Skip to main content

(RI)IMMAGINARE UN FUTURO MIGLIORE:
intervista a Reiner Braun alla vigilia del Congresso Mondiale della Pace di Barcellona.

di Reto Thumiger

Pochi giorni prima del Congresso Mondiale della Pace 2021 a Barcellona parliamo con Reiner Braun, direttore esecutivo dell’International Peace Bureau (IPB) di come il movimento per la pace, i sindacati e il movimento ambientalista possono unirsi, del perché abbiamo bisogno di un congresso per la pace e dei giovani e perché ora è il momento giusto per farlo. Il congresso si svolgerà in una forma ibrida (in presenza e online) a Barcellona dal 15 al 17 ottobre.

Grazie per aver trovato il tempo per un’intervista, caro Reiner. Il tuo instancabile impegno per decenni a favore della pace ti ha fatto diventare una figura ben nota nel movimento pacifista. Spero che molte persone che non sono ancora attiviste leggeranno questa intervista e quindi vorrei chiederti di presentarti brevemente.

Reiner Braun: Sono stato coinvolto nella formazione del movimento per la pace a livello nazionale e internazionale per ben 40 anni, con responsabilità molto diverse: come membro dello staff dell’Appello di Krefeld negli anni ’80, come direttore esecutivo degli Scienziati Naturali per la Pace, poi della IALANA (Associazione di Avvocati contro le armi nucleari) e del VDW (Associazione degli Scienziati Tedeschi). Negli ultimi anni sono stato prima presidente e poi direttore esecutivo dell’IPB (International Peace Bureau) fino ad oggi. Ciò che è sempre stato particolarmente importante per me è di essere attivo nelle campagne contro le armi nucleari, per la “Stop Ramstein Air Base” e nella campagna “Disarmare invece di riarmare”. Ho avuto il grande piacere di partecipare a centinaia, forse migliaia, di piccole azioni e attività, ma anche a grandi eventi: le manifestazioni a Bonn contro la guerra in Iraq, Artists for Peace, ma anche gli incontri del Forum Sociale Mondiale. In sintesi, la pace ha avuto un’influenza decisiva sulla mia vita. Nonostante tutte le difficoltà, i problemi e le controversie, sono stati anni fantastici con persone incredibilmente interessanti e molta solidarietà e passione. Questo non cambia la mia convinzione che la situazione attuale sia non solo pericolosa, ma anche profondamente deprimente. Non stiamo forse vivendo nell’era prebellica di una nuova grande guerra con armi nucleari provenienti dalla regione indopacifica?

Abbiamo proposte a sufficienza per salvare il mondo

Il mondo è a un bivio fondamentale: scivolare nella catastrofe sociale ed ecologica con la politica dello scontro e della guerra, o trovare la via d’uscita, che descriverei come una fondamentale trasformazione di pace socio-ecologica. Aiutare a trovare vie d’uscita da questa situazione è il grande obiettivo del Congresso Mondiale dell’IPB. Si tratta delle grandi sfide del nostro tempo. Non si tratta del centesimo documento strategico – abbiamo proposte a sufficienza per salvare il mondo. Si tratta piuttosto dei soggetti del cambiamento e della costruzione di coalizioni e di azioni sempre più internazionali in rete. Le persone plasmano la storia: è questo che il congresso vuole incoraggiare. Come possono unirsi il movimento per la pace e i sindacati, il movimento ambientalista e quello pacifista? Quali sono i contributi dei nuovi attivisti di Fridays for Future al movimento per la pace, senza strumentalizzarli e distrarli dalle loro preoccupazioni? Sono domande a cui il congresso vuole rispondere insieme a tutti coloro che sono coinvolti nei vari movimenti.

Questo congresso dovrebbe essere internazionale e con una grande diversità. Sarà modellato tematicamente dall’Asia, il continente del futuro e forse dovrei dire anche il continente di future guerre ancora più grandi. Il confronto della NATO con la Russia, le armi leggere e l’America Latina, le conseguenze della pandemia sulla pace, ma anche l’Australia e i nuovi sottomarini nucleari sono alcuni dei punti centrali.

Come può il sogno di un mondo pacifico e giusto diventare realtà?

Reiner Braun: Accordi e risoluzioni per fermare la base aerea di Ramstein
2020 (Foto: ra13mstein-kampagne.eu)

Le sfide di genere e l’oppressione dei popoli indigeni sono questioni che hanno sempre a che fare con la guerra e la pace.
Naturalmente le richieste di disarmo, un mondo senza armi nucleari, la risoluzione pacifica dei conflitti e l’educazione alla pace sono componenti importanti del Congresso Mondiale. Ma tutto è subordinato a quanto espresso dalla canzone “Imagine” di John Lennon: come può il sogno di un mondo pacifico e giusto diventare realtà? Cosa possiamo fare tutti insieme per questo, da qualunque parte veniamo, qualunque cosa pensiamo, qualunque cosa abbia plasmato la nostra vita finora? Abbiamo bisogno di unirci in azioni più frequenti, più grandi e internazionali per il futuro. Dobbiamo abbandonare il letargo, lo status di osservatore.

È probabilmente qui che entra in gioco il titolo del congresso: “(Ri)immaginare il nostro mondo: azione per la pace e la giustizia”?

Sì, questo titolo ha lo scopo di ricordare ed evocare visioni e di chiamare all’azione: tu da solo puoi essere troppo debole, ma insieme possiamo farcela. Non è scontato che le grandi corporazioni e la politica dei governi ci portino nell’abisso. Si tratta quindi anche di un congresso di giovani e di incoraggiamento, senza farsi illusioni su quanto saranno dure le lotte. Non solo abbiamo progettato autonomamente diverse attività della gioventù IPB al congresso, ma il 40% di tutti i relatori ha meno di 40 anni.

La partecipazione ibrida è possibile fino all’ultimo minuto e Barcellona vale sempre il viaggio

Le 2.400 iscrizioni online e offline da finora 114 paesi ci danno coraggio e fiducia che ci stiamo avvicinando ai nostri obiettivi.
Tutti i dettagli del programma, la sua diversità e pluralità, la sua internazionalità e la sua competenza si possono trovare sul sito web. Lì troverete anche le descrizioni dettagliate dei quasi 50 workshop, degli eventi collaterali e culturali e un invito alla cerimonia di consegna del Premio MacBride il sabato sera.
Vale davvero la pena di dare un’occhiata a tutto questo. Posso immaginare che alcuni di voi diranno: vorrei esserci anch’io. La forma ibrida è possibile fino all’ultimo minuto. Barcellona vale sempre un viaggio e partecipare online porterà sicuramente nuove intuizioni e forse anche un po’ di nuova forza per la pace.

Senza superare il capitalismo, non raggiungeremo né la pace né la giustizia globale e climatica

Se gli ultimi anni ci hanno insegnato qualcosa, è che i grandi problemi, le grandi minacce per l’umanità sono molto complessi e interconnessi. I singoli paesi o regioni sono impotenti contro di essi. Questo significa che abbiamo bisogno di soluzioni coerenti e di cooperazione internazionale. Quello che stiamo vivendo è purtroppo il contrario

Il pensiero della complessità, delle interconnessioni e, aggiungerei, della dialettica è spesso andato perso a favore di una semplificazione in bianco e nero e resistente ai fatti. Politicamente, questo approccio viene anche usato di proposito per negare la dimensione delle sfide e per chiedere una continuazione delle cosiddette riforme. Ciò di cui abbiamo effettivamente bisogno – so che è fuori moda usare questa parola – è una rivoluzione: una trasformazione fondamentale e, aggiungerei, democraticamente partecipata di tutti i rapporti di dominazione, potere e proprietà, incluso un rapporto completamente nuovo con la natura. Sembra una parola d’ordine, ma le interviste sono così: senza il superamento del capitalismo, non raggiungeremo né la pace né la giustizia globale e climatica.

Jean Jaures aveva già formulato questo concetto in modo originale nel 1914, quando sottolineava che il capitalismo porta in sé la guerra, come le nuvole portano la pioggia. Non risolveremo la sfida del clima senza mettere alla prova l’ideologia della crescita e questo contraddice fondamentalmente le necessità di accumulazione capitalista e gli interessi di profitto. Nessuno dovrebbe credere che una giustizia globale sia realizzabile senza andare alle fondamenta del potere e dello sfruttamento corporativo.

Sono convinto che i cambiamenti dovranno essere e saranno molto più profondi e fondamentali

Ciò di cui abbiamo bisogno ora e subito è la cooperazione, una politica di sicurezza comune – questa è una dichiarazione di guerra a Biden e alla NATO – perché solo allora possiamo aprire strade per costruire un futuro pacifico ed ecologico.

Sono profondamente convinto che i cambiamenti dovranno essere e saranno molto più profondi e fondamentali. La discussione su questo è certamente necessaria, ma non deve impedirci di fare insieme i primi passi, prendere delle misure, compiere delle azioni urgenti, soprattutto con i molti che non condividono la mia posizione. Una discussione senza esclusioni e tabù, ma con molta comprensione per l’altro è necessaria se vogliamo raggiungere una trasformazione fondamentale in modo partecipativo e quindi rendere la pace più sicura.

Dobbiamo superare rapidamente l’isolamento che si è creato in seguito alla crisi del covid a favore di un’azione solidale. In Europa siamo di fronte a una possibile fine della pandemia, ma in altre parti del mondo non è così. È il momento giusto per un congresso internazionale della pace?

Sappiamo bene quanto siano state grandi le sfide per questo congresso nelle condizioni dettate dalla pandemia durante tutto il periodo di preparazione. Voglio essere chiaro: non c’è momento migliore, non solo perché un tale congresso mondiale è assolutamente necessario a livello politico. La ragione più importante è che abbiamo un urgente bisogno di superare, rapidamente e in modo solidale, l’isolamento che è sorto a seguito della crisi causata dal covid, a favore di azioni di solidarietà. Dobbiamo tornare nelle strade e nelle piazze. In forma digitale ci siamo mossi insieme; ora questo deve diventare anche più visibile politicamente. Dopo 18 mesi di limitazioni imposte dalla pandemia, c’è davvero un enorme interesse a incontrarsi, scambiarsi idee, abbracciarsi e salutarsi di nuovo. Abbiamo bisogno di questa empatia. Spero che raggiungerà anche coloro che parteciperanno online. Abbiamo bisogno dell’atmosfera di un nuovo inizio e spero che il congresso contribuisca a crearla.

Parteciperanno Lula, Vandana Shiva, Jeremy Corbyn, Beatrice Finn e molti altri…

Il congresso è certamente un esperimento nelle sue molte forme ibride, ma significativo e pieno di speranza. Sono abbastanza convinto che i formati ibridi – in presenza e on line – saranno il sistema del futuro. Permettono una vasta rete internazionale.

Nel programma sono annunciati alcuni grandi nomi. Chi ti aspetti di incontrare di persona e chi in collegamento video?

Tutte le “celebrità” annunciate nel programma saranno presenti, alcune on line come l’ex presidente brasiliano Lula e Vandana Shiva, altre in loco come Jeremy Corbyn e Beatrice Finn. I relatori centrali delle plenarie di sabato e domenica interverranno di persona. Alcuni workshop molto interessanti come quello su AUKUS saranno online, i workshop sulle armi nucleari o sulla sicurezza comune avverranno in una forma mista.

Ci saranno certamente ampie occasioni di scambio e di discussione. Per non dimenticare il raduno pubblico con tutti i partecipanti all’evento di apertura, dove formeremo il simbolo della pace con i nostri telefoni cellulari.

I cambiamenti fondamentali non hanno bisogno solo di personalità eccezionali, ma costituiscono una sfida per tutti noi. Perché un attivista che non si occupa di pace o una persona che non è socialmente o politicamente attiva dovrebbe partecipare al congresso?

Già al momento dell’iscrizione al congresso, abbiamo notato la diversità dei partecipanti. Non solo perché provengono davvero da diverse parti del mondo, ma anche perché sono diversi nel loro impegno. Tutti condividono le idee di base della grande trasformazione socio-ecologica della pace. La pace è impensabile senza giustizia globale e giustizia climatica e non ci sarà giustizia climatica senza la fine delle guerre e dei conflitti armati. Sono due facce della stessa medaglia. Vogliamo approfondire questi pensieri e renderli più fattibili. Vogliamo chiarire che le condizioni di natura sono anche sempre relazioni di dominio e di potere, che devono essere superate o democratizzate e modellate in modo partecipativo nella e per la pace.

Quali sono le possibilità di partecipazione (in loco e online) e quali le lingue utilizzate? E soprattutto, quali sono le opportunità di partecipazione attiva?

L’organizzazione indipendente è la sfida del design online. Per questo abbiamo acquisito un sistema tecnico che permette la discussione individuale, lo sviluppo di piccoli gruppi, la presentazione di poster e documenti e anche lo scambio individuale. Non è certamente quello che i partecipanti sperimenteranno sul posto – anche al di là del programma ufficiale – ma crea molto spazio per la comunicazione. Le lingue principali saranno l’inglese, il catalano e lo spagnolo. Ma in caso di dubbio, donne e uomini possono comunicare anche con mani e piedi.

Il congresso stesso è un incontro di rete comunicativa e tutti andranno a casa con molte nuove impressioni ed esperienze – ne sono abbastanza sicuro.

Reiner Braun – Foto di C. Stiller

Infine, una domanda personale. Come riesci a mantenere il tuo impegno e la tua fiducia in questi tempi? Che cosa ti dà speranza?

La fiducia e l’ottimismo vengono dalla mia profonda convinzione che le persone scrivono la storia e che la storia può essere influenzata e persino determinata dalle loro azioni. Voglio partecipare a questo e non essere un “agnello sacrificale passivo” di altri. Mi sento parte di una comunità mondiale basata sulla solidarietà – alla quale è anche permesso qualche volta di litigare – che vuole ottenere un mondo migliore, pacifico e giusto. Nella mia vita, ho sperimentato tanta solidarietà e unione nelle diverse azioni, ho incontrato molte persone che hanno affrontato con coraggio le condizioni più difficili e questo mi ha influenzato e anche formato.

Questo sentimento di solidarietà, questa comprensione di una comunità di persone che pensano e agiscono in modo simile non rende facili, ma almeno più sopportabili le battute d’arresto e anche le dolorose sconfitte politiche, dà speranza e fornisce una bussola per il futuro anche in momenti di grande difficoltà e incertezza.

Non ci riesco a lasciar perdere. Rinunciare non è un’opzione, perché non posso e non voglio rinunciare a me stesso. La dignità – soprattutto nelle difficoltà, nei conflitti e nelle sconfitte – è qualcosa che ho sempre ammirato e che rende i successi ancora più preziosi.

Per me il capitalismo non è la fine della storia. Rispetto ai miliardi di altre persone su questo pianeta, io sono ancora in una situazione privilegiata e vorrei fare in modo che anche gli altri vivano meglio e che l’ambiente sia preservato. La pace con la natura è anche una sfida personale.

Cosa c’è di meglio che lavorare insieme a molti altri per una vita migliore, per la giustizia e la pace? Questo rende felice anche me.

Clicca qui per registrarti: https://www.ipb2021.barcelona/register/

Sabato 16 ottobre dalle 11:30 alle 12:00 Pressenza organizza un workshop sul giornalismo nonviolento.

Traduzione dal tedesco di Thomas Schmid. Revisione di Anna Polo

Thanks: questa intervista è apparsa su Pressenza il 12.10.2021
In Copertina: Reiner Braum, direttore esecutivo dell’International Peace Bureau – Foto: ramstein-kampagne.eu, 2020.

RIPORTIAMO IL FIUME IN CITTA’
prima assemblea per un Contrato di Fiume a Ferrara

 

COMUNICATO DEL GRUPPO BLU

Si svolgerà sabato 16 ottobre dalle ore 9.30 alle 12.30 nella darsena S. Palo di Ferrara la prima assemblea cittadina per un Contratto di Fiume a Ferrara.

Sotto il titolo “Riportiamo il fiume in città” il Guppo Blu, nato all’interno della Rete per la Giustizia Climatica, intende accendere un faro sull’insieme di corsi d’acqua che caratterizzano il territorio comunale, ma che sono inaccessibili ai più e in buona parte in stato di abbandono.

E’ la prima volta nella città estense che i cittadini e le associazioni interessate vengono chiamate ad esprimere le loro idee relative agli ambienti fluviali e a partecipare attivamente alla creazione di un documento condiviso.

Il processo dovrà generare una proposta che punti a rivalorizzare i fiumi ed i canali di Ferrara non solo come idrovie e canali di bonifica ma anche come risorse culturali e naturalistiche, baluardi blu e verdi al pari delle antiche mura della città, in grado di contrastare gli effetti del cambiamento climatico.

La proposta del Gruppo Blu evolverà in un accordo scritto con il quale cittadini privati, associazioni, imprese, enti, istituzioni sintetizzeranno i loro bisogni nei confronti del fiume e si impegneranno formalmente a garantire una corretta gestione ambientale strategica di questa fondamentale risorsa.

Il momento storico, secondo gli organizzatori è unico: “la riqualificazione del parco della Darsena, i lavori in corso del progetto Idrovia, i futuri progetti da finanziare con le risorse del PNRR, questi interventi devono essere eseguiti in una visione d’insieme riconoscendo i fiumi e i canali di Ferrara come beni comuni”.

Luogo della prima assemblea è il piazzale della darsena di Ferrara, tra il Palazzo Savonuzzi / Consorzio Wunderkammer e l’attracco del battello Nena. Per partecipare è necessario essere in possesso del green pass.
Per informazioni: 328 2161442,
info@fiumana.org

Rete per la Giustizia Climatica

DIARIO IN PUBBLICO
Vedere l’attualità e spiegare l’ineffabile

 

Con preoccupazione e orgoglio, mi calo nell’argomento che sarà centro della mia conferenza, quello cioè di commentare la posizione di Dante nel vertiginoso compito che si era dato, cioè quello di dimostrare l’indimostrabile, di rendere parola ciò che è ineffabile, di rendere visibile attraverso la metafora poetica ciò che non può essere visto.

La conferenza avrà luogo in presenza venerdì 15 ottobre 2021 [Qui]alle ore 17.00, presso la sala Agnelli della Biblioteca Ariostea di Ferrara, secondo le nuove disposizioni che la rendono totalmente fruibile, naturalmente rispettando le norme in vigore. Per congiunzioni astrali (!) in concomitanza con lo spettacolo teatrale che Elio Germano [Qui] condurrà per tre giorni al teatro Abbado sul canto XXXIII del Paradiso.

Tuttavia, mi lascio tentare dai programmi televisivi che si attaccano al presente e ferocemente lottano per la supremazia televisiva. Vedo la bella Lilli Gruber presentare il suo ultimo libro in una popolare trasmissione su Rai1.

Poi viene annunciata la presenza di Martina, una carabiniera che ha salvato la vita a una madre decisa di farla finita in bilico su un ponte.
Così riferisce La Repubblica riportando l’episodio:
“Dopo tre ore di stallo l’ho guardata e ho pensato a mia mamma. Cosa le direi se fosse in una situazione simile? Ho seguito il cuore e, di lì a poco, ci siamo prese per mano”.

I sentimenti di una figlia emergono con tutta la loro forza, oltre la divisa, oltre gli alamari, oltre il rigore militare. E alla fine è l’amore, più della dotazione tecnica, a restituire salva la vita a una donna di 50 anni che voleva uccidersi buttandosi su un canalone montano da 80 metri d’altezza. “Ci siamo abbracciate, lei si è messa a piangere e anche io. Non ho mai provato una simile empatia nei confronti di una persona. Il suo dolore era il mio. Il mio sollievo era il suo”.

Nella trasmissione televisiva che commentava l’impresa Martina Pigliapoco – così si chiama l’eroina – correttamente in divisa, i capelli tenuti fermi in uno chignon, miti occhi dietro un paio di occhiali da vista, sembra frastornata da quella notorietà che lei attribuisce al suo dovere; compirà 26 anni il prossimo dicembre, marchigiana di Osimo, carabiniera semplice in servizio a San Vito di Cadore. È rimasta per quattro ore a parlare, a cercare un punto di contatto e alla fine l’ha trovato.

Così spiega la sua inflessibile volontà di salvare la donna:
“In realtà non era un dialogo, per lungo tempo è stato un monologo. Rispondeva a monosillabi, si agitava. Il mio unico compito era stare lì e assecondarla, non perdere il contatto. […] le ho raccontato di me, della mia vita, del fatto che per lavoro aiuto la gente e che ero lì per fare lo stesso con lei Non voleva che mi avvicinassi, ho cercato di farle capire anche con il linguaggio del corpo che ero lì per aiutarla.”

Qui non si tratta dei soliti ‘commoventi’ ritratti che la tv usa per sfruttare le emozioni; ma una vera, imperdibile tranche de vie. Una donna matura e disperata salvata da una ragazza che crede ai valori della vita e dell’impegno che si è preso.

Poi di nuovo a sorbettarmi i risultati delle elezioni, osservando la boccuccia a cul de poule dei commentatori e dei vincitori e vinti. Povera Italia di c…te ostello!

Sto leggendo un libro fantastico sul mito della Rive gauche a Parigi dopo la guerra e il ruolo dei filosofi e intellettuali che la resero la capitale mondiale della cultura. Un particolare mi ha colpito quella che fa scegliere ai miti parigini Sartre [Qui] e de Beauvoir [Qui] nel contrasto tra comunismo ed esistenzialismo la soluzione italiana che non passa attraverso lo stalinismo.

Termino l’intensa settimana recandomi al convegno organizzato da MENS-A sul tema del Nuovo Umanesimo. Hanno parlato Pietrangelo Buttafuoco, Roberto Celada Ballanti e l’amico di una vita Franco Cardini [Qui].

Con lui abbiamo ricordato i nostri esordi – lui diciassettenne io diciannovenne – che svolgevamo piccoli incarichi per il famoso architetto dei giardini che operava a Firenze. E, nel tempo, l’invito che mi fece per studiare il periodo medievale delle mura di Gerusalemme, che helas! rifiutai perché si doveva dormire in tenda. Ancora oggi attendo di vedere Gerusalemme.

Sembra allora che la bella addormentata, Ferara, stia risvegliandosi.

Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

PER CERTI VERSI
Assalto alla sede della CGIL

ASSALTO ALLA SEDE DELLA CGIL

La storia nera
Nera fascista
E neofascista
È fatta di infiltrazioni
C’è una cattiva idraulica
In giro
Qualche
Sopravvissuto
Dell’era dei misteri
C’era a assediare la sede
Della cgil
C’era
La mano nera
In quell’assalto
I mandanti
Sono degli impuniti
Certi
Della loro impunità
I feriti
Quelli ci sono sempre
Tra forze dell’ordine
È grave
Gravissimo
Pure tra i manifestanti
È grave
Eppure si assaltano
Come cento anni fa
Sindacato
Pronto soccorso
Luoghi della convivenza
Per diffondere paura
Con una volontà
Di menare le mani
Di ritornare al dominio
Della forza
Di distruggere gli argini della vita civile
E lo Stato lento accorre
Eppure
Eppure un corno
Questo liquame
Disumano
Che da decenni
Ha infettato
Sparso vittime
Abusato di vite
Mostrato croci uncinate
Braccia tese
A mezz’aria levate
Virulento scorre

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
[Qui]

MORTI SUL LAVORO.
Un dramma senza fine. Con molti responsabili.

Dal primo gennaio 2021 ad oggi (29/09/2021) ci sono stati in Italia 680 morti sul lavoro (Rai News 24). Le cause sono spesso legate a mancanze nei sistemi di sicurezza dei macchinari usati per la produzione.
Negli anni che vanno dal 2015 al 2019 ci sono stati in media 642 mila incidenti sul lavoro annuali: il 2015 è stato l’anno con meno incidenti, 637 mila, e il 2017 quello con il maggior numero, 647 mila. In media sono decedute sul lavoro 1.072 persone all’anno, senza particolari differenze tra gli anni (fonte INAIL).

Gli infortuni sul lavoro riguardano principalmente gli uomini: negli anni dal 2015 al 2019 sono stati 1,15 milioni per le donne e 2,06 milioni per gli uomini. Per quanto riguarda gli infortuni con esito mortale, gli uomini sono colpiti dieci volte di più rispetto alle donne: 4.869 contro 489. La differenza è probabilmente attribuibile ai diversi lavori svolti dai due generi. (sempre fonte INAIL)
Più di mille morti all’anno, con un trend che sembra aumentare invece che diminuire, sono un dramma senza attenuanti.
Credo sia fondamentale cercare di capire quali siano le cause di questo fenomeno tristissimo e portarle alla riflessione del mondo politico e imprenditoriale in maniera più decisa di quanto non lo si sia riuscito a fare fino ad ora.

Spesso la morte è causata dalla manomissione dei sistemi di sicurezza dei macchinari usati in azienda. Per quali motivi si manomettono i sistemi di sicurezza? Per aumentare la produzione, per far sì che le macchine vadano più velocemente, che le presse non si fermino ogni volta che i sensori registrano qualche movimento anomalo, che le cucitrici continuino comunque a far scendere l’ago alla stessa velocità, che ci si possa avvicinare ai macchinari senza che questi si fermino per rimediare subito a qualche svista (magari un pomodoro piccolo è finito sullo stesso nastro di quelli grandi), etc.

Se è vero che la produzione deve mantenere determinati standard per far sì che l’azienda sia competitiva sul mercato e che, soprattutto in alcuni settori, l’uso di tutti i dispositivi di sicurezza la pone nelle condizioni di risicare il profitto, è altrettanto vero che se un’azienda per sopravvivere deve manomettere i suoi impianti di sicurezza non ha la dignità di vivere, né tantomeno di stare su quel fantomatico mercato che dovrebbe essere nelle condizioni di autoregolarsi.

L’autoregolazione del mercato, quell’istituto sovra-nazionale che pervade la vita di tutti e non sta da nessuna parte, dovrebbe determinare un equilibrio tra esigenze produttive, bisogni dei lavoratori, necessità degli acquirenti e prezzi all’ingrosso e al dettaglio.
Mi vien da ridere, il mercato non si autoregola e la produzione viene spinta al suo limite massimo per diversi motivi: accantonare produzione per i momenti di stasi delle vendite, produrre profitto per il proprietario, aumentare l’utile che può essere spartito tra i soci. Soprattutto nelle S.p.a., ma in maniera meno visibile anche in altre tipologie societarie travestite da novello umanesimo, la mancanza di spartizione degli utili tra i soci per più anni successivi determina una forte ridistribuzione delle quote societarie che può causare sia un serio problema negli assetti organizzativi, sia una oscillazione di capitale capace di distruggere l’azienda.

Spesso si manomettono i sistemi di sicurezza per questioni di sopravvivenza dell’azienda. Esistono settori dove il margine di guadagno sul singolo “pezzo” prodotto è talmente basso che per garantirsi il minimo introito che serve a continuare a produrre, diventa gioco-forza manomettere quelle sicure che non sembrano così essenziali per la salute. (Per poi scoprire che tali manomissioni ti ammazzano).

Pensiamo a una filiera tessile dove si producono camice. Ad un laboratorio artigianale, una camicia finita con tanto di marchio già cucito viene pagata al massimo 8-10 euro e può essere venduta sul mercato fino a 250 euro. Questa differenza suscita diverse riflessioni.

Ad esempio: il fatto che il ‘grosso’ del guadagno si sia spostato sul riveditore ultimo, spesso una “grande firma” quotata in borsa che deve fatturare all’inverosimile, da qui la strozzatura della produzione di primo livello, lo stress di chi lavora in catena che non può fermarsi nemmeno per andare in bagno (se non nelle pause prestabilite), l’espulsione dal mercato di tutti quei soggetti che non sanno mantenere ritmi di lavoro imposti dal sistema produttivo.

Ci sono aziende che si sono trasformate in macchina da guerra che non sa più fermare nessuno. Tutti sono incastrati nei loro “ruoli produttivi” e nessuno riesce più a uscirne.
Si mescolano esigenze produttive, necessità economiche “alte” della proprietà volte a mantenere degli “status acquisiti” che non si vogliono (o possono) abbandonare, necessità di chi lavora in catena di portare a casa lo stipendio, a volte essenziale per i beni di prima necessità e a volte imposto da un mondo capitalista che non sa rinunciare a niente e che spinge tutti a livelli di consumo sempre più alti, riuscendo a rendere necessario ciò che di fatto non lo è.

Il secondo aspetto che mi sembra davvero rilevante quando si tratta il tema degli incidenti sul lavoro è quello dei controlli sull’effettiva sicurezza degli impianti, delle macchine, delle attrezzature e delle infrastrutture.
Chi controlla chi per fare cosa?.
Esistono, almeno sulla carta, moltissime forme di controllo sulle modalità produttive delle aziende. Dalla AUSL, alle certificazioni di vario tipo, alle Agenzie del lavoro… sembrerebbe che tutto sia controllato in maniera assidua e regolare.
Ma ciò che sembra di fatto non è. I controlli sono spesso di tipo burocratico, si sa prima quando arriverà il controllore e le sicure delle macchine vengono rimesse al loro posto.

I sistemi di certificazione della qualità che, in quanto tali, dovrebbero essere una ulteriore garanzia di buona qualità lavorativa, sono spesso pacchi enormi di carta posizionata in un archivio che nessuno apre mai, nessuno sa nemmeno cosa davvero ci sia scritto.
In altri casi questi fantomatici controlli si accaniscono su sciocchezze e non sanno arrivare al cuore del problema, non lo intercettano neanche.

Nessuna considera, da dento l’azienda, queste forme di verifica e protezione uno stimolo per crescere, per imparare ad essere più garanti sulla qualità del lavoro.  Sono solo semplici adempimenti, se non delle assolute seccature che interferiscono con la normale routine rallentando la produzione. I controlli per la sicurezza sono vissuti come un problema da eludere per continuare a produrre in maniera efficiente. (ovviamente non è tutto così e non è sempre così).

Un terzo problema è quello del potere politico e contrattuale dei sindacati e, più in generale, dei vari organismi di rappresentanza. Cosa fanno?
Sono considerati l’ennesima seccatura e non solo dai dirigenti d’azienda ma anche dagli operai che pensano di non aver nulla da dire a ‘quelle persone’ che non hanno potere contrattuale e nessuna capacità di difendere i loro diritti. Ci sono aziende in cui gli operai che hanno responsabilità sindacali sono ‘amici della proprietà, gli accordi li fanno tra loro e si spartiscono quel poco lustro che ne deriva (non è sempre così ovviamente).

Mi chiedo infine che rapporto ci sia tra la necessità di produrre senza scrupoli e le relazioni interpersonali facilitate dalle caratteristiche del mondo in cui viviamo.
Viviamo nell’epoca del  consumismo smodato dove conta chi possiede di più, dove si è verificata l’assunzione della merce a Dio mercato, la necessità di costruire identità individuali e collettive legate alla dimostrazione del possesso esclusivo e elitario, l’incapacità di vedere chi ha bisogno, chi soffre, chi è escluso. Tale esclusione riguarda le persone più deboli, meno in possesso di quei requisiti che servono per stare a galla in questo mondo ricco.

Faccio di nuovo un esempio: per trovare lavoro bisogna spesso andare al Centro per l’impiego, a un agenzia di lavoro interinale, seguire corsi di formazione, processi di inserimento lavorativo che adempiono a i  tutti i dettami super-burocratici che il sistema erogatorio  impone, frequentare uffici, compilare correttamente moduli, sopportare lo stress di dover telefonare e chiedere continuamente spiegazioni a interlocutori tanto sconosciuti quanto indifferenti.
Queste persone vengono escluse dal mondo del lavoro per il semplice motivo che le soglie di tale mondo non sono alla loro portata.

Tutto questo ha a che vedere con i morti sul lavoro, con le macchine manomesse, con le apparecchiature obsolete che si rompono improvvisamente spargendo veleno su chi le sta riparando, uccidendolo sul colpo, facendo divampare incendi che non riuscirebbe a spegnere nemmeno un’autobotte dei pompieri già posizionata sul luogo dell’incidente, riempiendo l’aria e l’acqua dei nostri cieli, dei nostri mari e dei nostri fiumi di sostante tossiche che distruggono la flora e la fauna e aumentano l’incidenza di gravi malattie nelle fasce giovani della popolazione.

E’ il mondo fatto così che porta a un necessario e continuo aumento degli standard di produzione, che facilita la manomissione delle macchine, la fasullità dei controlli, la difficoltà degli organismi di rappresentanza e l’accettazione da parte di chi lavora di quelle uniche condizioni ritenute utili per portarsi a casa lo stipendio.

Po,i in mezzo a tutto ciò, ci sono anche gli incidenti veri e proprio, le sviste che possono capitare e anche le azioni in buona fede che solo il caso sa trasformare in eventi nefasti.
Penso anche che sia necessario lavorare sul senso civico delle persone, sull’aumento della consapevolezza.
Denunciare le irregolarità è un dovere di tutti se vogliamo provare a costruire una società che seppur produttiva e capitalista (perché questo è il contesto nel quale ci troviamo) sappia recuperare quel senso di fratellanza, di reciprocità, di civiltà e lungimiranza che ci permetterebbe  di porre un freno a questa emorragia di vite umane, tanto triste quanto apparentemente inarrestabile.

GRANDI OPERE e ALTA VELOCITÀ:
trionfa la finanza e l’oligarchia industriale

Nella vita mi sono occupato soprattutto di trasporti e mobilità essendo stato ferroviere; ho imparato che anche guardando il mondo e la società da un settore molto parziale è impossibile non confrontarsi con le politiche economiche e sociali sia nazionali che globali. À

Assieme ad amici e colleghi abbiamo vissuto i grandi cambiamenti avvenuti negli anni ‘90 che hanno visto affermarsi il modello TAV sia nei trasporti che nell’economia italiana; non abbiamo potuto fare a meno di constatare che quei profondi cambiamenti andavano assieme ad una ristrutturazione del mondo del lavoro ed a politiche che favorivano spudoratamente gli aspetti finanziari e gli interessi di una oligarchia industriale in crisi che trovava nell’invenzione dell’idea delle ‘Grandi Opere” – spesso sovradimensionate o inutili, molto diverse da quelle che hanno interessato il periodo precedente – una via sicura ed efficace di finanziarsi direttamente da risorse pubbliche.

Abbiamo constatato come la progettualità trasportistica stava passando dalle istituzioni pubbliche direttamente nelle mani delle grandi imprese collegate al sistema bancario, dove il ruolo politico diventava semplicemente quello di coordinamento e facilitazione per i desiderata del sistema privato.

La triste anomalia vista nel mondo dei trasporti era ed è solo un pezzo di una progressiva ristrutturazione economica generale; logiche simili  sono attente solo a garantire che crescita e profitti non trovino ostacoli, nemmeno quelli imposti dai limiti di un pianeta finito.

Nei decenni passati, le crisi e le catastrofi (terremoti, inondazioni, frane…) sono state sempre occasione non per risolvere i problemi, ma per smantellare pezzi di un sistema di welfare e di gestione del territorio al servizio della collettività; non che prima dell’era neoliberista fosse il paradiso, tutt’altro, ma negli ultimi decenni l’assalto dell’oligarchia è stato violentissimo.

La conferma la vediamo dalla gestione della crisi creatasi con la sindemia da covid-19; tutto pareva non dover essere come prima, ma purtroppo le speranze si sono trasformate in incubo.
Tutto il panorama politico si è piegato ai diktat degli interessi dell’élite lasciando increduli anche i più tenaci sostenitori del voto al ‘meno peggio’; le istituzioni ormai sono vuoti simulacri, il cosiddetto ‘governo dei migliori’ ha imposto la sua agenda senza alcun dibattito. Solo qualche raro mal di pancia e una falsa opposizione di destra.

Stanno nascendo le ‘riforme’ che vuole l’Europa e un programma di investimenti che, se non è scritto direttamente dalla Confindustria, certamente ne accontenta gli istinti più profondi.

Qua non si tratta di ideologia, ma dell’osservazione empirica di cosa accade anche a livello locale. Nella Toscana in cui vivo la politica del Partito Democratico – e di una opposizione che si lamenta solo di come si tutelino troppo poco gli interessi delle imprese – incarna perfettamente lo spirito di questo tempo.
Nei mesi passati, nelle sale della Regione Toscana si sono susseguiti intensi incontri tra politici, esponenti di Confindustria e fondazioni bancarie: lì si sono decise le sorti dei fondi del PNRR previsti, alla faccia della tanto sbandierata ‘partecipazione’.

In questo quadro di restaurazione sociale ed economica, la cosiddetta ‘transizione ecologica‘ non è solo un vuoto bla-bla-bla, ma una ghiotta occasione per mettere le mani su un gruzzolo fornito – poco generosamente – dall’Unione Europea. Che molti di quei soldi diventino in futuro debito pubblico non interessa, bene trasformare subito il malloppo in profitti e lasciare poi che siano i cittadini a ripagare i debiti. Intanto si prendono i soldi, poi ci rimprovereranno che abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità.

Che la transizione ecologica si trasformerà in distribuzione a pochi di risorse pubbliche, lo si vede guardando ai progetti messi in campo: la “mobilità sostenibile” prevista è smentita dalla scelta di grandi progetti di alta velocità.

Sono progetti che richiedono lavori imponenti, soprattutto la linea prevista a sud; ci si affida alla retorica del trasporto su ferro, ma non si fa mai il calcolo di quanta CO2 viene prodotta nello scavare gallerie, nel fare grandi colate di cemento e nel consumo energetico per raggiungere alte velocità.

Basta una spolveratina di verde per rendere tutto ‘sostenibile’.

Che poi la maggior parte del trasporto su ferro sia su brevi e medie distanze, cioè per i pendolari, è cosa che si ignora da decenni e niente cambia in questa presunta transizione.

Non ci si vuol nemmeno ricordare che oggi le grandi infrastrutture sono uno dei comparti dove si creano meno posti di lavoro, ma si presentano questi mega progetti come meccanismi di redistribuzione di ricchezza. Niente di più falso: come ci insegnava l’ “ingegnere comunista” Ivan Cicconi [Vedi qui] le grandi opere inutili sono un keinesismo a rovescio, per i ricchi, non per i poveri.

Alla fine di settembre si è tenuta a Genova una sessione del G20 dedicata alle infrastrutture, dove la retorica è grondata doviziosamente. Si è ancora inneggiato al ‘modello Genova’, con cui è stato ricostruito il ponte crollato sulla città, da applicare a tutte le opere previste, nonostante le forti critiche di tanti movimenti, esperti e anche del presidente dell’ANAC.

Per contro,  del disastro infrastrutturale dovuto alla grave carenza di manutenzione non si parla più.
Anzi, il colosso delle costruzioni Webuild (nuovo nome della Salini Impregilovuole accaparrarsi anche la manutenzione di tutte le strade italiane; si rafforzerebbe un monopolio privato, distruggendo un gran numero di piccole imprese che oggi garantiscono il servizio, anche se in maniera insufficiente.

L’emergenza in cui viviamo ha consentito che nel DL 77/2021, all’articolo 44, si prevedessero “semplificazioni” tali da potersi definire deregolamentazione degli appalti e dei processi di approvazione dei progetti.
Nessuno vuol vedere che molti cantieri non sono fermi per la burocrazia, ma per gli errori progettuali dovuti a insufficienti controlli.

Il 30 settembre – il giorno dopo l’incontro tra il governo italiano e Greta Tunberg – un gruppo di qualche decina di giovani ambientalisti a Milano ha provato a fare un presidio al passaggio di Draghi; immediati i manganelli si sono levati in risposta per disperdere i pacifici ragazzi.
Sarà bene ricordare cosa ci dicevano persone come André Gorz e Alex Langer: se non accompagniamo la conversione ecologica con profondi cambiamenti sociali andremo verso una triste forma di ecofascismo.

Qua pare che di ecologico ci sia molto poco, forse ci rimane solo un nuovo fascismo.

Nota: questo articolo è uscito il 10.10.2021 sulla rivista online La Città invisibile dell’associazione perUnaltracittà di Firenze.

Il cantastorie degli anelli

Non amo i gioielli preziosi. Sono pigra, li cambio di rado perché ho paura di perderli, però mi piacciono gli anelli. Gli anelli mi parlano. Raccontano storie. Per me sono il continuum. All’anello associo sempre l’immagine di una catena di ferro che tiene ancorata una nave: tanti grossi anelli di ferro uniti fra loro. Forse è per questo che, per me, gli anelli sono importanti; tenere ancorata una nave non è cosa da poco! Contengono tante storie, una dentro l’altra e questo li rende affascinanti. Credo che un buon artigiano di gioielli sappia che ogni anello debba raccontare almeno una storia perché diventi quello dal quale non ci separeremo e deve saper recuperare nella forma la storia che gli viene raccontata. È capitato così all’anello di cui vi voglio parlare. Il mio amico Matteo lo ha reso speciale, infatti tutti dicono: “ma che bello e che strano che è, dove lo hai preso?”

Era l’anello di mio nonno, il nonno materno che non ho conosciuto, è morto un anno prima che nascessi. Mia madre me lo regalò per i miei venticinque anni di matrimonio; una fascia irregolare d’oro che sulla parte superiore portava impresse le cifre per la cera lacca. Cifre che il tempo ha sbiadito e reso quasi in leggibili. Mia madre dice che ci fosse una C e una R, Carlo Reverdi; la R stava per il cognome della mia bisnonna e già questo me lo ha reso, da subito, simpatico. Portava in sé le tracce delle radici matrilinee e non, come si usa dal concilio di Trento, quelle del padre, e poi la R si adattava bene a me, al mio nome. Si penserà che ho dita tozze e un po’ è vero, si narra, che le sue fossero, invece, bellissime e molto affusolate, e infatti l’anello era piccolo per il mio anulare ma grande per il mio mignolo. L’ho indossato subito. Al mignolo poteva andare anche se rischiavo di perderlo.

Mi ricordava le lettere che il nonno, appena diciottenne, era un ragazzo del ’99, aveva scritto dal fronte. Le avevo lette quando all’università avevamo fatto un corso monografico sulle testimonianze di chi era stato in guerra: la storia raccontata dal basso e non da chi l’ha governata, anche se oggi penso che non si governa la storia, la storia non la fa uno da solo al comando, la storia la facciamo tutti noi insieme, ma allora non si pensava così. Lui faceva parte di un corpo privilegiato, era ufficiale di artiglieria, calcolava la traiettoria dei cannoni. Il freddo, la solitudine, il silenzio della morte, quello sì lo ha compreso e vissuto. Era stato felice di partire, sarebbe andato a salvare la patria e eventualmente a morire compiendo il suo dovere. Alla fine le domande interiori aprivano dubbi e contraddizioni. Raccontavano la complessità conosciuta, vissuta sulla propria pelle e sulla pelle dei compagni.

L’anello l’ho indossato subito, dicevo, e uscita dalla casa materna, sono balzata sulla mia moto. Mentre guidavo sul ponte Monumentale – era una splendida giornata – ho sentito un ticchettio a rimbalzo… Din Din Din. Ho guardato il mio mignolo destro e l’anello non c’era più. Ci sono voluti pochi istanti per realizzare che il din din era dell’anello, ho accostato in fretta e furia e messo il cavalletto alla Vespa. Sono corsa indietro sul ciglio della strada. Confidavo che l’oro luccicasse e rispondesse al bagliore dei raggi solari settembrini. La strada, come la maggiore parte delle strade, era al centro leggermente più alta e digradava sui lati. Mi sono detta che fosse finito vicino al marciapiede, ma c’erano le macchine parcheggiate.

È iniziata una ricognizione che è durata più di un’ora. Ho guardato al centro della strada alla ricerca di un luccichio, ho guardato sotto le macchine, dietro ogni ruota, in ogni angolo buio. Ho iniziato dal lato destro, il lato del senso di marcia, dove mi pareva più logico fosse finito, poi sono passata all’altro lato. A tratti si univa un netturbino e un passante che vedendomi rannicchiata sotto le macchine, mi domandava cosa cercassi. Qualcuno provava ad aiutarmi, ma l’urgenza era mia e poco dopo desistevano, come era giusto che fosse.

Passata un’ora e mezza mi sono detta che dovevo telefonare alla mamma e confessarle la perdita del prezioso ricordo. Lei stava andando all’aeroporto a prendere un’amica, non poteva fare dietro front e mi disse: “se lo hai perso è perché doveva succedere, non ti preoccupare!”. Mi sollevò la coscienza ma io non volevo mollare; cominciai a controllare ogni tombino. Avevo scoperto che, anche se pesante, la griglia dei tombini riuscivo ad alzarla e così sono passata al vaglio di tutti quelli che c’erano. Dopo circa venti minuti si è palesata mia madre con una squadra di amiche tutte ottantenni.

Esilarante, la squadra femminile si mise sulle tracce dell’anello perduto, tanto più che avevano fatto voto a Sant’Antonio! Chi con gli occhiali, chi un po’ sorda, chi zoppicante, tutte decise a ritrovare il cimelio. Sono giunta all’ultimo tombino. Le speranze ormai un lumicino. Il tombino era più profondo degli altri e sul basamento stagnava acqua sporca, impossibile vederne il fondo.

Ho detto a mia madre che dovevano trovare un bastone nella speranza che rimescolando avrei potuto udire un ticchettio. Mia madre si è ricordata di avere una racchetta da sci nel portabagagli e si è diretta verso la macchina; è curioso quanto i portabagagli degli anziani restino pieni di cose impensate!
Ha attraversato in curva a monte della mia Vespa. Poco dopo è tornata sorridendo; tra le mani l’anello schiacciato in piccoli pezzetti. Luccicavano sulla linea di mezzeria proprio nel tratto in cui lei aveva attraversato.

Nessuna di noi aveva pensato di controllare il pezzo di strada a monte dell’improvvisato parcheggio della mia Vespa. Era distrutto. Ma la storia era intatta. Sono andata da Matteo* e gliel’ho raccontata nella speranza che me lo potesse sistemare. Matteo è il cantastorie dei gioielli.  lo ha fatto con la cura dei veri artigiani!  Non potendo riunire i pezzi li ha incastonati su una fascia color argento. Ognuno con la sua forma particolare. Oggi quell’anello mi riporta alla catena che tengono le navi ancorate: tanti pezzi, ognuno con la sua piccola storia; brillano uniti su un unico pezzo e tengono ancorata la mia nave!

* ) Matteo Bonafede orafo e artigiano di San Sebastiano Curone

Il marcio su Roma

Ricordate l’ #andràtuttobene? Non va tutto bene. Il green pass sarà uno strumento discutibile, ed io ne discuto spesso con persone serie che ne contestano la natura e l’efficacia. Tuttavia, sarebbe ora che chi manifesta contro il green pass si organizzasse in proprio affinché il suo dissenso non venisse regolarmente guidato da squadracce di fascisti che, guarda caso, tra tutti coloro con cui potrebbero prendersela, se la prendono con la CGIL.
Sarebbe ora si organizzasse in proprio, anche perché la polizia, spiace dirlo, è stata ancora una volta morbidissima con questa feccia.

L’Italia, Repubblica fondata sull’antifascismo, annovera storicamente tra le forze dell’ordine diversi seguaci di un nostalgico ritorno alle radici e alle pratiche fasciste. Una striscia nera attraversa le nostre istituzioni dal dopoguerra. Gente che non solo non è mai stata allontanata, ma ha fatto carriera. Qualcuno fa addirittura il diplomatico, l’ambasciatore.

Ci sono interi reparti che hanno sprangato nella caserma Bolzaneto manifestanti pacifici ed inermi, durante una notte d’estate del 2001 a Genova passata alla storia come “macelleria messicana”.
In nome dell’anticomunismo, abbiamo avuto Gladio, le stragi neofasciste con depistaggi operati da interi reparti di apparati dello Stato, una loggia P2 che con una mano ha comprato buona parte dell’informazione italiana mentre con l’altra, pare, pagava i neofascisti che hanno messo la bomba alla stazione di Bologna.

Quando vogliono, le forze dell’ordine picchiano, sprangano, torturano, depistano, spacciano (ricordate la caserma dei carabinieri di Piacenza, vera e propria cupola della droga, che era stata appena encomiata per l’alto numero di arresti effettuati?). Quando non vogliono, le forze dell’ordine lasciano fare.
I Black block distruggono la città di Genova impunemente. I fascisti di Forza Nuova assaltano e devastano le sedi della CGIL impunemente. La polizia democratica e repubblicana, spiace dirlo, in questi frangenti sembra essere una minoranza. Magari non lo è: si faccia sentire anche lei, allora.

Cari no green pass, è ora che decidiate da che parte stare. Potete continuare a discettare quanto volete della composizione dei vaccini, anche se a volte prendete pastiglie perché ve le ha consigliate il barista, “con quella sono stato bene subito”. Potete continuare a gridare alla violazione della privacy, anche se tra cellulare e social vi fate tracciare anche le mutande.

Decidere da che parte stare non vuol dire cambiare idea. Vuol dire dividere concretamente la propria posizione da questa gentaglia, prenderne le distanze fisicamente, combatterla sulle strade e nelle piazze, se non volete essere assimilati a loro. Stanno soffocando la vostra voce con il tanfo della merda che hanno nel cervello, stanno piallando le vostre argomentazioni con la violenza delle svastiche tatuate sulle loro braccia.

Gli stolti in buona fede se la prendono col dito, perché non vedono la luna. La feccia in malafede indica il dito perchè non vuole che si guardi la luna. La posizione della CGIL sul green pass è stata talmente attenta a tutte le sensibilità da essere addirittura criticata al suo interno per un presunto eccesso di tolleranza verso gli antivaccinisti.

Eppure quando si tratta di assaltare, di vandalizzare, di colpire con la violenza, l’obiettivo è la CGIL. E io dico “bene”. Vuol dire che questa organizzazione è ancora percepita come un baluardo, forse l’unico rimasto, e quindi da abbattere. Mai come oggi sono fiero di farne parte.

Ricordiamocene, quando a volte, dopo esserci fatti il mazzo per i lavoratori, perdiamo tempo a parlare del nostro ombelico. Non ne vale la pena. Quel che conta è la forza, il presidio del territorio. La feccia lo ha capito, nella sua stoltezza. Ricordiamocene anche noi.

PER CERTI VERSI
Primo ottobre

PRIMO OTTOBRE

Ti ricordi
La scuola
Cominciava
Oggi
Una vita fa
Poi subito a casa
Era il santo d’Italia
Per noi a Bologna
Il santo Petronio
Ti ricordi
Settembre
Spensierato
Pieno di luce
La vendemmia
Moscerini vigne
Il mare lontano
Le domeniche
Di giochi
I meriggi spioventi
Dai cortili
Il pallone

Poi la scuola
Il freddo
Delle mattine
Ricamate di brina
La cartella
Da scoliosi
Ma era bella
Forse in pelle
Maledizione
La merenda in dubbio
Tra la crescenta hausmacht
Il doitc fa più figo
E il mottino
Industria delle 10:00
Già un intrigo
Ricordi
Che non avevamo
Più il grembiule
Eravate belle
Voi bambine
Ma il pallone
Il canestro
Qualche malestro
Ricordi
C’eravamo già
Incontrati
Sull’altalena
Quei giardini
Prima che sorgesse
Viale Lenin
Incontrati
Senza sapere
Che siamo
Come le foglie

Ritorniamo

Vento
In piena

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
[Qui]

Le storie di Costanza /
Ottobre  2060 – Maia-111

I primi giorni di Ottobre sono quasi sempre belli. Ottobre è uno dei mesi migliori per vivere a Pontalba. La campagna sta prende la colorazione autunnale e le foglie delle piante sono un misto di verde, giallo e rosso che incanta. La temperatura è mite, il cielo azzurro intenso. Il Lungone scorre pieno d’acqua perché le turbine che ne incanalano  il corso per l’irrigazione, cominciano a rallentare il loro lavoro. Serve molta meno acqua per i campi di quanta ne serva in estate. Si possono ricominciare a mettere vestiti più pesanti, le scarpe da ginnastica con le calze di cotone che impediscono alla polvere delle stradine sterrate di entrare tra le dita dei piedi e, così facendo, di infastidire le passeggiate. Si può anche andare in giro in bicicletta lungo gli argini e ammirare questa magnifica stagione nel suo pieno splendore.

Mi siedo sotto il portico. Quello della casa dove ho sempre vissuto, in via Santoni Rosa 21 e ripenso agli ottantanove Ottobri che ho visto.  Tantissimi. I primi cinque o sei non me li ricordo bene, ma ricordo tutti gli altri.
Mentre me ne sto seduta suona il cellulare dell’orologio. Schiaccio un pulsantino e sento nitidamente la voce di Bianca, una delle nipoti di Guido. Anche Bianca vive stabilmente a Pontalba. Ha quarantacinque anni e da venticinque abita a Villa Cenaroli perché ha sposato Ludovico Giovanni Della Fontana (detto Lugo) il figlio della contessa Malù.  Lugo e Bianca hanno mantenuto Villa Cenaroli nel suo antico e intramontabile splendore, un luogo bellissimo e senza tempo. Passeggiando per il parco, tra i suoi antichi alberi, non si sa che anno sia. Potrebbe essere il 1980, oppure il 2020, oppure il 2060.  Quel parco è sempre un luogo suggestivo che piace a tutti. Da dieci anni Bianca e Lugo hanno aperto parte del parco al pubblico. Hanno fatto una strada tra gli alberi, un chiosco dove si vende il gelato con tanto di panche di legno e alcuni ombrelloni di paglia, una giostrina con i cavalli, tipo quelle che si vedono a Parigi e che fanno impazzire di gioia i bambini e di sudore i genitori.
“Ciao Bianchina, tutto bene?” dico.
“Ciao Costanza, io sto bene, grazie. Ti ho chiamato perché ho un problema con le ortensie. Hanno le foglie che stanno ingiallendo. Ho paura che abbiano preso un parassita. Quando puoi, passi a vederle?”.“Sì volentieri, ma perché non lo dici al giardiniere?”.
“Preferisco che le veda tu”.
“Ok” le dico.
“Anche Maia-111 non è in forma. Ultimamente mangia poco. Non tritura più le castagne secche degli Ippocastani per poi alimentare i suoi circuiti” aggiunge Bianca.
“Speriamo sia un problema transitorio. Altrimenti chiama il padre di Axilla. Credo che in questi giorni stia lavorando da casa” dico.

La robot Maia-111 è stata costruita apposta per Villa Cenaroli. Contrariamente a molti dei nostri mezzani, non mangia il cibo degli umani ma castagne secche, ramoscelli, foglie ed erba. Non pulisce la casa come molti suoi colleghi ma i sentieri e i ponticelli del parco, le rimesse degli attrezzi, gli argini che trattengono il Lungone nel suo corso nei momenti di maggiore piena. Dà da mangiare agli animali e accompagna i visitatori del parco. Di Villa Cenaroli sa tutto e lo sa raccontare con una dovizia di particolari e una contestualizzazione rispetto al tipo di utenza davvero impressionante. Conosce a memoria la storia della villa, del parco, dei Conti, del personale di servizio, di Pontalba, del Lungone, conosce tutte le varietà di piante e tutte le specie animali presenti nella proprietà.  Sa adattare quello che racconta a chi si trova di fronte. Sa discriminare se sta interagendo con un bambino, con una bambina, con un adolescente, con un adulto, con un italiano, con un anziano e così via. Sa fare domande profonde e circostanziate che l’aiutano a capire le caratteristiche e le preferenze della persona che ha di fronte in modo da costruire una narrazione di ciò che si sta osservando il più possibile consona alle caratteristiche del visitatore. E’ un robot-111 straordinario e preziosissimo. E’ costato a Ludo e Bianca una fortuna. Ma l’investimento è stato ampiamente ripagato, sia per la quantità di lavoro che Maia-111 sa fare, sia per le modalità in cui lo fa. Sa essere gentile, diplomatica, accogliente, divertente, colta, buffa, chiacchierona o, al contrario, silenziosa. E’ anche bellissima.  Deve il suo nome a una stella. La stella Maia (nota anche come 20-Tauri) è una stella della costellazione del Toro. Si tratta di una delle componenti dell’ammasso aperto delle Pleiadi e si trova ad una distanza di circa 440 anni luce da noi. Il suo nome proprio deriva dalla figura di Maia, una delle Pleiadi mitologiche.

Quale nome migliore per un Robot-111  che vive a Villa Cenaroli?.
Maia-111 è longilinea.  Alta un metro e cinquanta, ha braccia lunghe e, contrariamente a quasi tutti i nostri mezzani, ha anche le gambe. Gli arti inferiori le sono stati costruiti con un duplice obiettivo: uno estetico (sembrare bella),  uno pratico (le gambe le permettono di muoversi nel parco della villa senza inciampare negli arbusti e nei rami secchi, le permettono di muoversi sulla superfice sconnessa del parco con agilità e anche di entrare in acqua bassa senza danneggiare i suoi circuiti meccatronici che sono tutti posizionati nella parte alta del suo corpo). Ha gli occhi verdi scuro come le foglie estive degli ippocastani ed è interamente verniciata d’oro.
Questa mezzana d’oro è un’attrazione di Villa Cenaroli tanto quanto lo sono i castagni, i cigni e la giostra coi cavalli. Fa parte delle figure animate che danno vita a quello spettacolo unico, fuori dal tempo che si vede entrando in quel parco curato e senza rumori meccanici (si sentono cinguettii, squittii, il rumore delle foglie che friniscono quando c’è il vento, il rumore dei rami secchi che scricchiolano).

Una volta ho assistito ad una scena che mi ha colpito. Maia-111 si è messa a giocare a nascondino con  Ulisse, il bambino di uno dei giardinieri.
Il bambino si nascondeva e Maia-111 lo cercava. Quando lo trovava diceva “trovato, trovato!” e poi rideva, cioè imitava un umano che ride. Come fanno i robot-111 a ridere? Esattamente non so, ma lo sanno fare.
Sembra che si divertano, che abbiano senso dell’umorismo. Sono sicuramente dotati di auto-riflessività. Sanno fare considerazioni sul tempo che passa, sul fatto che forse domani pioverà o forse no. Ma sanno anche amare?. Non so. Gli ingegneri del centro Trescia-111 dicono di no. I nostri mezzani sono fatti di circuiti meccatronici che imparano per imitazione, si comportano in maniera riflessiva rispetto ai processi imitativi che hanno introiettato, cioè scelgono la reazione più consona allo stimolo che hanno potuto osservare. La consonanza viene definita in basa a un meccanismo per prove e errori che non ha niente di “sentimentale”. Gli ingegneri di Trescia-111 dicono che i robot-111 riescono a riprodurre dal punto di vista comportamentale, attraverso l’applicazione pratica di principi che provengono dalla logica formale, quello che noi proviamo, i nostri sentimenti, le nostre reazioni emotive, ma non le provano loro, semplicemente le imitano.
Resta il fatto che questa imitazione si riversa su di noi come se fosse un sentimento esperito esattamente come lo esperiremmo noi, come noi lo proviamo. Del resto la differenza tra ciò che sembra e ciò che è, non si esaurisce in una definizione lineare. Ciò che sembra orienta il mondo. La ricerca della consonanza tra ciò che sembra e ciò che è alimenta il senso della vita.

Gli ingegneri di Trescia-111 dicono che i mezzani non provano dolore, non soffrono, non amano in maniera altruista, ma sembra che lo sappiano fare, lo sembra al punto che molti umani si comportano ormai come se così fosse. Questa sovrapposizione tra ciò che sembra e ciò che è (una specie di sentimentalismo di ritorno alimentato elettronicamente), sta generando una deriva (preoccupante) di alcuni comportamenti e di alcune relazioni. Portando all’estremo questa riflessione e uscendo dalla dicotomia sempre più incerta umano-robot, mi chiedo da chi mai potrebbero imparare l’amore altruista i nostri robot-111 se anche noi umani non lo proviamo, non lo sappiamo insegnare, non lo riconosciamo negli altri e non lo individuiamo in nessuno (credo che sia proprio questo uno dei motivi per cui la dicotomia umano-robot andrà sempre più ad ibridarsi). Questo potrebbe tradursi in un grave problema.
A volte ho anch’io l’impressione che ci sia qualcosa che ci sta sfuggendo di mano, che ci siano ibridazioni “al limite” che, seppur indotte, cambieranno la vita di tutti. Io ho visto Maia-111 giocare a nascondino con Ulisse e se non fosse stato per la poca lunghezza delle gambe di Maia e perché ha il colore di una stella cadente, avrei avuto l’impressione che lei si stesse divertendo. Che lei stesse provando gioia, per la precisione.
Sono quasi sicura che continuando su questa strada, ad un certo punto, innamorarsi di un Robot-111 sarà tutt’altro che impossibile, ma così facendo che fine farà l’umanità? o meglio, come diventerà?

Costanza e il suo mondo sono solo apparentemente diversi e distanti dal mondo che usiamo definire “reale”, e quasi sovrapponibili ad ogni mondo interiore. Chi fosse interessata/o a visitare gli articoli-racconti di Costanza Del Re, può farlo cliccando [Qui]

PRESTO DI MATTINA
Francesco

Oggi non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca”: l’espressione di papa Francesco, ripetuta ormai tante volte va sempre ricondotta, compresa ed esplicitata nel contesto del suo magistero pastorale orientato verso «una riforma della chiesa in uscita missionaria» (EvG 17) nel solco tracciato dal Concilio Vaticano II:

«La Chiesa “in uscita” è una Chiesa con le porte aperte… Usciamo, usciamo ad offrire a tutti la vita di Gesù Cristo: preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza è che tanti nostri fratelli vivono senza la forza, la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita» (EvG 46 e 49).

Un cambiamento di paradigma quello del Concilio, iniziato con la ricerca di unità tra le chiese e di anelito alla pace mondiale; un nuovo inizio caratterizzato dall’assunzione della storia come modello epistemologico, da un ritorno alle fonti cristiane, da un linguaggio ecclesiale e teologico rinnovato per riprendere il dialogo con il mondo, così da partecipare ai destini degli uomini e delle donne del nostro tempo, e «dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono» (Gs 1).

La luce della fraternità, allora, non è che l’ultimo tratto di cammino, articolato, faticoso e non privo di ripiegamenti, ma in ripresa, giunto fino a noi per lo più come il percorso di un “fiume carsico”. Un cammino che ora chiede di continuare, di essere portato alla luce nella nostra vita all’insegna della «fraternità, che è uno dei segni dei tempi che il Vaticano II porta alla luce, è ciò di cui ha molto bisogno il nostro mondo e la nostra Casa comune, nella quale siamo chiamati a vivere come fratelli» (Francesco, prefazione a M. Czerny, Ch. Barone, Fraternità “segno dei tempi”. Il magistero sociale di Papa Francesco, OR 28 09.2021, 8).

«Il Concilio Vaticano II [Qui] ha presentato la conversione ecclesiale come l’apertura a una permanente riforma di sé per fedeltà a Gesù Cristo». Tale riforma implica ed esige una pastorale “in conversione”; nelle persone e nelle strutture occorre ri-seminare il lievito della novitas evangelica: «Senza vita nuova e autentico spirito evangelico, senza “fedeltà della Chiesa, alla propria vocazione”, qualsiasi nuova struttura si corrompe in poco tempo».

Il sogno di Francesco d’Assisi trova risonanze nel papa, che ha voluto prendere il suo nome: «Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione» (EvG. 26-27).

Una riforma che ridoni una fede non solo trasmessa nei suoi contenuti, ma resa creativa e operante nel praticarla. Una “ortoprassi” per riunire la fede alla vita. Una fede che non si esaurisca nella sua enunciazione, ma che apra alla realtà e nella realtà del vissuto trovi accresciuto dinamismo e compimento. Ciò che si crede ed è offerto al credente – i contenuti della fede cristiana ‒ restano inanimati, lettera morta senza il respiro di una fede vivente.

C’è un vangelo nascosto in tante persone; vi è un Gesù che vive e abita in tante situazioni, vicine e lontane, di emarginazione ed esclusione, che chiede di essere incontrato. Osare incontrarlo in questi inospitali luoghi esistenziali porta a trovare ‒ come accadde a Francesco ‒ una vita nuova: «Il Signore dette a me, frate Francesco, d’incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo» (FF 110).

Essere “in uscita”, andare “incontro” a un cambiamento d’epoca, comporta allora un confronto serrato con il vangelo e con la diversità d’altri. Il tutto senza sottrarsi ed anzi accettando un combattimento spirituale generativo di una mutazione interiore: un cambiamento di mentalità, di prassi, di cuore; uno sguardo che parta dagli occhi dell’altro e faccia propri i suoi intendimenti, aspirazioni, attese e non già un adattamento esteriore, superficiale, per procura.

Altrimenti gridare al cambiamento diventa solo uno slogan da sbandierare, un atteggiamento di maniera, sterile, un gattopardismo clericale privo di quella autentica «conversatio cum pauperibus» che caratterizzò la conversione di Francesco, il suo volgersi verso l’altro, l’andare incontro, il trattenersi con e praticare il fratello, specie se povero.

Ci troviamo ad un valico, ad un mutamento di scenario. Stiamo attraversando il crinale che accede ad un altro versante. Un mutamento non dissimile da quello vissuto dal popolo di Israele entrando nella terra promessa. Che, per noi, ora, è una nuova terra di fraternità, nell’orizzonte del perseguimento della pace attraverso vie di giustizia e di riconciliazione.

Anche al tempo di Francesco si era sulla linea di faglia tra un “prima” e un “poi”, come di fronte a uno spartiacque. Pure il figlio di Pietro Bernardone e di donna Pica di Bourlemont, la città di Assisi, l’Italia, l’Europa, il papato e la chiesa nel XII e XIII secolo attraversarono un cambiamento d’epoca.

La chiesa gerarchica andava verso uno scollamento con la gente, con il popolo. Sempre maggiore diveniva la distanza tra ecclesiastici e laici, docenti e discenti; i vertici ecclesiastici sentivano sempre di più come una minaccia la scelta pauperistica degli innovatori, tanto che le loro opzioni evangeliche venivano considerate eretiche per via della loro autonomia e forza di contestazione dell’apparato ecclesiastico: una pasta senza lievito evangelico perché priva dell’opzione preferenziale per i poveri.

I prelati assomigliavano a ministri di una religione più che a servitori del vangelo. Il suo annuncio e la vita “vere apostolica” insita nella stessa dignità e missione battesimale di ogni cristiano era come requisita dai letterati e dai teologi, da prelati ed alto clero.

Scriveva un caro amico nei primi anni del post-concilio: «Come parliamo bene, anche con le idee del Concilio! Come torna viva l’impressione di soffocare in un ambiente chiuso, rimanere nei nostri ambienti di Chiesa. Non abbiamo distrutto il nostro complesso clericale, di “separati”. Lo abbiamo solo reso più sottile e inattaccabile, rivestendolo di grandi e belle idee. Mi pare che stiamo adottando molta “tecnica” di apostolato (lezioni teologiche, equipe e commissioni di lavoro), ma non diamo sufficiente importanza alla “profondità umana”. Stiamo calando una rete ben lavorata, senza preoccuparci di esplorare il mare, pazientemente, lungamente, silenziosamente. Ci consideriamo troppo al servizio della Verità, della Parola, senza scrutarne le strade che passano per il cuore, senza vederne la carne viva. Siamo fuori dall’umile, dolorosa avventura umana».

Proprio immergendosi nella cruda realtà del suo tempo fuori delle mura di Assisi Francesco scoprì per la prima volta l’esistenza del mistero e della presenza nascosta di Dio tra gli ultimi. Il dio denaro, il dio potere era caduto; il suo idolo come Golia era stato abbattuto dall’inerme forza dei poveri che gli avevano dischiuso la novitas evangelica.

Anche allora la riforma della chiesa in uscita missionaria corrispose alla riproposizione in un contesto certamente diverso della novità e della letizia del Vangelo: quella alegría del Evangelio [Qui] di cui scrive papa Francesco riattualizzando la “perfetta letizia” di cui parlò il primo Francesco.

La predicazione di san Francesco e dei suoi primi compagni contribuì senza dubbio allo sviluppo del movimento penitenziale, ma favorì la diffusione del vangelo tra la gente: «Dio, nella sua misericordia, ci ha scelto non solo per fare la nostra salvezza, ma anche per salvare molte anime».

Servì a porre su una nuova rotta il cammino dell’evangelizzazione: costrinse le guide della chiesa a rivolgere l’attenzione e l’annuncio della salvezza promessa dal vangelo non solo all’interno della cristianità, ma anche fuori. Un’irradiazione irresistibile verso agli altri si dischiudeva nel futuro della chiesa; non era più tempo di pensare solo a se stessi, a un cambiamento individuale in vista della propria salvazione. Il cuore e la mente andavano rivolti a tutti, in ragione di una fratellanza universale.

“Fratelli tutti” scriveva nelle ammonizioni san Francesco (FF 155). Parole riprese da papa Francesco, per il quale occorre partire da Assisi «al fine di pensare e generare un mondo aperto… un cuore aperto al mondo intero» (FT 87+ e 128+):

«“Fratelli tutti”, scriveva San Francesco d’Assisi per rivolgersi a tutti i fratelli e le sorelle e proporre loro una forma di vita dal sapore di Vangelo. Tra i suoi consigli voglio evidenziarne uno, nel quale invita a un amore che va al di là delle barriere della geografia e dello spazio. Qui egli dichiara beato colui che ama l’altro “quando fosse lontano da lui, quanto se fosse accanto a lui” (FF125)».

Se fu l’eremitismo a rendere evidente la crisi in atto e l’esigenza di un mutamento necessario, segnalando con forza il profondo disagio che serpeggiava nella chiesa istituzionale e nello stesso monachesimo in ordine alla loro missione, mostrando l’inadeguatezza del corpo terreno di Cristo a reggere la spinta che veniva dal vangelo, furono «gli ordini mendicanti, soprattutto i francescani e i domenicani, [che] esercitarono un’enorme influenza sul laicato e sulla vita religiosa delle masse: attraverso la loro attività pastorale, di costante assistenza, presenza e predicazione, e attraverso l’organizzazione di gruppi di penitenti, di confraternite, di congregazioni pie, che formarono ed orientarono secondo linee unitarie ed organiche la pratica religiosa dei fedeli». (G. Miccoli, La storia religiosa in La storia d’Italia, 2/1 Einaudi, Torino 1974, 793). Furono essi che diedero forma e attuarono la realtà di una chiesa in uscita missionaria.

Scrive ancora lo storico Giovanni Miccoli [Qui]: «Con gli ordini mendicanti la “vita vere apostolica” troverà una sua precisa collocazione anche all’interno dell’istituzione ecclesiastica, riuscendo in qualche modo a comporre con le linee di fondo di una presenza religiosa ed ecclesiastica costruitasi attraverso una secolare tradizione, alcuni elementi di quella novitas evangelica e pauperistica che era stata alcuni decenni prima violentemente denunciata e combattuta dai suoi avversari…

Le parole che Bonaventura [Qui] mette in bocca al cardinale di San Paolo per rompere le esitazioni e gli indugi del papa e della curia di fronte alla novitas del propositum di Francesco, molto probabilmente non sono state dette veramente così. Ma restano ugualmente espressive del clima mutato, della consapevolezza della necessità di una più duttile e articolata risposta nei confronti delle istanze evangeliche e pauperistiche, che si era fatta strada negli ambienti ecclesiastici:

“Se respingiamo la richiesta (Regola di vita) di questo povero come troppo ardua e nuova, mentre ci chiede di confermargli semplicemente la vita evangelica, dobbiamo temere di offendere il Vangelo di Cristo. Se infatti qualcuno afferma che nell’osservanza e nel voto della perfezione evangelica c’è qualcosa di nuovo o di irrazionale o di impossibile ad osservarsi, è evidente che bestemmia Cristo, autore del Vangelo”» (Francesco d’Assisi. Realtà e memoria di un’esperienza cristiana, Einaudi, Torino 1991, 22-23).

Iniziò così un lento e cauto determinarsi di aperture, disponibilità e una nuova consapevolezza nella chiesa circa il cammino da intraprendere per ampliare l’orizzonte al bene dell’evangelizzazione.

«Chiesa, riforma, vangelo e povertà» non costituiscono allora solo una legatura decisiva nella storia religiosa del XII secolo, ma anche per quella carovana di viandanti dell’ekklesia di oggi:

Viandante, sono le tue impronte
il cammino, e niente più,
viandante, non c’è cammino,
il cammino si fa andando.
Andando si fa il cammino,
e nel rivolger lo sguardo
ecco il sentiero che mai
si tornerà a rifare.
Viandante, non c’è cammino,
soltanto scie sul mare.

E il salmista mi rincuora che non è solo poesia. Nascosto in essa è il mistero che si fa presente e reale nell’esodo di un popolo, di tutti i popoli migranti e nel cammino errante di una chiesa e di ciascuno: «Sul mare passava la tua via, i tuoi sentieri sulle grandi acque, e le tue orme rimasero invisibili. Guidasti come gregge il tuo popolo per mano di Mosè e di Aronne» (Sal 76).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

DARK KITCHEN & SMART FOOD
il Covid ha cambiato il rapporto con il cibo

 

 Termini come dark kitchen, ghost restaurant, cloud kitchen, smart food, alludono ad alcuni dei cambiamenti in atto nella ristorazione e ad una crescente diversificazione della stessa.
Le dark kitchen sono in sostanza cucine senza servizio, in pratica ‘senza ristorante’. I cibi preparati vengono consegnati a domicilio. I vantaggi: la riduzione delle spese per il personale, gli spazi e gli arredi

Il Covid-19 ha contribuito a cambiare anche il rapporto con il cibo. La pausa pranzo – come i tempi e le forme di lavoro – è stata in questi mesi desincronizzata.

Emergono nuove forme alimentari sostenute da traiettorie di vita sempre più individualizzate.
La cultura della mono porzione, nel contempo, soddisfa la sensibilità contro lo spreco di cibo, mentre ogni anno ben 1,3 miliardi di tonnellate vanno nella spazzatura. Uno spreco che pare destinato a persistere: si stima che nel 2030 si arriverà a gettare via 2,1 tonnellate di cibo.

Come si inserisce la pandemia negli orientamenti di consumo alimentare?
L’industria del cibo d’asporto tende a soddisfare la crescente domanda di consegne a domicilio in grado di offrire una buona qualità associata ad un’individualizzazione radicale dell’offerta che risponde ad una fruizione sempre più individualizzata.

Il fenomeno dell’individualizzazione della ristorazione è, peraltro, in atto da alcuni anni. Le motivazioni sono molteplici e vanno dalla personalizzazione delle preferenze alla crescente varietà organizzativa nella vita quotidiana.

Nel lavoro si è imposto lo smart work, con le più varie forme di rapporto tra vita personale e familiare e vita lavorativa. Il Covid, insieme ad un parallelo percorso di innovazione tecnologica, ha indotto un processo di individualizzazione

Le tecnologie alimentari (che riguardano i prodotti e il confezionamento, cioè la diffusione delle porzioni alimentari) sostengono in varie forme l’individualizzazione del rapporto con il cibo. Pensiamo, ad esempio, all’introduzione di prodotti semi-pronti o semi-lavorati, oppure ai forni elettrici per ultimare la cottura e mantenere la temperatura durante il trasporto.

Numerosi sistemi, introdotti su larga scala, confermano la tendenza in atto: menu digitali, sistemi di prenotazione online, self-ordering, etc. I nuovi dispositivi per la gestione degli ordini riguardano la gestione dei turni del personale, la fatturazione, i rapporti con i fornitori, i pagamenti etc. E riguardano inoltre la presentazione dei prodotti e le azioni di marketing relative.

In particolare, accanto a piattaforme che riguardano la distribuzione emergono piattaforme digitali. Ciò è il risultato sia dello sviluppo dell’e-commerce, sia della domanda alimentare sostenuta dai consumatori.

Per qualche tempo il fast food è stato descritto come un cibo di minore valore rispetto a quello cucinato secondo protocolli definiti dalla tradizione. Ad esempio, la pizza sintetizzava l’idea di velocità e l’asporto era correlato ad un modello di ristorazione veloce di basso profilo.
Mentre la ristorazione acquista importanza nella vita quotidiana, le piattaforme di consegna di cibo online stanno espandendo la scelta e la convenienza, consentendo di ordinare con un solo tocco del telefono cellulare.

Si sono diffuse nuove app dedicate al delivery. Questa tendenza aumenterà ancora. Per inciso, si tratta di locali che devono ancora trovare una loro chiara, specifica cifra comunicativa. Va ricordato, infatti, che le persone si recano ad un ristorante anche per la sua qualità estetica ed esperienziale. Il ristorante consente un’esperienza che non si limita solo alla qualità del cibo. L’età media degli appassionati si sta abbassando e riguarda in particolare la fascia over 35.

D’altro canto, mentre la tradizione era fino a ieri imperante, ora si affermano nuove tendenze, come la tendenza al crudo e le cotture dolci della cucine giapponesi di moda da qualche anno. Si afferma la cucina fusion: mai come oggi si assiste ad un utilizzo massiccio di ingredienti esotici e tradizionali.

Per leggere gli altri articoli della rubrica di Maura Franchi Elogio del presente [clicca Qui]

Parole a capo
Yuri Ferrante: tre poesie inedite

Non leggete, come fanno i bambini, per divertirvi, o, come fanno gli ambiziosi per istruirvi. No, leggete per vivere.
(Gustave Flaubert)

A cosa serve un cielo infinito

A cosa serve un cielo infinito
se nemmeno saltando arriviamo a tre metri?
Forse ad alzare il collo
guardare in alto
dove noi non siamo,
lo spazio che mai toccheremo.

Laggiù, in direzione del fiume
ci sono tuoni, qualcuno correrà
sotto la pioggia, in mezzo ai salici.
O magari saranno già al riparo
dietro una finestra
asciutti, al sicuro.

Un altro cielo sulle loro teste
un’altra vita, un’altra storia.
Così di fronte all’infinito
non serve a molto chiedere “ancora”.
Basterebbe respirare, vivere.
Ora.

 

Ti ho vista cercare il vento

Ti ho vista cercare il vento alla fine della strada
ma vedi, lui c’è sempre
ovunque tu vada.
A volte si acquatta sotto i marciapiedi
si sdraia sui rami più alti
si nasconde tra le piume degli uccelli;
poi ad un tratto bussa alla finestra
o nel cammino ti sorprende.

Non preoccuparti per il vento
non si perde,
sa osservarti tra le fronde
sa baciare la tua pelle.
E se ne senti la mancanza
allora esci, apri le braccia.
Da qualche parte il vento vola
e può volare
anche per te.

 

Esseri, essere

Noi, esseri minori
usiamo le parole
perché non capiamo
quello che è già
scritto su un corpo
o dipinto su un volto.
Noi ci spaventiamo
quando sulla pelle
affiora un segnale;
la certezza
di essere a noi sconosciuti.

Yuri Ferrante (Modena). Tra le sue passioni c’è sicuramente la lettura di poesia e narrativa.
Nel 2021 ha pubblicato alcune poesie in una raccolta dal titolo L’attesa (edizioni Placebook). Gestisce la pagina Facebook Parole Sparse dove sono raccolti testi di vari autori.
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Vite di carta /
La festa di San Michele

 

Di mercoledì è caduta quest’anno la festa del patrono a Poggio Renatico. Ho girato in lungo e in largo nella piazza e nelle vie vicine, occupate rispettivamente dalle giostre (noi non le chiamiamo luna park) e dalle bancarelle del mercato.

C’era proprio tutto concentrato in un solo giorno, d’altra parte “a sèn par San Michél” avrebbe detto un vecchio del paese, se lo avessi incontrato. La tradizione è tradizione e io, oltre al giro del centro, non ho fatto mancare i tortellini e il lesso sulla tavola.

Vista così, come da lontano, la sequenza che descrive la giornata di festa è conclusa. Chi legge intuisce che la giornata è stata gradevole e non priva di momenti di tenerezza. In realtà c’è molto di più da riportare: sono successe tante cose dentro, tante da far pensare alla ricchezza di certe giornate, allo spessore dato loro da un mondo di pensieri che fanno sintesi di noi.

Procedo allora in soggettiva, mi muovo nel tempo della giornata e negli spazi della fiera, facendo uscire le parole all’altezza degli occhi, come da una cinepresa. “Tutta la magia della fiera” secondo Corrado Govoni [Qui] è racchiusa in una “trombettina”.

È mattina e io faccio l’ingresso nella via principale trovandomi davanti la bancarella che espone le nuove felpe autunnali. Il primo passo è per andare sotto a quelle appese e guardare che colori hanno anche dietro e se c’è il cappuccio.

Il secondo mentre mi giro e mi sento tutta curiosa per i nuovi arrivi, con addosso la gioia che da sempre mi ha trasmesso mia madre per i vestiti e i vestitini del mercato: è il passo che mi mette davanti due persone che avanzano a braccetto.

Lui conduce lei, che fa piccoli passi barcollanti. Quando siamo a pochi centimetri di distanza la mascherina che indossano non me li nasconde più: lei è stata per anni la mia compagna di tennis, più giovane e più forte di me, ma ora mi saluta con una voce di bambina e si aggrappa al braccio del marito per non cadere. Ha occhi accesi dalla luce di questa mezza vita che le rimane.

Due lockdown mi hanno tenuta nascosta la sua malattia e ora concepirla così, in un solo momento, mi fa tremare la voce mentre le rispondo. Spero che non se ne sia accorta, e forse è così.

Un passo dopo mi appoggio alla scena riposante di due amiche che bevono il caffè al tavolino della pasticceria e mi invitano. Accetto di sedermi con loro e butto fuori l’emozione violenta, mi scuso anzi per il breve sfogo e cerco di esorcizzarlo parlando d’altro; bastano i cinque minuti di un caffè per mettere in circolo mille piccoli argomenti. Ci lasciamo con un po’ di battute spiritose.

Vado avanti e di nuovo mi smarrisco, ora che sono di nuovo sola, non so a cosa riconoscere una qualche importanza, se alla spesa da fare o al camminare meccanico, che mi sta portando dentro la piazza.

In questo mattino “andando in un’aria di vetro” ho già visto troppo. Come accade nella poesia di Montale [Qui], spero che “poi, come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto/alberi, case, colli per l’inganno consueto”.

La ripenso in questa chiave la poesia in cui Montale vede per un istante il miracolo del nulla dietro le spalle e poi lo tiene dentro di sé come un segreto, anche quando le cose concrete tornano a disegnare la maschera della realtà all’intorno.

Decido di entrare nel bar, che è a due passi e gioco la schedina del Superenalotto: oggi non spero di vincere una buona somma; oggi ho bisogno di pensare che qualcosa possano i numeri, che sconvolgano le carte sul tavolo e cambino la destinazione a cui siamo avviati. Il senso di impotenza e di una accettazione impossibile, prima, mi ha schiacciata.

E’ pomeriggio e siamo tornati in piazza con i bambini, i nostri nipotini di cinque e tre anni, a cui abbiamo fatto la sorpresa dopo averli presi dalla scuola: ci sono le giostre! Salgo con loro sul Bruco Mela e tra salite e discese diventiamo un coro che ride e lancia grida di paura un po’ finte e un po’ no.

“Il fanciullino” che è in me, col nome che gli ha dato Pascoli [Qui], è a suo agio. Mi torna addosso tutta l’infanzia con lo stesso entusiasmo di quando salivo sulla Giostrina con le amiche, oppure guidavo la vettura dell’Autoscontro, avendo accanto mio padre che premeva per me troppo piccola il pedale dell’avvio. Ora sono in alto sul Bruco, come su un drone che domina la piazza: vedo le persone dall’alto, ecco mio marito (“il Nonno”) proprio qui sotto, vedo il mosaico intero dei colori e delle forme in movimento.

Quante volte ho sentito da quassù un minuscolo singulto di potenza. Da piccola a volte ho vinto la gara sui Dischi Volanti e sono rimasta in alto ad aspettare l’inizio del giro seguente. Ho ricondotto a quell’immagine altri punti alti della vita, magari conquistati con sacrificio e impegno, ma non più intensi di quello, dell’avere vinto un giro di giostra.

Ho accompagnato volentieri l’estro dei bambini, che dopo un po’ hanno scelto giostre diverse. Ho pensato che nel divertimento ognuno di loro sentisse di essere singolarmente messo alla prova, come è capitato a me. Di voler dimostrare coraggio, di volere tentare una giostra nuova con un misto di paura e di senso dell’avventura.

La sera dopo cena ho fatto quattro passi con mio marito: quattro soltanto perché la fiera con poca gente in piazza pareva davvero “decomposta” come la definisce Govoni e venata di malinconia.

Ho ripensato anche ai primi versi di uno dei sonetti più famosi di Ugo Foscolo [Qui], quello in cui il poeta sente la vicinanza tra la pace della sera e l’eterno ed esordisce con queste parole: “Forse perché della fatal quiete/tu sei l’immago, a me sì cara vieni,/o Sera!”

Nel languore della fiera che finiva mi hanno riportato il senso dell’eterno per come lo conosco, quello dei tanti che c’erano e ora non sono più. A cominciare dai miei. Tutti rivisti per un attimo in questo spazio sospeso tra gioco e malìa: chi ai bordi delle giostre vocianti, chi al riparo sotto i portici in un remoto San Michele di violenti acquazzoni, chi a pavoneggiarsi per il vestito nuovo spianato per l’occasione.

Nella canzone Tutti qui Claudio Baglioni [Qui] dedica una strofa alla medesima sensazione:  “Tutti qui, tutti qui/i miei passi all’assalto/delle strade di nubi e asfalto/Tutti qui i miei sguardi/oltre il cielo in un salto/per vederlo una volta dall’alto”.

Mi piace per il senso di adunata generale: eccole tutte le persone che hanno costruito il nostro passato uno strato sopra l’altro. Ecco il tempo grande che abbiamo dietro di noi e quello piccolo che rimane; Baglioni lo esprime ricorrendo alla misura dello spazio: ”Tutti qui, tutti qui/ i miei viaggi che vago/ per quel mare che ormai è un lago”.

I testi poetici da cui ho tratto le citazioni sono:

  • Corrado Govoni, La trombettina, in Il quaderno dei sogni e delle stelle, Mondadori, 1924
  • Eugenio Montale, Forse un mattino andando in un’aria di vetro, in Ossi di seppia, Piero Gobetti Editore, 1925
  • Ugo Foscolo, Alla sera, dai Sonetti, in Opere, Le Monnier, 1985
  • Claudio Baglioni, Tutti qui. Collezione dal 1967 al 2005, Sony BMG, 2005

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari della rubrica di Roberta Barbieri clicca [Qui]

VIVA LA PRESENZA, MA BASTA DEMONIZZARE LA D.A.D.

Come si trattasse di un animale mitologico o di un oggetto alieno, dai social e dalla stampa nazionale si leva il coro contro la D.A.D. La D.A.D. che spersonalizza il rapporto docente allievo, che tiene i ragazzi davanti allo schermo, che limita le interazioni sociali.
La D.A.D. come disegno oscuro di quel qualcuno di cui non si sa mai né nome, né intenzione.

L’imperativo categorico ora è la presenza a scuola e negli uffici.
La presenza come antitesi alla D.A.D dunque, nel variegato mondo della scuola. Una presenza liberatrice.
Sorge la domanda: ma dietro a quei pc chi c’era? Chi si è trovato da un giorno all’altro ad inventarsi soluzioni per non abdicare totalmente al proprio dovere di istruire? Non era presenza quella? A sentire molti no, tutti fantasmi, ologrammi.

Chi scrive, pur lavorando a scuola da quasi quarant’anni, non ha certo gli strumenti per dare una valutazione complessiva dei risultati ottenuti con la didattica a distanza, ma una cosa è certa: la D.A.D. è stata organizzata, progettata e svolta da dirigenti ed insegnanti reali, in carne ed ossa; anche da quelli che ora la indicano come male assoluto.

E’ ribadire l’ovvio che il lavoro a distanza era l’unica risposta possibile durante il picco della pandemia. Non è altrettanto ovvio che il ritorno alla presenza risolva gli stessi problemi individuati nella D.A.D.
I docenti che non erano in grado di coinvolgere gli allievi, difficilmente saranno miracolati dalla ‘presenza’.
Per quanto riguarda invece la socializzazione dei ragazzi, credo che nessuno possa negare che si fosse in gran parte spostata in Rete ben prima del Covid.

Ben venga quindi (quando avverrà) il ritorno alla normalità, ma dispiace che si demonizzi un’esperienza che ha sicuramente ridotto il digital divide [Vedi qui]  con gli altri paesi europei e che in molti casi ha indotto i docenti a cambiare strategie, riflettendo sul loro metodo e sulle loro pratiche.

The Joker
un racconto

 

Il mio problema è di essere egocentrico per eccellenza, e non ho mai sopportato l’idea di avere una vita, come dire, normale.
Oddio, essere un comune mortale mi avrebbe demoralizzato e giuro che se lo fossi stato, oggi non sarei qui a parlare con voi.
“Certo, staresti in un normale ufficio, a fare il tuo normale lavoro, onestamente come i comuni mortali!”
“In ogni caso non ci starei in quel dannato ufficio, sarei morto, mi sarei ucciso con le mie stesse mani! Invece i giornali hanno parlato di me, e domani ci saranno centinaia di articoli che parleranno di me!”
“Credi di essere una grande celebrità?!”
“Lo sarò!”
“Non credo che ci sia motivo di vanto per quello che hai fatto!”
“Lo sarò! Questo mi basta!”
“Tu sei pazzo!”
“No, sono egocentrico!”
“Credi che questa sia una giustificazione? Credi che questo sia un buon motivo per rapinare decine di locali?”

So solo che mi divertivo da matti, era il momento più bello della mia giornata:

“Signori e Signore, Ladies and Gentlemen questo è il mio show quotidiano, quindi, mi raccomando, tutti concentrati su di me!”
Poi sceglievo una persona a caso, solitamente una persona poco robusta o che aveva la possibilità di sfuggire alla mia visuale.
“Tu, vieni qui!”
La persona si avvicinava ed io gli consegnavo una busta nera.
“Svuota il registratore di cassa e metti tutti i soldi qua dentro. E muoviti!”, gli urlavo.
Non avevo preferenze nello scegliere i locali, andavo ‘a fiuto’. A volte entravo nei locali
senza un programma definito, di preciso in mente avevo solo l’inizio e la fine, il resto veniva da sé.

Avevo sempre avuto la fissa per quella maschera maledetta.
Comprai tutto: la crema bianca, il rossetto rosso fuoco e la matita nera.

“Signori state fermi e giuro che non vi succederà nulla.”
Puntavo la pistola contro la persona che avevo scelto per raccogliere i soldi e gridavo: “Tu, sbrigati se non vuoi avere una lapide al cimitero!”
Era tutto questione di minuti, quattro, al massimo sei quando erano locali con due o tre registratori di cassa. In quel caso le persone designate erano due, ma cercavo di evitare questo tipo di posti, perché spesso avevano delle telecamere a circuito chiuso, pronte a mettermelo nel culo.
“Allora ti sbrighi!” gridavo alla persona che stava raccogliendo i soldi.
Ma questo accadeva raramente perché la pistola puntata contro metteva il pepe nell’anima!
Dopo i calcolati quattro o sei minuti, la persona mi si avvicinava tremante con la busta di soldi tra le mani.
“Adesso mettiti buono in quel posto e non muovere il culo fino a quando non sarò uscito da questo posto di merda! Chiaro?”
La persona eseguiva senza obiettare, poi davo uno sguardo completo al locale per vedere se mi era sfuggito qualcosa o qualcuno, per sapere come comportarmi fuori.
“Signori e Signore, Ladies and Gentlemen, spero che lo spettacolo vi sia piaciuto, e che vi comportiate allo stesso modo se avrete il piacere di assistere ad un altro mio show!”

Dopodiché avveniva la parte più rischiosa della scena, perché poteva sfuggirmi tutto di mano, ma nulla avrebbe avuto senso senza quel gesto in cui scaricavo tutto me stesso.

L’inchino.

Mi inchinavo, portando il busto in avanti di quarantacinque gradi, il cilindro nella mano destra che scivolava davanti al capo. I capelli lunghi cadevano a peso morto a pochi centimetri da terra.
Poi alzavo la testa e sorridevo ai miei spettatori.

Avevo sempre tutto con me.
Il trucco.
In macchina, prima di iniziare lo spettacolo mi spalmavo la crema bianca intorno al viso, tralasciando le labbra e due linee semisferiche sulle guance che andavo a pitturare con il rossetto. Poi, prendevo la matita nera e disegnavo due linee verticali sotto gli occhi, di pochi centimetri, e due triangoli neri sulle sopracciglia.
Mi guardavo nello specchietto retrovisore, sorridendo in modo da mettere in evidenza i canini.
Quando mettevo in testa il cilindro nero, l’opera era terminata.
Lanciavo ancora un’altro sguardo nello specchietto, e sorridevo ancora.
Poi mi buttavo nello spettacolo!

Faceva più caldo del solito, la macchina aveva una temperatura prossima ad un forno.
Il sudore mi rigava il viso, dovetti passare la crema più volte per fissarla. Quando terminai tutto, lanciai uno sguardo fuori, al locale predestinato, poi guardai di nuovo la gente, ero in attesa del buon momento per scagliarmi fuori. Intanto il caldo aumentava.
Quando fu il momento adatto, infilai la pistola sotto la giacca e scesi di corsa. In un attimo raggiunsi il locale.
C’erano due uomini in fila alla cassa, una donna davanti al banco dei liquori, il cassiere al suo posto e il commesso dietro al bancone.
Calcolai in un attimo le distanze e chi doveva raccogliere i soldi. I tre clienti erano in un’ottima visuale e apparentemente innocui, ma gli impiegati potevano avere qualche allarme a portata di mano.
I calcoli erano fatti. Sfilai la pistola dalla giacca e iniziai lo spettacolo:
“Signori e Signore, Ladies and Gentlemen, questo è il mio show quotidiano, quindi mi raccomando, tutti concentrati su di me!”
Puntai la pistola contro il cassiere,
“Tu, vieni qui!” Gridai a lui e al commesso dietro al bancone. Consegnai la busta nera al cassiere, ordinando di consegnarmi tutti i soldi del registratore di cassa, mentre il commesso si occupava dei portafogli dei clienti. Questa era una mossa che non avevo mai fatto.
“Signori, state fermi, e giuro che non vi succederà nulla. – gridai ai clienti – E voi, sbrigatevi se non volete avere una lapide al cimitero!”
La mia pistola passava sui volti di tutti i presenti.
“Allora, cazzo, sbrigatevi!”
Quella volta la pistola puntata non aveva messo il pepe nell’anima.
Si sbrigò prima il commesso che si occupava dei clienti. Si avvicinò tremante con in mano alcuni portafogli e due cellulari.
“Pezzo di merda, mettili in una busta!”
“Quale busta?” mi chiese tremando.
Mi innervosii: non riuscivo a capire se il commesso la stesse tirando per le lunghe o se fosse rincoglionito davvero.
“Non avete una busta del cazzo?!”, mi alterai.
“Certo, certo, signore” – disse – mentre si allontanava verso il bancone
“Dove stai andando?” gridai.
“Signore, a prendere una busta, come vuole lei, signore.”
Puntai la pistola verso il cassiere.
“Tu sei ancora lì? Sbrigati!”
“Butta per terra quello che hai e non ti muovere di un millimetro, intesi?!” gridai al commesso.
Il commesso obbedì immediatamente, mentre i minuti calcolati erano terminati già da un pezzo e pensavo alla cosa più banale che potesse accadermi, cioè che un nuovo cliente entrasse nel locale e mi sparasse alle spalle.
Cercai con gli occhi qualcosa che riflettesse. Le bottiglie davano un’immagine troppo distorta, per il resto niente poteva essermi utile.
“Pezzo di merda, muoviti!”
Il cassiere si mosse verso di me con la busta in mano.
Il tempo filava via, il sudore colava e la crema bianca sul viso si scioglieva.
Lanciai uno sguardo all’orologio: erano passati più di dieci minuti, non era certo il tempo che ci voleva per svuotare un registratore di cassa.
Le sirene in lontananza mi diedero la conferma della mia impressione: quel bastardo del cassiere aveva dato l’allarme!
“Figlio di puttana!”, gridai.
Sparai due colpi, ma non colpii nessuno, e di questo poi ne fui felice.
Uscii di corsa dal locale e mi infilai in macchina, buttando tutto il mio peso sull’acceleratore. L’urlo della sirena si avvicinava, accelerai ancora di più svoltando in alcune stradine. Gli spettatori si affollavano sui marciapiedi.
“Il mio spettacolo sta continuando!” esultai.
Accelerai ancora di più, mentre la polizia mi stava alle calcagna. Sviai ancora in altre stradine, ma un’altra volante della polizia sbucò dalla strada di destra. Il suono delle sirene si faceva assordante.
Quando mi voltai vidi una terza macchina che mi inseguiva. Lo scenario si faceva più spettacolare, pensai. Imboccai altre stradine prima di ritrovarmi di nuovo in quella principale. Gli spettatori sui marciapiedi erano sempre di più.
Era l’ora di punta, e in quel viale avrei incontrato traffico. Mentre ragionavo su quale stradina infilarmi, i miei occhi si distraevano a guardare le frotte di curiosi intenti ad assistere alla mia scena.

Scena! Pensai.
La mia scena.
La polizia, la gente.

“E perché no?!”, dissi.
La polizia era sempre più vicina.
Accelerai di colpo, la vidi allontanarsi.
Già immaginavo i titoli sui giornali.
L’immancabile ingorgo di quell’ora era lì, pronto ad acclamarmi, insieme a quattro volanti della polizia e agli spettatori, sempre lì, sui marciapiedi apposta per me.
In piena corsa tirai il freno a mano e mi ritrovai catapultato in un paio di giri. Sentii i freni urlare.
Appena la macchina si fermò, presi il cilindro, velocemente salii sul tettuccio della macchina.
Da lì si godeva di un’ottima visuale.
La gente sui marciapiedi affollati, la polizia che mi veniva incontro. Le luci della sirena facevano da scenografia.
“Signori e Signore, Ladies and Gentlemen, spero che lo spettacolo vi sia piaciuto, e che vi comportiate allo stesso modo se avrete il piacere di assistere ad un altro mio show!”
Misi il cilindro in testa e mi inchinai al mio pubblico.

Il mio spettacolo terminò lì, con tre pallottole nel cuore del Joker.
Prima di morire sorrisi a centinaia di persone che erano accorse per assistere alla mia morte.
La morte del Joker!
“Perché la polizia ha sparato?”
“Probabilmente era armato”, sentii dire.
I loro occhi erano tutti per me, e lo sarebbero stati anche gli articoli dei giornali del giorno dopo.
Per quanto riguarda il dialogo iniziale, quello era nella mia fantasia sin da bambino.
Quando mi accorsi che stavo diventando un comune mortale, decisi di dare una sterzata alla mia vita.

…Per tutto il resto…
…Signori e Signore, Ladies and Gentlemen…

Pandemia, Gino Strada e l’ottusità di una Amministrazione

 

La lunga sosta a cui ci ha costretto la minaccia del virus, poteva essere l’occasione da non sprecare, l’occasione per riflettere e far riflettere tutta la città,.

A me non piace, e non mi è mai piaciuta, questa idea di città per cui ognuno pensa per sé. L’amministrazione governa per sé, per mantenere il suo potere, le istituzioni si amministrano per sé, per assolvere burocraticamente ai loro compiti e niente riesce a divenire corpo, sangue e membra di una città viva, di una comunità di abitanti fatti di persone in carne ed ossa.

Che nessuno si proponga mai di sognare come si potrebbe fare meglio, qualcosa di nuovo da realizzare. Anzi i luoghi creativi sono ancora visti con sospetto e lasciati al loro isolamento. Tutto conviene farlo sempre come prima, anziché sforzarsi di pensare che si potrebbe avere qualche idea nuova di governo, di come stare nella città, di come vivere insieme, gomito a gomito, tanto i guai quando arrivano non risparmiano nessuno, e certo non occorreva il Covid per ricordarcelo.

Allora a me sarebbe piaciuto vedere qualche segnale che qualcosa è cambiato. Una scuola intestata a Gino Strada [Qui] e a sua moglie [Qui], ad esempio. Una scuola che è un luogo di cura, come le vite che ha curato il medico di Emergency, sì, perché anche a scuola le vite si salvano.

E quello che ci è mancato nella pandemia sono state soprattutto le nostre scuole, le scuole della nostra città. Sarebbe stato una sorta di risarcimento, utile soprattutto alla nostra memoria, a non perdere mai di vista l’importanza delle scuole e di quella cura che si realizza al loro interno.

C’è mancata la scuola in questa pandemia, e non vorrei che si scaricasse il problema come sola questione nazionale, come responsabilità lontane da noi e dall’amministrazione della città.

Sarebbe un atto di intelligenza, oltre che di trasparenza e onestà intellettuale, se il Consiglio comunale dedicasse una seduta per riflettere su cosa si sarebbe potuto fare con le nostre forze e non si è fatto per la formazione, l’educazione, la scuola dei nostri giovani cittadini, figli e nipoti di tutti noi. Giusto per evitare di trovarci impreparati la prossima volta.

Da queste pagine, per quello che posso, ho tentato di dare alcuni suggerimenti all’Amministrazione, ma certo non posso pretendere che a Palazzo Municipale qualcuno mi legga. Allora l’occasione da cogliere è ora.

L’Amministrazione interroghi se stessa, senta la voce degli studenti, degli insegnanti, dei dirigenti scolastici, dei genitori e poi si attrezzi per quella comunità educativa invocata dagli indirizzi ministeriali, che altro non è che il rapporto tra scuola e territorio, quali sinergie ci devono essere tra scuole e territorio, tra l’apprendimento e l’apprendimento permanente.

La questione della scuola delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi ci riguarda tutti, riguarda lo spessore sociale della città che abitiamo e il suo futuro.

Ora invece di esternalizzare biblioteche e servizi educativi come se si trattasse di zavorra, sarebbe il caso che l’Amministrazione si occupasse di “internalizzare”, per dirla con gli economisti, di praticare l’insourcing, di utilizzare le competenze e le risorse del territorio per arricchire le opportunità formative dei nostri giovani, facendo delle nostre scuole il perno di una rete di luoghi e di occasioni di apprendimento sempre più ricca e qualificata.

Ma da questo punto di vista nulla si muove, poiché non appartiene alla capacità di veduta di chi è al governo della nostra città.

L’Unesco stima che le chiusure scolastiche abbiano colpito fino al 90% della popolazione studentesca mondiale. Genitori e tutori hanno dovuto assumersi la responsabilità principale di facilitare l’istruzione domiciliare e di organizzare attività di apprendimento per i loro figli.

Genitori e tutori di alunni svantaggiati, più spesso le madri, hanno dovuto affrontare sfide complesse come la mancanza di risorse, attrezzature e competenze, comprese le abilità linguistiche nel caso di rifugiati o nuovi migranti.

C’è bisogno di un risarcimento e questo risarcimento non può che venire dal governo locale della città, è diventato un imperativo.

La crisi prodotta dal pericolo del virus, dalla sua diffusione, la necessità di conoscerlo hanno generato un bisogno critico di migliorare le competenze di tutti.

La città avrebbe potuto implementare programmi online per promuovere l’apprendimento durante la pandemia, al di là del sistema di istruzione formale, e non l’ha fatto, neppure si è interrogata su cosa avrebbe potuto fare.

Certo l’amministrazione comunale non ha giurisdizione sul sistema scolastico formale, ma possiede ed è responsabile di un certo numero di spazi formali di apprendimento dalle biblioteche ai musei, dai parchi alle piazze, inoltre può collaborare con partner di vari settori per progettare, sviluppare e attuare programmi di apprendimento non formale e informale, garantendo che l’istruzione continui e che i programmi di apprendimento siano disponibili per coloro che ne hanno più bisogno.

Difficile? Impossibile? No. Basterebbe essere dotati di un po’ di competenza, almeno un po’ di sensibilità per l’istruzione e la formazione.

Penso che chi governa la città, che sia maggioranza o opposizione, tra le conoscenze utili all’incarico per cui è stato eletto, dovrebbe sapere che esiste da tempo il Global Network of Learning Cities (GNLC) dell’Unesco [Qui].

Fornisce ampie prove di risposte educative efficaci alla pandemia, città che hanno mobilitato l’apprendimento non formale e informale per attuare strategie locali di apprendimento permanente. Queste esperienze sono state presentate in una serie di webinar intitolati Risposte delle città che apprendono al COVID-19, ospitati dallIstituto per l’apprendimento permanente dell’UNESCO (UIL).

Non è che le strade siano obbligate, ma basterebbe un segnale di cura e di attenzione per le nostre scuole, per la formazione delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi.

Non intitolare a Gino Strada una scuola denuncia tutta l’ottusità di questa Amministrazione, perché Gino Strada è Emergency, ed Emergency è monito e un appello che ci riguarda da vicino, l’emergenza di crescere generazioni nell’apprendimento e nella cultura della pace, perché possano vivere in un mondo migliore.

Per leggere gli altri articoli di Giovanni Fioravanti della sua rubrica La città della conoscenza clicca [Qui]

PER MIMMO LUCANO, L’ACCOGLIENZA, LA SOLIDARIETÀ.
Tanti ferraresi (ameno 600) al flash mob di piazza Castello.
Una valanga di firme (244.000!) sulla petizione online.

Ferrara, mille giorni fa

Tre anni fa, alla notizia del rinvio a giudizio di Mimmo Lucano, allora ancora sindaco di Riace, la società civile ferrarese – una lunga fila di gruppi, associazioni, partiti – si era subito mobilitata per Mimmo Lucano. Per esprimere solidarietà e vicinanza all’uomo e per difendere il Modello Riace, un’esperienza riuscita di solidarietà verso i nuovi immigrati e insieme di rivitalizzazione dei borghi italiani spopolati dall’emigrazione interna.

In quei giorni, il grande ‘fronte popolare’, aveva chiesto con una lettera aperta al sindaco Tiziano Tagliani (governava allora il Centrosinistra) di conferire a Mimmo Lucano la cittadinanza onoraria di Ferrara, proprio per la suo decennale impegno per l’accoglienza e la convivenza multiculturale.
Tagliani apprezzò l’intenzione ma non se la sentì di compiere quel passo, ma si impegnò ad avviare subito la procedura per gemellare Ferrara con la città di Riace. [ Vedi ferraraitalia del 20.10.2018]

A quanto ne sappiamo se ne fece poco o nulla. Anche perché a Ferrara, di lì a pochi mesi, le elezioni segnarono la storica vittoria del Centrodestra. La lega, e quindi Alan Fabbri e Naomo Lodi, com’è noto, su immigrati, Riace e Mimmo Lucano sono di tutt’altro avviso.

Ferrara, 2 ottobre 2021

Nei mille giorni trascorsi, l’attenzione sulla vicenda giudiziaria di Mimmo Lucano era molto calata. La cosiddetta società civile e democratica di Mimmo Lucano si era un po’ dimenticata: così succede quando i riflettori dell’informazione si spengono per occuparsi di notizie più ‘fresche’. Intanto il processo andava avanti, fino alle conclusioni della pubblica accusa e del collegio di difesa. Ferraraitalia ne scriveva il 28 settembre scorso, con un articolo che mostrava un certo pessimismo: “Che cosa succede al processo contro Mimmo Lucano?” [leggi Qui]

E da un processo “contro” non poteva che sortire che una condanna punitiva, spropositata, carica di un preciso significato politico e ideologico. Si è capito, infatti, subito che non era una sentenza solo contro l’ex sindaco di Riace, ma contro gli immigrati tout court, contro l’accoglienza, contro la solidarietà.

Immediatamente le coscienze si sono risvegliate. In tutte le città d’Italia è scattata una mobilitazione spontanea. Per Mimmo Lucano e per quello che rappresenta.

A Ferrara, la storica associazione Cittadini del Mondo ha emesso un comunicato chiamando tutti a raccolta in nome della solidarietà [Qui]. Dopo appena ventiquattr’ore, centinaia di ferraresi (600, forse di più) manifestavano in piazza Castello la loro vicinanza all’ex sindaco di Riace.
Un flash mob perfettamente riuscito e molto combattivo. Come testimoniano questi scatti.

 

Una valanga di firme per Mimmo Lucano

La petizione è stata lanciata pochi giorni fa, appena è stata resa nota la condanna in primo grado di Mimmo Lucano a 13 anni e 2 mesi di reclusione. Nella prima ora le firme erano già 10.000, e da allora il fiume di firme non s’è più arrestato.
Fra qualche mese Mimmo affronterà il processo d’appello, il collegio di difesa ha già presentato ricorso. Non lasciamolo solo.

Ecco come inizia la petizione Mimmo Lucano: colpevole di… SOLIDARIETÀ:
“Una valanga umana faccia sentire subito la sua solidarietà a Mimmo Lucano, condannato a più di tredici anni per il “reato” di solidarietà […] ”
Leggi e firma la petizione nazionale Mimmo, siamo con te[Qui]

Il 6 ottobre, alle ore 10,30 la petizione di solidarietà ha già raccolto 244.032 adesioni

DIARIO IN PUBBLICO
La Bontà

 

Nell’epoca dei social è ancora possibile parlare di ‘Bontà’? Non quella che reclamizza la chiesa (cattolica o no), ma quella che sul campo agisce per aiutare il prossimo.

Conosco un gruppo di donne. Sono sorelle e non solo metaforicamente ma fisicamente, ognuna con il proprio lavoro e i propri interessi. Di una di esse – sono cinque – mi reputo amico fraterno. Tutte, con una parola che appare scontata, svolgono la loro attività in modo serio e responsabile.

Ma quelle donne, quelle amiche, nel momento del bisogno sono sempre presenti sia per portare medicine, che per confortare, che per aiutare con gioia e con leggerezza in situazioni pesanti. Molti le conoscono: taccio il nome perché probabilmente non vorrebbero che venisse divulgato, ma a loro da parte mia e della mia famiglia va un sentito grazie!

Non sono un bacchettone, ma certo la vicenda di Morisi mi ha lasciato a dir poco perplesso. Allora è vero che La Bestia agiva confondendo casi privati e pubblici? Vedo quel viso palliduccio che, con un sorriso imbarazzato, o almeno pare, sembra seguire la furia da lui provocata del suo ‘Capitano’, i cui gusti sessuali sono totalmente diversi da quelli del suo ex guru.

La noia ti afferra alla gola. Ecco Sarkozy, ecco lo zio di Salman, ecco i femminicidi, ecco gli incidenti sul lavoro. Perfino Greta ha perso smalto. Che resta allora? Ritrovare nella cosiddetta ‘cultura’ il senso profondo di una speranza che non tutto è e sarà perduto.

sukkahL’avvenimento, che più mi ha coinvolto nella settimana passata, è stato La festa del libro ebraico che si è svolto sul tema della casa dal 23 al 26 settembre. Una serie d’incontri quasi tutti svolti sotto la sukkah [Qui], la mitica tenda che ospitò gli ebrei in fuga.

Gli incontri e i relatori sono stati di primaria importanza: da Luciano Canfora [Qui], che ha parlato da par suo del suo ultimo libro, Il tesoro degli ebrei. Roma e Gerusalemme Laterza 2021, alla presentazione del libro Il merito dei padri Storia de La Petrolifera Italo Rumena 1920-2020, che racconta la storia di una famiglia, gli Ottolenghi e di una impresa. Guido Ottolenghi ha dialogato con Romano Prodi moderati dall’eccellente futuro rettore di Unife la professoressa Laura Ramaciotti.

La mia attenzione però si era naturalmente diretta alla presentazione del libro della carissima amica Edith Bruck [Qui], Il pane perduto, La nave di Teseo, 2021 vincitore del premio Viareggio e dello Strega giovani. Rivederla seppure in streaming mi ha commosso profondamente e per qualche minuto abbiamo parlato di un tempo irripetibile, gli anni Ottanta del secolo scorso, quando orgogliosamente portavo a pranzo o a cena le due donne più affascinanti di quel momento: Elsa Morante e Edith Bruck.  

Le giornate si sono concluse con la presentazione del volume di Eshkol Nevo [Qui], Tre piani, da cui è stato tratto il film di Nanni Moretti sicuramente non eccelso. Come al solito si è discusso sulla liceità o possibilità di tradurre in film un’opera letteraria con esempi famosissimi, di cui rimane nella memoria solo quella che a mio parere ha raggiunto la qualità del libro: Morte a Venezia di Thomas Mann ridotto in film da Luchino Visconti.

L’incontro con Nevo, presentato dal collega e amico Alessandro Piperno e moderato dalla straordinaria direttrice del Circolo dei lettori di Torino, Elena Loewenthal, mi ha permesso di ricordare il tema della predestinazione con il mancato incontro in quella Israele che ancora mi aspetta, proprio con Nevo, a casa di Massimo Acanfora e Simonetta della Seta. Una vicenda che ha a che fare con il mistero, che ancora non voglio svelare, se la mia ascendenza è siglata da un nonno naturale ebreo.

Del folto pubblico intelligentemente guidato dal presidente Dario Disegni e dal direttore del MEIS Amedeo Spagnoletto era perlomeno curiosa l’assenza di gran parte delle Associazioni culturali ferraresi, salvo la costante presenza della Direttrice dell’Istituto di Storia Contemporanea Anna Quarzi. 

Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

UN’ONDA GIOVANE E IMPETUOSA TRAVOLGE MILANO:
“La Giustizia Climatica la vogliamo subito!”

 

2 ottobre 2021 : Anche oggi a Milano continua la  passerella di ministri e primi ministri all’incontro internazionale di preparazione della COP26 (qui) la Conferenza delle Parti sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite che si riunirà a Glasgow, in Scozia, dal 31 ottobre al 12 novembre prossimi .

Fuori dal palazzo, in contemporanea, gli attivisti dei movimenti per la lotta al riscaldamento globale ci sono tutti per partecipare al contro-vertice: l’Eco-Social Forum, l’incontro delle associazioni e dei movimenti  (qui il programma degli eventi).
Decine di migliaia di manifestanti, soprattutto giovani e giovanissimi, chiedono a gran voce un reale cambiamento di rotta nella politica e nell’economia degli Stati/Nazioni. Uno STOP definitivo al consumo di fonti fossili per produrre energia, causa principale dell’aumento della temperatura atmosferica  e dei cambiamenti climatici.

L’obiettivo è chiaro ed è sempre lo stesso: bisogna limitare il riscaldamento globale al di sotto di 1,5 gradi, Un obbiettivo che  purtroppo negli ultimi vertici tra gli Stati è già stato messo in discussione, tanto che ora si parla di non superare i 2 gradi.
Tra i due valori c’è un’enorme differenza rispetto all’impatto sugli ecosistemi e alla vita delle persone che vivono nelle zone più a rischio.

Non è più tempo di raccontare bugie e di fare discorsi inutili, ai quali nessuno crede più. Le connessioni causali esistenti tra quanto succede nel mondo per effetto dei cambiamenti climatici e le attività umane che generano i gas serra – tra cui l’anidride carbonica e il metano sono quantitativamente i più rappresentati –  sono conosciute da almeno 40 anni. E da tanto tempo climatologi e scienziati ne denunciano gli effetti devastanti per la vita umana e animale sul pianeta. Fino ad ora inutilmente.
Oggi non si può più aspettare, denunciano gli attivisti, si deve agire subito e in modo radicale! (leggi l’appello)

Da anni e, più intensamente, negli ultimi mesi, decine di organizzazioni grandi e piccole di ogni parte del mondo si sono preparate, studiando i problemi ambientali del proprio territorio, a questo momento di confronto per elaborare una piattaforma comune da portare alla COP26 di  Glasgow.

Cambiare rotta significa cambiare sistema sociale, economico e produttivo, perché il capitalismo (vecchio e nuovo) non ha prodotto solo gli enormi danni all’ambiente che tutti conosciamo, ma anche una forte ingiustizia climatica.

Ci sono Paesi del Sud del mondo – come Le Filippine, l’India e il Bangladesh, le isole del Pacifico, i Paesi dell’Africa sub-sahariana e dell’America del Sud –  nei quali gli effetti del riscaldamento climatico si fanno già sentire fortemente e gli attivisti denunciano come i Paesi più ricchi, dove vengono prodotte le maggiori quantità di gas climalteranti, sono rimasti completamente indifferenti  ai loro appelli e alle loro proteste, proseguendo colpevolmente nelle loro attività distruttive.

Gli attivisti per il clima di questi Paesi hanno rifiutato di riconoscersi come Sud del Mondo e la discriminazione basata su criteri produttivistici e si sono organizzati in una rete chiamata MAPA (Most Affected People and Areas) che significa: Popoli e Territori Maggiormente Colpiti, sottintendendo dai cambiamenti climatici.
Dalla loro protesta nasce il Movimento per la Giustizia Climatica (Climate Justice), rivendicata anche da molti gruppi europei quali Fridays for Future, Parents for FutureExtintion Rebellion, Ende Gelände, Giudizio Universale. Sono loro ad affermare chiarezza lo stretto legame tra diritti umani e diritto al clima come un unico diritto alla vita.

Milano, Friday for Future (su licenza Wikimedia Commons)
Milano, Friday for Future (su licenza Wikimedia Commons)

Il 29 settembre ha avuto luogo presso l’Università Statale di Milano l’evento Next generation: climate litigation, durante il quale è stata presentata la prima causa climatica contro lo Stato italiano che ha preso il via il 5 giugno scorso-
Più di 200 ricorrenti, tra cui 162 adulti, 17 minori (rappresentati in giudizio dai genitori) e 24 associazioni impegnate nella giustizia ambientale e nella difesa dei diritti umani hanno deciso di intraprendere un’azione legale (qui) contro lo Stato Italiano per inadempienza  climatica, ovvero per l’insufficiente impegno nella promozione di adeguate politiche di riduzione delle emissioni clima-alteranti, cui consegue la violazione di numerosi diritti fondamentali riconosciuti dalla nostra Costituzione.
L’azione legale, attraverso un atto di citazione davanti al Tribunale Civile di Roma, chiede la condanna dello Stato, imponendogli di realizzare un drastico abbattimento delle emissioni di gas serra entro il 2030, in modo da centrare l’obiettivo dell’Accordo di Parigi sul clima: il contenimento massimo del riscaldamento globale entro 1,5°C

In contemporanea, all’Eco Social Forum, sempre a Milano, si svolgono i lavori e gli eventi della Climate Justice Platform (qui il programma), aperti il 30 settembre e che proseguiranno fino a domenica 3 ottobre.

Che cosa caratterizza questa piattaforma? Due cose: l’analisi della relazione tra la  crisi ecologica/climatica e quella sociale e politica globale e l’età dei partecipanti, in prevalenza giovani e giovanissimi.
Sono loro le vittime predestinate del cambiamento climatico, pertanto i principali soggetti interessati a che la crisi globale venga affrontata dai governi in modo definitivo. Vogliono partecipare ai processi ed essere coinvolti nelle scelte. Vogliono farla finita con il paradigma della crescita infinita, costruita sul dominio esercitato sui territori e sui corpi, sullo sfruttamento e la speculazione sul lavoro.

Salvare il pianeta vuol anche dire mettersi dalla parte dei popoli indigeni, contro la supremazia colonialista che i Grandi del mondo esercitano sui Paesi meno avanzati. Qui a Milano, a difendere i diritti dei popoli nativi e delle società rurali, sono presenti organizzazioni come Survival International, il Movimento per la Decrescita Felice, A SUD onlus, Animal Save international.

Dopo lo sciopero globale per il clima di venerdì 24 settembre che ha visto scendere in piazza tantissimi giovani in 70 città italiane [Vedi qui], il 1 ottobre un fiume di 50,000 ragazze e ragazzi, anche giovanissimi, arrabbiati ma pieni di speranza, hanno sfilato per le strade di Milano per il Friday for Future.

In testa al corteo, due ragazze con le idee chiare, Greta Thunberg (svedese) e Vanessa Nakate (ugandese), per dire che dal Nord al Sud del mondo, i giovani lottano per il medesimo obiettivo: la giustizia climatica. E contro gli stessi nemici: l’indifferenza e le bugie dei politici e degli Stati, la non volontà dei governi a compiere azioni urgenti ed efficaci per ridurre le emissioni inquinanti e contenere il riscaldamento globale.

Infine Ieri, sabato 2 ottobre 2021 – a conclusione di una ‘settimana verdissima’ piena di seminari, incontri, scambi culturali e di lotte – la Global March for Climate Justice, organizzata da Climate Open Platform e Fridays for Future Milano. Un corteo di almeno 30.000 persone, cui hanno aderito decine di gruppi, associazioni e movimenti, nazionale e locali.

A Milano il pensiero e il variegato movimento antagonista ha mostrato tutta la sua forza. Vuole salvare la Terra (“E’ l’unica che abbiamo”) e vuole cambiare il mondo. Dopo Milano la lotta continua, fra meno di un mese c’è un appuntamento importantissimo.
In Scozia, dal 31 ottobre al 20 novembre 2021, si terrà la 26esima edizione della COP, il vertice tra le nazioni del mondo per fare il punto sui cambiamenti climatici. Potrebbe essere l’ultima occasione per trovare un accordo. Ma a Glasgow convergeranno anche tutti i movimenti e gli attivisti ambientalisti. La loro voce è sempre più forte. I governi sono avvertiti.

Cover: Fridays For Future, Berlin, 24.09.21 (licenza Wikimedia Commons)

PER CERTI VERSI
Boh, le acque della gioia

BOH, LE ACQUE DELLA GIOIA

Sono così rare
Le acque della gioia
Sono rare lacrime dolci
Il vento dell’amore
Ha tolto loro
Il sale
Diventano sorgenti
Per noi
E per le nuvole
Delle nostre comuni fantasie
Sorgenti
Dove lasciare
Le nostre poesie
Incuranti
Di chi passa
Di chi dice
Delle voci
Sono loro
I versi
A fare da spartiacque
Al vento
Delle parole sprovviste di luce
Più in là
Alla memoria
Dove si inabissano
I monti cerulei
Grigi
Lillà

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
[Qui]

PRESTO DI MATTINA
Una buona domanda

«I miei maestri mi insegnavano ad interrogare il testo. Per questo mia madre, quando tornavo a casa, non mi domandava se avevo fatto qualche scoperta interessante, ma se avevo trovato una buona domanda da porre», (Elie Wiesel [Qui], Credere o non credere, Firenze 1986, 43).

Narra il vangelo di Marco che tra i discepoli di Gesù, lungo la via, era nata una discussione su chi fosse tra loro il più grande. Giunti in casa a Cafarnao, Gesù domandò loro di cosa stessero discutendo ed essi rimasero silenziosi. Allora sedutosi li chiamò a sé, pose un bambino in mezzo a loro e disse: «Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti… Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato» (Mc 9, 36-37).

Anche nel vangelo di Matteo troviamo un analogo invito ai discepoli che gli chiedevano, questa volta, chi fosse più grande nel regno dei cieli. E di nuovo Gesù mostra loro i piccoli (parvuli) ammonendoli che «se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli» (Mt 18, 3-4).

E si potrebbe continuare con Luca, che colloca un analogo insegnamento in prossimità dell’ultima cena. I discepoli non erano ancora riusciti a trovare la domanda buona, e Gesù con ancora più pazienza, una pazienza di amore, propone loro un esempio per orientarli di nuovo verso la misura della vera grandezza:

«I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno potere su di esse sono chiamati benefattori. Voi però non fate così; ma chi tra voi è più grande diventi come il più giovane, e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve. (Lc 22, 24-27). «Chi accoglierà questo bambino nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato. Chi infatti è il più piccolo fra tutti voi, questi è grande» (Lc 9, 48).

La domanda buona, quella da fare anche tra i discepoli di oggi, non sarà forse quella di chiedersi “chi sia il più piccolo?”

Questa fu proprio la domanda di frate Francesco, cui egli rispose con tutta la sua vita. Per lui la regola fu il vangelo in purezza – sine glossa – un conformarsi e corrispondere a Cristo povero e crocifisso culminato nelle stigmate alla Verna.

Il suo testamento termina con queste parole: «Ed io, frate Francesco, il più piccolo dei frati, vostro servo, come posso, confermo a voi dentro e fuori questa santissima benedizione. Amen». (FF, Fonti Francescane, 131).

E scrivendo a sorella Chiara dice: «Io Francesco piccolo voglio seguire la vita e la povertà dell’altissimo Signor nostro Gesù Cristo e della sua santissima Madre, e perseverare in essa fino alla fine. E prego voi, mie signore, e vi consiglio che viviate sempre in questa santissima vita e povertà» (FF 140).

Dal più grande al più piccolo: questo l’itinerario di conversione di Francesco, le tappe del suo rimpicciolirsi: il mercante, il cavaliere, il converso, l’eremita, il fondatore di una fraternità evangelica, di una minorità i cui compagni non poterono che prendere coerentemente il nome di “frati minori”.

Anzi, all’inizio si attribuirono il nome di “penitenti”, come disse di sé Francesco nel testamento; ma poi lo stile della “minorità” volontaria fu posto accanto alla scelta della povertà, essendo entrambe generative di quella parola/realtà così cara a Francesco di “fraternità”.

«E quelli che venivano per ricevere questa vita, davano ai poveri tutte quelle cose che potevano avere; ed erano contenti di una sola tonaca rappezzata dentro e fuori, quelli che volevano, del cingolo e delle brache. E non volevamo avere di più. E dicevamo l’ufficio, i chierici come gli altri chierici; i laici dicevano i Pater noster; e assai volentieri rimanevamo nelle chiese. Ed eravamo illetterati e soggetti (minori) a tutti. E io lavoravo con le mie mani e voglio lavorare, e tutti gli altri frati voglio che lavorino di lavoro quale si conviene all’onestà. Il Signore mi rivelò che dicessi questo saluto: Il Signore ti dia pace». (FF 117-121). Così «nessuno sia chiamato priore, ma tutti siano chiamati semplicemente frati minori. E l’uno lavi i piedi all’ altro (Gv 13,14)» (FF 23).

Anche e proprio nella grandezza, Francesco rimase piccolo e umile. È nota la domanda insistente di fra Masseo [Qui] che si legge nei Fioretti «Dimorando una volta santo Francesco nel luogo della Porziuncola con frate Masseo da Marignano, uomo di grande santità, discrezione e grazia nel parlare di Dio, per la qual cosa santo Francesco molto l’amava; uno dì tornando santo Francesco dalla selva e dalla orazione, e sendo allo uscire della selva, il detto frate Masseo volle provare si com’egli fusse umile, e fecieglisi incontra, e quasi proverbiando disse : “Perché a te, perché a te, perché a te?” Santo Francesco risponde: “Che è quello che tu vuoi dire?”. Disse frate Masseo: “Dico, perché a te tutto il mondo viene dirieto, e ogni persona pare che desideri di vederti e d’udirti e d’ubbidirti? Tu non se’ bello uomo del corpo, tu non se’ di grande scienza, tu non se’ nobile; onde dunque a te che tutto il mondo ti venga dietro?”.

Udendo questo santo Francesco, tutto rallegrato in ispirito, rizzando la faccia al cielo, per grande spazio istette collamente levata in Dio; e poi ritornando in sè, s’inginocchiò e rendette laude e grazia a Dio; e poi con grande fervore di spirito si rivolse a frate Masseo e disse: “Vuoi sapere perché a me? vuoi sapere perché a me? vuoi sapere perché a me tutto ‘l mondo mi venga dietro? Questo io ho da quelli occhi dello altissimo Iddio, li quali in ogni luogo contemplano i buoni e li rei: impero ciò che quelli occhi santissimi non hanno veduto fra li peccatori nessuno più vile, nè più insufficiente, nè più grande peccatore di me; e però a fare quell’operazione maravigliosa, la quale egli intende di fare, non ha trovato più vile creatura sopra la terra; e perciò ha eletto me per confondere la nobiltà e la grandigia e la fortezza e bellezza e sapienza del mondo, acciò che si conosca ch’ogni virtù e ogni bene è da lui, e non dalla creatura, e nessuna persona si possa gloriare nel cospetto suo; ma chi si gloria, si glorii nel Signore, a cui è ogni onore e gloria in eterno”» (FF 1838).

Francesco confesserà una volta ai frati di aver ricevuto tra le altre, la grazia della piccolezza: «l’Altissimo mi ha largito questa: obbedirei al novizio entrato nell’Ordine oggi stesso, se fosse mio guardiano, come si trattasse del primo e più attempato dei fratelli. Invero, il suddito non deve considerare nel prelato l’uomo, bensì Colui per amore del quale si sottomette a un uomo. Non ci sarebbe un prelato nel mondo intero, temuto dai sudditi e fratelli suoi quanto il Signore farebbe che io fossi temuto dai miei frati, qualora lo volessi. Ma l’Altissimo mi ha donato questa grazia: sapermi adattare a tutti, come fossi il più piccolo frate nell’Ordine» (FF1666).

Francesco volle che non solo i suoi frati si chiamassero “minori”, ma che gli stessi prelati presenti nel suo ordine avessero il nome di ministri, ovvero servitori, alla stregua degli stessi apostoli che alla scuola di Cristo umile andavano imparando l’umiltà del servire e non del farsi servire:

«Difatti Cristo Gesù, il maestro dell’umiltà, allo scopo di formare i discepoli all’umiltà perfetta, disse: “Chiunque tra voi vorrà essere il maggiore, sia vostro ministro, e chiunque, tra voi, vorrà essere il primo, sarà vostro servo“. I miei frati proprio per questo sono stati chiamati minori, perché non presumano di diventare maggiori (Mt. 20,26)» (FF 1109-1110).

Anche gli ammonimenti di Francesco avevano un’intonazione particolare. Il verbo ad-monere significa ricordare, esortare, richiamare, non usando la forza della coercizione, ma con la sola forza della testimonianza della vita. Pertanto il significato di ‘ammonire’ per lui era un voler richiamare alla memoria dei fratelli la parola di Dio, perché potessero comprenderne le esigenze e trasformarla in vita: le parole di ammonizione avevano così un significato pedagogico-salvifico.

Nella vita seconda di Tommaso da Celano [Qui] (FF 690) viene narrato un episodio molto significativo sul modo di concepire l’ammonizione da parte di Francesco. Il quale interpretava in modo particolare il testo del profeta Ezechiele sulla necessità di ammonire il fratello: testo che veniva allora generalmente interpretato in modo da giustificare l’uso della costrizione e l’imposizione di una disciplina a coloro che operavano inimicizia, discordie, dissidi per obbligarli a ravvedersi anche tramite la forza.

«Mentre Francesco dimorava presso Siena, vi capitò un frate dell’Ordine dei predicatori (domenicani), uomo spirituale e dottore in sacra teologia. Venne dunque a far visita al beato Francesco e si trattennero a lungo insieme, lui e il Santo in dolcissima conversazione sulle parole del Signore.

Poi il maestro lo interrogò su quel detto di Ezechiele (31, 18-20): “Se non manifesterai all’empio la sua empietà, domanderò conto a te della sua anima”. Gli disse: “Io stesso, buon padre, conosco molti ai quali non sempre manifesto la loro empietà, pur sapendo che sono in peccato mortale. Forse che sarà chiesto conto a me delle loro anime?”.

E poiché Francesco si diceva ignorante e perciò degno più di essere da lui istruito, che di rispondere sopra una sentenza della Scrittura, il dottore aggiunse umilmente: “Fratello, anche se ho sentito alcuni dotti esporre questo passo, tuttavia volentieri gradirei a questo riguardo il tuo parere”. “Se la frase va presa in senso generico – rispose Francesco – io la intendo così: Il servo di Dio deve avere in se stesso tale ardore di santità di vita, da rimproverare tutti gli empi con la luce dell’esempio e l’eloquenza della sua condotta. Così, ripeto, lo splendore della sua vita ed il buon odore della sua fama, renderanno manifesta a tutti la loro iniquità”. Il dottore in teologia rimase molto edificato, per questa interpretazione, e mentre se ne partiva, disse ai compagni di Francesco: “Fratelli miei, la teologia di questo uomo, sorretta dalla purezza e dalla contemplazione, vola come aquila. La nostra scienza invece striscia terra terra”».

E stata la lettura di questo testo che mi ha aperto alla comprensione di un versetto del salmo 50(51), 15 che mi era oscuro. Mi domandavo infatti come “insegnerò agli erranti le tue vie”. La risposta semplicissima suggerita da Francesco “percorri tu per primo con la testimonianza della vita le vie di Dio e le farai conoscere agli altri”.

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

La generazione Greta e gli adulti benpensanti

Stanno riscuotendo un grande successo sui social le affermazioni, in risposta alle manifestazioni dei giovani contro il cambiamento climatico, di un giornalista australiano. Tradotte più o meno fedelmente, suonano così: “Voi siete la prima generazione che ha preteso l’aria condizionata in ogni sala d’aula; le vostre lezioni sono tutte fatte al computer; avete un televisore in ogni stanza; passate tutta la giornata a usare mezzi elettronici; invece di camminare a scuola prendete una flotta di mezzi privati che intasano le vie pubbliche; siete i maggiori consumatori di beni di consumo di tutta la storia, comperando in continuazione i più costosi capi di abbigliamento per essere ‘trendy’; la vostra protesta è pubblicizzata con mezzi digitali e elettronici.” .

L’autore di queste frasi è Andrew Bolt. Intanto, chi è costui? E’ un giornalista australiano noto alle cronache, tra le altre cose, per aver negato il fenomeno della vendita massiva di bambini aborigeni alle ricche famiglie bianche. Ha anche affermato (lui, figlio di immigrati olandesi) che l’Australia stava per essere colonizzata dall’immigrazione che stava trasformando, a suo dire, il paese da una casa in un hotel. Ha poi di recente difeso pubblicamente il cardinale George Pell, assolto dall’accusa di abuso su minori perchè non provata “oltre ogni ragionevole dubbio”. [Ca va sans dire, Pell afferma che l’omosessualità è sbagliata e non è vero che gli omosessuali siano discriminati, e ha condotto una campagna volta ad impedire l’adozione alle coppie omosessuali. Non so se questa divaricazione tra moralismo pubblico e vizi privati vi ricorda qualcosa].

Ma torniamo a Andrew Bolt, il giornalista neostar, censore di Greta Thunberg, che viene portato ad esempio come colui che finalmente smaschera l’ipocrisia dei giovani viziati che manifestano contro la crisi climatica. Analizzo ogni sua affermazione, che i suoi sostenitori definiscono di grande buon senso: “Voi siete la prima generazione che ha preteso l’aria condizionata in ogni sala d’aula”. Immagino che lui (che ha 62 anni) invece lavori in una sauna con tasso di umidità al 98 per cento, pur di preservare il suo paese dall’eccesso di ozono nell’aria. Ma sarebbero “i giovani” di adesso i primi ad avere “preteso” l’aria condizionata.  “Le vostre lezioni sono tutte fatte al computer”; lui invece scrive ancora con carta, penna e calamaio. “Passate tutta la giornata a usare mezzi elettronici”; lui invece si illumina casa, da quando è nato, con lampade a petrolio e comunica con segnali di fumo.  “Invece di camminare a scuola prendete una flotta di mezzi privati che intasano le vie pubbliche”; lui invece in ufficio ci va facendo la maratona ogni giorno, ne sono certo. “Siete i maggiori consumatori di beni di consumo di tutta la storia, comperando in continuazione i più costosi capi di abbigliamento per essere ‘trendy'”; a differenza sua, che indossa abiti di 40 anni fa e non ne ha comprati altri (come tutti quelli della sua generazione, del resto). Poi arriva il vero capolavoro del suo ragionamento: “Ragazzi, prima di protestare, spegnete l’aria condizionata, andate a scuola a piedi, spegnete i vostri telefonini e leggete un libro, fatevi un panino invece di acquistare cibo confezionato. Niente di ciò accadrà, perché siete egoisti, mal educati, manipolati da persone che vi usano, proclamando di avere una causa nobile mentre vi trastullate nel lusso occidentale più sfrenato. Svegliatevi, maturate e chiudete la bocca. Informatevi dei fatti prima di protestare”. I giovani quindi devono morire di caldo in estate, tornare nelle grotte, accendersi un fuoco coi legnetti per scaldarsi d’inverno e leggere a lume di falò per avere la credibilità che dia loro il diritto di protestare. Solo loro, naturalmente. Tutti gli altri, tutte le generazioni precedenti possono continuare a fare il cazzo che gli pare. Non hanno mica problemi, loro. Intanto non protestano. Poi tra vent’anni saranno morti, per cui che gli frega del pianeta che lasceranno ai figli. Che si arrangino.

Vorrei capire che razza di buon senso sarebbe quello di attribuire all’ultima generazione, nata al massimo venticinque anni fa, le colpe di un collasso climatico i cui prodromi sono rinvenibili come minimo nell’era dello sfruttamento massiccio dei combustibili fossili. Vorrei che qualcuno mi spiegasse per quale motivo i ventenni di adesso non avrebbero il diritto di lottare perchè anche loro, dannazione, usano il pc o l’automobile. Vorrei che qualcuno mi spiegasse per quale ragione loro non possono parlare, perchè sono viziati, mentre noi possiamo continuare a fare come nulla fosse perchè non stiamo sempre a fare casino. Ci facciamo i cazzi nostri, noi. Questa è la nostra scriminante, il salvacondotto che ci consente di continuare a precipitare dal centesimo piano dicendo “sono al trentesimo e ancora va tutto bene”. Perchè non rompiamo i coglioni.

A me pare che l’ipocrisia stia tutta dalla parte degli adulti, che pretenderebbero che la generazione che combatte per un mondo diverso conducesse una esistenza monacale e premoderna per conferire credibilità alle proprie rivendicazioni. Come se il mondo nel quale sono nati e si trovano a vivere, come se questo modello di sviluppo nel quale si muovono, spesso con una consapevolezza ispirata a quell’ istinto di autoconservazione che noi abbiamo perduto, lo avessero creato loro vent’anni fa. Vengono in mente le parole di Vasco Rossi quando cantava “siamo solo noi, che non abbiamo vita regolare,
che non ci sappiamo limitare…siamo solo noi, quelli che non hanno più rispetto per niente, neanche per la gente”.

 

 

 

Chi ha lasciato solo Mimmo Lucano?

 

La condanna in primo grado a 13 anni e 2 mesi di Mimmo Lucano ha spaccato in due l’Italia. Esattamente come era successo quando il modello di solidarietà che il Sindaco di Riace aveva applicato nel suo paese era stato interrotto dall’intervento dell’allora ministro dell’interno Matteo Salvini e dall’operazione “Xenia” avviata della Procura di Locri.

Una sentenza assurda, abnorme, punitiva (la stessa Pubblica Accusa aveva proposto una condanna a di ‘soli’ 7 anni e 11 mesi) che oggi assume un valore politico generale, Centrodestra e Centrosinistra hanno già incrociato le armi. Un valore (e un clamore) quindi che travalica la grande ingiustizia cui è stato vittima l’uomo Mimmo Lucano. Se infatti l’ex sindaco e il ‘modello Riace’ erano diventati il simbolo di una strada solidale per affrontare il tema delle migliaia di migranti che continuano ad arrivare  in Italia, questa sentenza suona come un secca smentita di quel modello. E insieme uno sberleffo a tutte le donne e gli uomini che in tutta Italia si impegnano nell’accoglienza e nella solidarietà

Io però mi sono fatto, e vorrei fare a voi, una domanda imbarazzante. Perché Mimmo Lucano è stato ‘punito’ così duramente? Quale clima ha reso possibile che Mimmo, e insieme a lui l’accoglienza e la solidarietà, fossero condannate?

Mentre il Centrosinistra governava nel Governo Conte 2, e oggi nel Governo Draghi, la legislazione e la normativa in tema di immigrazione (quella del Decreto Minniti, e incrudelita dalla Lega dei respingimenti) è rimasta più o meno quella di prima: solo qualche limatura.

Per non turbare gli equilibri – ma la versione ufficiale è: “il momento non è favorevole” – né il Pd né nessun altro ha voluto aprire una pagina nuova nella gestione dell’immigrazione e dell’accoglienza. Basta parlare con qualche operatore impegnato a uno sportello di assistenza agli immigrati per capire come oggi sia ancora più difficile: permessi di soggiorno, ricongiungimenti familiari, alloggi, lavoro…

E ancora: né il Pd né nessun altro partito o partitino si è battuto seriamente per riaprire la via della immigrazione legale. E nessuno si è impuntato sulla Ius Soli. Una dichiarazione tipo: “O si fa la legge o me ne vado dal governo!”.  Macché, solo parole. Quelle famose di Bersani. Quelle di Renzi (sicuro, c’era anche nel suo programma, in fondo in fondo, ma c’era anche la ius soli). Quelle di Enrico Letta 1, effimero presidente del Consiglio. Fino a quelle, recentissime, di Enrico Letta 2, segretario di partito.

Ma il clima di non attenzione non riguarda solo i partiti. C’è la stampa mainstream e tutti i canali televisivi che di immigrati e immigrazioni si sono stufati. Se non c’è un bel naufragio – e nemmeno quello merita più la prima pagina – di immigrazione e accoglienza nei media non c’è più traccia.

E infine ci siamo noi tutti. Quel movimento che alcuni anni fa aveva alzato la voce, oggi, già prima dell’avvento del Covid, da circa 3 anni sembra disperso in mille rivoli, muto, incapace di farsi sentire, La battaglia in nome dell’accoglienza, dei diritti umani, della solidarietà, dei bambini “tutti italiani” si è persa per strada. Poteva, doveva essere una spina nel fianco, un pungolo per ottenere risposte concrete dalla politica e dal parlamento. Così non è stato. E la politica si è occupata d’altro

La conclusione è amara. Non diamo tutta la colpa ad un giudice forcaiolo. E nemmeno al solito Matteo Salvini. La verità è che Mimmo Lucano è stato lasciato solo. I partiti di sinistra e dintorni, ma anche noi che andavamo in piazza per Mimmo Lucano con le bandiere della solidarietà, non abbiamo difeso la sua e la nostra utopia.

Cover: l’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano nel 2018 – Fotogramma 

Il karma della Bestia

Il karma della Bestia

ll citofono no,
non l’avevo considerato,
non pensavo che il karma
si fosse incazzato.
Il domatore della bestia,
anche lui è uno spaccino
non è nemmeno
un marocchino.
Ti telefonerò
quando sarai fuori dal gabbio
che poi neanche c’andrai,
han trovato delle sostanze strane.
Hai venduto roba a dei ragazzi
ora siamo diventati pazzi
e mi poi ti han perquisito …
PSICOTROPAICO!
E’ una giornata strana
quando siamo noi
a spacciare per la grana
alla nostra gioventù italiana.
La bestia si è ribellata
questa storia non c’è mai stata
a ragionar come voi
ogni leghista è spacciatore.
Il karma c’ha disarmato l’arma
a sparger merda nel ventilatore
contro tutti a tutte le ore,
poi anche noi prendiam l’odore.
PSICOTROPAICO!

Parole a capo
Lino Di Nitto: “Settembre” e altre poesie

“Quale mondo giaccia al di là di questo mare non so, ma ogni mare ha un’altra riva, e arriverò.”
(Cesare Pavese)

LITORALE

Tra i declivi e l’arenile,
dove è possibile amare anche l’ansito
e il calore prospero che agita le acque fino a sera,
per gesti e fragranze d’accudire
in focolai di pianto
ho caute
le prime altari di pioggia calde e veraci,
e così appare al dormiente
mantide e recisa
la mia schiena al giorno

 

SETTEMBRE

L’estate ha riacquistato il suo silenzio

Ci si ferma per colazione affrontando il mare,
il regno della dimenticanza e dell’oblio
(nostra grazia naturale)

Le mie giornate di paese
scorrono lente e commoventi
in totale solitudine
Qualcuno rimane – non sceglie di rimanere –
altri vanno via

Settembre ha ali di bronzo,
il vento febbrile che stimola l’ascolto.
Pace, pace alle anime in travaglio!

Restiamo al sicuro ancora qui,
nelle nostre bagatelle private,
nei nostri timori gracili e sofferti:
nulla è passato invano.
Ci siamo scoperti anche fortunati,
e questa è francamente una sorpresa.

Settembre giunge dunque e passa in fretta,
per l’anima paesana che teme il mondo,
rifiuta il mondo, fa il mondo a sé.

 

AD OGNI NUOVA AMICIZIA

C’è quella distanza tra noi,
una forza che
dall’incanto dell’incontro,
giunge a noi per tramortirci,
e l’intenzione
è già cosa remota,
una vuota stanca perifrasi per dire:
non osare

Abbiamo tentato di cogliere
per queste vie
una fonte ed un ristoro,
un privilegio in cui dissipare
malumori e sconfitte,
procedendo addirittura cauti
e attenti ad ogni riga,
ad ogni posizione,
ad ogni nuova amicizia

Vero,
l’amaro scandalo
ci appartiene per riflesso,
dichiarandoci invise la vanità
e la brutalità dell’evento
Quel che è buono non è giusto,
quel che è giusto non conviene
Noi non ci conosciamo

Lino Di Nitto è semplicemente un poeta. Ha quarantotto anni e da qualche tempo vive a Monza. La sua prima pubblicazione risale al 2003; a questa hanno fatto seguito varie raccolte, fino alla testimonianza prevalentemente in versi di “Io sono la mia preda” (2019).

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]