicemente perchè sono a tasso zero. Piuttosto, cerchi di tirare la cinghia e cominciare a rientrare dai debiti che hai.

Gli economisti fanno poi un’affermazione decisiva: “…in questo ambito solo la volontà politica conta: la Storia ha dimostrato a più riprese che le difficoltà giuridiche spariscono a fronte degli accordi politici”. Questa frase non suona solo come una sconfessione dell’atteggiamento tuttora notarile di Christine Lagarde, neopresidente della BCE, che dichiara banalmente che questa proposta è irrealizzabile perchè “lo vietano le regole”. Grazie al piffero: le regole si possono cambiare, se c’è la volontà comune di farlo. In realtà, il contenuto rivoluzionario della frase risiede nel fatto che degli economisti di chiara fama riaffermano il primato della politica sull’economia, sovvertendo il mantra secondo il quale sono le leggi economiche, elevate al rango di principi della fisica, a determinare la direzione del mondo. Sono proprio alcuni tra i depositari della “scienza”  più idolatrata del mondo moderno a sovvertire le basi del ragionamento: è una politica alta e lungimirante che influenza l’economia e il destino della storia umana.

 

DIARIO IN PUBBLICO
Il Pallidone, il Rosso, l’Ossimoro e via inventando

 

Nella gara immaginifica che scuote e delizia il ‘fragile’ sistema culturale della nostra ‘Ferara’ ci si avvia alla creazione di nuovi miti e nuovi contendenti. Tutto nasce da una definizione del roboante ‘signore della cultura’ che ci definisce “pallidi intellettuali”, dove l’aggettivo certamente non montaliano, per sempre fissato nel celeberrimo “Meriggiare pallido e assorto”, a quanto apprendo dalla stampa è rivolto anche a me. Ma me ne compiaccio. Essere pallido e ragionare, contrapponendosi a chi è sempre rosso di rabbia e di immotivato sdegno. Il mio ruolo allora diventa quello del Pallidone, che deve il suo colorito non certo alla presenza di anemia o altri sintomi patogeni, ma ad una discreta consapevolezza, usatissima in altri tempi, quando il pallore era significativo di discrezione e di calma da contrapporsi al Rosso – non certo di tal colore per motivi politici e ideologici – quanto per costituzione e mentalità connaturate. Nel ‘teatrino’ delle sorprese che accumula, oltre all’uso smodato della fragilità, altri lessemi, confortato dall’uso spericolato di “poc’anzi” e “quant’altro” (e si legga lo spassoso e intelligente libro di Claudio Nutrito pubblicato nel 2014, Quant’altro parole di salvataggio per parlare senza dire niente) viviamo accompagnati da ‘altro’ e ancor più spassoso uso di una parola, questa volta non rivolta a me ma ad un amico carissimo, il quale viene interpellato da un amministratore che ammette di averlo colto in fallo su di una formula di “deposito temporaneo gratuito di durata illimitata”.
Il suddetto assessore conclude che la definizione che ha proposto è un ossimoro. Anzi un errore! E lo rimprovera di non avergli inviato una mail, quasi che gli atti pubblici e la loro discussione si potessero risolvere mail. Così s’infoltiscono le schiere dei contendenti. Sulla pubblicazione della lettera stilata da un gruppo che s’interessa della politica culturale della città e che nel giro di una settimana ha raccolto 1500 adesioni si è scatenata l’ira della dottoressa Sgarbi, che minaccia di portare tutti i firmatari in tribunale per fantomatiche offese. Altra figura fondamentale si aggiunge alla recita: quella di Medea. Così tra Covid e ristori, tra vaccinazioni e scelte Draghi, il ‘popolo’ partecipa alla recita. Frattanto s’accumula e si inferocisce il ricorso ai ‘social’, che nell’amata pronuncia ferrarese si scandisce come sciocial esibiti dal primo cittadino in una sequela straordinaria di followers.

E così ‘Ferara’ s’inorgoglisce delle proprie lotte.

Un lutto che ha colpito la nostra comunità, specie quella di quartiere, è stata la scomparsa del professor Morsiani, un medico celebre e competente; ma io lo definirei soprattutto con una parola che tanti, troppi, ora sporcano e male interpretano: un intellettuale curioso di tanti aspetti della vita politica, sociale e culturale. Con lui negli ultimi anni condividevo la passione per i pelosi, che portavamo a ‘pascolare’ nel giardinetto davanti al Monastero di Sant’Antonio in Polesine, ben presto divenuto una specie di conversation room all’aperto, a cui partecipavano compagni di peloseria o curiosi. Poi Lilla mi è mancata e da lontano guardavo con malcelata invidia e tristezza il ‘profe’ che portava a spasso la sua cagnetta. Una volta ci incontrammo lungo la nostra via XX settembre. Morsiani portava un bellissimo berretto di tweed grigio. Gli feci i complimenti per l’indumento. Senza proferir verbo lui se lo tolse e me lo diede: “tenga è suo!” Alle mie proteste non volle sentire ragioni: nemmeno di un cambio. Ora quel bellissimo berretto l’ho indossato oggi per ricordarmi la qualità e la generosità di un uomo gentile. Che nel mio lessico è ciò che di più laudativo si possa dire per ricordare.

Per leggere gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

PAROLE A CAPO
Laura Borghesi: “Polaroid” e altre poesie


“Solo una cosa è necessaria: tutto”.
(G.K. Chesterton)

Polaroid
Gli uragani non avvisano in estate
alzano le onde come fossero preghiere esaudite
sanno come gelare l’aria e mettono i silenzi dove mancano.
Non arrivare in anticipo
in questo quadrato di tempo che ferma le galassie e mi spezza i
nervi
Non togliere i confini dove ho messo virgole.
Rimaniamo come la polaroid,
dentro al buio di una pagina chiusa.

Anelli
Forse le verità stanno dentro l’anello di congiunzione
hanno il peso del metallo e il movimento circolare della giostra
sono stelle comete che appaiono dopo il diluvio.

Cono d’ombra
Sto dentro al cono d’ombra
nella parte centrale sciolgo tutti i nodi.
Traccio i meridiani con la matita
fanno il giro dei poli e attraversano gli oceani,
la sospensione è la mia perfezione
cancello i tracciati e rinasco seme dentro la terra.

Inverni
Ieri sera la vita non ha soffiato forte
ma la fiamma non è rimasta accesa.
Ci sono inverni improvvisi
quando arrivano non conoscono la regola delle stagioni
gelano il circuito del sangue per chi rimane.
Questa fermata segna quarantasette
è l’anticipo che non si aspetta,
odora di lenzuoli bianchi e disinfettante,
ampi corridoi
carne dilatata e ossa.
Elvis canta ancora una requiem dal palco
con la camicia hawaiana e gli anelli d’oro,
spiega con gli occhi chiusi quanto siamo meteoriti.

Laura Borghesi (Rimini, 1972)
Insegnante di scuola primaria, segue contemporaneamente il suo percorso di studio in poesia e nel 2012 pubblica Scrivere ai tempi delle nuvole informatiche per Fara Editore. Ha partecipato a varie letture nella biblioteca della sua città, recentemente un suo testo è stato utilizzato nello spettacolo teatrale Multistrato dal regista e attore Silvio Castiglioni. Alcuni testi sono stati tradotti e pubblicati sul portale Vallejo. Nel 2019 alcuni inediti vengono scelti per Estroverso. Nel 2017 e nel 2021 alcuni inediti vengono pubblicati per Atelier.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

É SOLO UN’IDEA IN ALTA MAREA…..
Intervista a Diego Cignitti, in arte Cigno

 

di Michele Kraisky

ROMA. Abbiamo come ospite un musicista, cantautore e insegnante di una delle scuole di musica più prestigiose d’Italia, il Saint Louis College of Music di Roma, che ospita ogni anno centinaia di nuovi aspiranti musicisti. Il suo nome è Diego Cignitti, in arte ‘Cigno’.

Un paio di mesi fa è uscito Udine, un singolo accattivante, dalle atmosfere evocative e soffuse. Udine come simbolo, come una città immaginaria, pur se realmente esistente, un luogo in cui la solitudine e la creatività convivono accanto alla vita di sempre. Mondi paralleli, un po’ come le città invisibili di Italo Calvino. Cigno è un under 30, ma nel profondo dell’anima sente di appartenere a generazioni passate come mentalità e mondi musicali, pur esprimendo un sound attuale e apprezzato anche dai più giovani. Ci parlerà del suo singolo, ci esporrà le sue opinioni personali sulla situazione della musica di oggi e delle influenze che più lo hanno segnato. Ci darà anche la sua opinione sulla situazione dei musicisti in questo periodo nero, un periodo in cui accadono fenomeni del tutto nuovi, come la vendita su piattaforme online dei diritti d’autore di grandi artisti – da Dylan a Neil Young in poi -ed altro ancora.

M: Buonasera Diego, anzitutto grazie davvero per la tua disponibilità. Dunque, è uscito qualche mese fa, a fine 2020, il tuo singolo Udine. A cosa ti sei ispirato per questo brano? A una canzone, a un evento particolare, oppure altro?

D: Allora…prendo spunto dalla tua domanda: non credo che un brano nasca dal nulla. Esiste un mondo di riferimenti a cui attingo, questo è rapportabile anche alle altre arti che conosciamo e a qualsiasi attività creativa. Sicuramente dentro c’è il mio universo musicale, chiamiamolo ‘Immaginario musicale’; nello specifico le sonorità anni ’80. Che significa dunque ? Io sono nato e cresciuto in un piccolo paesino che si chiama Subiaco e ho l’impressione che nelle piccole cittadine di provincia la moda arriva qualche anno dopo, per cui nei miei anni ’90, che ho vissuto a Subiaco, in realtà erano ancora gli anni ’80 per quanto riguarda i riferimenti musicali ed estetici. Mi viene in mente ad esempio McGyver, che guardavo quando avevo la febbre e non andavo a scuola, la pubblicità della cedrata Tassoni, o la sigla degli Stadio e di Lucio Dalla su Raiuno (ride ndr).

M: Questo singolo ha una sonorità davvero particolare, un misto tra indie, pop, rock e musica psichedelica. Tu che mi dici ?

D: Sì, in realtà non è un genere ben definito, questo probabilmente è un punto a sfavore per la sua comprensione, ma credo che per Udine sia un punto a favore, perché ha una propria personalità ed è originale. Questa dimensione sognante e rarefatta probabilmente la porterò avanti anche nei prossimi brani che usciranno.

M: Pensi che nei prossimi mesi potrai farai dei live? Ne hai qualcuno in programma o in streaming per caso?

D: Beh, sicuramente me lo auguro. I live mancano molto a tutti, sento molti amici che stanno male per questo motivo. Purtroppo questo brutto periodo sta mettendo a dura prova molti lavoratori, e ovviamente non parlo solo del mondo degli artisti. Mi manca molto la parte preparatoria del live, che considero importantissima, e anche la parte più fisica, quando si suda e si vive il palco. Live in streaming per adesso in programma non ne ho, ne ho fatti alcuni precedentemente, ma in realtà questo livestreaming secondo me è solo un palliativo.

M: Pensi che i live in streaming siano una buona soluzione per i musicisti in questo periodo di semi lockdown o comunque di limitazioni? E oltre a questo come pensi che i musicisti possano trovare degli sbocchi nei prossimi mesi o anni?

D: Secondo me sono un palliativo i live in streaming,   sono un surrogato…ma detto ciò vanno bene, gli artisti hanno bisogno di espressione, il pubblico di ‘vibes’ positive e soprattutto di buona musica ! Quindi ben vengano per ora. Per quanto riguarda gli sbocchi che avranno i musicisti in futuro con i livestreaming…credo che le cose andranno di pari passo, perché il livestreaming serve e risolverà molti problemi, e contemporaneamente conviveranno sia la dimensione online e quella offline per mandare avanti i progetti dei musicisti.

M: Si parla molto di nuove leggi per garantire un sussidio per i lavoratori dello spettacolo…. Qualcosa sul modello francese, da finanziare con i soldi del Recovery Plan. In ogni caso chi lavora nel mondo del cinema, della musica e del teatro ha subito grossi danni, molti di questi già hanno rinunciato e sono costretti a cercare altri lavori che nulla hanno a che fare con la loro passione e il loro talento.

D: Sì, secondo me questa sarà un’occasione unica ed irripetibile per il riconoscimento del nostro mestiere! Nel Nord Europa i musicisti sono tassati e la situazione è sotto controllo… C’è purtroppo questa brutta consuetudine nel nostro paese nei confronti degli artisti, nel senso che chi non ha una partita Iva o chi non è tracciato per lo Stato è come se non lavorasse, e in questa maniera non ha diritto a  sussidi e contributi. Dunque facciamo in modo che il nostro diventi un mestiere riconosciuto proprio come gli altri. Questo è un discorso che in Italia purtroppo va approfondito, perché nei Paesi del nord Europa, dove sono sicuro che la gestione funziona meglio, il musicista è più integrato nella società, di questo sono certo! Se facciamo parte dell’Europa e dall’Europa riceviamo fondi così importanti è bene che ci adeguiamo ai loro standard

M: Vuoi aggiungi qualcosa se vuoi per i nostri lettori e per i tuoi ascoltatori?

D: Mah, aggiungo solo che sono su Instagram (mi trovate come ‘Cigno’) ed è uscita da poco una session proletaria in cui si mescola il blues con i prodotti e la tradizione dell’artigianato. Non aggiungo altro.”

M: Prossimamente uscirà anche un nuovo brano, giusto?É

D: Sì certamente, ma per adesso non ne parlo ancora. Dico solo a chi ha progetti : “Tenete duro e stringete i denti in questo periodo di difficoltà, che alla fine si vedranno i risultati! Ringrazio te e tutti i lettori del vostro giornale che amano la musica!

M: Grazie a te Diego! Ci vediamo presto.

Ascolta qualcosa di Cigno: [Qui] ; [Qui] e [Qui]

Vite di carta /
Ricordando Sciascia: Una storia semplice

Vite di carta. Ricordando Sciascia: Una storia semplice

Mercoledì scorso ho trovato ancora una volta il mercato del mio paese mal distribuito tra la piazza e la via principale. Dipende dal Covid, mi è stato detto, le bancarelle disposte così sono più distanziate. Sarà, ma mi sembra un altro mercato in un altro posto. Ci sono venuta raramente in questi ultimi  mesi, solo per gli acquisti di frutta e verdura e senza incontrare molta gente. Qualche conoscente meno riconoscibile del solito con la mascherina e il cappello addosso.

Mercoledì scorso ho incontrato invece i miei amici storici. Entrambi con le sportine della spesa appena fatta, entrambi con l’aria da neopensionati. Abbiamo subito parlato della situazione politica, una settimana fa confusa, appesa al filo di una crisi priva di sbocchi evidenti. Ora che ne scrivo si è evoluta fino a coinvolgere il Quirinale e l’incarico che Mario Draghi ha accettato con riserva.

E’ stato un parlottare fitto fitto, che strideva con il contorno dei banchi del pesce, dove i clienti erano in silenziosa attesa del loro turno. Accesi da una mimica facciale vivacissima, dovevamo risultare buffi a chi avesse notato il contrasto con le nostre braccia immobili, tese dal peso delle sporte. Una crisi ora! E giù con le questioni di merito, e poi con quelle di metodo. Soprattutto: non era questo il momento! Con la pandemia che ha spostato perfino le bancarelle del mercato, non avesse portato altre difficoltà nelle vite di tutti. Con il Recovery plan da presentare entro aprile all’Europa! Con la crisi economica che c’è. E le ripercussioni sociali. Intanto le incombenze della giornata ci hanno dato lo stop, ma nel lasciarci un’ultima battuta ci è uscita, ironica: “Una bella situazione! Soprattutto chiara e semplice e da risolvere!”

Mio padre lamentava che al bar le chiacchiere dei clienti risolvevano ogni giorno i problemi nazionali e internazionali e per questo aveva smesso di andarci, trovando insopportabile tanto dilettantismo. “Anche oggi hanno messo a posto l’Italia”, diceva. Ora ho visto me in questa luce e ho sorriso nell’andarmene via. Proprio ‘una storia semplice’! Metto la ‘U maiuscola’ ed ecco il titolo dell’ultimo romanzo di Leonardo Sciascia, un poliziesco di ambientazione siciliana, uscito nell’anno in cui l’autore è scomparso, il 1989.

Il titolo del libro riprende la battuta che pronuncia il questore di Ragusa quando viene chiamato nelle campagne di Monterosso sul luogo di un delitto commesso alla vigilia della festa di San Giuseppe: Giorgio Roccella, un anziano diplomatico tornato inaspettatamente dall’estero nella propria casa siciliana è stato trovato morto alla scrivania dello studio; accanto c’è una pistola, la sua, e questo basta al questore per decretare che si tratta di suicidio e per concludere: “Questo è un caso semplice, bisogna non farlo montare e sbrigarcene…”

Come in un giallo classico, la narrazione si proietta nella ricostruzione minuziosa dei fatti. In questo, l’autore accentua lo sguardo sui diversi stili investigativi e mette in primo piano le deduzioni del giovane brigadiere di polizia, che ha fatto il primo sopralluogo nel villino di Roccella. Per lui si tratta di omicidio. Molti altri soggetti curano le indagini nei tre giorni successivi al ‘delitto’, sia dalla parte della polizia che dei carabinieri e nella gerarchia dei poliziotti si mettono in luce due pezzi grossi, questore e procuratore della Repubblica. Ognuno ipotizza come sono andate le cose sulla base dei riscontri che vengono effettuati via via. Il lettore è colpito dalla ironia con cui Sciascia mette a nudo l’incompetenza e il pressapochismo generali, e più i personaggi ricoprono un’alta carica più sono lontani da una considerazione razionale dei fatti. Ironia amara, che alla fine del libro arriva a svelare la custodia nel solaio del villino di una celebre tela del Caravaggio trafugata da tempo a Palermo (la Natività con i santi Lorenzo e Francesco d’Assisi) e la preparazione della droga che avveniva nei magazzini attigui alla casa. C’è di mezzo la malavita anche in questo romanzo che Sciascia ha costruito con la volontà di mostrare le attività mafiose e le loro infiltrazioni sempre più tentacolari nel tessuto politico e sociale della Sicilia e del Paese. E’ accaduto con gli altri romanzi politici che l’autore ha scritto dagli anni ’60, da Il giorno della civetta nel 1961 e A ciascuno il suo nel 1966 a Todo modo che è del 1974 e fino a questo ultimo romanzo del 1989.

Ancora una volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia” recita la dedica che apre Una storia semplice. Sono parole di Friedrich Dürrenmatt, il versatile intellettuale svizzero, che è coetaneo di Sciascia e autore tra gli altri di un romanzo uscito in Italia nel1986, dal titolo Giustizia.

“Voglio scandagliare scrupolosamente: chi potrebbe dirlo tra i nostri personaggi? Non il colonnello dei carabinieri, che abbraccia l’opinione opposta a quella del questore per partito preso; non il questore e il magistrato inquirente che spiegano frettolosamente i fatti, dando prova di una superficialità a tratti grottesca. Eliminiamo anche il nugolo di agenti e di carabinieri spruzzati sulla scena del delitto a fare coreografia. Chi resta a rielaborare i dati di realtà con metodo e razionalità è il giovane brigadiere che, dopo il primo sopralluogo, ha osservato con passione persone e comportamenti. Nel ricostruire l’accaduto lo sostiene il professor Franzò, amico d’infanzia della vittima e per molti anni stimato professore di Italiano. È sua la più bella battuta del romanzo, la dice quando raggiunge la questura per dare la sua testimonianza e viene accolto dal magistrato che era stato suo allievo. Il professore lo ricorda molto bene, ricorda anche di avergli assegnato sempre l’insufficienza nei componimenti di italiano. Trascrivo le loro parole: “L’italiano: ero piuttosto debole in italiano. Ma, come vede, non è poi stato un gran guaio: sono qui, procuratore della Repubblica…”

L’italiano non è l’italiano: è il ragionare – disse il professore. Con meno italiano, lei sarebbe forse ancora più in alto”.

Cosa deve scoprire il brigadiere! Quale verità amara sulla corruzione, che ha coinvolto persino un uomo di chiesa nelle attività illecite che si tenevano nel villino di Roccella. Che è entrata fin dentro il suo ufficio. In una delle sequenze finali il brigadiere spara. Spara per difendersi dal suo commissario che gli ha puntato contro la pistola. È stato più veloce, il brigadiere. E’ stato abile nel fare il suo lavoro e nel cogliere due errori che il commissario si è lasciato sfuggire. Forse, come gli suggerisce il professor Franzò, li ha commessi per un “fenomeno di improvviso sdoppiamento: in quel momento è diventato il poliziotto che dava la caccia a se stesso”. Viene da pensare a Pirandello.

L’8 gennaio scorso Sciascia avrebbe compiuto cento anni. Immagino che saranno tante le occasioni per ricordarlo e per celebrarne il ruolo di scrittore impegnato e acuto. Per rivedere il contributo che ha dato come parlamentare e come fine conoscitore della politica italiana.

Dalle bancarelle del mercato ho saputo ricordare intanto la sua ironia, tagliente come una lama. Poi, qui a casa dalle pagine del romanzo ho voluto trarre quello che Sciascia dice della scrittura. Oltre alla battuta “feroce” del professor Franzò sul carattere ragionativo dello scrivere, trovo due passi piuttosto incisivi: nel primo il professore sottolinea il valore testimoniale e storico della scrittura, quando riferisce che l’amico Roccella era tornato nella sua Sicilia per cercare nel solaio del villino due “pacchetti di vecchie lettere: uno di Garibaldi al suo bisnonno, un altro di Pirandello a suo nonno (avevano fatto assieme il liceo); e gli era venuta la fantasia di recuperarli, di lavorarci un po’ su”.

Nell’altro Sciascia parla di sé e della sua scrittura di denuncia, mentre ci dice quanta fatica faccia il nostro brigadiere quando deve passare dalla realtà alle parole, quando deve stendere i rapporti e trasferirvi il suo lavoro di osservazione: “Ma, curiosamente, il fatto di dover scrivere delle cose che vedeva, la preoccupazione, l’angoscia quasi, dava alla sua mente una capacità di selezione, di scelta, di essenzialità per cui sensato ed acuto finiva con l’essere quel che poi nella rete dello scrivere restava. Così è forse degli scrittori italiani del meridione, siciliani in specie: nonostante il liceo, l’università e le tante letture”.

Sulla figura e l’opera di Leonardo Sciascia vedi anche:
Sergio Reyes, UN ILLUMINISTA IN SICILIA : Attualità di Leonardo Sciascia a 100 anni dalla nascita [Qui]
Giuseppe Traina, DENTRO IL GIALLO : I personaggi di Sciascia e Simenon davanti al potere [Qui]

 

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari della rubrica di Roberta Barbieri clicca [Qui]

Gennaio 2060

 

Oggi è il primo Gennaio 2060, fra un po’ compio cinquant’anni. Mio fratello Enrico ne ha quarantadue e mia sorella Rebecca cinquantasette. Io ho un marito che si chiama Luca e due figli: Axilla che ha vent’anni e Gianblu che ne ha diciotto. Vive con noi anche Cosmo-111 un piccolo robot che pulisce la casa, accende e spegne la caldaia e gli altri elettrodomestici, apre e chiude la porta quando qualcuno arriva. Cosmo-111 sta ancora abbastanza bene, anche se ha dieci anni e alcune delle sue parti meccaniche cominciano a creargli qualche problema. La zia Costanza ne ha ottantotto ed è ancora in forma, a parte le sue gambe che non la sorreggono più come una volta. Riesce a camminare e passeggiare, ma non a correre e, se il cemento non è bello liscio, inciampa. Ma lei non si lascia scoraggiare e affronta le giornate con lo stesso spirito di sempre. Scrive ancora con molta serietà e poi ogni tanto si ferma, rilegge quello che ha scritto e ride da sola divertita dalle parole che ha posizionato sulla carta.

I suoi capelli sono completamente bianchi, lisci come spaghetti e tagliati con un caschetto dritto che arriva sulle spalle. La stessa pettinatura di sempre. Lo stesso profilo per bene e molto bello. Il suo viso si è riempito di piccole rughe e lei non fa assolutamente nulla per nasconderle. Dice che le sue rughe le piacciono, sono tutti i cartellini timbrati nella sua vita, le pietre miliari di tutto ciò che è stato, di tutto quello che ha visto. I suoi occhi un po’ nocciola e un po’ verdi si sono schiariti nel corso del tempo e adesso sono ancora più belli di quando era giovane, se questo è possibile. Ogni tanto racconta ai miei figli pezzi della storia che ha vissuto, strani aneddoti che divertono tutti, oppure sue idee sul mondo e sulla vita, che, in quanto bizzarre e assolutamente autentiche, sono oggetto di riflessione da parte dei ragazzi. Ha creato un suo mondo di piccole idee alternative e controcorrente che acuiscono la curiosità delle persone e aumentano a dismisura il fascino di quella donna, ormai vecchia, ma sempre unica.

Io le sono sempre piaciuta, mi ha sempre detto. “Valeria, sei bellissima” e lo ha anche sempre pensato. Anche adesso, ogni volta che mi vede, mi abbraccia e mi guarda con compiacimento come se quello che sono e quello che faccio dipenda anche da lei, da quello che mi ha insegnato e da tutte le volte che mi ha detto “Sei bellissima”. Ed è così! Ognuno di noi è il frutto delle cose che ha imparato, delle persone che ha incontrato, delle relazioni buone che ha saputo costruire e mantenere e, soprattutto, dell’amore che gli è stato donato. Solo chi ha ricevuto amore, sa donare amore. Credo fermamente in questo. Sono stata una bambina molto amata dalla mia famiglia, dai miei vicini di casa, dai miei parenti di Cremantello e perfino da una suora di Clausura Carlottina Scalza. Si chiamava Guenda, era una cugina di Cremantello, la sorella più grande di Ines e Bella. La zia Costanza mi ha portato alcune volte a Carpino Solano, presso il convento di San Leopoldo, a trovarla. Quella donna irradiava pace sul mondo, era la serenità in persona. Anche quel ricordo accompagna la mia vita, come molti altri.

Io abito, come sempre, a Pontalba, ma nella zona industriale del Paese, perché Luca aveva una casa là e siamo andati ad abitarci quando ci siamo sposati. Rebecca abita vicino al fiume, in una piccola cascina ristrutturata che si chiama Portici e costeggia il Lungone. Mia madre Cecilia e la zia Costanza abitano ancora in via Santoni Rosa nella vecchia casa dei Del Re, di fronte a quella di Albertino e Gina Canali. Albertino è morto lo scorso anno con grande dispiacere della zia, mentre Gina e Luigi abitano ancora di fronte al numero civico 21, la nostra vecchia casa.

Axilla e Gianblu vanno quasi tutti i giorni a trovare la nonna e la zia, sono affascinati dalle vicende che raccontano e da tutti i tesori vecchi e ammuffiti costuditi nella soffitta della grande casa. In modo particolare amano farsi raccontare delle vicende di quarant’anni fa, quando c’era l’epidemia di Covid-19 e, solo in Italia, sono morte più di centomila persone.

Io allora avevo dodici anni e non ho vissuto quel periodo in maniera drammatica, ma come un tempo  di grande noia. La Lombardia è stata per due anni (2020-2021) quasi sempre in zona Rossa (era chiamata così la zona caratterizzata dalle maggiori restrizioni: limitazioni negli spostamenti, nella attività economiche, nella vita sociale, coprifuoco), e io ho vissuto quasi sempre chiusa in casa. Facevo le lezioni scolastiche attraverso una piattaforma che si chiamava Zoom e usavo WhatsApp per comunicare con le mie amiche.

In quel periodo molto lungo e grigio, caratterizzato da poco entusiasmo e da una fatica interiore che mi rendeva difficile affrontare quelle giornate tutte uguali, mi ha sicuramente aiutato l’avere una casa con cortile e orto. Là si poteva passare tempo all’aperto in maniera protetta e sicura. Mi ha anche aiutato la soffitta della nonna Anna piena di ciarpame, vecchi cimeli e oggetti improbabili da osservare, ripulire. E’ stato utile poterli guardare, catalogare, cercare di capire da  dove arrivassero e cosa ci facessero lì. Ciò che viene dal passato riverbera nel nostro tempo delle immagini, dei significati, la storia dei nostri antenati, ci riporta pezzi di noi, di quel che siamo stati, di quel che siamo e di quel che diventeremo.

Ricordo che guardavo il portone di casa e desideravo uscire in biciletta, andare da Sara a fare i compiti, soffrivo terribilmente quella reclusione che non finiva mai. A volte chiedevo alla zia: “Zia Costanza, quando posso andare all’oratorio? Io sono stufa di stare sempre qui!” e lei mi rispondeva: “Valeria, amore mio, vedrai che si potrà a breve, vedrai che adesso ci vaccinano e poi si tornerà alla normalità, vedrai che col caldo questa brutta malattia se ne andrà”. Cercava di rincuorarmi come poteva, per quel poco che sapeva, che sapevano tutti.

Ricordo che un giorno, tutto grigio dentro e fuori di me, mi misi a piangere. Piangevo perché mi sentivo in un tunnel di morte, senza prospettive, con poco entusiasmo e nessuna aspettativa per il futuro. Allora la zia mi abbracciò e mi disse: “Siamo ancora vivi Valeria, siamo vivi e nessuno di noi è ammalato, prova a sorridere almeno per questo. Se riesci a sorridere spunterà un po’ di sole, vedrai. Altrimenti finiremo tutti per passare la giornata in questo grigio cupo. Sei solo tu che oggi può far sorgere il sole!” Cosi mi sforzai di sorridere e un po’ di sole, almeno dentro casa mia, arrivò.
I miei amici passavano le loro giornate a guardare la TV, alcuni ad accudire il cane. Altri a fare strani giochi in internet, altri ancora, i meno fortunati, a litigare con genitori e fratelli, oppure ad ascoltarli mentre litigavano tra loro.

Alla fine di quei due lunghissimi anni eravamo tutti tristi, anche se  a Pontalba ci sono stati pochissimi casi di Covid-19 perché il paese è molto isolato. Si trova all’interno del parco Natuale del Lungone Nord. Un luogo molto poco frequentato, certamente non di passaggio. A Pontalba non c’è turismo, se non quello degli uccelli migratori, degli aironi, delle talpe. Eppure io ricordo in maniera molto vivida quella sensazione di vuoto pneumatico, quell’infinita tavolozza di diverse tonalità di grigio che colorava quelle giornate. Ho dovuto smettere per quasi due anni di fare nuoto, di andare ai corsi di inglese e di provare i giochi matematici che mi divertivano tanto.

La mamma e la zia giocavano con noi a carte, incognito, dama, oca e molti altri giochi in scatola. In quel periodo mi hanno comprato anche tanti libri, il telefono, dei nuovi giochi per la playstation. Hanno fatto di tutto per cercare di rendere quelle giornate accettabili, per alleggerire la situazione.
In quei due anni ho sicuramente perso molte cose. Ho perso la vita normale di una bambina di dodici anni. Poi il tempo è passato e tutto, un po’ alla volta, è tornato quasi normale. I morti sono stati sepolti e col tempo dimenticati, la scuola, il lavoro, le attività all’aperto sono riprese.
Questa nostra vita scorre inesorabile come un lungo fiume e scorrendo porta via il male, la morte, la malattia e tutto il buio di quei due anni di reclusione e spavento.

Axia e Gianblu vogliono sempre sapere come stavamo in quel periodo, cosa facevamo sempre chiusi in casa, cosa dicevamo, se avevamo paura. Quello che mi vien sempre da dir loro è che non avevamo paura, c’era qualcosa dentro di noi che ci faceva andare avanti sperando che il giorno dopo sarebbe stato migliore, che sarebbero arrivate delle buona notizie, che la situazione avrebbe cominciato a migliorare. Ricordo che la nonna Anna diceva sempre: “Passa Valeria, vedrai che questa malattia passa. Anche la peste del 1600 dopo due anni se n’è andata e le persone hanno ricominciato a vivere normalmente”. Ricordo che la nonna Anna guardava la porta chiusa e poi diceva a bassa voce: “Apriti sesamo, apriti per tutte le persone di questo povero mondo”.

Noi siamo sopravvissuti tutti e adesso che sono passati quarant’anni, siamo ancora quasi tutti qui.

Guardo Cosmo-111 che passa tra i miei piedi aspirando la polvere depositata sul pavimento. Mentre si muove veloce canta una canzone che gli piace tanto: “Saputo, saputo, aku aku, saputo saputo, aku totù!”. Lui del Covid-19 non sa nulla.

 

LO YOGA CHE MI HA CAMBIATO LA VITA:
non tutti i mali vengono (solo) per nuocere

 

Molti anni fa, in un periodo di crisi esistenziale e completo disorientamento, ho incontrato lo Yoga. Grazie alle sue tecniche mi sono incamminato un po’ alla volta lungo un percorso di crescita personale. Con la pratica  di certe posizioni ho migliorato la mia condizione fisica, la mia energia e la mia salute, con l’uso sapiente della respirazione ho imparato a modulare con più armonia le mie sensazioni, con la meditazione ho cominciato a controllare i pensieri e ottenere una maggiore chiarezza mentale.
Con lo studio della cultura e della filosofia orientali ho sviluppato, un po’ alla volta, una personalità più gioiosa, serena ed equilibrata. Grazie allo Yoga ho scoperto nuove prospettive da cui guardare il mondo, un metodo per interrogarmi e trovare risposta alle mie domande e ho iniziato un nuovo ciclo di vita con maggiore consapevolezza e  solidità.
Pratico e insegno yoga da molti anni, con il piacere di condividere questa disciplina che mi è stata di tanto aiuto nell’affrontare complicate vicissitudini e continua tuttora a fornirmi spunti di riflessione non abituali  tra gli abitanti di una ‘società occidentale civile’.

L’esperienza della pandemia, che ha scosso tante persone e messo in crisi stili di vita e valori consolidati, mi ha  portato a una serie di considerazioni che inevitabilmente risentono delle conoscenze da me acquisite dallo Yoga in tutti questi anni.
Premetto innanzitutto che il mio pensiero e la mia vicinanza sono andati a tutti coloro che sono stati colpiti nella salute e hanno visto mancare le risorse necessarie per continuare a vivere in modo decente. Nessuna filosofia riuscirà a cancellare la loro sofferenza nell’animo di molti di noi. E credo che dobbiamo costantemente ricordare come il diritto alla Vita (dignitosa) vada considerato un diritto per tutti gli uomini, in tutto il mondo, di qualsiasi razza, sesso, opinioni politiche e religiose.

Ricordo sempre quanto è scritto nella Dichiarazione d’indipendenza americana (4 luglio 1776): “Noi teniamo per certo che queste verità siano di per se stesse evidenti, che tutti gli uomini sono creati eguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di certi Diritti inalienabili, che tra questi vi siano la Vita, la Libertà e il perseguimento della Felicità“.
Una vita decente, innanzitutto. Già, ma cosa serve per una vita decente? La risposta che le società ‘progredite’ hanno dato a questa domanda è stata declinata nel raggiungimento di obiettivi sempre più numerosi  e complessi, così come complesse sono le società in questione.
Innanzitutto il possesso di crescenti beni materiali e di consumo, in linea con l’affermarsi di una economia capitalistica sempre più estrema. Ciò che doveva essere il mezzo per il raggiungimento della felicità (il bene materiale che agevola la vita) è diventato il fine da raggiungere, anche a costo di una vita più sofferta, insana e infelice. Una diabolica inversione tra mezzo e fine.
Per ogni obiettivo raggiunto subito un altro da conquistare, in una catena ininterrotta di tensione verso altro da quanto presente e in nostro possesso. Non è un caso che guardandoci attorno vediamo spesso tanta scontentezza e frustrazione, pochi sorrisi.
Uno stile di vita assolutamente nocivo, ma molti lo danno per scontato.
Preferisco le visioni di alcune filosofie orientali, per cui un concetto chiave per ottenere una soddisfazione profonda è quello di ‘appagamento’, che consiste nell’accontentarsi di ciò che si è e di ciò che si ha. Subito, in ogni momento presente. A cominciare dall’apprezzamento per il fatto stesso di essere e di vivere,  fortuna di cui troppo spesso ci dimentichiamo.

Certo, in molte società un frainteso senso di ‘appagamento’ ha dato adito a una passività che ha frenato lo sviluppo di attività importanti, come la medicina o la scienza alimentare, con riflessi negativi sulla qualità e durata della vita.
Ma per un essere umano desideroso  di migliorare e di risolvere i nuovi problemi che la vita pone di continuo, l’essere appagati dal presente non impedisce di proporsi e realizzare obiettivi di progresso. Senza però presumere che questo potrà dargli felicità definitiva e completa.
Dunque godersi l’oggi, il più possibile tutti i giorni, è essenziale per realizzare una felicità profonda, senza per questo escludere l’impegno verso nuovi traguardi.

Allargando poi la visuale oltre la nostra piccola vita personale possiamo vedere come intorno a noi si pongano  sempre nuove sfide. A periodi favorevoli succedono inevitabilmente momenti critici: guerre, epidemie, eventi climatici disastrosi fuori dal controllo e dall’influenza umana, come eruzioni vulcaniche, terremoti e tsunami.
Non esiste una crescita continua e lineare. L’esistenza è un susseguirsi di eventi di segno opposto, favorevoli e terribili, che evidenzia un altro concetto essenziale della filosofia orientale: l’impermanenza. Tutto cambia, e non sempre per il meglio.
Essenziale dunque non dare nulla per scontato e coltivare una dote fondamentale: la capacità di adattarsi a situazioni diverse trovando nuove soluzioni. Ritengo che proprio questa sia stata la principale caratteristica che ha consentito il diffondersi della popolazione umana sul pianeta.

Personalmente, avendo dovuto interrompere i miei corsi di Yoga in presenza a causa della pandemia, ho provato a proporre ai miei contatti corsi on line. Ho pensato che, quanto meno per alcuni, potessero costituire un’attività che avrebbe aiutato a utilizzare positivamente gli spazi di isolamento domestico in tempi di lockdown. Il successo che ha riscosso questa iniziativa  è andato oltre le mie aspettative e mi ritrovo a dover gestire più gruppi e persone di quanto non facessi in tempi pre-covid. A fronte della perdita di importanti elementi come la presenza, con le sue possibilità di contatto diretto, ho sperimentato la possibilità di sviluppare elementi di unione e condivisione tra le persone con modalità diverse, anche online.
In uno dei miei corsi ho allievi che si collegano dalla Gran Bretagna, dalla Germania e da Viterbo. Dunque per ogni spazio che si svuota c’è sempre la possibilità di riempirlo con qualcos’altro, se ci si pone nell’ottica di essere sempre pronti per ricominciare.
La passione per le filosofie orientali non mi fa però perdere la fiducia in alcune alte espressioni della civiltà occidentale che hanno grande risalto in questi tempi, come ad esempio la scienza medica.  Fondata sulla capacità logica di osservare, sperimentare e verificare le sue affermazioni, mi sembra molto più affidabile di tante voci che si sono levate per propagandare teorie e pratiche sulla pandemia basate su fantasie di singoli e sensazioni estemporanee prive di approfondimento..

Abbiamo sentito in questo periodo le più svariate opinioni, anche palesemente irragionevoli, per  nulla fondate su fatti, ma su libere e fantasiose interpretazioni. Penso che la scienza saprà esprimere con esiti positivi il suo ruolo autorevole nel contrasto alla pandemia; credo inoltre che anche noi stessi possiamo aiutarci coltivando la capacità di ragionare validamente, piuttosto che affidandoci agli umori del momento.
Purtroppo però nelle nostre istituzioni preposte all’istruzione si fa molta più attenzione alla quantità di competenze settoriali piuttosto che allo sviluppo dell’equilibrio della persona.
Non meno carente è la formazione degli individui  rispetto alla comunità di appartenenza. Ho spesso sentito persone, anche ‘colte’, che si vantavano di riuscire ad aggirare l’onere di contribuire alle cassa nazionale per mezzo delle tasse e parecchie altre che neppure ne capivano la ragione, negandone la necessità. Salvo poi usare le strade, mandare i figli a scuola e godere dell’assistenza pubblica, come se la costruzione e il mantenimento di questi servizi fosse a carico della provvidenza; ben altro sono ovviamente le critiche per la cattiva gestione dei servizi comuni!

Ma l’atteggiamento che più mi ha colpito, in questo periodo, è stato quello tenuto da molti sul tema della libertà. Le limitazioni imposte dai provvedimenti per fronteggiare il Covid hanno messo in evidenza non solo come molti rifiutino di adattarsi a una situazione nuova, ma abbiano a cuore un’idea di libertà completamente scissa dalla responsabilità verso gli altri. Per costoro, insomma, la libertà dell’individuo non può essere limitata in alcun modo, per nessun motivo.
Una sensibile fetta di popolazione, in buona parte del mondo, ha contestato la possibilità di veder diminuire la propria libertà di azione anche a costo di arrecare notevoli danni alla salute di altre persone e all’intera comunità.
Non sto parlando ovviamente di chi ha osteggiato le varie chiusure di attività commerciali perché da queste attività doveva trarre il proprio sostentamento, ma di chi ha fatto (e suppongo continuerà a fare) una vera e propria battaglia ideologica contro il principio che la società possa applicare dei limiti agli individui per difendere il bene comune. Non vorrei dare l’idea di affrontare la questione in modo semplicistico, perché dietro l’applicazione di norme restrittive dei diritti possono spesso celarsi tentativi antidemocratici di controllo sociale; provvedimenti di questo tipo meritano dunque particolare attenzione, anche critica.

Il modello di sviluppo economico e sociale delle nostre società hanno indirizzato gli individui verso stili di vita edonistici fortemente caratterizzati da indifferenza e scarso rispetto per il prossimo. Il sacro anelito alla libertà e alla giustizia sociale, nato in tempi di evidente oppressione da parte di pochissimi uomini nei confronti di molti, si è trasformato ormai in atteggiamenti di perenne contestazione e opposizione a qualsiasi regola sociale o morale che appaia esterna all’individuo.
Si urla il diritto di negare: l’esistenza di virus, la shoah, la rotondità della terra e ogni altra cosa  immaginabile.
Certo, i motivi di sofferenza e insoddisfazione nel mondo non sono certo cessati e moltissimo c’è da fare per migliorare le condizioni di vita della gran parte della popolazione, ma per mio conto non credo che un atteggiamento fondato sulla negazione sia il migliore per procedere in questa direzione.

Ritengo che non solo vada tenuto sotto stretta osservazione l’evolversi del mondo e vadano stimolate attività costruttive nella e per la società, ma che sia assolutamente necessario sviluppare una altrettanto  attenta osservazione nei propri stessi confronti: mettere in primo piano la necessità di migliorare in primo luogo noi stessi, in quanto parte del mondo sulla quale più immediatamente possiamo agire.
Non solo antiche filosofie, ma anche moderne acquisizioni scientifiche, sulle quali si basano ad esempio le  scienze ambientali, ci dimostrano come tutto ciò che vive è in stretta relazione  e che il benessere di ogni parte è collegato al benessere di tutte le altre.

Siamo uomini in viaggio sulla stessa astronave, il pianeta terra, e la soluzione dei nostri problemi coinvolge tutti noi e l’ambiente in cui viviamo. Vederci come individui separati dagli altri e dalla vita è un punto di vista limitato e non lungimirante, riduttivo anche dal punto di vista dei benefici che arreca.
Meno io, più noi; meno competizione, più condivisione. Per questo motivo ormai insegno Yoga senza richiedere un corrispettivo economico, accontentandomi ‘solo’ del piacere di condividere e procedere insieme agli altri.
Trovare un modo per migliorare noi stessi e il nostro stile di vita può essere un buon inizio per migliorare il mondo e la nostra felicità. Ha detto il Dalai Lama: “Quello che mi ha sorpreso di più negli uomini dell’Occidente è che perdono la salute per fare i soldi e poi perdono i soldi per recuperare la salute. Pensano tanto al futuro che dimenticano di vivere il presente; in tale maniera che non riescono a vivere né il presente, né il futuro. Vivono come se non dovessero morire mai e muoiono come se non avessero mai vissuto.”

La mamma che “affettava” le case

 

A scuola, qualche giorno fa, un bambino della classe prima che sto frequentando ha ricordato un episodio e lo ha raccontato a tutti: si riferiva a qualche anno prima quando la sua mamma aveva affittato una casa. Nel parlare però ha fatto un errore stupendo, di quelli che mi piacciono moltissimo: ha detto che la sua mamma aveva “affettato” una casa. In classe ci sono state risate da parte di quasi tutti perciò mi sono preoccupato di far capire la differenza tra “affittare” e “affettare”, di dire a quel bambino che tutti noi sbagliamo o ci confondiamo (anche i maestri) e che non stavamo ridendo di lui ma con lui per il bellissimo errore che ci dava la possibilità imprevista di inventare una storia insieme.
Lo abbiamo ringraziato e poi ho chiesto ai bambini e alle bambine di dirmi tutte le parti della casa o i suoi arredi per verificare quali di queste parole potessero contenere, al loro interno, altre parole di senso compiuto. Le abbiamo scritte alla lavagna una alla volta e loro le hanno lette, intere e poi “affettate”. Quindi, con i suggerimenti dei bambini e delle bambine, ho scritto una breve storia che metto a disposizione di chi pensa che si possa imparare meglio divertendosi insieme. Comunque la pensiate, buona lettura.

C’ERA UNA VOLTA UNA MAMMA CHE, PER LAVORO, AFFITTAVA LE CASE ALLA GENTE CHE NON LE AVEVA.
SULLA VETRINA DEL SUO UFFICIO PERÓ C’ERA UN CARTELLO CON SU SCRITTO: “AFFETTO CASE” E NON “AFFITTO CASE”.
QUELLA MAMMA SI ERA TALMENTE ABITUATA A QUELLO SBAGLIO CHE SI DIVERTIVA A DIRE AI SUOI CLIENTI CHE LE CASE CHE “AFFETTAVA”  ERANO SPECIALI.
INFATTI LEI “TAGLIAVA A FETTE” ANCHE LE PAROLE COSÌ, ALLA GENTE CHE ANDAVA A VEDERE LE SUE CASE, LEI DICEVA:
“LA CUCINA È GRANDE COME LA CINA.
NEL SOGGIORNO CI PUOI STARE TUTTO IL GIORNO.
NELLO STUDIO SI STA DA DIO.
STARE ALLA SCRIVANIA È COME ESSERE SULLA RIVA DI UN FIUME DI PAROLE.
SE GUARDI LA LIBRERIA TI SEMBRA DI ESSERE UN RE.
SE TI METTI SUL DIVANO TI SENTI UNA DIVA.
IL LETTO TI REGGE ANCHE SE PESI PIÙ DI UN ETTO.
SULLA COMODITÀ DELLE SEDIE E DEI MATERASSI NON CI SONO SE E MA.
ATTENZIONE: NELL’ARMADIO C‘È UN ARMA , NEL CUSCINO CI SONO GLI SCI, IL TAPPETO DEVE ESSERE PULITO IN VARIE TAPPE, PER APRIRE IL COMODINO BISOGNA USARE I MODI GIUSTI.
VAI SPESSO AL GABINETTO ALTRIMENTI TI SENTIRAI UN INETTO.
SAPPI INOLTRE CHE, QUANDO SEI SEDUTO A TAVOLA IN COMPAGNIA, IL TEMPO VOLA.
E PER FINIRE…  SE GUARDI MENO LA TELEVISIONE PUOI CONOSCERE DI PIÙ I VISI DELLE PERSONE”.
QUELLA ERA DAVVERO UNA MAMMA FANTASTICA.

PER CERTI VERSI
La nutria

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
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LA NUTRIA

Sono contento
Il mio castorino
Che fila nel Navile
È piaciuto a tanti
Non mi lamento
Ma è una nutria
Così elegante nell’acqua
Quanto sgraziata fuori
Con quella coda da topo di fogna
Ma non è colpa sua
L’uomo che ce l’ha messa
Fuori dal suo mondo
Non si vergogna
Anzi spreca fiato
Perché rompe gli argini la bestiola
E le da la caccia
Le spara
Le mette una tagliola

FacebooK: Servizio pubblico o Hackeraggio sociale?
Minimalismo digitale e Free/Open Source

 

Come sia stato possibile che l’espansione planetaria di Facebook abbia coinvolto tutte le fasce di popolazione non lo sanno solo Dio e Zuckerberg, come provocatoriamente suggerito da Nicola Cavallini nel suo interessante articolo del 24 Gennaio su Ferraraitalia [Qui]  .
La costruzione di un social network come Facebook richiede il contributo di fior fior di psicologi e sociologi, impiegati a costruire algoritmi adatti a parlare alla psiche umana e studiati per sfruttarne le fragilità. Lo scopo è quello di ottenere che gli utenti lo utilizzino in un modo specifico e prevedibile (ad esempio, farci restare il più a lungo possibile sulla piattaforma, proponendoci una serie di contenuti verso i quali abbiamo una reazione di “click” compulsivo). In altri parole, nella costruzione di un Facebook servono elevate  professionalità impegnate per hackerare – trovare e sfruttare delle falle di sistema- i nostri comportamenti normali e funzionali: renderli cioè disfunzionali per noi, ma vantaggiosi per altri.
Questo problema, e alcune strategie per venirne a capo, sono trattate da Cal Newport nell’ottimo Minimalismo digitale (ROI EDIZIONI, 2019). Di fronte alle società della Silicon Valley che hanno sfruttato le più avanzate scoperte della psicologia e delle neuroscienze per tenerci incollati ai loro dispositivi. dando vita alla cosiddetta ‘economia dell’attenzione’, il minimalismo digitale di Newport, professore di Computer science, ci propone di fare un passo indietro e ripensare il nostro rapporto con la tecnologia in maniera attiva, assieme a diverse tecniche per riprenderne il controllo.

Facebook (tra gli altri), benché architettato da un’azienda privata, è diventato così diffuso e funzionale (anche se solo per una frazione degli scopi per cui viene propagandato), tanto da esserci presentato alla stregua di un servizio pubblico. Con qualche fondamentale differenza, perché, essendo un software ‘proprietario’, il pubblico non può esercitare nessun controllo (se non molto in superficie) né sul modo in cui tale strumento funziona (come è scelto davvero ciò che vedrete) né sulla qualità dei prodotti che fornisce.
Un po’ come se il gestore dell’acqua potabile non rendesse pubblici i risultati delle analisi dell’acqua che arriva ai rubinetti di casa, né li trasmettesse all’Azienda Sanitaria Locale. Ciò permette l’introduzione di dis-funzionamenti sociali molto discutibili dal punto di vista etico, sociale e politico, con impatti di larga scala. A titolo esemplificativo, può sorprendere sapere che gli stessi progettisti di questo tipo di strumenti, tendono ad imporre a se stessi e ai propri familiari (a partire dai bambini) una sostanziale distanza da questi strumenti ‘social’. E’ questione di autoconservazione.

Certo, non è facile capire quanto uno strumento che siamo abituati ad usare di continuo sia disfunzionale per la nostra vita. Rendersene conto è appunto una questione di autoconservazione e può rendere la nostra vita molto più funzionale a ciò che ci interessa veramente. Usare software di tipo Free/Open Source è un modo per voltare pagina, riprendere controllo su questo interazioni: ristabilire chi è che controlla e chi è controllato (il social Mastodon [qui e qui]è un notevole esempio di questo tipo). Ma anche confinare Facebook e consimili in uno ‘spazio sotto maggiore controllo’ può essere rendervi un grande servizio. E Newport vi suggerisce una serie di metodi per riuscirvi e sentirvi presto più liberi e padroni della vostra vita.

Ad ogni modo, se un servizio è davvero un bene di prima necessità, indubbiamente il modo e la qualità con cui questo viene fornito dovrebbero essere sottoposti al controllo del pubblico, seguendo il principio di trasparenza. In altre parole, per l’autoconservazione individuale e sociale, la richiesta più giusta e più ovvia è quella che i codici alla base dei servizi internet – oggi di fatto considerati essenziali  – siano forniti come Free/Open Source. Solo così il pubblico potrà controllarli e renderli innocui per individui e società.

PRESTO DI MATTINA
Candelora, la festa della luce

Candelora, 2 febbraio. Una festa di luci, che potremmo chiamare anche ‘l’aurora dell’anno’, prendendo in prestito l’espressione riservata all’albero del sorbo (Sorbus aucuparia) dai fiori bianchi composti da cinque petali, che emanano lo stesso profumo del biancospino, mentre le sue bacche rosse rivestono in autunno i rami come coralli, restando così raggianti fino ad inverno inoltrato.
A Candelora la luce ritorna a brillare. Entra come Gesù nel tempio del mondo, preludio della natura che rifiorisce e pare dirci “presente, ci sono, non manco all’appuntamento, all’incontro con voi”. Alzatevi porte antiche! apritevi porte chiuse del solstizio d’inverno! entra il sole di giustizia che trasfigura e accende l’universo in attesa!

Eteria, scrittrice romana del V° secolo, ricorda per prima nel suo diario questa festa, descrivendo il suo viaggio nei luoghi santi: «Si accendono tutte le lampade e i ceri, facendo così una luce grandissima» (Peregrinatio Aetheriae 24, 4).
È nome popolare Candelora. Ricorda un passato lontano: le fiaccolate rituali nell’antica Roma; riti di purificazione e di rinnovamento del fuoco sacro nella casa della dea protettrice della città, Vesta, custodito dalle vergini vestali. Ma soprattutto la candelora è anticipazione e primizia di quell’altra solenne e peregrinante fiaccolata nella notte della veglia pasquale. Allorquando, dopo il rito del lucernario, in cui viene benedetto il fuoco nuovo, è fatta brillare la luce del cero pasquale, l’alta candela, che spargerà il suo raggio, il sabato santo, sul sepolcro vuoto. Come scintilla nella stoppia essa si presterà ad accendere tutti gli altri lumi tenuti in mano dai presenti trasfigurati, nella notte, come luci che camminano.

In occidente la ricorrenza del 2 febbraio prese sempre più la forma di una festa mariana, così da far prevalere l’aspetto di purificazione della madre, la vergine Maria, quale mistica aurora di redenzione, che dopo aver generato il figlio Gesù lo porta al tempio per offrirlo al Signore. In Oriente invece la festa si connotò in senso cristologico, assumendo il nome greco di Ipapante (lett. incontro). Presentato al tempio, Gesù si assoggettava infatti alle prescrizioni della legge, ma in realtà veniva incontro al suo popolo, che l’attendeva nella fede, rivelandosi anche luce per tutte le genti. Ed è proprio questo tratto che prevalse con la riforma liturgica del Concilio Vaticano II, allorché la festa si allineò alla tradizione orientale prendendo il nome di “Presentazione del Signore”.

“Ma com’è la luce di candelora?” Essa ricorda la luce della poesia. O anche “una mistica chiara”, come direbbe Maria Zambrano, riferendosi a Giovanni della Croce tramite un concetto di ‘chiarezza’ che la filosofa spiegherà meglio nel libro Chiari del bosco (Milano 2004, 13-14). Il chiaro del bosco allude infatti a una condizione mistica; mentre il riferimento alla poesia ci ricorda quell’esperienza del lettore che, ostinandosi nel cercarvi un senso, non trova nulla, finché abbandonandosi ai versi, riceverà una risposta illimitata e imprevista: «Il chiaro si mostra ora come specchio che trema, chiarezza palpitante che appena lascia comporsi qualcosa che insieme si scompone. E tutto allude, tutto è allusione e tutto è obliquo, la luce stessa che si manifesta come riflesso si dà obliquamente, ma non liscia come spada. Leggermente si curva la luce trascinando con sé il tempo. E non si dimenticherà mai che la curvatura di luce e tempo non è castigo, o che non è solo questo, bensì testimonianza e presenza frammentata della rotondità dell’universo e della vita, e che il tremolio è iridescenza della luce che non cessa di discendere e di curvarsi in ogni anfratto oscuro, che si insinua così, giacché di entrare direttamente dove più recondite sono le nostre difese può permetterselo solo ricorrendo a una violenza travolgente. E i colori stessi nascono per renderci la luce accessibile. E l’Iride risplende, prima che in alto nei cieli, in basso tra l’oscuro e il folto, creando così un imprevedibile chiaro propizio. Brillano i colori sostenendosi fino all’ultimo istante di un dissolvimento nel gioco dell’aria con la luce, e del cielo che quasi impercettibilmente si muove. Un cielo discontinuo, esso stesso anche un chiaro. E i colori scuri appaiono come luoghi privilegiati della luce che in essi si raccoglie. E poi c’è da proseguire di chiaro in chiaro, di centro in centro, senza che nessuno di essi perda né sconfessi nulla. Tutto si dà iscritto in un movimento circolare, in circoli che si susseguono ogni volta più aperti finché non si giunge là dove ormai non c’è più che orizzonte».

Ma non è forse questa l’esperienza che facciamo ogni volta che attraversiamo i boschi in montagna, sprofondati nella penombra oscura di pini e abeti? All’improvviso, quando non te l’aspetti, il chiarore di una radura, di ridotti spazi tra gli alberi diradati, o piccole piante cresciute solo un poco, incapaci di schermare la luce che appare dall’alto. Chiarori di vita, di significati, spuntati all’improvviso in cui sostare, per osare poco dopo un altro passo sul sentiero fattosi di nuovo oscuro, un passo ancora custoditi da quel chiarore.

Provo la stessa sensazione facendo camminare la luce della mia candela nella veglia pasquale. L’alone di luce ‒ come quello che cinge la luna nelle notti in cui è piena e appena velata dal filtro di nubi quasi trasparenti, così da formare nel buio del cielo un’aureola che dal centro luminosissimo va vieppiù sfumando e di nuovo si perde nell’oscurità ‒ così assomiglia il riverbero della mia candela nel buio delle vie che attraverso per riconoscere un volto, fare luce ai passi di chi segue, indirizzando una preghiera a una porta o a una finestra chiuse.

La luce della candelora è luce tremolante, compagnia nel passaggio tra la notte oscura e quella della «fiamma d’amor viva, che soave ferisce – scrive Giovanni della Croce – Delicata carezza, Tu parli di vita eterna. Cambiando la morte in vita. O fuoco nel cui splendore le oscure profondità rischiari al mio diletto. Portando luce e calore. O amore che tutto crei. Sublime eterna carità. La tua fiamma è più forte d’ogni cosa. Più forte della morte». È questo allora l’incontro con la “chiara mistica” «che disvela la creazione» ‒ scrive ancora Maria Zambrano ‒ non è un abbandono della realtà da parte dei mistici, ma un addentrarsi in essa, inoltrandosi nel folto dell’umano che «fa leva sulla misericordia, sulla presenza meravigliosa del mondo e delle sue creature» (Giovanni della Croce), sulla «carne […] col suo palpitare», e non ultimo sulle «cose considerate maternalmente» (Teresa d’Avila)», (Pensiero e poesia nella vita spagnola, Roma 1992, 110). Finché stupita di fronte a tanta chiarezza essa esclama: «Che religione è mai questa del Carmelo che permette, e anzi genera, la poesia?», (La confessione come genere letterario, Milano 1997, 110).

Fu il vescovo Luigi Maverna, il vescovo del Sinodo diocesano, a farmi appassionare a questa festa che riscatta la notte con un soffio di luce, che si affida, si offre, senza essere spenta dall’oscurità. Lui per il quale l’incontro e il convenire ecclesiale, non meno di quello con le persone della città, dovevano attuarsi con stile sinodale, rischiarandosi l’un altro, ciascuno con la propria luce. Egli così diceva: «È solennità che mette a fuoco, dei Misteri di Cristo, quello dell’offerta al Tempio. Gesù viene presentato al Tempio, a Dio, al Padre. Viene presentato, ossia offerto. Offerto dalle mani verginali di Maria, offerto e riscattato con una copia di tortore o di giovani colombi, prezzo dei poveri. Offerto, sì; ma insieme “autoffertosi”, su quelle mani verginali e sacerdotali.» (Omelia, 2 febbraio 1994).

Candelora è una Luce che si perde e si ritrova, da custodire e da donare nel discernimento e nella fedeltà di ogni incontro, perché si possa almeno un poco dimorare nell’amore.

«Luce gentile» la chiama, in una poesia, John Henry Newman (1801-1890); che intitola Candelora un altro suo scritto poetico, riservato a quel frammento di tempo che va da Natale a Pasqua, collegando il mistero dell’Incarnazione con quello pasquale. È qui che si incontra la luce gentile della Candelora: come se, dopo 40 giorni, spente le luci della natività, ci trovassimo d’improvviso al buio ad iniziare l’arduo cammino della quaresima, e non sapessimo come proseguire. Ma ecco venirci incontro i santi Simeone e Anna, che uscendo dal tempio mettono tra le braccia anche a noi la “luce di riserva”, da loro riconosciuta e accolta: un’ulteriore provvista di luce, per quanto tremolante e flebile, che basterà a tenere unite la luce dal Natale con quella ancor più intensa irradiata dalla Pasqua, quella del Cristo Tutto-Luce, è luce per tutti.

Poesia di luce è la Candelora di Newman: «Le luci angeliche, annuncio del mattino di Natale,/ che attraversarono dardeggiando il cielo,/ passano via e scompaiono alla Candelora,/ risplendono e poi muoiono./ Come luci di funerale estinte per Natale/ risplendono le candele del vecchio Simeone./ E poi per otto lunghe settimane è più,/ noi attendiamo nel grigio del crepuscolo,/ finché l’alta candela spenderà un raggio sul sabato Santo./ E mentre la spada nell’animo di Maria/ va a segno, noi nascondiamo/ nei nostri cuori, e contiamo,/ le ferite di passione e di orgoglio./ E però, anche dopo che è passata Candelora e son cessati gli Alleluia,/ è musica Maria nel nostro bisogno, e luce è Gesù di scorta».

Lead, Kindly Light fu scritta da Newman su una nave carica di aranci diretta a Marsiglia il 16 giugno del 1833. Nel suo primo titolo era paragonata alla nube dell’esodo, pure questa una luce effusiva di gentilezza: di giorno riparava il popolo in cammino nel deserto dalla calura, mentre di notte lo illuminava e lo proteggeva dal freddo come un fuoco.

«Guidami, Luce gentile, in mezzo alla tenebra che mi circonda,/ Guidami Tu innanzi!/ Buia è la notte, ed io son lontano da casa./ Rendi saldi i miei piedi: io non chiedo di vedere/ l’orizzonte remoto, mi basta un solo passo./ Non mi sono mai sentito come mi sento ora,/ né ho pregato che fossi tu a condurmi./ Amavo scegliere e scrutare il mio cammino;/ ma ora sii tu a condurmi!/ Così a lungo la tua forza mi ha benedetto,/ e certo mi condurrà ancora,/ landa dopo landa, palude dopo palude, oltre rupi e torrenti, finché la notte scemerà;/ e con l’apparire del mattino rivedrò il sorriso di quei volti angelici/ che da tanto tempo amo e, per un tratto, avevo perduto» (Apologia pro vita sua, Milano 2001, 84). Dopo la conversione al cattolicesimo Henry Newman si sentì attratto dalla forma di vita della Congregazione dell’oratorio di San Filippo Neri per la loro scelta della semplicità, dell’umiltà, della vita comune, della gioia e di quella gentilezza da lui cantata e diceva: «Obbedire alla luce che possediamo è il modo per acquisire ulteriore luce… agisci secondo la luce che hai anche se sei nel mezzo delle difficoltà e verrai portato avanti non ti immagini fino a dove» (Ian Ker, Newman. La fede, Milano 1993, 163).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]  

CONTRO VERSO
Conta di Mamma Mammina

 

Bisogna dirlo, che non è amore imprigionare l’infanzia.
Considero questa conta tra i versi più inquietanti che mi sono ritrovata a scrivere.
Si canticchia in cerchio sulle note di “Stella stellina”. Chi la intona, sillaba per sillaba e a turno tocca il petto dei vicini. Segue, in poche righe, la storia.

Conta di Mamma Mammina

Mamma Mammina
la bimba non cammina.
È grande e non va a scuola
la mamma la consola.

Bimba non cresce
vorrebbe e non riesce.
Mamma non vuole,
fa finta che sia amore.

Amore non ce n’è.
A star so-tto to-cca pro-prio a TE!

Eh sì, è proprio uno stare sotto quello che toccava a questa bambina. Una bimba perfettamente sana che a 3 o 4 anni non sa camminare è impressionante. Ma perché stupirsi? Le bambole non si muovono da sole, e la mamma – unico genitore presente in quella famiglia – pettinava la sua bambola in carne e ossa e la lasciava adagiata nel lettino.

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia  il venerdì. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]