«Per fede in qualcuno che non conosceva…
Poteva passare da un luogo familiare
A un posto mai attraversato
Poteva contemplare il cammino con cuore non incerto [with unpuzzled heart]»
(Emily Dikinson).
Come per Abramo, l’arte di passare dall’altra parte è la fede: un fatto che quando accade stupisce e spaventa al contempo. La compongono l’invocazione e l’attesa che come tessere di un puzzle sono in cerca di corrispondenze, finché a poco a poco se ne scopre la figura, e il loro cammino risulta sempre meno incerto.
Come il linguaggio ‒ che pone fuori di noi e al tempo stesso ci riporta dentro, un andare incontro ed essere incontrati, che chiede un distacco attraverso una frattura ‒ così la fede è frattura instauratrice, generativa di un legame, di un reciproco dirsi e riconoscersi. Un incamminarsi che ogni volta avvicina senza perdere l’identità di ciascuno, unisce senza confondere, come gli sguardi che s’incrociano senza smarrirsi l’uno nell’altro. Nella fede la parola e la stessa libertà si nascondono e si ritrovano nelle parole e nella libertà dell’altro, attuandosi ogni volta nella forma di una donazione, da cui sgorga una fiducia sempre meno incerta. Solo affidandosi, infatti, la libertà, trascinata fuori dalla parola, è situata alla presenza dell’altro; e al tempo stesso essa viene nuovamente posta di fronte a se stessa, su un confine, quello di un linguaggio che si fa prassi, di pratiche comunitarie che si fanno parole, racconto. La fede è una libertà che si affida camminando e raccontando.
Ne è un esempio emblematico il Vaticano II, il concilio in cui la chiesa si è rimessa in strada, rinnovando il suo atto di fede come amore e come speranza di fronte al mondo contemporaneo. Con quest’evento essa è passata dall’altra parte, creando un varco nei i bastioni, non senza il turbamento di molti, ed ha cercato di vedersi con gli occhi degli altri, donne e uomini del proprio tempo, provando ad «amare l’uomo per amare Dio» (Paolo VI) perché Dio aveva i loro occhi. Camminando tra la gente, in dialogo con le varie culture e religioni, essa ha trapassato con il suo sguardo il loro, rivelando con ciò il suo volto missionario ‒ quello del Cristo, lumen gentium ‒ tornato a risplendere sul suo volto lunare: lei che è sorella della luna ed entrambe lo specchio del sole quando la terra si adombra. L’evento conciliare fu il ‘fatto’ che manifestò e in cui si riversò la sua fede, raggi riflessi di un amore per le vie del mondo fino ad abbracciarlo nelle sue periferie storiche ed esistenziali.
«Ci torna qui opportuno e felice – scriveva Giovanni XXIII ad inizio concilio – un richiamo al simbolismo del cero pasquale. Ad un tocco della liturgia, ecco risuona il suo nome: Lumen Christi.La chiesa di Gesù da tutti i punti della terra risponde: Deo gratias, Deo gratias, come dire: Sì: lumen Christi: lumen ecclesiae: lumen gentium. Che è mai infatti un concilio ecumenico se non il rinnovarsi di questo incontro della faccia di Gesù risorto, re glorioso e immortale, radiante per tutta la chiesa, a salute, a letizia e a splendore delle genti umane? È nella luce di questa apparizione che torna a buon proposito il salmo antico: “Solleva su noi la luce del tuo volto, o Signore! Tu hai posto letizia nel mio cuore” (Sal 4,7- 8)».
Si può ben dire allora, assecondando l’intuizione del Papa, che al concilio la chiesa tutta si raccolse orante con il salmo 27, 8-9: «Il mio cuore ripete il tuo invito: “Cercate il mio volto!”. Il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto». Lo ricercò nella storia e nelle vicende umane, quel volto insieme sfigurato e glorioso e in quella umanità trasfigurata del volto dell’Altro: insieme e unitamente rivelazione dell’umanità e paternità di un Dio e della dignità inviolabile di ogni umano volto.
Grazie all’assunzione del paradigma della storia, i padri conciliari ricongiunsero il Gesù storico con il Cristo della fede e, declinando la salvezza e la rivelazione come storia, si ritrovarono di nuovo, esperiti in umanità in cammino con Lui, tra la gente. Grazie alla “svolta antropologica”, al ricomporsi cioè del legame tra l’ambito della soggettività storica e umana e quello della oggettività della ragione, fu gettato un ponte per superare il divario creatosi tra la verità di Dio, il dono della sua auto-comunicazione all’uomo nella storia e il comprendersi dell’uomo nella ricerca della verità di se stesso qui nelle realtà terrene.
Si ripartì da quell’esperienza in cui l’uomo sperimenta di trascendersi e di comprendere se stesso a partire dall’incontro con l’altro, aperto all’ignoto e uditore della sua parola. Si ripartì dalla consapevolezza che nell’incontro si manifesta il volto di una presenza e di una conseguente responsabilità che non può mai essere circoscritta, compresa e misurata come si fa con gli oggetti, con le cose, perché smisuratezza e insondabilità ne costituiscono i tratti originari.
Fu così possibile al concilio ripensare con audacia, confrontarsi con le questioni antropologiche, culturali o politiche degli uomini e delle società, sino a giungere al rinnovamento della cristologia. Poter “dire Cristo” anche all’uomo di oggi, ridisegnandone il profilo a partire dalla sua umanità: in questo modo, il concilio indicava l‘humanitas Christi come chiave ermeneutica e principio di discernimento per affrontare i problemi più concreti e più gravi della modernità.
Se domandassimo al concilio qual è il “sacramento fondamentale”, il luogo di incontro con Dio e con l’umanità, senza dubbio ci risponderebbe: «l’umanità di Cristo». Allo stesso modo se chiedessimo qual è la “comunità fondamentale”, risponderebbe quella tra l’uomo e Dio: ovunque si dia apertura e accada tra loro intima unione di amicizia, in cui esperire e praticare l’unità di tutto il genere umano.
Lo esprime magnificamente Gaudium et spes 22, che rappresenta per così dire il ‘prologo’ di questa cristologia in ricerca dell’umanità di Gesù: «Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo. Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con intelligenza d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo… soffrendo per noi non ci ha dato semplicemente l’esempio perché seguiamo le sue orme, ma ci ha anche aperta la strada: se la seguiamo, la vita e la morte vengono santificate e acquistano nuovo significato».
Ma gli stessi tratti si colgono anche nel discorso di chiusura del concilio che ci ha lasciato Paolo VI; specie in una pagina mirabile incentrata sul senso della chiesa per l’alterità, in ricerca del volto del Deus absconditus nell’umano: «Che se, venerati Fratelli e Figli tutti qui presenti, noi ricordiamo come nel volto d’ogni uomo, specialmente se reso trasparente dalle sue lacrime e dai suoi dolori, possiamo e dobbiamo ravvisare il volto di Cristo (cfr. Matth. 25, 40), il Figlio dell’uomo e se nel volto di Cristo possiamo e dobbiamo poi ravvisare il volto del Padre celeste: “chi vede me, disse Gesù, vede anche il Padre” (Io. 14, 9),il nostro umanesimo si fa cristianesimo, e il nostro cristianesimo si fa teocentrico; tanto che possiamo altresì enunciare: per conoscere Dio bisogna conoscere l’uomo. Sarebbe allora questo Concilio, che all’uomo principalmente ha dedicato la sua studiosa attenzione, destinato a riproporre al mondo moderno la scala delle liberatrici e consolatrici ascensioni? non sarebbe, in definitiva, un semplice, nuovo e solenne insegnamento ad amare l’uomo per amare Iddio? Amare l’uomo, diciamo, non come strumento, ma come primo termine verso il supremo termine trascendente, principio e ragione d’ogni amore. E allora questo Concilio tutto si risolve nel suo conclusivo significato religioso, altro non essendo che un potente e amichevole invito all’umanità d’oggi a ritrovare, per via di fraterno amore, quel Dio “dal quale allontanarsi è cadere, al quale rivolgersi è risorgere, nel quale rimanere è stare saldi, al quale ritornare è rinascere, nel quale abitare è vivere”, (S. August., Solil. 1, 1, 3; P. L. 32, 870)», (Discorso di chiusura, 7 dicembre 1965).
Passare dall’altra parte, come un passare di nuovo al vangelo è così apertura, un dischiudersi di futuro, anche per la chiesa d’oggi, il suo credere: «L’avvenire può essere solo quello del Vangelo», ma questo «non consiste nell’assicurare innanzitutto la propria sopravvivenza in quanto istituzione religiosa, ma nel permettere al Vangelo di Gesù di passare al mondo attraverso di essa per annunciargli la salvezza, e adempierla» (Joseph Moingt).
Si sta andando verso qualcosa di diverso; viviamo un momento di passaggio, che ci porta verso un’altra maniera di essere e fare chiesa, un altro modo di situarci nel mondo, di fare popolo di Dio, di essere preti e laici nella chiesa. È solo un’illusione quella di tornare indietro a ricostruire rovine, a ricostruire muri tra il sacro e il profano. La Chiesa altro non otterrebbe che autoescludersi, se ambisse a riprendere il potere (fortunatamente) perduto sulla società. Ben altre sono le influenze che la vicarìa di Cristo sulla terra è chiamata a esercitare: i poveri, gli esclusi reclamano una chiesa che si faccia buona notizia, vangelo, soprattutto per loro e non senza di loro.
Ignazio Silone (1900-1979) in Fontamara, romanzo ambientato tra i contadini della Marsica abruzzese, descrive bene lo status degli ultimi, di coloro che subiscono ingiustizia, che sono sopraffatti dai raggiri, dal dispotismo e dalla legge del più forte. Nella prefazione leggiamo: «L’oscura vicenda dei Fontamaresi è una monotona via crucis di cafoni affamati di terra che per generazioni e generazioni sudano sangue dall’alba al tramonto per ingrandire un minuscolo sterile podere, e non ci riescono… ma la sorte dei Torlognes è stata proprio il contrario. Nessuno dei Torlognes ha mai toccato la terra, neppure per svago, e di terra ne possiedono adesso estensioni sterminate, un pingue regno di molte diecine di migliaia di ettari. … I contadini poveri, gli uomini che fanno fruttificare la terra e soffrono la fame, i fellahin i coolies i peones i mugic i cafoni, si somigliano in tutti i paesi del mondo; sono, sulla faccia della terra, nazione a sé, razza a sé, chiesa a sé; eppure non si sono ancora visti due poveri in tutto identici». E così viene descritta la gerarchia sociale a Fontamara: «Michele pazientemente gli spiegò la nostra idea: “In capo a tutti c’è Dio, padrone del cielo. Questo ognuno lo sa. Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra. Poi vengono le guardie del principe. Poi vengono i cani delle guardie del principe. Poi, nulla. Poi, ancora nulla. Poi, ancora nulla. Poi vengono i cafoni. E si può dire ch’è finito”», (Milano 1949, 17; 14; 31).
Quello che Silone racconta con la scrittura ‒ lui si definì “un socialista senza partito e cristiano senza chiesa” e Albert Camus disse di lui “Guardate a Silone egli è radicalmente legato alla sua terra, eppure è talmente europeo” ‒ Georges Rouault (1871-1958) lo ha fatto con la pittura. Non per caso era il pittore contemporaneo che Silone preferiva, e del quale amava soprattutto i volti del Cristo (le Saintes Faces). Tanto da dire che Il Cristo di Rouault era il più tremendamente e umanamente sofferente che avesse mai visto, così da ricordargli un personaggio di Fontamara.
Rouault dipinse la scena dell’incredula fede di Tommaso che si apre al riconoscimento del Risorto, fattosi presente in mezzo ai suoi dopo la risurrezione. Lo fece ritraendolo con un volto ed un corpo umano a cui è stato strappato dal dolore ogni decoro e dignità. Eppure egli intitolò il quadro “Sei tu Signore ti riconosco”. Perché la fede è proprio questo: la capacità di passare dall’altra parte, di riconosce e accogliere ‒ «with unpuzzled heart» ‒ con indiviso cuore nel volto degli ultimi lo stesso volto di Cristo, e nel Suo volto la loro e la propria storia.
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