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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


GLI SPARI SOPRA
2020, l’anno in cui non siamo stati da nessuna parte

Io sinceramente di questo 2020 non c’ho capito un cazzo, non so voi. Un anno che non passa mai, ma che è volato via come uno starnuto.
Mi viene in mente il diario del Che in Africa L’anno in cui non siamo stati da nessuna parte, un mondo allo sfascio dove gli oppressi rimangono tali e gli sfruttatori pure, dove quasi tutti noi diamo il peggio di ciò che abbiamo. Dove chi lavora in prima linea combatte ogni giorno per la sopravvivenza dell’umanità, mentre nelle retrovie ci si scanna per una razione K in più.

Siamo una nazione che ragiona per opposte fazioni, Bartali e Coppi, Mazzola e Rivera, economia e salute. Prima noi e dopo gli altri, in un turbine di incongruenze, dove si parteggia per se stessi camuffandosi da popolo.
Nessuna unità d’intenti, governo e opposizioni, opposti personalismi, parole scontate (comprese le mie).

Mille domande e mille titubanze su ciò che non sappiamo, ma poi adoriamo i feticci da migliaia di anni, la mascherina ti uccide, il virus no, il vaccino non è sicuro, ma poi si calano due Viagra a weekend, tuteliamo i nostri diritti, siamo in una dittatura che ci toglie la libertà di infettarci e infettare. “Vogliamo essere sicuri, mica abbiamo l’anello al naso, ci volete fregare, diventeremo schiavi di Bill Gates, il 5G ci traccerà dappertutto” farnetica il social compulsivo mentre posta il milionesimo selfie con la bocca a culo di gallina.
Vorrei scendere da questo turbinio di notizie, dalla pletora di post copiati senza la ricerca di una minima, fottuta fonte.

Una classe politica specchio della peggior caratterizzazione razzista dell’italiano che sbarcava a Coney Island.
Nel marasma di governo e opposizione, nell’orgia di esperti e incompetenti seriali, impresari e imprenditori, operai e partite iva.
Imposte sul valore aggiunto dell’umanità.
Chi parteggia per il governo che lo rappresenta, chi parteggia per l’opposizione che lo rappresenta, io che sono rappresentato, a occhio e croce, da un quasi nulla parlamentare, credo che al netto dei tanti errori, nel tanto benaltrismo, negli innumerevoli tira e molla o apri e chiudi, se al governo ci fosse stata l’attuale opposizione i morti e la bagarre sarebbero stati di molto superiori.
Si sa, la storia non si fa con i se e tanto meno con i ma, e nulla è ovviamente più opinabile di una opinione.

A febbraio il mondo si è ritrovato all’interno di un film catastrofista di terza serie, dove un virus letale minacciava il mondo intero. Nessun Brad Pitt, era però pronto a salire su un aereo militare per scovare la fonte del contagio tra mille peripezie e salvarci da noi stessi incolpando un innocuo pangolino… mentre ci mangiamo felici uno spiedino di pipistrello.
Dopo quasi un anno abbiamo ancora la voglia ossessiva di additare il colpevole, quando il baco è nel sistema. La solidarietà è diventata motivo di vergogna, aiutare chi è in difficoltà ci pone sempre di fronte a un bivio, è dei nostri o no?
Perché se non è dei nostri, non va aiutato, anzi e lui stesso una concausa del male.

Quanto ci piacevano le lenzuolate di privatizzazioni, quanto eravamo felici nel vedere gli imprenditori fagocitare la sanità, com’era bella quell’idea del preside dirigente della scuola pubblica, in tanti gridavano “libertà!” Quando il privato si faceva finanziare con soldi pubblici.
E ora, cosa si fa? Parola torna indietro?

Non vorrei ricadere come sempre nel mio trito e ritrito slogan che pressappoco cita così: il problema non è la pandemia, ma il capitalismo.
Vorrei fermarmi prima, mi piacerebbe riconoscere, tra mille immagini farlocche, quelle vere. Mi piacerebbe che si desse più risalto a chi davvero combatte per distruggere questa torre di Babele avvelenata dalle radici.
Dopo la seconda stella a destra esisterà davvero un mondo anarchico che si dota di regole prima che gli altri le facciano per lui, saremo ancora in tempo oppure, dopo avere avvelenato l’ultimo fiume, pescato l’ultimo pesce, ucciso l’ultimo bisonte, ci ridurremo a mangiare le banconote che escono dalle banche? (Tatanka Yotanca).

Si parla di terza ondata, mentre ancora stiamo affogando nella seconda.
Politici, imprenditori e persone comuni utilizzano il termine libertà per indicare la schiavitù dell’ignoranza. Siamo disperati perché ci rubano il Santo Natale, ci tolgono la possibilità di riunirci con i parenti anche anziani, magari di infettarli, tanto sono vecchi, sono inutili, sono un prezzo consono, tanto muoiono sotto il fuoco amico.
La disumanizzazione del nemico è uno dei metodi utilizzati dagli eserciti, dai dittatori e dagli sterminatori di tutti i tempi per alleggerire l’anima dei soldati e dei carnefici. Questo metodo inconscio (o forse no), in questo mondo fetido di questo fetido 2020, viene utilizzato da una parte della classe dominante per individuare il rischio accettabile, quel pericolo per magnitudo che ben conoscono gli operatori della sicurezza quando valutano il rischio.
Cioè per ritornare a far galleggiare l’economia è ben plausibile una qualche decina di migliaia di morti in più, un po’ come quel migliaio di morti da portare al tavolo delle trattative di cui farneticava il pelato di Predappio.

Una ruota che gira a discapito di tutto e tutti, mille scuse da addurre ognuno al proprio egoismo. Non possiamo lasciar soli gli anziani quindi abbracciamoli in questa stretta mortale. Non possiamo chiudere le attività, perché poi i morti saranno mille e mille di più…
Lo sci, le piccole imprese, e il governo che fa? Studia app inapplicabili con l’aiuto di esperti che aprono e chiudono compulsivamente l’interruttore delle nostre vite.

I conti si faranno alla fine, che non mi pare imminente. Noi, ognuno inserisca la propria categoria, speriamo d’esser tra quelli che contano e non tra quelli che saran contati.

Scagionarsi dall’anonimato, senza una ragione sociale

Non ho almanacchi, almanacchi per l’anno nuovo da vendere. Anzi, i nostri sono tempi che gli almanacchi ci ingombrano, ce n’è sempre di troppi in casa e finisce che si gettano nella spazzatura.
È la metafora ormai delle nostre esistenze, non solo non torneremmo indietro, ma neppure siamo certi di andare avanti.
Se nel dialogo leopardiano tra il venditore di almanacchi e il passeggero, quel passeggero fossimo noi non diremmo: “Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce, non la vita passata, ma la futura”. Le nostre parole sarebbero che l’anno che sta per passare ha fatto schifo e che il prossimo certo non sarà migliore, senza bisogno di competere con il pessimismo del poeta di Recanati. Cosa ci è successo, cosa ci succede.

Un aiuto ci può venire da quella che Jared Diamond nel suo libro, Collasso, definisce “normalità strisciante”. Scrive: “Se l’economia, le scuole, il traffico automobilistico, o qualsiasi altra realtà del vivere quotidiano peggiorano poco alla volta, è difficile riconoscere che, ogni anno che passa, la situazione diventa leggermente peggiore; di conseguenza, lo standard in base al quale definiamo la ‘normalità’ cambia in modo graduale e impercettibile. Ci possono volere decenni e una lunga sequenza di lievi cambiamenti, anno dopo anno, prima che ci si renda conto che la situazione era un tempo decisamente migliore, e che quello che ormai si accetta come normale risponde a standard assai inferiori a quelli del passato”. A cambiarci, secondo Diamond, contribuisce anche “l’amnesia del paesaggio”: è facile dimenticare quanto fosse diverso molti anni fa il territorio su cui viviamo, se il cambiamento è avvenuto in modo graduale.

Noi lo sappiamo e fingiamo di non saperlo. Non ci attendiamo nulla di nuovo dall’anno nuovo, continuiamo a vivere con la cautela della diffidenza, senza riuscire mai a notare la presenza di un problema prima che sia troppo tardi.
Più la società si fa aperta, più individualmente abbiamo l’impressione di essere esposti ai colpi del destino. Ci illudiamo di governare la rete globale dell’informazione e della comunicazione, col risultato che siamo sempre più soli di fronte alla nostra sorte. Ed è questo sorteggio che sfugge alle nostre mani a farci dubitare che il domani sarà migliore dell’oggi.
I cambiamenti si dilatano nel tempo, si fanno impercettibili per poi esplodere inaspettati. Ma noi la dimensione a lungo raggio non siamo in grado di praticarla. Sembriamo tutti figli del carpe diem a partire dalla polis che ci amministra a breve termine, in tempi contingentati.

Il problema dell’essere torna a costituire l’inquietudine della nostra esistenza, ma Platone e Aristotele non ci possono più soccorrere. Il tema dell’essere riguarda il rapporto tra una macchina moderna sempre più complessa e un uomo sempre più elementare. È come vivere al buio, senza senno, privi di forza, di occhi e di mani. Come se avessimo consumato tutto di noi stessi e non fossimo in grado di fare altro che lasciarci trascinare dagli eventi, incapaci di orientarli. Quando non si sa dove andare è difficile vivere con una prospettiva, tutto si appiattisce sul presente, sull’emergenza, sull’urgenza, non ci sarà un anno nuovo che verrà, ma solo del tempo da passare occupati a difendere la nostra sopravvivenza.

Niente programmi, niente ambizioni di lungo respiro, tutto è crisi da affrontare e da superare, armati in una guerra che arruola tutti, giovani e vecchi, da combattere con le armi del rimedio, dei tamponi, del provvisorio.
In guerra ognuno pensa a portare a casa la propria pelle. L’individualismo, l’affievolirsi dei legami umani e l’inaridirsi della solidarietà sono le monete di nuovo conio da spendere nella vita quotidiana. Ci siamo persi di vista. Abbiamo perso di vista anche noi stessi. Il nostro essere dimenticato in qualche piega o anfratto della vita, che ancora attende d’essere riscattato dagli sciamani che gli danzano intorno.

È l’esser-ci, il Da-sein, per dirla con il filosofo, il senso dell’esistenza che dovremmo rinnovare ad ogni anno nuovo, la nostra eucarestia pagana, la comunione che ci nutre. Ma abbiamo voltato le spalle al futuro, gli anni che verranno non saranno più anni, solo lunghe interminabili attese di un futuro sempre uguale se non peggiore. È questo il disturbo nostro e della nostra società per il quale ancora non abbiamo approntato i balsami.

Dai rimpasti indescrivibili di materia, estraggo residuati
fantastici, sotterro agonie di concepimenti mancati. Fra risvolti di
un’età incalcolabile, interna al passato, scavo cercando organi
appartenutimi che mi scagionino dall’anonimità.

Sono versi del poeta Valentino Zeichen.
Scagionarsi dall’anonimato. Scagionarci dalla nostra colpa d’essere anonimi, senza una ragione sociale, come può essere l’anno che viene, se verrà come un anno o come la somma d’un tempo da passare.

 

Per leggere gli altri articoli di Giovanni Fioravanti della sua rubrica La città della conoscenza clicca [Qui]

 

La prigione del Natale

Justify Me (Nate James, 2005)

Un’ora d’aria attesa giusto un anno. Luci e filastrocche come tradizione vuole, caramelle e musiche di zucchero e miele. Quieta è la notte che non porta consiglio. Solo illusioni di buone azioni, solo pensieri addomesticati, voti mai mantenuti. Fino al prossimo natale.

Dunque tutto uguale, ogni volta, ogni Santo Natale. Ma non stavolta.
Incombe la minaccia, soccombe la certezza. Solitudine forzata, festa rovinata. Non per me.

Per me che non è cambiato nulla, e sono tre anni ormai. Ogni natale è una croce dalle punte insanguinate, una lama arrugginita che riapre vecchie ferite. E brucia, e tormenta queste mie piaghe mai guarite.
E questa notte, ancora una volta, ho sognato il natale insieme a te. Ho sentito il tuo petto respirare accanto a me. Ho visto stelle d’argento illuminare il tuo viso. Ho chiesto alla notte di cullare il tuo riposo.
Ma scende la pioggia in questo grigio mattino, e scendono lacrime su questo vuoto cuscino.
Gocce d’argento nella luce spettrale, l’ennesimo sogno d’un perduto natale.

Certo, la solitudine brucia l’anima e il vuoto tutt’intorno richiama il tuo ricordo. Eppure vorrei fermare il tempo. Vorrei che questo natale non finisse mai. Dio se lo vorrei.
Perché il tuo ricordo è una culla, perché la tua assenza mi stordisce, m’ubriaca, diventando presenza.
Perché, per quanto amara, m’è dolce questa prigione. Effimero, morbido e caldo rifugio che mi protegge, mentre la vita passa di fuori gettando avanzi, come sempre, senz’occhi e senza cuore.

Perché oggi era l’incanto, oggi soltanto. Buon Natale amore.

PRESTO DI MATTINA
L’attesa della stella cometa

Il nascere della parola di Dio nella forma terrosa, dentro la tenda d’argilla della nostra umanità, è simile al risvegliarsi del nostro dire, l’inizio rinascente della parola dopo il silenzio della notte. Parola sorgiva, unica, irripetibile, rispetto a quelle che seguiranno. Così come irripetibile, nel giorno, è il sorgere dell’aurora: quell’istante lunghissimo di puro abbandono, un consegnarsi confidente all’oscurità che continua a ad ergersi di fronte, impenetrabile. Allo stesso modo l’incipiente parola si fa animo rompendo il generale silenzio, come germoglio che apre la terra e subito si dischiude alla parola la luce.

Così come, al momento della sua nascita, il primo balbettio di Gesù viene generato e anticipato da quell’ “eccomi” di smisurata e disarmante fiducia pronunciato dalla Madre, acclamata nella liturgia “mistica aurora della redenzione” ‒ in modo tale che lui pure, il figlio, venendo alla luce ripete, accordandosi con lei, il suo “eccomi”, al quale seguiranno, come da fonte cristallina, tutte le altre parole come una buona notizia, un vangelo ‒ parimenti avviene in noi al risveglio della parola che germina dal silenzio. È nota primigenia, cantus firmus, melodia che permane velata, come base comune in una composizione polifonica. Essa subito si sottrae, nascondendosi tra le linee del pentagramma, lasciando libero lo spartito per le altre note che seguiranno. E tuttavia di lei s’intende sempre come un’eco profonda che lascia in ogni nota la sua impronta e la sua fiducia.

Fiducia, certo: perché ci ricorda Maria Zambrano che al risveglio la parola iniziale non viene mai da sola, ma è sempre accompagnata da una fiducia radicale che per questa filosofa spagnola costituisce la radice stessa della parola nascente: «la parola si desta dentro questa fiducia radicale che si annida nel cuore dell’uomo e senza la quale egli non parlerebbe mai. E si direbbe persino che la fiducia radicale e la radice della parola si confondano tra loro, o si diano in un’unione che permette alla condizione umana di emergere. È di indole docile la parola, lo mostra nel suo destarsi quando comincia a sgorgare indecisa, come un sussurro in parole slegate, in balbettii, appena udibili, come un uccello ignaro che non sa dove andare, ma si dispone ad alzare il suo debole volo. E la parola originaria, ritiratasi in sé, torna al suo silenzioso e nascosto vagare, lasciando l’impronta impercettibile della sua diafanità. Non si perde, però. Come un balbettio, come un sussurro della fiducia inestinguibile, attraverserà la serie delle parole dettate dall’intenzione, liberandole per qualche attimo dalle loro catene. E in questa breve aurora si avverte il germinare lento della parola nel silenzio. Nel debole bagliore della resurrezione la parola finalmente si stacca lasciando intatto il suo germe, annunciato dal pallido albeggiare della libertà, un attimo prima che la realtà irrompesse. E così la realtà rimane sorretta dalla libertà e con la parola avviata a dirsi, a prender corpo. La parola e la libertà precedono la realtà estranea, che irrompe dinanzi all’essere non ancora compiutamente destatosi nell’umano» (Chiari di bosco, Milano 2004, 28-29).

Così sento il Natale del Signore, il venire della sua parola in me, come l’aurora nella mia notte che sprigiona il mio “eccomi”: parola primigenia che si affida. Se ritarda, l’attendo con fiducia, memore delle parole del profeta Abacuc: «se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà. Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fiducia» (2,3).

Si raccontano storie e si intonano canti soprattutto quando la fiducia si restringe, quando la si vuole ridestare nel cuore oppresso e appesantito dal sonno per l’attesa in una lunga veglia. Fu in simili circostanze che il vescovo Ambrogio di Milano compose i suoi inni. Era la settimana santa del 386, e Ambrogio si trovava barricato, giorno e notte, con i suoi fedeli all’interno della basilica di Milano, per difendersi dagli assalti degli ariani e delle truppe dell’imperatore. E fu proprio il canto degli inni da lui composti a infondere coraggio, a ridestare la fiducia del suo popolo mantenendo viva in loro la speranza di una riuscita. Da quel momento, grazie ad Ambrogio, nella chiesa latina si iniziarono a cantare inni e salmi secondo l’uso delle chiese orientali. Una prassi diffusa anche da Agostino che apprese da Ambrogio quell’ascoltare “la parola di dentro” che è il canto e non solo la “parola dall’esterno” recitata. Un canto scaturente da un atteggiamento interiore, orante e amante, perché «cantare ‒ egli diceva ‒ è proprio di chi ama».

Sono convinto che valga la stessa cosa per il narrare. Ed è per questo che voglio raccontarvi una storia che scrissi per un Natale di tanti anni fa, sulla necessità di attendere ciò che tarda a venire, fosse anche la Parola di Dio in questo particolare e ristretto Natale.

«Quell’anno la stella cometa giunse in anticipo a Betlemme. Aveva perso un poco della sua luce girando attorno al sole, ma aveva due code, e così era diventata più veloce. La luna era già quasi piena, e lo sarebbe diventata del tutto proprio la notte di Natale. Scese rapidamente su Gerusalemme, attraverso una densa coltre di nubi che copriva la città e si diresse subito a Betlemme.
Ma tutte le luci erano ancora spente, e quando arrivò alla capanna non trovò nessuno, nemmeno il bue e l’asinello o i fuochi dei pastori. Si sentì sola, una piccola luce in mezzo ad una grande oscurità.
Si fece coraggio e si mise ad aspettare. Ma aspetta che ti aspetta, il tempo passava e non si vedeva nessuno. Scoccò la mezzanotte ma niente ancora. Allora la cometa cominciò a dire tra sé: “visto che Erode cerca il bambino per ucciderlo, forse nascerà da un’altra parte! E i magi avranno seguito un’altra stella. Ma che tristezza essere venuta qui per niente”. “Quasi quasi me ne vado ‒ pensò dentro di sé ‒ almeno lassù in cielo avrò la compagnia delle altre stelle e della luna piena”. Aveva già puntato verso il cielo quando vide arrivare un pastore, che subito rivolgendosi alla stella disse: “ma guarda, credevo di essere in ritardo, ma non c’è ancora nessuno se non tu; meno male”.
Dimmi tu invece ‒ rispose la stella al pastore ‒ è proprio qui l’appuntamento?”, “Certo, certo rispose lui, ma non capisco questo ritardo”. Passò un’altra ora e alla stella scappò detto: “ma non verrà più, vedrai”. E continuò: “Qualche anima buona avrà ospitato Maria e Giuseppe nella propria casa”. “Ma nooo! ‒ disse un terzo pastore che nel frattempo era arrivato ‒ gli angeli non si sbagliano, hanno detto di venire proprio qui”.
E aggiunse poi che un profeta aveva scritto: “Lo splendore apparirà alla fine, e non mentirà: se tarda, attendilo, perché certo verrà e non indugerà” (Ab 2,3). “A volte le cose si dicono tanto per dire… io vado”, disse la cometa. “Aspetta” – la interruppe il primo pastore: “con noi, ora non sei più sola”; “aspetta ‒ disse il secondo ‒ le nubi si stanno diradando spinte via dal vento”. “Aspetta, aspetta, aspetta ‒ le disse il terzo ‒ ho visto tumulto a Gerusalemme e partire da essa una carovana di tre re”.
Così la cometa aspettò. E ogni pastore che arrivava le suggeriva di continuare ad aspettare e in quell’attesa, ad uno ad uno, i pastori cominciarono a raccontare le loro storie. Così il tempo passò e la cometa non si accorse nemmeno dell’arrivo dei viandanti di Nazaret. Solo gli altri pastori che vegliavano un poco più lontano il gregge videro arrivare Maria e Giuseppe e Gesù, che era già nato, avvolto in fasce, in braccio a Maria e diedero subito una voce.
Oh…” ‒ dissero ‒ “ma cos’è successo?” ‒ chiesero tutti. Allora Giuseppe raccontò che mentre erano in viaggio sentirono nell’oscurità piangere sommessamente in lontananza; lasciarono il sentiero e si addentrarono nei campi. Il pianto si fece più vicino e forte. Allora si affrettarono e scorsero, al riparo di una grotta, due persone, un uomo e una donna, con un bambino che aveva la febbre alta e le convulsioni. Ma proprio in quel momento giunse per Maria il tempo del parto e diede alla luce il suo figlio Gesù. Appena nato lo adagiò accanto a quel bambino febbricitante e Giuseppe coprì entrambi con il suo mantello. Maria iniziò a cantare un salmo e l’altra madre la seguì nel dolce canto: “Signore non si gonfia il mio cuore, superbia non turba il mio sguardo, non vado in cerca di cose grandi come bambino in braccio a sua madre; tranquillo e sereno mi sento come un bimbo svezzato su di me; è il mio cuore in Dio, speri sempre il suo popolo in lui.”
Allora la stella si riempì di grande splendore, tanto da illuminare quel luogo di una luce così splendente che la videro perfino da Gerusalemme, sino a oscurare la luce della luna piena e attirare a sé tutte le luci del cielo. Era così risplendente che quella notte sembrò un giorno radioso.
Fu allora che la stella disse ai pastori che tutta quella sua luce era tenebra al confronto di quella piccola luce che irradiava dalla famiglia di Nazaret. Maria e Giuseppe con il bambino erano in ritardo all’appuntamento perché, seguendo un’altra stella, quella parola di Dio, dono per ogni uomo che vive in questo mondo, avevano fatto un’altra strada più lunga.»

Una parola che narra di una compassione senza misura si espone per natura al ritardo. La compassione fa cambiare strada ogni volta che sente il pianto di un figlio ed Egli, ogni volta, gli va incontro attraverso il suo Figlio unigenito.
Così all’udire quelle parole i pastori compresero il versetto del salmo che dice: «Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino».

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]  

Il natale del professor Uberzeit
(QUARTA PARTE)

Dopo avere lasciato l’appartamento del professor Uberzeit Ivan e Louise si scambiarono un sorriso d’intesa. Louise sospirò: “Che uomo impossibile! Davvero non se ne poteva più!”
“Indubbiamente molto lamentoso – convenne Ivan – Il mal di testa, il mal di pancia, non mi lasciate solo, peggio di un bimbetto viziato, altroché superuomo. E quel tono solenne, quell’aria di importanza con cui profetizzava… Certo, una mente superiore, bisogna ammetterlo, diciamo pure un profeta, ma  in società bisogna pur mantenere un po’ di contegno, che diamine! Anche se, a modo suo, sapeva  essere divertente. Quella scena nel Duomo, per esempio, non era mica male. Prima o poi andrà replicata. Bè, non pensiamoci più e passiamo all’azione. Adesso temo che per un po’ dovremo dividerci, amore mio. Mi aspettano urgentemente a Baden-Baden, sai bene perché. Tu appena possibile corri a Mosca e io, entro un paio d’ore, mi farò trovare a Las Vegas. Già che ci siamo  potremmo approfittarne per sposarci lì in Nevada. Tanto per finire in bellezza.”
“Oh, che bella idea! – esclamò Louise sollevando vezzosa un piede in aria – Speravo proprio che un giorno me lo avresti chiesto” e lo leccò sull’orecchio.
“Sì, sì. Ci sposeremo e poi vivremo felici e contenti. Ma prima completiamo il lavoro. Nel giro di due giorni  l’operazione deve giungere in porto e così un giorno il mondo dirà che il patto stretto tra la Chiesa e il demonio è stato rispettato e la memoria del povero professore verrà onorata. E tutto potrà ricominciare da capo.”
Louise sorrise: “Ce la faremo, vedrai.”
“Bene. Mettiamoci all’opera.” Ivan tirò fuori dalla tasca l’oggetto che tanto aveva impressionato il povero Uberzeit, scambiò poche parole con un invisibile interlocutore e sparì a una velocità soprannaturale oltre la Mole Antonelliana. Louise salì al volo su un tram a cavalli tra la costernazione dei passeggeri, diede un bacio sulla fronte al bigliettaio e subito dopo anche lei si volatilizzò.
Dopo pochi giorni sui giornali si lesse che il casinò di Baden Baden aveva chiuso i battenti perché un misterioso giocatore, che si era spacciato per un banchiere russo di nome Ivan Karaevskij, aveva vinto alla roulette e sugli altri i tavoli da gioco lasciando a secco il banco e tutti coloro che avevano scommesso con lui. A distanza di poche ore il più grande casinò di Mosca era finito in rovina  perché un’avvenente contessa tedesca, sotto il falso nome di Margaretha Von Schiller, aveva fatto saltare il banco. Stessa cosa era accaduta a Montecarlo, a Brighton e infine a Las Vegas. Tra le pagine di cronaca era riportata la notizia dell’incendio di una nota libreria di Nizza, di proprietà di un certo Demetrio Dogliani, in seguito al quale lo stesso proprietario, sfuggito per miracolo al gigantesco rogo, aveva completamente perso la ragione.
Di per sé il fallimento delle principali case da gioco del mondo non avrebbe rappresentato un danno così rilevante se non fosse stato per la pessima abitudine dei più importanti banchieri internazionali e di molti ministri del tesoro di investire immensi capitali non solo nella proprietà dei casinò, ma nel vero e proprio gioco d’azzardo. Giocare d’azzardo coi risparmi dei clienti e con i titoli di Stato, naturalmente a insaputa della pubblica opinione, è molto pericoloso, specialmente poi se si incappa in personaggi come Ivan l’accordatore e la bella Louise. Pare addirittura che certi proprietari di casinò, vista l’aria che tirava, erano stati indotti a scommettere cifre da capogiro sul fallimento della loro stessa casa da gioco per poi reinvestire i guadagni in borsa, tranne alla fine perdere tutto quello che avevano vinto perché subito dopo era partita una speculazione gigantesca, una serie di vendite al ribasso che nessuno riusciva più a controllare. Nell’arco di una settimana aveva attaccato prima le borse e poi il dollaro e la sterlina, mentre le autorità politiche tentavano inutilmente di riportare la calma tra la popolazione. E’ facile immaginare le proporzioni della crisi finanziaria mondiale che ne derivò. Svendite selvagge, suicidi, fallimenti a catena, licenziamenti, ribellioni armate.
Alcuni politici tentarono di scaricare la colpa della catastrofe sul misterioso banchiere russo o sulla contessa Von Schiller, subito individuati come agenti di una infernale congiura giudaico-massonica. Raccontarono che quei due disponevano di diaboliche macchinette, certi strani congegni attaccati all’orecchio, che gli consentivano di comunicare a distanze intercontinentali scambiandosi  informazioni riservate. Al tempo stesso erano abilissimi nel diffondere in tempi rapidissimi informazioni false allo scopo di spargere il panico nelle borse di tutto il mondo. Altri arrivarono a dare la responsabilità del disastro mondiale a certi filosofi catastrofisti tanto di moda all’epoca, tra i quali aveva un posto di rilievo il povero professor Zeitsehen. Poi se la presero coi giornali dicendo che è il pessimismo a creare il panico e le turbolenze finanziarie, ma ormai certe verità sulle manovre losche di governanti e ministri del tesoro erano venute a galla. Dopo un momento iniziale di incredulità, di fronte al susseguirsi di prove certe e confessioni a catena, si venne a sapere che l’uso di cocaina e di oppio, insieme a una propensione patologica per il gioco d’azzardo e la frequentazione di ogni genere di prostitute, era la regola tra i governanti di quegli anni. L’opinione pubblica del mondo civilizzato ne rimase sconvolta. Nel frattempo molti di questi criminali politico-finanziari riuscirono a fuggire in paesi coloniali dell’Africa o dell’America Latina con i loro capitali sporchi di frode e di sangue.
Si respirava un’aria pesante, un’aria di linciaggi e guerre civili striscianti pronte ad esplodere. Nel frattempo diventava sempre più difficile ottenere informazioni più sicure e dettagliate su quei pazzeschi avvenimenti, perché i proprietari dei giornali erano falliti e nessuno trovava più i soldi per mandarli in stampa. Sul web si rincorrevano le voci più assurde, informazione seria e fiction, trame da romanzi fantasy si mescolavano in una totale confusione. Ormai la fantasia popolare  non conosceva più limiti. Circolavano voci assurde, leggende sul ritorno del diavolo e il trionfo dell’Anticristo. Anche la Chiesa di Roma perse ogni credibilità quando uscì la notizia che i banchieri del Vaticano avevano partecipato in grande stile al gioco d’azzardo internazionale, sia in borsa come nei casinò. Per non parlare dei sacerdoti e degli alti prelati, cattolici o protestanti che fossero, coinvolti in scandali sessuali e traffici di prostitute della più perversa natura.
‘Dio è morto’ divenne in quei giorni terribili lo slogan più popolare, insieme a una versione equivoca e molto banalizzata della filosofia del professor Uberzeit, i cui libri stavano riscuotendo grande successo. Qualcuno si spinse a tirarne fuori una canzonetta dal titolo ‘Dio è morto’.
L’esito finale di tanta confusione e di tanta improvvisa miseria poteva essere uno solo: carestie, epidemie di virus sconosciuti e pestilenze contagiosissime, guerre. Un rapido ritorno a tempi oscuri che si credevano archiviati tra le cronache di molti secoli prima. Ma questa, come si usa dire in mancanza di meglio, ormai è Storia.

(fine)

Prima parte [Vedi qui]

Seconda parte [Vedi qui]

Terza parte [Vedi qui]

Natale

Questo periodo natalizio di fine anno ci pone in una condizione cotraddittoria: se da un lato vale sempre la retorica festosa e coinvolgente che accompagna queste giornate con luminarie, addobbi, jingles, shopping troppo affollati e atmosfere inconfondibili, dall’altro ci costringe amaramente a confrontarci con una realtà che conduce a tutt’altri pensieri.
La voglia di abbandonarci alla festosità e leggerezza delle feste si scontra con il disincanto e tutto sembra stravolto, straniante, irreale. Strade deserte scintillanti di luci, serrande abbassate su vetrine popolate da ogni bendiddio, tristi tavolini spogli e sedie impilate davanti a locali che azzardano decorazioni natalizie che nessuno noterà.
E’ come calare il sipario pesante, severo, definitivo, sullo spettacolo movimentato, vivace, istrionico e colorato appena concluso, quando si ingenera quel senso di tristezza, rimpianto, voglia di continuare, e diventa difficile andarsene, riappropriarsi della propria vita e della propria realtà lontano dalle finzioni, dalle illusioni e dai diversivi delle scene.

Ma è comunque Natale, quella ricorrenza che si ripresenta puntuale ogni anno a bussare alle nostre porte, e merita l’accoglienza che le compete: un momento di raccoglimento con noi stessi e con coloro che ci è dato e permesso incontrare con una modalità o l’altra, grati che questa festa ci permetta una sospensione dagli affanni, le difficoltà e la fatica di vivere i nostri tempi. Siamo tutti piccole fiammiferaie, in questo momento, evocando la celebre fiaba di Hans Christian Andersen scritta nel 1848, che racconta  di una bambina che vendeva fiammiferi nella fredda notte di San Silvestro, tra i cumuli di neve delle strade di Copenhagen, per portare al patrigno qualche soldo ed evitare le botte. Nell’indifferenza dei passanti, la povera creatura decise di accendere i cerini per scaldarsi: nelle  fiammelle apparvero una stufa, una tavola imbandita, un albero di Natale e poi la sua nonna. Per prolungare quel senso di appagamento e felicità nel vedere l’anziana, la piccola fiammiferaia esaurì tutti i cerini. La ritrovarono senza vita accanto ai cerini bruciacchiati, vittima del gelo, degli stenti e di quei passanti indifferenti non disposti a sprecare nemmeno un penny in aiuto alla piccola.

Rischiamo anche noi il congelamento dei sentimenti, la perdita della speranza e delle nostre energie che stanno diventando ghiaccio, permettendo che le nostre esistenze raffreddino pericolosamente nella rassegnazione, vittime di un momento drammatico come questo, dove l’indifferenza e l’individualismo hanno gioco fin troppo facile. Non dobbiamo permettere che le nostre risorse vadano sprecate nelle fantasticherie, le sterili prese di posizione e le reazioni irrazionali, anziché agire per realizzarle; non sprechiamo i nostri cerini crogiolandoci nell’autocommiserazione e nell’isolamento esistenziale ma orientiamo e valorizziamo le nostre forze laddove sono accolte e valorizzate. Impegniamoci con fiducia – atteggiamento affatto facile – affinchè ristrettezze, sacrifici, precarietà, contraddizioni, incognite del presente si trasformino nel nostro momento significativo per arrivare a giorni più degni di essere vissuti, più forti e più umani. Entriamo nell’atmosfera del Natale e del Capodanno leggeri, spogliati della rabbia, l’acidità, la ciecità, l’intolleranza e l’indifferenza che ci pesano addosso, pur riconoscendo che è dura per tutti, consapevoli che tutti siamo chiamati ad assumerci la nostra parte di impegno e responsabilità  nel carosello di luci e ombre che ci avvolge. Allora sì, sarà davvero un Natale da citare e ricordare con emozione.

Il natale del professor Uberzeit
(TERZA PARTE)

Uscì dall’appartamento di Rue Lamartìne n.334 accigliato più che mai. Non solo la sua prediletta Louise, la sedicenne dagli occhi verdi e le sopracciglia folte, con la sua voce rauca da donna vissuta e i seni ancora acerbi, era stata trasferita in chissà quale orribile bordello di Marsiglia. Nessuna delle donne aveva voluto rivelargli notizie utili a rintracciarla – ovvie ragioni commerciali, c’era da aspettarselo – ma quel che è peggio lui aveva ceduto alle loro lusinghe come un miserabile omuncolo: un paio di orrende troie quasi quarantenni erano riuscite a portarselo nella camera blu, quella del sesso estremo. Senza contare il mazzo di fiori che era rimasto lì, sul tavolino dell’ingresso, mentre le troie e la stessa Madame Trichet, dopo avergli sfilato ben trecento franchi,  ridacchiavano tra loro delle romanticherie del ridicolo professore tedesco. Ripetevano in coro: “Merci pour les roses et merci pour les chrysanthèmes”, senza riuscire a trattenere un sorrisetto malizioso. E lui non avrebbe più udito quelle meravigliose, ingenue, deliziose canzoncine francesi che Louise gli cantava all’orecchio nel segreto dell’alcova.
Coi capelli in disordine, lo sguardo vitreo, pallido come un fantasma in fuga, il professor Uberzeit  ritornò verso la stazione dolorante nel corpo e nello spirito. Stringeva forte nella mano il grande libro di Dostoevskij, come se solo certi abissi dell’anima russa potessero risollevarlo da quel senso di prostrazione profonda.
Durante il viaggio di ritorno quasi non dormì. Coi pochi soldi rimasti dopo aver pagato il biglietto del treno, comprò da uno dei rivenditori ambulanti che popolano la riviera un paio delle tanto decantate focaccine liguri per placare la fame e solo dopo un paio d’ore di viaggio si accinse ad affrontare ‘I fratelli Karamazov’.  Per leggere un romanzo di oltre mille pagine, per giunta nella traduzione francese, il professore avrebbe impiegato quasi un anno, a causa della tremenda miopia e delle emicranie che lo sforzo della lettura gli procurava regolarmente. Ma lui era dotato di una speciale intelligenza selettiva, grazie alla quale da pochi indizi era in grado di risalire alla trama di qualsiasi romanzo, e con il suo intuito da grande lettore sapeva cogliere al volo le scene e i dialoghi più significativi. Nel caso in questione poi era facilitato dai titoli che illustravano ogni capitolo.
Ben presto, nonostante gli scossoni del treno sui binari e la poca luce, capì che in sostanza la vicenda era incentrata su un orribile vecchio tirchio e lascivo che era stato ucciso, così pareva, da uno dei suoi tre figli. O forse dal quarto, quello illegittimo, sul momento non ricordava. Ma il professore non era interessato a scoprire l’assassino quanto alle dissertazioni filosofiche del figlio Ivan, l’intellettuale della famiglia, il nichilista intelligente. Aveva già letto ‘I demoni’, sempre dello stesso autore, ed era rimasto impressionato dall’affinità sotterranea di certe idee con le sue, quelle  stesse idee inaudite che ormai si facevano sempre più limpide nella sua mente e che presto avrebbe proposto al mondo in una raccolta di aforismi di prossima pubblicazione. Ma certi dialoghi di Ivan Karamazov con il fratello Alesa e ancora altri brani, specialmente verso la fine del romanzo, toccavano delle vette che mai fino a quel momento altri scrittori avevano raggiunto. Quei dialoghi lo stimolavano, lo inquietavano e lo avrebbero costretto a rivedere certi suoi aforismi sulla morte di Dio e sulla potenza del caos.
Tornato a Torino, nel silenzio della sua casa, si riposò per un’intera giornata e riuscì perfino a dormire per alcune ore grazie a una potente dose di cloralio idrato, al quale ricorreva sempre più spesso per evitare di assumere dosi eccessive di oppio. Dopo essersi alzato si preparò un bricco di tè forte e sdraiato in poltrona davanti al fuoco del camino riprese a sfogliare qua e là ‘I fratelli Karamazov’. Alla fine dell’undicesimo libro, intitolato ‘Il fratello Ivan Karamazov’, si imbatté in un dialogo allucinante tra lo stesso Ivan e un personaggio che ben presto si sarebbe rivelato come una delle tante incarnazioni di Satana. Quell’apparizione lo colse di sorpresa, come fosse qualcosa che inconsciamente andava cercando da tempo, e sprofondò nella lettura.
Fu colpito soprattutto dal tono mellifluo, dalla gentilezza insinuante, che spesso scadeva in servilismo ipocrita, dell’ospite di Ivan Karamazov. Un dialogo così inquietante – bisogna dire che Uberzeit ultimamente era diventato molto, troppo impressionabile – che si vide costretto a interrompere la lettura. Anche perché il mal di testa e la miopia combinate insieme producevano uno strano fenomeno: i caratteri di stampa si curvavano e si deformavano fino a diventare illeggibili. Allora andava al vecchio pianoforte a parete che aveva preso in affitto ed eseguiva certe romanze di Wagner che conosceva a memoria o altri pezzi di sua composizione per poi riprendere la lettura.
Quando mancava poco alla fine del capitolo decise di concedersi un’ultima pausa. Ma mentre eseguiva al pianoforte una variazione del Tannhauser, ebbe l’impressione che l’accordatura non fosse perfetta. Eseguì un paio di scale e  scoprì che un la e ben due tasti neri – per l’esattezza un fa diesis e un si bemolle – emettevano un suono sordo e stridente. Decise di non lasciarsi vincere dalla malasorte – con quali soldi avrebbe mai potuto pagare un accordatore? – e ripiegò su una sua composizione degli anni universitari, una specie di inno alla giovinezza ispirato alla nona di Beethoven. Trovò anche lo spirito giusto per tentare subito dopo un’improvvisazione su un preludio di Chopin, un brano che suonava sempre da ragazzo, e si azzardò perfino a intonare con voce incerta la melodia. Era così rapito dalla musica che alcune lacrime cominciarono a scorrergli lungo le guance – gli succedeva spesso di fronte alla bellezza – ma ben presto incappò in un intero accordo di re settima diminuita completamente sballato. Imprecò in tedesco stretto contro il pianoforte e lo richiuse di botto. Non gli restava che tornare alla lettura del maledetto russo.
Ed ecco che il diavolo, o quella sua miserabile incarnazione borghese, si mette a spiegare, parodiando il povero Ivan Karamazov, che questo uomo nuovo a cui tutto è permesso, l’Uomo-Dio, dall’alto della sua superiorità potrà infischiarsene di qualunque morale nonché del bene e del male. Ma la ferocia nichilista che si abbatterà sull’umanità tutta sarà alla fine riscattata dall’avvento di una nuova era, l’era dell’amore universale. Purtroppo però, aggiunge il diavolo con un ghigno beffardo, è difficile prevedere quando questa fantastica era arriverà. E allora Ivan, sconvolto da quel ghigno, gli lancia addosso il bicchiere ricolmo di tè. Di fronte a quella scena grottesca il professor Uberzeit sobbalzò. All’improvviso gli fu chiaro fino a che punto quel mascalzone epilettico si fosse impossessato delle sue idee. Non solo, ma dopo essersene impossessato, in un certo senso gliele stava sbattendo in faccia, mettendole in parodia. Il paradosso più perverso poi stava nella trasformazione finale di quello scrittore russo in un disgustoso predicatore bigotto baciapile. Di quelli che si sdraiano in terra in chiesa e picchiano il capo sul pavimento davanti al crocifisso fino a rincretinirsi completamente.
In sostanza tra le righe gli stava dicendo: “Guarda, caro mio, che con tutte queste tue belle idee rivoluzionarie e distruttive otterrai soltanto di gettare nel panico l’umanità, in un vuoto e in un’angoscia dai quali i più crederanno di salvarsi solo con delle religioni ancora più fanatiche e superstiziose. E i politici ne approfitteranno per instaurare mostruose dittature che negheranno agli individui ogni libertà.”
Fu assalito da un’ondata di panico: qualcuno lo aveva anticipato per poi beffarlo, come se Satana si fosse scomodato a salire tra gli umani solo per dimostrare che il cosiddetto Uomo superiore non aveva capito niente e che, a ben vedere, Gesù Cristo, dalla sua scomoda posizione appeso ad una croce, in realtà era uno che la sapeva lunga. E un giorno tutti i detrattori del cristianesimo si sarebbero amaramente pentiti della loro presunzione. Quel russo, prendendo a prestito le sue idee e poi ridicolizzandole, lo aveva ridotto, lui, Uberzeit, a una specie di pagliaccio.
Tornò furioso al pianoforte, ma fin dal primo tocco uscirono dai tasti solo dei miagolii lamentosi, lugubri, che neanche un gatto sotto tortura avrebbe potuto emettere. A quel punto non poté trattenersi dall’urlare oscenità blasfeme indegne di lui, come se un essere di inimmaginabile  volgarità si fosse impadronito della sua anima. Quand’ecco che, proprio come poco prima era accaduto nel romanzo di Dostoevskij, qualcuno bussò alla porta d’ingresso.
Uberzeit riceveva pochissimi visitatori, e meno che mai a sorpresa. Si avvicinò circospetto alla porta d’ingresso e chiese chi fosse:
“Sono l’accordatore. Sono venuto per il pianoforte.” disse una voce maschile in perfetto tedesco.
“Io non ho chiamato nessun accordatore. Chi le ha detto di venire da me?” replicò il professore temendo qualche scherzo di un suo ex studente o, peggio, qualche ladro.
“Sono stato chiamato da un suo vicino di casa. Un suo ammiratore che non ne poteva più di sentire così deformata e straziata quella divina musica tedesca.”
Uberzeit si lisciò i baffi. Un suo ammiratore! Possibile che qualcuno davvero l’ammirasse? Dopo essersi sentito il pagliaccio del secolo, fu attraversato da una ondata di puerile vanità. Mise da parte ogni sospetto e aprì la porta.
“Prego, si accomodi” disse, dimenticandosi di non avere i soldi per pagare un accordatore.
Il visitatore entrò velocemente in ingresso e dopo una rapida occhiata in giro disse: “Ah, ecco qua il nostro pianoforte!” e zoppicando si diresse in salotto. Il professore lo guardò sconcertato. L’uomo indossava un vestito marrone a quadretti piuttosto logoro e striminzito e un cappello tondo dalla forma simile a un elmetto militare. A ben vedere però piuttosto che zoppicare sembrava che scivolasse sul pavimento tenendo il piede sinistro sollevato, come se stesse salendo un gradino inesistente. Non saltellava sul piede destro, come sarebbe stato naturale in quella posizione, ma piuttosto  scivolava come se pattinasse.
Ma la visione più sbalorditiva fu quella della donna al suo seguito, che l’accordatore si limitò a presentare dicendo: “Louise, la mia aiutante.”
Questa aiutante, alta più del professore, sui trent’anni, dal seno prorompente e quasi del tutto scoperto, coi capelli biondo oro che si inanellavano fino ai fianchi, indossava una tunica rossa a pieghe, simile a quella di certe ancelle greche, che arrivava appena sotto l’inguine.
“Molto lieta” disse in ottimo tedesco la donna con voce bassa, quasi virile.
I due entrarono nel salotto del professore come se fossero di casa e si piazzarono ai lati del pianoforte borbottando qualcosa di incomprensibile. L’accordatore si sedette sullo sgabello, si fregò le mani, poi si fece scrocchiare le dita una ad una e cominciò a eseguire una scala di do.
“Che disastro! – esclamò – Cosa è successo? Sembra che ci sia finito un gatto qua dentro!” e gli scappò una risatina.
Alzò il coperchio con fare prudente e si sporse sul bordo.
“Guarda, guarda… – disse, e lentamente tirò fuori da lì sotto uno strano oggetto nerastro che il professore, a causa della miopia, non riuscì a mettere a fuoco – Altroché gatto, caro Herr Professor! Questo è un topo, e per giunta un topo molto puzzolente!”
Tenendolo sollevato per la coda lo mostrò a Uberzeit, il quale alla vista di quella bestiolina martoriata dai tasti del pianoforte sembrò sconvolto.
“E’ orribile! – esclamò – Io ho fatto questo a quel povero innocente, innocuo animaletto? Come ho potuto!” e sembrava quasi sul punto di scoppiare in lacrime.
L’accordatore lo fissò sconcertato. Poi, in tono severo disse:
“Suvvia, professore! Non mi sembra il caso di prendersela così a cuore per un miserabile topo. Che per giunta non mi sembra tanto innocuo, dato l’odore che manda!” Si tappò il naso con gesto plateale e lo porse alla sua aiutante.
“Eliminalo, Louise!” ordinò. Intanto la stanza si era riempita di un fetore intollerabile, e Zeitsehen  si chiedeva come mai non si fosse accorto prima di quel tanfo così penetrante.
La donna ancheggiando aprì la finestra e tenendolo sempre per la coda lanciò il topo giù di sotto. Poi chiuse la finestra, si strofinò le mani, sorrise ai presenti e si accomodò accavallando le gambe su uno stretto divano a pochi passi dal professore. Il quale, nonostante la miopia, non poté fare a meno di intravedere qualcosa di molto femminile balenare tra le sue cosce. Evidentemente l’aiutante dell’accordatore non indossava biancheria intima. Cominciò a sudare freddo e non riuscì a dire nulla, anche se avrebbe voluto. L’emicrania gli scese giù lungo la spina dorsale e gli provocò un atroce mal di schiena.
“Vediamo ora come va” disse tranquillo l’accordatore, e con piglio sicuro attaccò la celebre sonata di Beethoven nota come ‘L’appassionata’.
Mentre ascoltava il professore pensò: “Questo non è un accordatore, questo è un pianista di talento…” e intanto si andava chiedendo chi fosse davvero quella donna, così bella e così volgare, con quella voce maschile, seduta sul suo divanetto…
“Tutto a posto, Herr Professor – esclamò l’accordatore alzandosi di scatto e dirigendosi con la mano tesa verso Uberzeit – Adesso può suonare quello che vuole, per la gioia sua e del vicinato” e mentre gli parlava lo fissò in un modo strano, come se il suo sguardo si divaricasse e le pupille finissero col concentrarsi sulle orecchie e non sugli occhi dell’interlocutore. Eppure quell’uomo non era strabico.
“Non so quanto le devo…” farfugliò il professore.
“Lei mi deve molto, ma non mi dia nulla – replicò quello sfilandosi dalla tasca dei pantaloni un paio di occhiali da sole dalla montatura di corno e indossandoli – Anch’io sono un suo ammiratore. E naturalmente anche Louise…” e sorrise di un ghigno largo e gelido. “Noi amiamo, anzi, adoriamo la musica. Specialmente quella tedesca.”
“Ma lei ha lavorato per me e appena possibile io farò recapitare il dovuto a… a chi devo l’onore?”
“Mi chiami pure Ivan l’accordatore. Sempre a sua disposizione per sistemare e intonare tutto ciò che è rotto o stonato. Ma glielo ripeto: non si preoccupi di parcelle o compensi. A me basta sapere, caro Herr professor, che lei non rinuncerà mai alla sua arte e alle sue idee e non si lascerà intimorire. Perché lei è un grande uomo, io lo so, ma pochi lo sanno. Forse lo sappiamo solo io e Louise. Soprattutto non tema l’impopolarità. Anche quando tutti la giudicheranno un pazzo, bè, quello sarà il momento della sua massima gloria.”
Gli strinse la mano e uscì scivolando sul pavimento sempre con il piede sinistro sollevato. Louise gli si avvicinò e con un inchino gli afferrò la mano e gliela baciò.
“Guten Weinachten, Herr Professor” disse augurandogli il buon natale con una splendida pronuncia tedesca. Poi, sempre ancheggiando, uscì richiudendosi la porta alle spalle.
Uberzeit si era dimenticato che era il 25 dicembre. Rimase a fissare con terrore crescente la porta d’ingresso chiusa. Era davvero dotato di capacità profetiche e capì che stava succedendo a lui quello che era successo al povero Ivan Karamazov. Non poteva sbagliarsi. Perché nulla più era affidato al caso, ma tutto era stato già prestabilito, anche il più imprevedibile degli eventi. Appoggiò la testa alla parete e poi cadde in ginocchio. Avrebbe voluto piangere, ma non ci riuscì. Invece vomitò a lungo, credendo che sarebbe morto lì, davanti alla porta d’ingresso. Ma non morì. Si trascinò fino al suo letto e si addormentò di schianto di un sonno pesante e agitato. Non riusciva a svegliarsi dai suoi incubi. Ricordi del bordello di Nizza si mescolavano con le immagini del topo morto, ma su tutto campeggiava la figura di Louise. Non la delicata puttanella dagli occhi verdi ormai perduta, ma la provocante donna dalla voce virile e dalla tunica rossa uscita poche ore prima dal suo appartamento.

(continua)

NOTTE SANTA

– Ti aspettavo, entra…- disse il Re sedendo tutta la sua stanchezza sul suo trono altissimo.

Gli occhi buoni abbracciarono il Figlio che, sorridente gli stava venendo incontro come ogni mattino per porgergli il saluto e per ricordargli la sua antica promessa

.- Da dove vieni? – chiese il Re uscendo dai suoi pensieri e volgendo lo sguardo verso il Figlio amatissimo.

– Dalla casa di Miryam e Yohsifyàh, Padre…-

Il Re all’udire quei nomi volse il capo dall’altra parte, volendo quasi celare l’espressione preoccupata che i severi lineamenti del volto avevano improvvisamente assunto.

– Ti ricordi Padre di Miriam e di Yohsifyàh? E’ tutto pronto …Padre, benedicimi adesso, perché questa è la notte santa –

Il Re guardò intensamente il Figlio. Si alzò appoggiando le sue mani ai braccioli del trono, ma fatto un passo barcollò, vacillò e subito si dovette sedere di nuovo. Quel Re forte e potente come nessun altro sulla Terra, non riusciva a tener fede alla sua promessa poiché il desiderio di trattenere presso di sé suo Figlio era troppo grande.

Sapeva bene il vecchio Re che il momento tanto atteso era alla fine giunto.

-Tu non sai di cosa sono capaci, tu non sai di cosa sono capaci…- ripetè con un filo di voce il Re –   Arrivano a me ogni giorno grida altissime da ogni dove di bambini, donne, uomini di ogni età che consumano le mie orecchie e bagnano i miei occhi, che mi legano a questo trono altissimo e che mi schiacciano il cuore. Durano tutta la notte e nel buio totale continuano fino a quando il Sole compare all’alba per chiedere il permesso di non sorgere di nuovo, scongiurandomi di porre fina a tanto dolore…Basterebbe un cenno, un solo gesto della mia mano … Tutto il creato mi guarda  in trepida attesa e freme aspettando una Giustizia che sembra non arrivare mai –

– Non ho che Te… luce dei miei occhi, vita di ogni vita… per Te lascerò questo trono altissimo, per te ho messo sotto la sabbia vendetta e potere… per te sopporto il sorriso beffardo di chi senza pietà si aggira impunito mostrandomi ogni giorno i frutti della sua malvagità –

-Ti mancherà il fiato…punterai le gambe su quello sgabello che per falsa pietà ti avranno messo sotto i piedi, solo per prolungare una agonia che avrà come esito sperato quello di farti gridare di fronte a tutti quello che tutti credono…che ti ho abbandonato…Io tuo Padre …ti ho abbandonato!-

-Sarai solo- continuò- solo come fu Rachele, Nave, Yehouda, Zeev, Ephraim,Ruth …- e il Padre li elencò tutti , uno ad uno, mostrando al Figlio le loro invocazioni  a cui non aveva potuto rispondere, neppure con una sola parola.

Il Figlio si avvicinò a suo Padre fino a sentirne il profumo dell’olio dei suoi capelli, e vide tutte le parole che aveva conservate in grembo per tutti i suoi figli lontani, per lenire le loro ferite.

– Padre buono so di darti un grande dolore ma devo portare tutte queste tue parole a chi le sta aspettando da tanto tempo… Tu sarai sempre con me, la tua luce mi arriverà sempre come arriva sulla terra la luce delle stelle anche dopo migliaia di anni dopo la loro fine –

Il Re allora si alzò maestoso e abbandonò per sempre il suo trono altissimo …

sulla terra un vagito ruppe il silenzio profondo di quella Notte santa.

PAROLE A CAPO
Silvia Tebaldi: “Verso Natale” e altre poesie

“I nomi sono parole inspiegabili, resistenti ai significati”
(Cesare Viviani)

Verso Natale 

L’avessimo stivata allora l’allegria
come susine dentro la berretta, come
fiori di zucca raccolti nel grembiale
come pastori pecore e stelle di cartone
nella scatola con scritto su Natale
come cose che si possono stivare

allora, quando ce n’era così tanta
senza un perché, fare giochi, cantare
ridere come matti, avessimo potuto
conservarla per questa invernata
per il tempo che inzeppa
i fossi che brina il cielo
tra la Ghiara e i Rampari

ora forse apriremmo il baule
e scopriremmo che era cenere, che era
foglie cadute già da allora
l’allegria
così torniamo fuori nella nebbia
tra le luci di Avvento e le finestre
che bucano la notte

se allora ci toccavamo il viso
– eccoti, sei tu! – con gli occhi chiusi
sappiamo farlo anche ora
naso e bocca coperti
e farlo anche solo col pensiero*
sappiamo ancora ridere
anche senza un perché

poi arriva il solstizio
risalirà la linfa lungo i calami
nasce la Tigre il giorno cresce
quasi un petto di gallo per Natale
un’ora per l’Epifania
poi sarà marzo e luna nuova
al torrione del Barco
agli orti della Consolazione

 

Valeria, come andarono le cose

la sagoma di un camino in rilievo
sul muro lungo via Volte
angolo con via Scienze
emerge come un trilobite
un fossile di mattoni
ci passammo Valeria e io
nel novembre del 2005
quel sole della bassa che ti scioglie
il cuore
la luce satura del tardo autunno
scattammo una foto
da qualche parte ho ancora il negativo
una stampa gliela mandai per posta
c’era
un lutto che ci univa
una reflex
un’amica
due vie che fanno angolo
due amiche
ci penso ora a quelle vie molto spesso
e da lontano
nascite attese vite geloni tregue
quella casa quei ciottoli il camino
nozze silenzi addii
chissà quanti, e la nebbia – però
fu quando ci tornai da sola
nel novembre del 2017
un’ora d’aria in mezzo allo sprofondo
solo voglia di piangere o dormire
e invece mi si aprì innanzi la bellezza
(pura contraddizione) e fu allora
fu quel camino a ricordarmi il detto
fa’ finta di essere felice
prima o poi
lo sarai

 

Visita guidata a Ferrara 

Dietro questa finestra coi gerani
che affaccia dentro il buio della volta
vecchia di più di mille anni
Teresa ascoltò tutta la faccenda
senza fiatare
poi preparò il soffritto e la vendetta
il primo fu pronto in mezz’ora
per la seconda occorsero trent’anni
entrambi riuscirono perfetti

e là, dove si fermano i turisti
a farsi i selfie e taggarsi a vicenda
ci passò Gaiba, di ritorno a notte
dal cantiere: tutto andava in malora
ma lui si mise in mezzo (e si rialzarono
tre anni) perché ogni sera
Gaiba guardava in su
lassù dove si accende
tra i cornicioni il cielo di ponente

qui vedete i Diamanti, o la bellezza
perfetta che si schiude a occidente
e a nord, dove avanza poi si perde
via degli Angeli tra le pioppe e il nulla
fiumi di inchiostro attorno a questi muri
eppure sono così bianchi, eppure sanno
ogni cambio di luce
qui un uomo si fermò a scrivere e minacciò il duca
di fermare il cantiere all’improvviso
se gli operai fossero rimasti
ancora un giorno senza paga:
si chiamava Biagio Rossetti e vedeva il tempo
i progetti il pensiero e la città
fermi e chiari, come tracciati sulla carta

e qui, dove ci siamo fermati ora,
sembra non ci sia niente, solo portici
e negozi: ma qui camminavamo
adagio mia mamma e io, di venerdì tarda mattina
la chiesa era aperta e vuota
io non credevo lei sì siamo entrate
si chiama la chiesa del Suffragio
qualcuno dentro il buio suonava l’organo
un’ora siamo state lì sedute
senza dolore senza dire nulla
dentro l’ora del mondo
poi era quasi ora di far da pranzo
e siamo come l’erba sul limitare
sull’argine del tempo

qui invece, in questo angolo remoto
qualche secolo fa
mi ha tenuto le guance tra le mani
in una sera memorabile: infatti,
come vedete, c’è un’epigrafe
solo che non si legge, tanto consumato
è il marmo
a forza di toccarlo

Silvia Tebaldi, da Ferrara. A Bologna dal 1985. Ha scritto un romanzo (Vuoto centrale, pubblicato nella collana Walkie Talkie diretta da Luigi Bernardi, Perdisa Pop, 2009) e alcuni racconti, pubblicati in antologie (la più recente è Deaths in Venice, a cura di Laura Liberale, edita da Carteggi Letterari nel 2017) e online (su «Poetarum Silva», su «Argo» e su «Malgrado le mosche»). Ha lavorato in diversi uffici, biblioteche e ospedali. Fotografa, apprendista nella scrittura in versi, calligrafa e acquarellista a tempo perso.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]  
Cover: Acquarello di Silvia Tebaldi

DIARIO IN PUBBLICO
Imitazione e verità

Ricordo in tempi paleolitici un intervento di Pasolini che, commentando la cadenza locale dei presentatori televisivi che avrebbero dovuto superare l’imperante toscanismo e fiorentinismo, poneva in guardia sulla inevitabile vittoria della cadenza romana. Cosa che si è puntualmente avverata.
Leggo oggi uno spassosissimo intervento di Aldo Grasso sul Corriere dal titolo Meloni e i draghi che stanno sulla luna, dove si commenta la performance della Meloni che si è esibita nelle vesti di Daenerys Targaryen, l’eroina di un programma Games of Thrones. Recitato nella parlata romana di cui è regina. “Sono Daenerys, nata dalla tempesta. I vostri padroni vi hanno mentito su di me o forse non vi hanno detto niente. Non importa. Non ho niente da dire a loro. Parlo solo a voi.”, che nella mia traslitterazione così suonerebbe “Zono Daenerys nada dalla dembesda. I vostri Badroni vi hanno mendido su di me o forse non vi hanno deddo niende. Non imborda. Non ho niende da dire a loro. Barlo tzolo a voi…”.

Ma ormai la cadenza regionale è diventata fondamentale, quasi un segno di riconoscimento. E se il ministro Franceschini ha saputo correggere il suo ferraresismo con una contaminazione romana, per cui le ‘essce’ ferraresi sono quasi diventate neutre ‘esse’, la violenta natura sgarbiana nella sua incidenza ferrarese e nell’atteggiamento dello spalancamento della bocca produce un ibrido non male esaltato, anche dalla tonalità rauca della emissione vocale.
I miei tentativi poi di evitare la pronuncia ferrarese nella patria della ‘zeta’ perfetta – vale a dire Firenze – hanno prodotto un misto non piacevolissimo, in cui nel luogo in cui mi trovo, sia la Toscana o l’Emilia, sembra nella maggioranza dei casi pronuncia artefatta.

Ma in questo momento pandemico colui che riesce a imitare ogni pronuncia dal Nord al Sud ovviamente è l’inimitabile Crozza, che andrebbe eletto a rappresentante vocale dell’Italia intera. Che imiti Zaia o De Luca, Conte o il Papa Bergoglio è credibile e perfetto. Quanto a Locatelli o a Zangrillo o a Galli chiunque potrebbe prenderlo per veritiero.
L’imitatio, figura fondamentale della retorica antica, è dunque quella che regge l’intero universo esplicativo della pandemia. Si imita tutto perché tutto è imitabile e tutto è replicabile. Allora nasce dal profondo dell’io una specie di scoramento sul problema della verità. La verità è imitabile: quindi l’imitazione è la realtà.
E non è un pensiero confortante.

Cerco di nuovo risposte dai libri; ma non mi rispondono. Anzi sembrano eludere la ricerca. Poi mi immergo in un testo che mi procurava sospetto L’uomo dalla vestaglia rossa di Julian Barnes. Un libro che parla d’arte e dei suoi favolosi protagonisti, in un tempo che venne chiamato la Belle  Époque e che secondo illustri critici anticipa i tempi attuali, che dal mio punto di vista sarei propenso a chiamare quella di oggi la Mauvaise Époque. Manca ogni possibilità di rapportarsi a personaggi che ne caratterizzino il tempo e il senso. Chi sarebbero oggi gli autori che ne possono sostenere il confronto nella musica, nelle arti, nella scrittura?

Comunque non è il tempo di deprimersi nonostante le furiose polemiche che scuotono la piccola città. Ricordate la canzone di Guccini?
“Piccola città bastardo posto
Appena nato ti compresi o fu il fato che in tre mesi
Mi spinse via
Piccola città io ti conosco
Nebbia e fumo non so darvi il profumo del ricordo.”
Ecco il mio rapporto con la Ferrara che ho vissuto e che poco mi ha dato e a cui ho dato molto. Sembra ora che l’intreccio imprevedibile le famose ‘combinaison :che non sono le combinazioni della biancheria intima (ma forse lo sono in senso metaforico).

E allora giù Ovadia, Pazzi, Sgarbi, Fabbri, Resca, e pure Lodi e dietro di lato in fondo, o in avanzamento le truppe corazzate dell’intellighenzia locale.
Però ci potrebbe essere qualcosa di peggiore. Ad esempio un coronavirus modificato in agguato.

Per leggere gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

Vite di carta /
Il gatto con gli stivali, il violoncello e la bambina

Vite di carta. Il gatto con gli stivali, il violoncello e la bambina

Mi sono fatta prestare dai miei nipoti un loro libro di fiabe che contiene anche Il gatto con gli stivali. Lui, che ha poco più di due anni, mi ha consegnato il volume senza fare una piega. Lei, che ha due anni di più, è parsa titubante: forse sentiva in pericolo la proprietà del libro, oppure mi ha percepita per la prima volta in rapporto di concorrenza e non di condivisione nella lettura. Fatto sta che qui a casa ho riletto la storia dell’ingegnoso gatto che riesce a far diventare ricco e nobile il suo padrone.

La sua storia mi è venuta in mente per due piccoli grandi motivi. Innanzitutto nel secondo romanzo di Alice Cappagli, Ricordati di Bach, la narratrice bambina dedica delle belle immagini al gatto, che è l’animale della mia infanzia e che, tranne qualche anno in cui ho vissuto in città, ho sempre avuto accanto come un compagno di viaggio.

Nel libro la narratrice racconta la storia del suo incontro con il violoncello, che diviene lo strumento-passione della vita. Ora, immaginate la scena: il direttore della scuola di musica a cui la protagonista vorrebbe accedere esegue per lei un breve pezzo col violoncello e lei ne conosce per la prima volta la voce.

Sentite le parole: ”Un suono naturale e familiare come quello della risacca, intimo, un canto un po’ triste che ricordava davvero una voce umana. Sembrava quello dei miei pensieri, ed era tirato fuori dallo strumento da qualcuno che lo amava e lo conosceva come il proprio gatto”.

Mi colpiscono due emozioni contemporaneamente, quella di gioia per Cecilia che incontra nel violoncello i propri pensieri, quella del maestro che fa vedere alla bambina quanto intimo sia il suo rapporto con lo strumento. Lo conosce come il suo gatto. Come io conosco in ogni sfumatura la mia Emily, che è bianca e nera, onnipresente, ma soprattutto è dotata di una fine psicologia.

Nello stesso giorno in cui la storia ha il suo esordio, Cecilia ritrova nella casa del nonno un vecchio violoncello; la bambina, che ha visto quattro teneri gattini allattati dalla “micia bianca e nera” nel garage annesso alla casa, si toglie allora il tutore che le protegge da mesi la mano sinistra. Per la prima volta, dopo l’incidente d’auto e la lunga ingessatura, sente di ”poter fare qualcosa”, deve “grattare il gattino nero fra le orecchie”.

Per la zia che la osserva è un “miracolo”. Per lei è un momento  “meraviglioso”. Il gattino galeotto le ha fatto alzare solo un po’ il dito indice, ma negli anni successivi la tecnica richiesta per suonare il violoncello svilupperà in Cecilia una mobilità straordinaria. Nel punto in cui sono arrivata a leggere ha già fatto progressi impensabili con le dita della mano sinistra nel loro impatto sulle corde dello strumento.

Il violoncello, che riempie dagli otto anni in poi la vita di Cecilia, mi ha riportata alla musica, che è il secondo motivo per cui ho riletto Il gatto con gli stivali. La musica è quella dell’evento che si è tenuto al Teatro Comunale di Ferrara il 16 dicembre, giorno del duecentocinquantesimo anniversario della nascita di Beethoven.

Alessandro Baricco ha tenuto in esclusiva per le scuole una lezione-spettacolo dal titolo Ludwig van Beethoven. Cinque cose da sapere della sua musica. Mi sono collegata armata di foglio e penna come una studentessa inesperta, il che per quanto riguarda la musica classica corrisponde al vero. Ho ascoltato brani a me noti e altri sconosciuti eseguiti dall’orchestra Canova e via via commentati da Baricco con la sua consueta intensità. Una meraviglia.

Tanto che ho poi voluto riascoltare La appassionata con le indicazioni ricevute: non sono ancora riuscita a percepirvi le mie ossessioni, la dolcezza sì. Conoscevo e conosco La quinta sinfonia, ora so che può essere considerata un’opera introspettiva, in cui Beethoven ci avvia all’idea della complessità, come una delle coordinate della nostra esistenza.

Tornando al gatto che indossa un vistoso paio di stivali, mi pare che stia lì nelle pagine della fiaba a dimostrarci come possa accadere anche l’impossibile, che il figlio di un semplice mugnaio divenga ricco e sposi la figlia del re, oppure che un arto col nervo radiale danneggiato riesca a suonare il violoncello con maestria e grande espressività.

L’insegnamento è di quelli che si sentono dire in mille occasioni, nella vita e nello studio. La novità per me è sforzarmi di attuarlo anche a questa età, farlo davvero. Da qualche mese, da quando sono in pensione, capisco che il calibro degli accadimenti nella mia vita quotidiana si è ridotto: sono piccole le cose che faccio.

Capisco che si sono voltate come un calzino: c’è dentro non l’essere per gli altri, ma l’essere per me, molto più di prima. Non posso però non mantenere intatto il rigore, la qualità dell’impegno; è la spia che rivela che mi sento attiva e ho progetti su di me. L’ultimo è questo: conoscere a mia volta le opere di Beethoven come conosco la mia gatta.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

Screening Covid-19 e scatole della solidarietà dalla coop Castello

Da: Francesca Tamascelli, Ufficio Stampa Lega Coop Estense

Cooperativa di abitanti Castello: screening Covid-19 gratuito per tutti i soci, Scatole della Solidarietà e “tamponi sospesi” per la comunità, per un Natale sicuro e inclusivo
 
Ferrara 23 dicembre 2020 – Sono oltre 250 i soci della cooperativa di abitanti Castello che, negli ultimi giorni, si sono sottoposti allo screening con tamponi rapidi attivato dalla cooperativa. “Un progetto voluto dai nostri soci – afferma il presidente di Castello Loredano Ferrari – che già lo scorso 27 giugno, in occasione dell’assemblea di bilancio, hanno deciso di accantonare risorse per poter effettuare uno screening su tutta la comunità di abitanti, per contribuire a individuare precocemente la presenza di positivi asintomatici e a circoscrivere l’insorgenza di focolai tra i soci assegnatari ed i loro famigliari residenti nei condomini di proprietà della cooperativa”. Quasi totale la negatività al Covid-19, con solo 2 casi accertati di positività, immediatamente affidati ai protocolli sanitari previsti. 
Lo screening è stato effettuato in collaborazione con il Poliambulatorio Canani, direttamente nelle strutture residenziali di Castello. L’adesione, libera e volontaria, è stata gratuita per tutti i soci assegnatari; ai famigliari è invece stato richiesto un piccolo contributo, devoluto all’Associazione Intorno a Te, che si è occupata dell’organizzazione del servizio. Una seconda tornata di test è prevista per la fine di gennaio. “Con questa iniziativa abbiamo voluto dimostrare vicinanza alla nostra comunità di abitanti e rispondere ad un bisogno di sicurezza. Un’iniziativa fortemente apprezzata dai nostri soci, che ha consolidato il loro senso di orgoglio nel sentirsi parte di una comunità sicura di abitanti, che si prende cura di sé e dei bisogni del territorio che ci ospita”.  
Negli stessi giorni, inoltre, Castello è stata impegnata in un’altra iniziativa di solidarietà: grazie alla generosità di tanti soci e abitanti, sono state raccolte 158 Scatole della Solidarietà, pacchi regalo da distribuire in occasione di queste festività alle famiglie più bisognose. Le Scatole sono state consegnate all’Emporio Solidale Il Mantello, che si occuperà della distribuzione. “La cosa che ci ha fatto più piacere – prosegue Ferrari – è che alcuni soci hanno voluto donare un “tampone sospeso”, di cui potranno beneficiare cittadini che non sono in grado di sostenerne il costo”. “Ringrazio la cooperativa Castello – conclude Andrea Benini, presidente di Legacoop Estense – che con queste iniziative dimostra ancora una volta di essere una comunità di abitanti solidale e inclusiva, non solo verso i propri i soci, ma anche nei confronti di tutti i cittadini”.

Regione. Approvato il Bilancio 2021: oltre 9 miliardi di euro alla sanità pubblica, tasse ferme per il sesto anno consecutivo e investimenti per 1,5 miliardi di euro.

Regione. Approvato il Bilancio 2021: oltre 9 miliardi di euro alla sanità pubblica (+600 milioni di euro), tasse ferme per il sesto anno consecutivo e investimenti per 1,5 miliardi di euro. Bonaccini: “In Emilia-Romagna le condizioni per ripartire. Investiremo su lavoro, welfare, ambiente e conoscenza, confrontandoci con tutti: ringrazio maggioranza e opposizione per il dibattito in Aula, toni e modalità giuste per dare risposte concrete all’intera comunità regionale”

Conti in ordine, manovra da oltre 12miliardi di euro. Continua a calare l’indebitamento (-56 milioni). Bus e treni gratuiti estesi agli studenti fino a 19 anni, confermati l’esenzione del ticket nazionale da 23 euro sulle prime visite per le famiglie con almeno due figli, i contributi a fondo perduto alle giovani coppie per l’acquisto o ristrutturazione della casa e il taglio dell’Irap alle imprese nei comuni montani, l’abbattimen to o azzeramento delle rette dei Nidi, il 100% delle borse di studio e dei benefici agli studenti che ne hanno diritto. Sostegno alle attività colpite dalle misure anti-Covid (31,8 milioni) a integrazione dei ristori nazionali. Sale il Fondo regionale per la non autosufficienza (464 milioni). Nuovi investimenti su edilizia sanitaria, trasporto pubblico locale e mobilità sostenibile, Big data e digitale, lavoro, formazione e imprese, attrattività di investimenti, aree interne, scuola, cultura, sport, turismo, commercio, agricoltura

Bologna – Via libera al Bilancio di previsione 2021 e triennale al 2023 della Regione, proposto dalla Giunta e approvato nella serata di ieri dall’ Assemblea legislativa regionale. Una manovra complessiva da 12 miliardi e 484 milioni di euro, di cui oltre 9 miliardi per la sanità regionale, 600 milioni in più rispetto al 2020. Scelte possibili grazie a conti in ordine, -56 milioni di euro l’indebitamento il prossimo anno, lasciando invariate le tasse regionali per il sesto anno consecutivo, alleggerendo anzi il carico fiscale attraverso le misure varate (dall’esenzione ticket nazionale da 23 euro sulle prime visite per le famiglie con almeno due figli al taglio Irap per imprese e attività economiche nei comuni montani, dai mezzi del trasporto pubblico locali gratuiti per gli studenti fino a 19 anni all’abbattimento delle rette dei Nidi). E il rispetto degli obiettivi di finanza pubblica fissati a livello nazionale, pur in periodo Covid, producendo un saldo positivo di oltre 71 milioni di euro.

“Vogliamo aiutare chi ha bisogno adesso, dando risposte concrete a cittadini, famiglie, imprese, e, nello stesso tempo creare basi solide per ripartire il prima possibile e nel modo migliore che si possa fare- ha affermato il presidente Stefano Bonaccini nel suo intervento in Aula al termine del dibattito generale-. Ancora di più adesso è necessario guardare anche al domani, nel momento in cui occorre continuare a gestire la crisi sanitaria e scongiurare a ogni costo una terza ondata del contagio, perché la pandemia c’è ancora e dobbiamo fermarla, insieme. Sapendo che fra pochi giorni partirà la campagna di vaccinazione anti-Covid in Italia e in tutta Europa: un momento storico, per il quale l’Emilia-Romagna è pronta”.
“Qui partiamo da conti in ordine, da un bilancio sano, come ci viene riconosciuto ogni anno dalla Corte dei conti. Questo ci permette decisioni che difficilmente si vedono altrove, come l’abolizione dei superticket sanitari, misura poi diventata nazionale, l’estensione di bus e treni regionali gratis agli studenti fino a 19 anni a partire dal prossimo anno scolastico, il taglio delle rette degli asili nidi, con l’obiettivo entro la legislatura di azzerarle, o tenere ferme le tasse regionali per il sesto anno consecutivo. Un bilancio a cui si affianca una visione chiara: quella di costruire un presente e un futuro diversi, condivisa con tutti i territori, le istituzioni, le rappresentanze economiche e sociali del nostro territorio che hanno sottoscritto con noi il Patto per il Lavoro e per il Clima, unico in Italia. Un Patto per fare dell’Emilia-Romagna la regione della piena sostenibilità ambientale, sociale ed economica. Con pilastri definiti: sanità pubblica, con ancora più medicina del territorio, nuova e buona occupazione, svolta ecologica, Big data e transizione digitale, scuola, messa in sicurezza del territorio”.

“Conoscenza, lavoro, welfare e ambiente: su questo investiremo, confrontandoci con tutti, in maniera aperta e trasparente. Anche per questo voglio ringraziare tutti i Gruppi consiliari, di maggioranza e opposizione, per il dibattito in Aula. Per le modalità e i toni che ho ascoltato da tutti, pur da posizioni diverse, nel merito dei temi affrontati, per le proposte avanzate. Un patrimonio- ha chiuso Bonaccini- che è di questa Assemblea legislativa, credo il modo migliore per affrontare i mesi che abbiamo davanti”.

Il Bilancio in sintesi
Il provvedimento si inserisce nel contesto più ampio del piano di investimenti per quasi 14 miliardi di euro al 2022, presentato già prima dell’estate, per una ricostruzione partecipata e condivisa da territori e parti sociali, grazie a fondi pubblici (europei, statali, regionali) ai quali si aggiungono cofinanziamenti privati, per opere cantierabili e progetti in corso di definizione con le comunità locali.

Una manovra cresciuta rispetto a quella licenziata dalla Giunta poche settimane fa: si sono infatti aggiunte risorse vincolate per 148 milioni di euro nel triennio (99,69 milioni per il 2021, 30,50 per il 2022 e 17,97 per il 2023). Risorse dello Stato attribuite soprattutto all’ambito sociale, con un significativo aumento (+27,50 milioni) per le politiche sociali, interventi per la disabilità, sul fondo regionale per la non autosufficienza (+6,91 milioni) e per i Caregiver familiare. Ma si sommano anche risorse per il sostegno all’agricoltura e per il trasporto pubblico locale.

Confermate le risorse senza precedenti per il sistema sanitario e ospedaliero dell’Emilia-Romagna: oltre 9 miliardi di euro nel 2021, 600 milioni in più rispetto a quest’anno, con investimenti già programmati per più di 340 milioni nel biennio. E la rete socio-assistenziale dedicata agli anziani e alle persone con disabilità potrà contare su un Fondo regionale per la non autosufficienza fra i più alti nel Paese, che sale così a 464 milioni di euro.

Aiuti agli esercizi (bar, ristoranti, ecc.) e agli operatori (taxisti, Ncc, ma anche piscine, palestre, cultura) che hanno dovuto sospendere o limitare le proprie attività in seguito alle ordinanze anti-Covid (31,8 milioni di euro, aggiuntivi rispetto ai ristori nazionali); la conferma dell’esenzione del ticket nazionale da 23 euro sulle prime visite per le famiglie con almeno due figli (8,5 milioni); aiuto ai nuclei in difficoltà col pagamento dell’affitto (11 milioni); servizi educativi 0-6 anni, con i fondi ai Comuni per la riduzione o l’azzeramento delle rette dei Nidi (31,6 milioni); estensione agli studenti fino a 19 anni della possibilità di viaggiare gratis su bus e treni regionali, già oggi possibile per gli under 14 (44 milioni); borse di studio e benefici garantiti a tutti gli studenti aventi diritto (28 milioni); ‘Bike to work’, percorsi casa-lavoro in bici (1 milione); contributi a fondo perduto alle giovani coppie per l’acquisto o ristrutturazione di case nei Comuni montani (altri 10 milioni di euro che si aggiungono a quelli stanziati nel 2020 per la prima volta); conferma del taglio dell’Irap per imprese, artigiani, commercianti, professionisti e autonomi nelle aree montane (24 milioni). Ancora: 215 milioni per attività produttive, formazione e politiche attive per il lavoro, 45 milioni per l’attrattività di investimenti in Emilia-Romagna e 10 milioni di euro per sostenere il percorso verso un unico sistema fieristico regionale, fondamentale per il tessuto economico emiliano-romagnolo.

Ma anche forti investimenti, per dare fondamenta solide alla ripartenza post-covid: quasi 1 miliardo e mezzo di euro di risorse regionali disponibili nel triennio, la gran parte, l’82%, senza ricorrere ad alcun indebitamento (di questi, oltre 630 milioni già per il 2021). Fra gli interventi previsti tra 2021 e 2023, edilizia sanitaria (150 milioni di euro), Big data e innovazione digitale (24 milioni per il Tecnopolo di Bologna), l’elettrificazione delle linee ferroviarie regionali (60 milioni), il fondo investimenti per gli enti locali emiliano-romagnoli (80 milioni), il Programma straordinario di investimenti per i territori maggiormente colpiti dalla pandemia Covid, i territori montani e le aree interne (40 milioni).

Il natale del professor Uberzeit
(PRIMA PARTE)

Lo strano natale del satanico professor Uberzeit ci porta in giro per l’Europa e per la grande letteratura. Il racconto fantastico, ancora inedito, di Sergio Kraisky comincia oggi e prosegue nei prossimi giorni. Buona lettura.
(La redazione)

La neve cadeva lenta sulla città di Torino, cadeva da due giorni e due notti. Una neve cattiva, acerba, dicembrina. Solo quando la temperatura saliva e il ghiaccio iniziava a sciogliersi, qualche essere umano sbucava da un portone per poi arrancare tra la di fanghiglia in cerca di provviste o di qualche timido svago.
Dopo un primo entusiasmo di fronte al miracolo dell’acqua che si trasforma in neve, uno spettacolo mitologico che ad ogni inizio di stagione lo riempiva di meraviglia, il professor Uberzeit maledisse quella nevicata. Perché quell’uomo aveva un disperato bisogno di passeggiare e di farlo a passo veloce, tutti i giorni, per ore e ore. Era questa la sua unica salvezza dall’emicrania, dal mal di stomaco e dall’insonnia che lo affliggevano per intere giornate, a volte per settimane. Invece quelle strade scivolose lo costringevano a una reclusione innaturale dentro il suo appartamento da studente, come lui stesso lo chiamava, nel quale da tre mesi viveva.
Aveva tentato di renderlo più luminoso appendendo alle pareti delicati dipinti ad acquerello, rivestendo di tappezzeria dai variegati colori pastello le poltrone e il divano del salottino. Ma la conformazione stessa di quell’angusto alloggio, l’ingresso come un tunnel buio, le stanze dal soffitto basso e le finestre incassate nelle pareti come feritoie vanificavano quei suoi tentativi. Non gli restava che accontentarsi, non avrebbe potuto permettersi un alloggio più costoso. In un primo momento quella  sistemazione così centrale, vicino alla splendida Mole Antonelliana, gli era sembrata un vero privilegio. Si era innamorato di Torino in una splendida giornata di fine settembre ed aveva deciso d’impulso di trasferirsi lì, ma era stato un amore di breve durata: presto si trovò a dover fare i conti con l’inverno torinese.
Ormai la sua principale ragione di vita, l’unica autentica gioia residua, erano i suoi pensieri, e se restava troppo a lungo rinchiuso in quella tana i pensieri cominciavano a gonfiarsi contro le pareti del cranio, si aggrovigliavano e poi esplodevano lasciandolo esausto, inebetito, per giorni e giorni. Passeggiando invece i pensieri si purificavano, prendevano il volo e gli regalavano lunghi attimi, a volte intere giornate, di gioia e di esaltazione. E lui aveva bisogno di esaltazione per portare a compimento la sua opera.
Sì, perché il professore era solo, malato di stomaco e di ipocondria, dolorante come un vecchio nonostante avesse solo quaranta anni, ferito nell’amore e nell’amor proprio, pieno di disprezzo per l’umanità e di compassione per se stesso. E lo sapeva, sapeva perfettamente che sbagliava a  prenderla così, leggeva Spinoza e Schopenhauer per convincersi a cambiare umore. Ma tante volte, sempre più spesso, non riusciva ad accettare con eroica gioia il suo destino, nonostante proprio questo, andando ancora oltre i grandi maestri, predicasse la sua filosofia. Anche se ogni giorno si ripeteva a voce alta che quelle erano la sua vita e la sua natura, che toccava a lui soffrire in nome della verità, che la felicità è un bene ambito solo da uomini vili, da spiriti deboli. Che l’unica gioia a lui concessa era quella di poter formulare pensieri inauditi. E se il suo destino ormai era già stato scritto, che senso aveva lamentarsi? Non restava che accoglierlo, come l’amante abbraccia l’amata alla quale tutto si perdona. Ma si sbagliava, perché non poteva certo immaginare quello che di lì a poco quello stesso destino gli aveva riservato.
Si avvicinò alla finestra e scostò la tendina. Un sole livido illuminava a tratti gli spiazzi innevati e il bagliore quasi lo accecò. Il cielo cominciava a schiarirsi, ma non abbastanza per avventurarsi in una delle sue lunghe passeggiate. Oltre l’angolo di Piazza Carlo Alberto intravide una carrozza avvicinarsi e immaginò che fossero in arrivo visite per lui. Un pensiero puerile, patetico. Aveva sparso  in giro la voce che era in viaggio per l’Italia meridionale, proprio per evitare visite e  qualunque tipo di contatto con i suoi familiari o i pochi amici. Solo due o tre persone assolutamente discrete conoscevano il suo indirizzo a Torino.
L’isolamento gli era necessario per portare a termine la sua opera, sapeva che i suoi malanni e il suo umore ne avrebbero sofferto e certe volte, soprattutto di notte, veniva sopraffatto da un doloroso bisogno di amore e di amicizia. Allora cominciava a parlare da solo, si metteva a suonare il pianoforte e a cantare. Spesso gli capitava di piangere, non sapeva se per la solitudine o se per la bellezza della musica. Dopo aver visto quella carrozza passare davanti al suo portone senza fermarsi, con uno scatto tipico del suo temperamento, decise che aveva bisogno di aria, di sole, di mare. E di carne umana. Preferibilmente fresca.
Si diresse in ingresso, indossò un pesante caffettano grigio che gli scendeva fino alle caviglie, uno sciarpone blu per coprirsi la bocca, si infilò sopra il cranio dolorante uno zuccotto di lana grezza e subito sopra, per maggiore sicurezza, un cappellone nero a larghe falde. Poi, sfidando il vento gelido che saliva dalla tromba delle scale, scese in strada. Con gesto brusco fermò la prima carrozza libera e mentre vi saliva gridò al vetturino col suo forte accento tedesco: “Alla stazione centrale!”
Era un giorno di dicembre inoltrato, nel 1888..

(continua)

Seconda parte [Vedi qui]

Terza parte [Vedi qui]

Coronavirus. L’aggiornamento in Emilia-Romagna: 22 dicembre

Coronavirus. L’aggiornamento in Emilia-Romagna: 1.162 nuovi positivi, di cui 655 asintomatici da screening regionali e attività di contact tracing. Quasi 20 mila i tamponi effettuati: il rapporto scende al 5,8%. Oltre 91 mila i guariti (+3.400) e scendono i casi attivi (-2.306)

Eseguiti anche 4.841 tamponi rapidi e 702 test sierologici. Quasi il 95% dei casi attivi è in isolamento a casa, senza sintomi o con sintomi lievi. L’età media nei nuovi positivi è di 46 anni. 68 i decessi

Bologna – Dall’inizio dell’epidemia da Coronavirus, in Emilia-Romagna si sono registrati 158.345 casi di positività, 1.162 in più rispetto a ieri, su un totale di 19.892 tamponi eseguiti nelle ultime 24 ore. La percentuale dei nuovi positivi sul numero di tamponi fatti da ieri scende al 5,8%.
Prosegue l’attività di controllo e prevenzione: dei nuovi contagiati, 655 sono asintomatici individuati nell’ambito delle attività di contact tracing e screening regionali. Complessivamente, tra i nuovi positivi 205 erano già in isolamento al momento dell’esecuzione del tampone, 470 sono stati individuati all’interno di focolai già noti.

L’età media dei nuovi positivi di oggi è 46,1 anni.

Su 655 asintomatici, 381sono stati individuati grazie all’attività di contact tracing, 41 attraverso i test per le categorie a rischio introdotti dalla Regione, 9 con gli screening sierologici, 4 tramite i test pre-ricovero. Per 220 casi è ancora in corso l’indagine epidemiologica.

La situazione dei contagi nelle province vede Bologna con 244 nuovi casi, Rimini (147), poi Modena (139), Ravenna (131), Reggio Emilia (125), Piacenza (117), Ferrara (83), Imola (54), Cesena (49), Forlì (46), Parma (27).

Questi i dati – accertati alle ore 12 di oggi sulla base delle richieste istituzionali – relativi all’andamento dell’epidemia in regione.

Nelle ultime 24 ore sono stati effettuati 19.892 tamponi, per un totale di 2.451.777 A questi si aggiungono anche 702 test sierologici e 4.841 tamponi rapidi effettuati da ieri.

Per quanto riguarda le persone complessivamente guarite, sono 3.400 in più rispetto a ieri. Il totale dei guariti sale dunque a quota 91.411.

I casi attivi, cioè i malati effettivi, a oggi scendono a 59.746 (-2.306 rispetto a ieri). Di questi, le persone in isolamento a casa, ovvero quelle con sintomi lievi che non richiedono cure ospedaliere o risultano prive di sintomi, sono complessivamente 56.645 (-2.290), quasi il 95% del totale dei casi attivi.

Purtroppo, si registrano 68 nuovi decessi: 4 a Piacenza (tre donne di 81,89 e 92 anni e un uomo di 70),7 a Parma (quattro donne: una di 48, due di 83, una di 85; tre uomini di 66, 87 e 89 anni), 11 in provincia di Reggio Emilia (tre donne: due di 92 e una di 94 anni; otto uomini di 67, 69, 73,77, 80 , 84, 90 e 91 anni), 12 nel modenese (cinque donne: una di 83, una di 91, due di 97, una di 100; sette uomini: uno di 52, uno di 68, uno di 77, due di 80, uno di 86 e uno di 94), 13 a Bologna (sette donne: una di 74, due di 81, una di 83, una di 85, una di 88 e una di 92; sei uomini di 61, 64, 65, 69, 75, 92 anni), 3 a Ferrara (una donna di 100 anni, due uomini di 77 e 82 anni), 12 a Ravenna (cinque donne di 74, 78, 84, 86, 89 anni e sette uomini: uno di 67, uno di 81, uno di 82, uno di 84, uno di 86, due di 89 anni), 6 a Forlì-Cesena (una donna di 83 anni e cinque uomini di 81, 82, 84, 90 e 91 anni). Nessun decesso a Rimini.

In totale, dall’inizio dell’epidemia i decessi in regione sono stati 7.168.

Crescono i pazienti ricoverati in terapia intensiva, che sono 210 (+7 rispetto a ieri), 2.891 quelli negli altri reparti Covid (-23).

Sul territorio, i pazienti ricoverati in terapia intensiva sono così distribuiti: 16 a Piacenza (invariato rispetto a ieri), 14 a Parma (invariato), 19 a Reggio Emilia (invariato), 40 a Modena (+1), 55 a Bologna (+4), 7 a Imola (+1), 17 a Ferrara (invariato), 18 a Ravenna (+1), 3 a Forlì (invariato), 2 a Cesena (+1) e 19 a Rimini (-1).

Questi i casi di positività sul territorio dall’inizio dell’epidemia, che si riferiscono non alla provincia di residenza, ma a quella in cui è stata fatta la diagnosi: 14.530 a Piacenza (+ 117 rispetto a ieri, di cui 53 sintomatici), 12.395 a Parma (+27, di cui 15 sintomatici), 22.101 a Reggio Emilia (+125, di cui 44 sintomatici), 28.849 Modena (+139, di cui 93 sintomatici), 31.362 a Bologna (+244, di cui 94 sintomatici), 5.049 casi a Imola (+54, di cui 25 sintomatici), 8.197 a Ferrara (+83, di cui 14 sintomatici), 11.415 a Ravenna (+131, di cui 39 sintomatici), 5.520 a Forlì (+46, di cui 34 sintomatici), 5.375 a Cesena (+49, di cui 39 sintomatici) e 13.552 a Rimini (+147, di cui 57 sintomatici).

Buon Natale

E’ difficile scrivere qualcosa di originale sul Natale. E’ già stato scritto quasi tutto, anche molto bene.
Provo a ricordare dei bei racconti di Natale e me ne vengono in mente diversi.

Il Canto di Natale di Charles Dickens. E’ la storia del vecchio Scrooge e dei tre spiriti del Natale. Molto conosciuta, è stata trasposta più volte al cinema in diverse varianti. Una storia senza tempo capace di far tornare lo spirito del Natale a chiunque, anche ai più duri di cuore.
Il pianeta degli alberi di Natale di Gianni Rodari.  E’ una storia a metà tra il natalizio e la fantascienza. Si racconta di un bambino portato nello spazio da un vascello che sembra un dondolo: nell’universo incontra gli alieni che vivono nel Pianeta della Cuccagna e dedicano la loro vita allo studio delle arti, delle scienze, della politica.
Polar Express di Chris Van Allsburg. Nella notte di Natale tutta la città dorme, tutto è silenzio. Solo un bambino, per strada, decide di salire su un treno che sembra aspettare nient’altro che lui: il Polar Express che lo porta al Polo Nord. Al suo arrivo, il bambino incontra Babbo Natale che promette di donargli qualunque cosa desideri. Il piccolo chiede solo un campanello per la sua slitta ma purtroppo lo perde nel viaggio di ritorno. La mattina successiva lo ritrova, con sorpresa, sotto l’albero di Natale. Il campanello è un dono magico: solo chi crede in Babbo Natale può sentirne il suono.
Il Sarto di Gloucester di Beatrix Potter.  L’anziano sarto di Gloucester deve finire il vestito da sposo per il sindaco della città che convolerà a nozze proprio il giorno di Natale. Un vestito meraviglioso con la giacca color ciliegia arricchita da ricami di rose e viole. Purtroppo, mentre sta lavorando, il vecchio si ammala e deve smettere di cucire.  Ci penserà un gruppo di topolini ad aiutarlo.
L’albero di Natale di Hans Christian Andersen. E’ il racconto di un piccolo abete che non vede l’ora di diventare grande e maestoso come gli abeti adulti che lo circondano. Anche lui, come gli altri, desidera diventare un albero di Natale per decorare le case della città. A un certo punto ci riuscirà anche se l’esperienza si rivelerà un’autentica delusione.

Sono tutte favole, alcune a lieto fine, altre meno. Ma comunque voli di fantasia che si allontanano dalla ripetitività e dalla maestosità barocca dei nostri Natali per volare alte verso un mondo diverso, dove c’è più spazio per la riflessione, per il ripiegamento su una interiorità che impara e insegna.  Quest’anno il Covid-19 cambia molto le prospettive del prossimo Natale. A casa nostra non arriveranno le cugine Ghepardi con genitori, compagni e figli e non sentiremo troppo la mancanza di Suor Guenda, sarà un’assenza tra le tante.

Non andremo alla messa di mezzanotte e non sentiremo i cori dei bambini che cantano davanti al presepe allestito sul sagrato della chiesa parrocchiale di Pontalba.
Spenderemo meno soldi per i regali, per i pasti, per le sciate, per i viaggi necessari a raggiungere mostre di pittura e teatri. Gli spettacoli al Teatro Santelli sono stati per molti anni uno degli appuntamenti delle nostre vacanze natalizie. Negli ultimi anni, avevamo preso l’abitudine di  andare, il 26 Dicembre, ad assistere ad uno spettacolo pomeridiano per bambini. Portavamo Valeria e Enrico in un bel palco del teatro e assaporavamo la soddisfazione di vederli sorpresi e incantati. La magia del teatro riscalda sempre. Non potremo nemmeno andare il primo dell’anno allo spettacolo delle 20,30 portando Rebecca a vedere un musical. Ne abbiamo visti tanti insieme: Grease, Cats, Dirty dancing, Flashdance. Dei bei ricordi davvero.

Con cosa potremo sostituire questi rituali a cui eravamo abituati ormai da tanti anni?  Non  so.
Avremo più tempo per assaporare un Natale diverso festeggiato all’insegna della sobrietà e della riscoperta degli affetti più intimi. Avremo più tempo per un viaggio dentro noi stessi, che scavando dentro, ci porterà nuove verità, nuovi traguardi da raggiungere e nuove consapevolezze.   Ci interrogheremo forse sul senso della vita, sulla sua caducità, sulla sua fine e sulla sua eventuale resurrezione.  Avremo anche molto per cui pregare. Ognuno di noi è, a maggior ragione quest’anno, un sopravvissuto.
Qualche rito ce lo possiamo comunque ancora concedere. Addobbare l’albero con le palline colorate, i nastri luccicanti e gli angioletti dorati; fare il presepe con le vecchie statuine della nonna  e ricoprirne le stradine con il muschio vero che, a Pontalba, si trova sul tronchi dei grandi tigli che accompagnano il viale che porta al cimitero. Potremo fare la pasta in casa e il cappone ripieno, cucinare i biscotti.  Insomma un Natale in famiglia che sa di riscoperta e di tranquillità. Niente da recriminare per tutto ciò.  Anzi, credo che ci sia da ringraziare la buona sorte che ci ha garantito la salute anche quest’anno. In quella notte magica potremo sorridere alle persone a cui vogliamo bene e augurare loro tanta pace, tanta serenità.

In questi giorni ho pensato a voi che leggete le mie storie su Ferraraitalia, le riflessioni che accompagnano questa mia vita un po’ originale e un po’ buffa, un po’ divertente e un po’ preoccupante, molto realista sempre. Vorrei augurare a ciascuno di voi un buon Natale. Vorrei fare gli auguri a chi è ammalto e a chi soffre, ma ancora di più a chi ha un desiderio che non riesce a concretizzare, a chi vive un amore difficile che non può raccontare. Li vorrei fare a chi non trova la forza di cambiare strada, a chi viene schiacciato dalla mediocrità dell’abitudine e dall’oppressione di legami malsani.  Vorrei augurare a chiunque viva nell’omertà la forza di crescere, di guardare in fondo a se stesso e di provare a diventare diverso, cambiando vita. Vorrei augurare a chi subisce violenze, fisiche o psicologiche che siano, di trovare una mano amica che sappia aprire una porta verso la libertà, chiudendo l’antro di oppressione e permettendo una nuova vita sicura e protetta. Vorrei augurare a chi baratta  la sua identità  in cambio di tranquillità, la forza di rompere un argine, andare controcorrente, arrivare in un nuovo mondo, camminare su una terra nuova.

Me ne sto qui e guardo una pallina dorata, la muovo a destra e a sinistra per fare in modo che mandi dei piccoli bagliori di luce sul pavimento bianco del mio soggiorno. I piccoli fasci di luce mi piacciono molto, permettendo al tempo di restare sospeso per un po’ e di muoversi in maniera diversa, su e giù nello stesso istante. Le palline dorate sono come gocce di luce che illuminano l’abete, come tanti pensieri appesi e sospesi, come tanti baci dati e ricevuti che rivivono nella magia del Natale.  Anche io vorrei esprimere un desiderio  legato ai bagliori dorati delle palline appese all’albero, al calore che questa immagine Natalizia sta riverberando su di me. Vorrei un nuovo inizio e una nuova alba di luce, come solo un mattino a Pontalba sa regalare. Vorrei un risveglio di neve con fiocchi bianchi candidi, una mattina pulita che per noi si adagerà un po’ alla volta nel silenzio del giorno che avanza e che ricorderemo per sempre per i suoi fiocchi ghiacciati e leggeri. Vorrei che la neve candida potesse salutare ciascuno di voi, uno ad uno. Sarebbe proprio un bel modo per festeggiare questo silenzioso Natale e per pensare che anche in questo tempo difficile si può trovare, sotto l’albero, la pace.

Vaccino Covid, l’Emilia-Romagna è pronta: si parte il 27 dicembre

Sanità. Vaccino contro il Covid, l’Emilia-Romagna è pronta: si parte, il 27 dicembre in tutt’Italia è il Vaccine Day. Si inizia con 975 professionisti della sanità, che saranno vaccinati da Piacenza a Rimini. Già definiti dalle Ausl i luoghi e i team di vaccinatori. Il presidente Bonaccini e l’assessore Donini: “Domenica giornata storica, tutto organizzato”

Domenica prossima saranno vaccinati per primi i vaccinatori. Sulla variante inglese del virus, già testati gli arrivi di ieri dall’Inghilterra: al momento non risulta alcun positivo

Bologna – Tutto pronto in Emilia-Romagna per il Vaccine Day: domenica 27 dicembre, come stabilito peraltro a livello nazionale, le prime dosi di vaccino Pfizer-BioNtech (9.750 per l’avvio in tutt’Italia) verranno somministrate su tutto il territorio da Piacenza a Rimini, a 975 professionisti della sanità regionale tra medici, infermieri, operatori socio-sanitari.

Nella giornata di domenica verranno vaccinati i medici e gli infermieri, con precedenza ai vaccinatori che saranno in prima linea in questa campagna. L’organizzazione della giornata è in carico alle singole Aziende, con la supervisione dell’assessorato regionale alle Politiche per la salute.

“Ci siamo mossi in tempi rapidissimi- sottolineano il presidente della Regione, Stefano Bonaccini, e l’assessore regionale alle Politiche per la salute, Raffaele Donini- per essere pronti il 27 dicembre, giornata che possiamo definire veramente storica. I primissimi a essere vaccinati, quasi mille in Emilia-Romagna, saranno i medici, gli infermieri, gli operatori socio-sanitari delle strutture sanitarie, quelli che ormai da mesi sono in prima linea nella lotta al virus. Abbiamo lavorato insieme alle Aziende sanitarie, che ringraziamo per la collaborazione e la prontezza di risposta fornita, per mettere in campo un’organizzazione a dir poco complessa, che ci consentirà di avviare il percorso di uscita dalla pandemia. Il 27 dicembre sarà un giorno tanto atteso quanto importante, e siamo certi che tutto andrà per il meglio”.

Da Piacenza a Rimini, i luoghi del Vaccine Day
In Emilia-Romagna ogni Azienda ha già predisposto il luogo esatto, all’interno delle strutture sanitarie presenti sul territorio di competenza, dove il 27 verranno somministrate le vaccinazioni. Piacenza ha scelto il Laboratorio analisi dell’ospedale; Parma vaccinerà presso l’Ospedale Maggiore; Reggio Emilia nei locali dell’ex ospedale Spallanzani; a Modena la somministrazione avverrà presso l’aera di riabilitazione dell’ospedale di Baggiovara. A Bologna le vaccinazioni verranno somministrate presso l’Autostazione e alla Casa di Residenza Cardinal Giacomo Lercaro mentre a Imola il Vaccine Day si svolgerà nel Medical Centre dell’Autodromo, inaugurato a fine ottobre scorso; a Ferrara il luogo identificato è l’Ospedale Sant’Anna di Cona mentre per la Romagna i centri individuati sono il Pala De Andrè a Ravenna, il Quartiere Fieristico di Rimini e Cesena Fiera.

Per quanto riguarda i vaccinatori che presteranno servizio domenica prossima, non esiste un “team tipo” – come ci sarà invece nella campagna vaccinale vera e propria – ma è a discrezione dell’organizzazione aziendale. Tutte le Aziende, peraltro, hanno già individuato, e inviato al ministero della Salute, i nominativi di medici e infermieri che il 27 vaccineranno i propri colleghi.

Vaccine Day, i numeri per Azienda
Un “esercito” di circa 180mila professionisti, da Piacenza a Rimini, tra chi lavora nella sanità (92mila 600 addetti) e chi nelle strutture per anziani e disabili (84mila 600 persone): è questa la prima fascia di popolazione che, come peraltro ha previsto il ministero della Salute in base alla prima quota di vaccino assegnato, sarà sottoposta a vaccinazione. Domenica 27 dicembre si partirà con i primi 975 operatori sanitari (a partire da coloro che poi dovranno effettuare le vaccinazioni sui colleghi) così distribuiti: 50 a Piacenza, 100 a Parma, 100 a Reggio Emilia, 150 a Modena, 225 (+50 per una CRA) Bologna (inclusi il personale degli Istituti Ortopedici Rizzoli), 25 a Imola, 50 a Ferrara e 225 nel territorio dell’Ausl della Romagna.

Una cabina di regia per ogni Azienda sanitaria
Ogni Azienda sanitaria si è dotata di una cabina di regia per l’organizzazione della vaccinazione. Nei territori dove ci sono anche Irccs e Aziende ospedaliero-universitarie, sarà definita un’unica cabina di regia. Coordinata dalla Direzione sanitaria, e composta da un medico della Direzione sanitaria (che svolgerà il ruolo di referente con la Regione), un medico di sanità pubblica, un medico di cure primarie, un responsabile della Direzione assistenziale, un responsabile della Direzione attività socio-sanitaria, un farmacista (responsabile dell’hub che conterrà le dosi vaccinali), un referente del Servizio Ict, un medico competente aziendale, un referente della Protezione civile, un referente dell’Ordine dei medici provinciale.

I vaccini: partenza dal Belgio e arrivo in Italia, ecco il calendario
Le dosi di vaccino con destinazione Italia partiranno dal Belgio giovedì 24 dicembre; saranno consegnate direttamente da Pfizer in un unico punto nazionale, a Roma, all’Irccs Lazzaro Spallanzani, il 26 dicembre, per essere poi ripartite tra le Regioni e le pubbliche amministrazioni dalle Forze Armate. Le dosi saranno distribuite in Cryo – box, all’interno di borse, per mantenere la temperatura di 2-8°. Le borse verranno prelevate dall’Esercito allo Spallanzani e, con diversi mezzi (su gomma, aerei), trasportate nei 20 punti di somministrazione individuati, la mattina del 27 dicembre per consentire l’avvio del Vaccine Day. L’orario di inizio per la vaccinazione in Emilia-Romagna, che sarà lo stesso per tutte le Aziende, sarà definito nei prossimi giorni.

La variante inglese del Coronavirus, la Regione già in campo
Per quanto riguarda la variante inglese del virus, la Regione Emilia-Romagna ha subito attivato i propri laboratori sottoponendo a test chi è rientrato ieri dall’Inghilterra. Come stabilisce l’ordinanza ministeriale emanata ieri, le persone che si trovano nel territorio nazionale e che nei quattordici giorni antecedenti le disposizioni ministeriali hanno soggiornato o transitato nel Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, anche se asintomatiche, sono obbligate a comunicare immediatamente l’avvenuto ingresso in Italia al Dipartimento di prevenzione dell’Azienda sanitaria competente per territorio e a sottoporsi a test molecolare o antigenico.

Attualmente sul territorio regionale non risultano esserci positivi alla variante inglese del Coronavirus tra coloro che sono rientrati da oltre Manica.

Moni Ovadia, perché Ferrara?

Arte e cultura da sole non fanno una Città della Conoscenza, almeno per come è intesa dalla letteratura in argomento. Si può essere città d’arte e cultura senza mai giungere ad essere compiutamente una Città della Conoscenza.
Una città della Conoscenza è tale nella misura in cui è in grado di attrarre, per le opportunità che offre, talenti nell’ambito dell’arte, della cultura, della ricerca e delle scienze.
Se questo accade, non lo si può che salutare con grande soddisfazione, l’avvento non può che essere carico di promesse e la cittadinanza tutta si arricchisce di una importante risorsa.

Se un artista, uno scienziato, un ricercatore eleggono una città come luogo del loro lavoro, come ambiente più idoneo ad esprimere se stessi, significa che in quella città hanno trovato condizioni, atmosfere, relazioni, strutture e clima confacenti con il proprio impegno artistico o scientifico.
Se questo è, benvenuto allora Moni Ovadia nuovo direttore del nostro Teatro Comunale.
Vuol dire che la città ha lavorato bene nel tempo, fino a giungere ad esercitare attrazione nei confronti di artisti della caratura di questo grande “ebreo errante”, non possiamo che esserne riconoscenti ed orgogliosi al contempo.

Non è più tempo di mecenati e protettori. Anzi i ruoli si sono invertiti, i mecenati e i protettori di oggi premono per poter accedere alla corte dell’artista.
Governo e amministrazione di Genova hanno dovuto chiedere accesso alla corte dell’archistar Renzo Piano per ricostruire il ponte Morandi.
Pensare che arte, cultura, ricerca e scienza possano essere ricondotte a una parte piuttosto che a un’altra, è un’idiozia dura a morire. Qualcuno di memoria corta ha dimenticato le lezioni apprese dal ventesimo secolo relativamente al rapporto tra arte, cultura, scienza e regimi.

L’espressione del genio umano non conosce biografie e confini. Sono tempi preoccupanti questi in cui si evocano tribunali dell’inquisizione nei confronti di uomini e donne che, a prescindere dal valore delle loro opere, dal contributo dato all’intera umanità, si vorrebbero condannare all’ostracismo per le eresie della loro biografia.
I prodotti del genio umano, se pure portano un nome e cognome, sono destinati ad essere resi impersonali dallo spazio e dal tempo che se ne impossessano per trasformarli in patrimonio universale a disposizione  di tutti.
Nella produzione del genio umano c’è il capolavoro della sorpresa, della meraviglia, del passo avanti rispetto a dove eravamo, dello sguardo che improvvisamente si accorge di non vedere e altrettanto improvvisamente, per un insight, riacquista la vista.

L’epoca dell’indottrinamento, dei Concili di Trento, delle culture di destra e di sinistra, dei regimi non dovrebbe appartenerci più, neppure sfiorarci il pensiero che l’opera del genio umano possa rientrare nelle categorie di destra e di sinistra, categorie che semmai appartengono al modo di vedere dello spettatore, che non è né artista né scienziato. Di questo spettatore dobbiamo sospettare, come dei ‘muttandari’ del Giudizio universale. L’arte e la scienza sono le vittime privilegiate di personaggi come il sapiente, a cui Brecht nel suo Galileo fa dire: “Aristotele è l’autorità riconosciuta non solo da tutta l’antica sapienza, ma anche dai grandi padri della chiesa”. È qui che nasce il cancro del rapporto tra potere e cultura, tra potere e conoscenza.

Ognuno è libero di interpretare la realtà come più gli aggrada, di accarezzare le ricette che ritiene più opportune per risolvere le contraddizioni e i conflitti del mondo. Può pure pensare che essere ‘mutandaro’ è moralmente più sano e formativo del lasciare che l’opera d’arte si esprima per quello che è, come atto creativo di libertà e di liberazione.
Ma tutto questo è ininfluente, perché la forza dell’arte e della scienza non ha confini, sopravvive e si trasforma in cultura e conoscenza per nuove sfide. È il motivo per cui possiamo ammirare tranquillamente il Giudizio Universale di Michelangelo, come le opere di De Pero, che certo non è ricordato per il suo libro A passo romano, così come il palazzo dei Congressi all’Eur.

Arte e scienza, la cultura, non hanno visioni del mondo a cui aderire, perché il loro compito, per fortuna è quello di nutrire il dubbio, di saper guardare oltre le visioni del mondo che condizionano i nostri occhiali e di offrirci lenti nuove. Poi ognuno è libero di usarle o meno, ma ormai quelle lenti sono state prodotte e nonostante le censure delle proprie visioni di destra o di sinistra, quelle lenti appartengono per sempre alla umanità e alla sua storia.
Se c’è ancora qualcuno che si dilania tra una cultura di destra e una di sinistra lasciamolo alle sue pratiche autolesioniste.
Noi crediamo nel valore dei valori, nell’etica del peso della responsabilità, dove portano a far pendere la bilancia le condotte di ciascuno di noi.

C’è una domanda che ancora è senza risposta, ed è quella da cui ha preso avvio il nostro articolo. Una domanda alla quale non si trova risposta nell’intervista che Moni Ovadia ha rilasciato al quotidiano Libero. Perché Ferrara. Perché la nostra città. In sostanza che cosa della città l’ha condotto tra noi.
Una domanda che ne suscita altre.
Il Moni Ovadia ‘intellettuale’ abiterà con noi, o sarà il ‘consulente’ pendolare pagato dall’amministrazione? Contribuirà a fare della nostra città una capitale della conoscenza che dialoga con le altre capitali? Il discorso si è concluso nel triangolo Fabbri, Sgarbi, Ovadia, o è solo l’inizio per la città di una nuova dialettica?

Per leggere gli altri articoli di Giovanni Fioravanti della sua rubrica La città della conoscenza clicca [Qui]

Cover: Moni Ovadia a Siena, aprile 2010 (Wikicommons)

FATMA E I RAGAZZI DEL PD:
Come è rinata la politica in via Ortigara

“Il mio nome? Mio padre fece la guerra in Libia e mi raccontò che durante una giornata di riposo, una giornata caldissima, una ragazzina gli offrì una brocca di acqua. Dopo aver bevuto ed essersi così dissetato le chiese come si chiamasse. Fatma era il suo nome. Quando nacqui, il 27 aprile del 1949, volle chiamarmi così!”.

Ho incontrato Fatma per la prima volta alcuni mesi dopo le ultime disastrose elezioni comunali.
Di ritorno dalla mia abituale camminata serale, passando per via Ortigara, avevo notato infatti che la sede del Circolo del Pd era ancora aperta e dentro si trovava una distinta signora seduta dietro ad una scrivania.

Entro e dichiaro subito di non avere un bisogno particolare da soddisfare, ma di essere stato invogliato dal semplice fatto di aver visto la sede ancora aperta, spinto soprattutto dal desiderio di voler  scambiare qualche parola sull’esito della sconfitta elettorale nella competizione cittadina per il nuovo sindaco.
Fatma, questo il nome della signora dietro la scrivania, non si mostra per nulla sorpresa della mia richiesta, mi accoglie con un bel sorriso aperto e mi invita cordialmente  ad accomodarmi.

Cominciamo a parlare conversando amabilmente come se ci conoscessimo da tempo.
Dopo un veloce scambio di sarcastiche battute sull’attuale giunta e sulla consistenza dell’opposizione in consiglio comunale, il discorso si allarga fino ad arrivare alle ragioni della sua presenza lì, nel circolo del PD.

Ascolto la sua storia con grande interesse mentre racconta dell’inizio del suo impegno, a quando nel 2015 cioè il Circolo  era ancora chiuso. Mi spiega che abitando da queste parti si trovava infatti a passare qui di fronte praticamente tutti i giorni e vedere la sede del suo partito con la saracinesca perennemente abbassata proprio non riusciva ad accettarlo.
Mentre racconta, la luce dei suoi occhi mi comunicano una grande determinazione, una forza e una tenacia che le sono servite per riuscire da sola a convincere il partito a riaprire il Circolo!
Tanto fece che la sede di via Ortigara riapre i battenti nel 2015 con la sua presenza garantita inizialmente almeno per una volta alla settimana, poi per tre volte, fino ad oggi.

“Come sei venuto tu questa sera”, continua a raccontarmi, “in questi anni molte persone si sono avvicinate, hanno visto la luce accesa e sono entrate per chiedere informazioni, per scambiare opinioni o anche solo per un breve saluto.”
Nel frattempo il clima politico è cambiato, la zona GAD è diventata territorio di scontro ideologico nella città, a cui Fatma e la realtà del circolo hanno risposto con una porta aperta a tutti, compresa la comunità di extra comunitari che nel frattempo ha preso residenza negli appartamenti  intorno.

Fatma, una donna da sola, insomma è riuscita a rendere concreta una realtà che riposa nel cuore di tanti, quella della presenza continua, non urlata, che si mette a disposizione, che ascolta, facendolo col sorriso sulla bocca e con le maniche rimboccate.
Ci salutiamo promettendoci nuovi incontri.
Ieri sono ripassato.
Fatma mi presenta Maria Teresa vicino ad un lungo tavolo stracolmo di generi alimentari.

Mi spiega che grazie all’impegno di Maria Teresa e di una decina di giovani del PD  la sede di via Ortigare  ha aderito all’iniziativa Solidarietà in circolo lanciata ai primi di dicembre da Nicola Zingaretti per la raccolta di generi di prima necessità a favore di famiglie bisognose di un  aiuto in più.

Fatma ha quindi fatto trovare aperto il Circolo tutti i giorni dalle 15 alle 19 dando così la possibilità a molti cittadini di portare il proprio contributo di solidarietà. Maria Teresa e i suoi amici in queste ore stanno confezionando i pacchi che porteranno a diverse organizzazioni di volontariato della città per la distribuzione poi alle famiglie interessate.
Sarà il Natale, sarà che sto invecchiando ma vedere questi ragazzi lavorare insieme a Fatma mi ha allargato il cuore, mi riconcilia con la Politica, quella vera, quella fatta di semplici gesti  quotidiani ,concreti fatti senza secondi fini solo per ribadire che abitiamo tutti insieme la stessa Terra, giovani e vecchi, italiani e  stranieri.

Saluto, ma non so ancora che mi sta aspettando una ultima sorpresa.
Mi offro per scrivere un articolo sulla loro bella iniziativa per Ferraraitalia. Ci scambiamo i contatti. Chiedo a Maria Teresa il suo cognome per appuntarlo sullo smartphone.
“Mantovani, Maria Teresa Mantovani” mi risponde. La guardo meglio, è la figlia di due amici, vista l’ultima volta  quando era piccolissima.

Colto di sorpresa cerco di evitare in primo luogo di riportare frasi stupide del tipo “ti ho visto nascere” e, mentre penso come continuare, è lei che mi dice di aver cominciato non da molto con la politica attiva, a frequentare il Circolo, quasi a continuare l’impegno politico del padre,  un impegno seriamente e tenacemente portato avanti per tutta la vita, fino alla comparsa di un problema di salute affrontato con lo stesso spirito.

A Fatma, a Maria Teresa e ai ragazzi del Pd  un grosso…grazie!

Quattro curiosità sul Natale

Approfitto dell’uscita settimanale della rubrica “Immaginario” per fare i più sentiti auguri a tutti i lettori e per raccontare quattro curiosità sul Natale.

1)Le origini del panettone
La storia della nascita del celebre dolce natalizio sfuma con la leggenda; sono due le storie che godono di maggior credito:

–Messer Ulivo degli Atellani, falconiere, abitava nella Contrada delle Grazie a Milano. Innamorato di Algisa, bellissima figlia di un fornaio, si fece assumere dal padre di lei come garzone e provò a inventare un dolce: con la migliore farina del mulino impastò uova, burro, miele e uva sultanina, per infornare poi il tutto. Fu un grande successo e qualche tempo dopo i due giovani innamorati si sposarono e vissero felici e contenti.
–Il cuoco al servizio di Ludovico il Moro fu incaricato di preparare un sontuoso pranzo di Natale a cui erano stati invitati molti nobili, ma dimenticò il dolce nel forno e quasi si carbonizzò. Toni, uno sguattero, gli venne in aiuto e propose una soluzione: con quanto era rimasto in dispensa (farina, burro, uova, della scorza di cedro e qualche uvetta) quella mattina aveva preparato dolce. In assenza di altro, si poteva portare quello in tavola. Il cuoco acconsentì titubante e si mise dietro una tenda a spiare la reazione degli ospiti. Tutti furono entusiasti e al duca, che voleva conoscere il nome di quella prelibatezza, il cuoco rivelò il segreto: «L’è ‘l pan del Toni». Da allora è il “pane di Toni”, ossia il “panettone”.

2)Perché ci si bacia sotto il vischio
Rintracciamo le origini di questa usanza nel mondo dei Celti.
La dea Freya, protettrice dell’amore e degli innamorati, era una tra le spose di Odino. I due ebbero come figlio Baldr, il quale era bello, buono e amato fra le divinità. Sua madre decise di proteggerlo chiedendo aiuto agli agenti naturali (Aria, Terra, Acqua, Fuoco), alle piante e agli animali. Tuttavia si dimenticò di rivolgersi al vischio, proprio perché quella pianta non viveva né in cielo né in terra e non sembrava pericolosa.
Fu così che il dio maligno Loki costruì un dardo appuntito proprio con il vischio e lo usò come arma per uccidere Baldr. Freya si mise a piangere sul cadavere del figlio, le sue lacrime diventarono le bacche perlacee del vischio e Baldr tornò in vita. Da allora Freya ringrazia chiunque si scambi un bacio passando sotto al vischio, dandogli la sua protezione nella vita amorosa.
Questa storia è sopravvissuta nei secoli fino ad influenzare la tradizione natalizia, secondo la quale baciarsi sotto al vischio è simbolo di amore e fortuna. In effetti, uno dei significati del Natale è anche questo: ricordarsi che ciò che vale di più nella vita non sono tanto le cose, ma le persone che amiamo!

3)La prima canzone cantata dallo spazio
Il 16 dicembre 1965, i due astronauti Walter Schirra e Thomas Stafford partirono a bordo della Gemini VI per concludere il primo attracco della storia ad un’altra navicella, la Gemini VII. Una volta attraccati, presi dall’euforia, fecero uno scherzo alla stazione di comando, lasciando un messaggio secondo il quale avrebbero avvistato un UFO. Dopo aver svelato la verità, intonarono la celeberrima Jingle Bells con l’ausilio di un filo di campanellini. In questo modo, proprio il famoso motivetto natalizio divenne la prima canzone cantata al di fuori dell’atmosfera terrestre.

4)Il più grande regalo di Natale
Si tratta della Statua della Libertà. Ideata e realizzata tra il 1880 e il 1886 da Frédéric Auguste Bartholdi, con la collaborazione di Gustave Eiffel che ne progettò gli interni, fu donata dai Francesi agli Stati Uniti d’America nel periodo natalizio come segno di amicizia tra due popoli e di commemorazione della Dichiarazione d’Indipendenza avvenuta un secolo prima.

SCHEI
Bancari e clienti di tutto il mondo, unitevi

I pompieri di Chicago Fire, famosa serie televisiva, spengono incendi in mezzo a strade innevate, al punto che il fuoco sembra essere l’unica fonte di calore di una città altrimenti gelida. E’ curioso che le teorie monetariste, di cui Milton Friedman è la punta di diamante, e la McKinsey, principale agenzia di consulenza sui modelli di business finanziario del secolo appena trascorso, abbiano entrambe la loro origine a Chicago (James Mc Kinsey, il fondatore, insegnava all’Università cittadina). Non a caso il filone monetarista di Friedman è chiamato anche “scuola di Chicago”. Evidentemente il clima di questa città, famosa per il suoi inverni rigidi, ha influito sul carattere di alcuni dei suoi abitanti, rendendo la spietatezza un tratto antropologico distintivo di una certa concezione dei rapporti economici, che trovano un paradigma nella dinamica di certe banche. Nel testo Strategic Management: A Stakeholder Approach, Edward Freeman diede la prima definizione degli stakeholders, vocabolo che abbonda sulle bocche degli amministratori delegati e banchieri: “soggetti senza il cui supporto l’ impresa non è in grado di sopravvivere”. Si tratta di una definizione che risale ai primi anni sessanta, ampliata poi in “portatori di interessi” e successivamente oggetto di una divaricazione di senso tra estremi opposti. Ad uno degli estremi, una concezione “etica” per cui l’impresa deve tenere conto delle conseguenze che le sue scelte hanno su soggetti (persone e ambiente) che non sono direttamente coinvolti nel processo di produzione. All’estremo opposto, una concezione “privatistica” imperniata sulla società per azioni. Milton Friedman (che, ricordiamolo, nel 1976 vinse il premio Nobel per l’economia) rifiutò l’idea di una responsabilità sociale dell’impresa. Friedman affermava che i manager sono agenti per conto terzi e dipendenti dei proprietari-azionisti e che devono agire nell’interesse esclusivo di questi ultimi. Utilizzare il denaro degli azionisti per risolvere problemi sociali, anche se l’impresa ne fosse in parte la causa, significherebbe fare della beneficenza con i soldi degli altri, senza averne il permesso. In questa concezione, non solo i portatori di interessi sono tutti dentro l’impresa, ma c’è una rigida gerarchia di importanza: gli azionisti vengono al primo posto (i grandi azionisti, meglio precisare).

Non è difficile dire quale concezione abbia prevalso in questi decenni. Ha talmente prevalso che un altro Nobel per l’economia, Joseph Stiglitz, ha detto che se non si abbandonano le teorie di Friedman, che danno luogo ad una ossessione tossica per i risultati a breve termine, non sarà possibile combattere le crescenti disuguaglianze. Ma senza allargare troppo il campo, rimaniamo in banca. Più volte su queste pagine, nel periodo Covid, abbiamo ricordato (e in qualche modo evocato) esperienze meritorie fiorite nella disperazione, come la Bank of Italy di Amadeo Peter Giannini, nata sulle macerie del terremoto di San Francisco del 1906 come la banca che dava fiducia agli immigrati italiani rimasti senza un soldo. Lo abbiamo fatto perchè la situazione attuale è quella di una economia che ripartirà sulle macerie di un gigantesco terremoto planetario di origine biologica. Il sistema bancario, comprese le regole che ne governano i processi, procede in maniera schizofrenica, e anche questo lo abbiamo già scritto: da una parte, regole che introducono una più sensata e minore ponderazione dei rischi di credito garantiti da stipendi e pensioni (le c.d. cessioni del quinto); dall’altro un inasprimento insensato delle regole che, dopo soli 91 giorni di un modesto sconfino, rendono il debitore un “cattivo pagatore”. I banchieri italiani, dal canto loro, muovono a grandi passi le loro strutture verso aggregazioni progressive miranti alla creazione di due o tre grandi poli bancari (Intesa San Paolo che ha incorporato UBI, Bper-Bpm, forse Unicredit-Monte dei Paschi). Queste megalopoli del credito potrebbero in effetti rafforzare la solidità patrimoniale degli istituti, ma si tratta di una eterogenesi dei fini, l’effetto involontario di un’azione intenzionale. E in cosa consiste l’azione intenzionale?

L’intenzione originaria appare quella di rafforzare la posizione dominante, nella scala di interessi, degli stakeholders ai quali pensava con amorevole premura Milton Friedman: i grandi azionisti. Come se ce ne fosse bisogno. Come se non fosse già così, come se gli altri due portatori di interessi (clienti e dipendenti) non fossero già abbastanza sacrificati sull’altare dei profitti. Tutti gli indici di redditività degli ultimi tre anni delle principali banche italiane segnano un incremento importante, nonostante il basso costo del denaro ed il conseguente modesto differenziale tra tassi attivi e passivi (la tradizionale fonte di guadagno per le banche) sia un dato ormai strutturale. Come è stato possibile? Basta leggere i numeri, ma siccome è noioso, un ottimo succedaneo è il commento ai risultati di bilancio di qualche banca. Quella che citiamo è Intesa, ma potrebbe essere anche un’altra: “…miglioramento della qualità del credito, aumento dell’efficienza puntando sui ricavi commissionali come principale voce di entrata”. Canoni dei conti, commissioni di istruttoria e di incasso rata sui prestiti, costi di ingresso sugli investimenti, retrocessioni sulle polizze.

Sarebbe un prezzo che si paga anche volentieri, se garantisse in generale l’intoccabilità del capitale investito dai clienti; se fosse in generale la contropartita di un incremento dei rendimenti riconosciuti; in sostanza, se le commissioni in aumento fossero il costo che si paga per una prestazione più efficiente. Sfortunatamente, i costi sono certi, i benefici incerti. La pressione assurda, spesso vessatoria, che alcune strutture esercitano sui dipendenti per collocare ai clienti prodotti ad alto ritorno commissionale rende impossibile la vita di molti bancari, ma non migliora quella dei clienti. A questo vanno aggiunte le sempre più ricorrenti inefficienze del sistema, aggravate dal fatto che ormai si verifica una fusione all’anno, ed i problemi di allineamento tra sistemi operativi causano disservizi che si scaricano sulla clientela per settimane o per mesi. Le banche sono ormai delle strade con l’asfalto sempre in manutenzione: dei cantieri costantemente aperti. Il rapporto tra costo e qualità del servizio è spesso drammaticamente inadeguato, ed apre la strada a soluzioni mordi e fuggi, ma di maggiore efficienza e rapidità, almeno in termini di risposta iniziale, con cui molti giganti del web si apprestano a cannibalizzare parte della clientela. Poco importa se la customer care del dopo vendita sarà inesistente: purtroppo anche quella delle banche si sta pericolosamente degradando.

I dipendenti e i clienti al dettaglio delle banche, quelli più colpiti dalla crisi, quelli a volte turlupinati da prodotti opachi o da aumenti di capitale mirati a scaricare sul risparmiatore il rischio di insolvenza dell’istituto, prima o poi la dovranno smettere di guardarsi in cagnesco, di diffidare gli uni degli altri, e comprendere che devono fare un pezzo di strada insieme. Prima succede, meglio è. Prima le associazioni di tutela dei consumatori la smettono di dare dei ladri ai bancari, meglio è. Prima i sindacati dei lavoratori la smettono di considerare i consumatori e le loro associazioni come dei nemici, meglio è. Se non si troverà il modo di saldare gli interessi dei due stakeholders deboli, ovvero clienti al dettaglio (rappresentati dalle loro associazioni e anche dalle istituzioni del territorio) e dipendenti, contro lo strapotere dello stakeholder forte (il capitale di rischio), il futuro delle fusioni bancarie sarà fonte di progressive espulsioni dal mercato dei lavoratori, di ulteriori restrizioni nell’erogazione di credito e di nuovi scandali finanziari.

PER CERTI VERSI
Cappelletti e farfalle

La proposta poetica di questa domenica riguarda un piatto della tradizione culinaria natalizia emiliano romagnola, ed in particolare ferrarese. Un simbolo dell’opulenza e di remote radici racchiuso nei versi di Tonino Guerra ai quali segue una mia poesia che riprende un breve ricordo del poeta romagnolo reduce dai campi di sterminio. Due proposte in forte contrasto ma di cui sono intessute la nostra vita e la nostra storia.

I CAPPELLETTI

Per me il tortello
è una pasta piena di pensieri.

In fondo tutte le paste ripiene,
i tortelli come i cappelletti
sono i sapori principali
che continuiamo a tenere in bocca.

Del resto tutti noi amiamo
la cucina delle nostre mamme
e nessuno può eguagliarle.
Ho sempre affermato
che noi mangiamo l’infanzia.

TONINO GUERRA

Guerra
Usciva dalla guerra
Dal kappazeta
Aveva una fame
Da Eta Beta
Vide una farfalla
Era bella
Viola rossa e gialla
Ma lui aveva fame
Si leccava i baffi
Sporchi di morte
Malefica la sorte
Poi sorrise
Si fermò
Fu una carezza
Nel cielo delle divise
Vinse la bellezza
Non la mangiò

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
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In copertina: elaborazione grafica di Carlo Tassi

Il sasso di Gino Strada

Ho l’impressione che molti italiani si siano stancati di guardare il telegiornale. Anche io, lo confesso, non ne posso quasi più. Colpa, per dirla con Berlusconi, del solito e un po’ rivoltante “teatrino della politica”. Dopo le cifre dei contagi, ricoverati e morti del giorno, dopo l’elenco delle disposizioni per le zone gialle arancioni e rosse, tutti i notiziari  si dedicano  appassionatamente alla cosiddetta  ‘attualità politica’: con una sfilza di dichiarazioni (proclami, sfide, annunci, minacce, promesse) del premier Conte e degli esponenti dei vari partiti. Sullo sfondo di questo teatrino, ci informano i cronisti, ci sarebbero le domande fatali che assillano il Paese: ci sarà la crisi di governo? Magari un rimpasto? Una nuova maggioranza? E chi entra e chi esce?
Naturalmente il Paese, cioè noi, i governati (ora comandati), si stanno ponendo tutt’altre e drammatiche domande. Il morbo che continua a infuriare e a mietere vittime (dentro e fuori dagli ospedali), lo spettro della povertà che continua ad avanzare (fanno fede le ultime cifre del Censis e della Caritas), il lavoro non c’è. Eccetera.
Fateci caso, nessun altro paese europeo esibisce lo spettacolo di un mondo della politica così autoreferenziale, così avulso dalla società reale, così insensibile al dovere di proporre soluzioni per una situazione che si è fatta via via più drammatica.
La lettera, bellissima e durissima, inviata da Gino Strada al quotidiano La Stampa venerdì scorso, mette a nudo la ‘vera verità’ sulle cause del flagello della pandemia nel nostro Paese.
Scrive Gino Strada: “Le riflessioni che sembravano urgenti nei primi mesi della pandemia paiono evaporate. Eppure è ormai evidente che la pandemia ha disvelato le gravi fratture in cui abbiamo vissuto negli ultimi anni. L’ambiente, il sistema economico, la Sanità dovrebbero essere argomento di dibattito quotidiano”. Una riflessione seria, un dibattito informato che risultano invece completamente assenti; dalla scena politica come dal circo mediatico.
Sul Covid e sulla gestione dell’emergenza sanitaria e sociale abbiamo invece assistito (e assistiamo ogni nuovo giorno) a una continua zuffa iper-politica. Lo scontro e il gioco dello scaricabarile fra Regioni e Stato Centrale. La rissa furibonda tra Governo (e dentro il Governo) e Opposizioni. Su cosa si poteva fare e non si è fatto. Su chi e quando e dove e come ha sbagliato: “Ma io l’avevo detto!”. “Non è vero, l’avevo detto prima io!”…
Intanto – i dati Covid ci vengono raccontati quotidianamente – in Italia continuano a morire ogni giorno svariate centinaia di persone: a cominciare come sempre dai più vecchi e dai più deboli. L’Italia si avvicina ormai ai 70.000 decessi e può fregiarsi di un tristissimo primato: nessun paese in Europa conta tanti morti quanto noi. Un solo esempio: la Germania, 83 milioni di abitanti, registra ‘solo’ 25.000 vittime: ma da sempre la Germania ha speso in proporzione molto più di noi per il suo Sistema Sanitario, i suoi ospedali, il suo personale, le sue sale di rianimazione.
Sicuramente degli sbagli – a Roma come in periferia – sono stati commessi in questi 10 mesi, ma la vera grande causa dell’ecatombe che ha colpito l’Italia è nell’attuale e miserevole stato della nostra Sanità Pubblica. Scrive ancora Strada: “ Lo stato deve assicurare a ogni cittadino il diritto a essere curato. Al contrario, la pandemia ha messo in evidenza l’estrema fragilità del nostro sistema sanitario: nel mezzo della pandemia ci siamo resi conto che non avevamo materiali di protezione, che le terapie intensive non erano adeguate, che la sanità territoriale era inesistente, che al di fuori degli ospedali tanti malati non venivano curati ma semplicemente abbandonati al loro destino”.
Oggi (solo oggi?) ci accorgiamo che mancano medici, mancano infermieri, mancano attrezzature. La verità è che negli ultimi 10 anni – lo ricordava anche Corrado Oddi su questo giornale [Vedi qui] – la Sanità Pubblica, come la Scuola, come altri servizi essenziali, sono stati sistematicamente saccheggiati per decine e decine di miliardi di Euro. Questa sistematica e dissennata opera di spoliazione (in politichese si chiama “definanziamento”) ha messo l’Italia e gli italiani pancia a terra.
E’ dentro questa situazione – sempre più insostenibile per milioni di italiani – che si è abbattuta la tragedia Covid. Scrive ancora Gino Strada: “Siamo stati travolti da una emergenza incontestabile, ma non possiamo ignorare che si tratta perlopiù di problemi strutturali, non emergenziali”.
Di questi temi dovrebbe occuparsi la politica, e la Sinistra – se ancora esiste. Occorrerebbe uno sguardo lungo, un impegno concreto a invertire la rotta, un grande piano di rilancio dei servizi pubblici a partire dalla Scuola e dalla Sanità pubblica, una vera svolta nella politica ambientale e di difesa del territorio. Ripensare con coraggio un modello di sviluppo diverso da quello che continua a generare e moltiplicare ineguaglianza e povertà. Se non lo faremo, nemmeno il sospirato vaccino basterà a rimetterci in piedi.
Gino Strada ha buttato il suo sasso nello stagno della politica italiana. Probabilmente non lo ascolteranno. C’è da occuparsi della prossima, probabile o improbabile, crisi di governo.

Cover: Gino Strada con Maurizio Landini, 2013 (Wikimedia commons)

PRESTO DI MATTINA
La luce dell’Avvento

«Chiara una voce dal cielo/ si diffonde nella notte:/ fuggano i sogni e le angosce, splende la luce di Cristo./ Si desti il cuore dal sonno,/ non più turbato dal male; un astro nuovo rifulge,/ fra le tenebre del mondo». Inizia così l’inno mattutino delle lodi dell’Avvento. E, subito affiora il ricordo di un midrash, un dialogo tra un discepolo e il suo maestro: «Nelle pagine di Isaia, disse un giorno Ariel, al suo Rabbi, è scritto che il Santo Benedetto sia, così parlò al profeta: “Io creo la luce e creo le tenebre, io il Signore ho creato tutte le cose”. “Il mondo quale esso oggi si presenta, proseguì Ariel, è un mondo privo di luce”. Poi chiese: “quando cambierà tutto questo?”. Rispose il Rabbi: “sofferma il tuo pensiero su altre parole del Profeta Isaia, e troverai la risposta alla tua domanda”. E il Rabbi proseguì: “Disse il Profeta in nome del Signore: quando darai cibo all’affamato, quando concederai riposo alla angoscia dell’uomo, la luce splenderà nell’ora delle tenebre e nella notte, il cielo sarà luminoso come a mezzogiorno”».

La luce crea uno spazio, un milieu – direbbe Pierre Teilhard de Chardin (1988-1955) gesuita paleontologo, mistico dell’evoluzione – un “ambiente per la luce”, un luogo proprio nella materia stessa che rivela, ai suoi occhi, tutta la sua potenza spirituale. È quanto accade, per intendersi, nel processo di cristallizzazione, in cui affiora e poi si attua l’individualità di una forma. Nel cristallo infatti l’opposizione della materia alla luce viene annullata; ciò che è esterno è accolto al suo interno; in esso la luce arriva fino al suo centro e da lì, in un istante, fa vedere, rifrangendole, tutte le sue bellezze. Nella luce che si unisce alla materia – mantenendosene distinta senza venirne contaminata – sono simboleggiate le direzioni del futuro: la convergenza dell’ ‘in avanti’ (en avant) dell’evoluzione e l’ ‘in alto’ (en haut) della rivelazione cristiana. Quella stessa alleanza tra il cielo e la terra che fa della materia la culla dell’avvento dello spirito e della libertà. Entrambi prendono dimora nella carne del mondo, a guisa di un cristallo che nella sua materialità appare trasformato dalla luce. Così la nostra umanità, in tutte le sue fasi, va socializzandosi e spiritualizzandosi attraverso un processo di ‘complessità-coscienza’ che vede ‘il fenomeno umano’ proteso, pur nella complessità di tentativi, fallimenti, riprese, verso un vertice irreversibile di personalità, amabile e amante, intravisto da Teilhard nel lungo percorso temporale della storia e della fede: «la storia del passato mi ha rivelato il futuro».

Per Teilhard «ogni cosa conserva il volto suo proprio, il moto suo autonomo: la luce, infatti, non cancella i lineamenti di nulla, non altera nessuna natura, ma penetra nell’intimo degli oggetti, anche più profondamente della loro stessa vita». Come l’irrompere della luce che riempie tutti gli spazi manifestandone le forme senza occuparne il posto e sostituirsi ad esse, così è dello spirito nell’evoluzione del cosmo e di quel microcosmo che è il corpo umano. Lo spirito non si sostituisce alla mano, al piede e ad ogni altra parte, ma ne attua il loro dinamismo, li anima dall’interno, li orienta oltre se stessi; lo spirito come la luce non si lascia imprigionare dalle cose e dagli eventi, ma diviene con essi, in una relazione sempre più intima proprio passando oltre e attirando a sé nuovamente: «Misteriosa natura di ogni luce e della luce divina: noi abbiamo un bel cercare di afferrarla, in mille considerazioni, mille formule ammirabili… noi non possiamo imprigionarla… Essa può sempre sfuggire tra le nostre dita, e non lascia tra le nostre mani che un groviglio di parole oscure e inanimate, in cui non troviamo più né illuminazione, né calore», scrive in un Ritiro del 1922.

Il futuro di Dio diviene visibile agli occhi dell’uomo quando egli si affida e tiene aperto il suo destino alla incomprensibilità e oscurità di Dio nel mondo; quando tiene sgombro l’ingresso della sua esistenza dai continui detriti e grovigli che minacciano di ostruirlo ed imprigionarlo o, di fatto, gli sbarrano la strada tagliandolo fuori. Solo allora egli, così affidato alla fede che esiste come speranza, non si ritrova immerso e avvolto in un fallimento, né travolto e annullato nel gorgo oscuro dell’entropia, ma introdotto in un nuovo slancio, inondato da nuova luce ed energia, quella della fede che, sperando contro ogni speranza (Rm 4,18), trova una via di uscita sulle forze distruttive e sul suo destino di morte.

Teilhard de Chardin è stato un cristiano fedele alla terra. Le ragioni del cuore lo facevano certo dell’esistenza di una duplice fede in ciascuno di noi. Una fede nel Mondo, nella Terra, nella Vita. E una fede in Dio, nell’Assoluto, nel Trascendente. Una che scendeva dall’Alto, (foi en l’haut); l’altra, che nascendo dal basso si spingeva in Avanti, (foi en avant) e tutte e due, invece di porsi come antagoniste, insieme si coniugavano nel cuore dell’uomo.

Fu in ragione di Cristo che Teilhard invocò e affermò questa convergenza, che l’Incarnazione rendeva possibile nel cuore stesso di ciascuno di noi. La discesa del Verbo poneva nelle viscere della Terra il mistero dell’Eterno che si fa tempo, in modo tale che l’Universo stesso si scopriva capace di futuro: «Sin dall’Origine delle Cose ha avuto inizio un Avvento di raccoglimento e di fatica, un Avvento durante il quale i determinismi si flettevano e si orientavano, docilmente ed amorevolmente, verso la preparazione di un Futuro insperato eppure atteso. Adattate e manovrate in modo così armonioso che il Supremo Trascendente sembrerebbe essere germinato interamente dalla loro immanenza, le Energie e le Sostanze del Mondo concentrandosi e purificandosi nell’Albero di Jesse. E componevano con i loro tesori distillati e accumulati, la gemma scintillante della Materia, la Perla del Cosmo e suo punto di attacco con l’Assoluto personale incarnato, la Beata Vergine Maria, Regina e Madre di tutte le cose» (La Vita cosmica, 86-87).

Di qui il vivere nell’attesa di un Avvento, insieme al coinvolgersi nella costruzione di una «opera per sempre» diventano le note dominanti di tutta la sinfonia teilhardiana che, se muta di tonalità, lo fa solo per sottolineare che quella pienezza dei tempi che fu la venuta del Cristo è, a sua volta primizia di un nuovo Avvento, di una seconda e definitiva venuta. «E da quando Gesù è nato, è cresciuto, è morto, tutto ha continuato a muoversi perché il Cristo non ha finito di formarsi. Non si è ancora totalmente avvolto nelle pieghe del Manto di carne e di amore che Gli stanno tessendo i suoi fedeli… Il Cristo mistico non ha raggiunto ancora la pienezza, neppure quindi il Cristo cosmico. Entrambi, ad un tempo sono e divengono: e il prolungarsi di questa genesi rappresenta la molla ultima di ogni attività creata. Con l’Incarnazione che ha salvato gli uomini, lo stesso Divenire dell’Universo è stato trasformato, santificato», (ivi).

In questo divenire del tempo, in cui ogni traguardo e ogni termine viene aperto dal mistero di Cristo ad un nuovo inizio e spinto verso un futuro carico di un ulteriore e più profondo compimento, siamo posti pure noi, credenti e non credenti di oggi, chiamati ad un identico compito: attendere e al contempo edificare «l’opera per sempre» che, se per i non credenti rimane ancora ‘Qualcosa’ di non identificato, ma che tuttavia supera e va oltre il semplice orizzonte umano nella direzione di un qualche ultra-umano, per i cristiani assume i lineamenti di ‘Qualcuno’: il Cristo sempre più grande, il Cristo totale e universale.

Per Teilhard de Chardin la modestia della natività rappresenta molto più di un semplice esempio o una lezione di umiltà dataci dal Cristo. In essa si rivela il modo con cui l’essere unisce a sé ed ‘informa’ la materia. E il Natale dice il realismo con cui Dio affronta drammaticamente l’unificazione e la personalizzazione della creazione attraverso il suo Figlio fatto uomo. Per lui celebrare il Natale significa rilanciare la sfida dell’avvenire, anteporre ai propri interessi quelli comuni verso un ulteriore salto di complessità e coscienza nello sviluppo della vita.

«Storicamente – ci ricorda ancora Teilhard – l’attesa non ha mai cessato di guidare come una fiaccola i progressi della nostra fede. Il Natale che avrebbe dovuto far volgere indietro i nostri sguardi e focalizzarli verso il passato, non ha fatto altro che riportarli maggiormente in avanti, verso l’Avvenire. Apparso un istante tra noi, il Messia si è lasciato vedere e toccare solo per perdersi una volta ancora, più luminoso e ineffabile che mai, nelle profondità dell’avvenire. È venuto. Ma ora, dobbiamo ancora e di nuovo attenderlo più che mai (L’Ambiente divino, 122)… E da quando Gesù è nato, è cresciuto, è morto, tutto ha continuato a muoversi perché il Cristo non ha finito di formarsi. Non si è ancora totalmente avvolto nelle pieghe del Manto di carne e d’amore che Gli stanno tessendo i suoi fedeli… Il Cristo mistico non ha raggiunto ancora la pienezza, neppure quindi il Cristo cosmico. Entrambi, ad un tempo, sono e divengono; e il prolungarsi di questa genesi rappresenta la molla ultima di ogni attività creata» (La vita cosmica, 87).

«Un pesce è forte solo nell’acqua» dice un proverbio africano. Lo stesso si dovrebbe dire di un cristiano e di una comunità cristiana, che sono forti della forza del vangelo solo quando vivono il loro tempo come rinnovata attesa di qualcuno che viene.

 

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]  

CONTRO VERSO
Filastrocca del padre invertebrato

Filastrocca del padre invertebrato

Ci sono lacrime che muovono il desiderio di consolare e altre che instillano un nervosismo brutto venato di compassione. Così è stato con questo padre che candidamente ha ammesso di avere picchiato la moglie, e di sentirsi del tutto estraneo e impotente dentro alla propria vita. Ammalato e incapace di curarsi, disoccupato e bloccato nella ricerca di un lavoro, manteneva un atteggiamento da parassita e succhiava energia dalle poche relazioni vitali che ancora aveva. Al figlio non intendeva dare niente e così è stato.

Esimio Magistrato,
la vedo preoccupato.
È giusto sia informato
di chi ha convocato.

Io sono invertebrato
da quando sono nato
non ho mai lavorato
studiato o immaginato.

Mi sento assai ferito
di essere tradito
Mia moglie l’ho picchiata
e poi l’ho venerata.

Il figlio che è venuto
io l’ho riconosciuto
e non ho mai appurato
se io l’ho generato.

Però sono malato,
malato nel profondo.
Sto raggomitolato
ad invidiare il mondo.

Perfino questo canto
io non lo so portare.
Mi sciolgo nel mio pianto
che non si vuol fermare.

Lo ammetto Vostro Onore,
sono un padre indecente.
Forse neppure un padre
Forse non sono niente.

Si tende a credere che la violenza sulle donne abbia tutta la medesima matrice e che i maschi violenti, in definitiva, si assomiglino. La mia esperienza di ascolto mi fa dubitare di questa semplificazione. Sono tante le strade che portano un uomo ad essere violento con la partner. Questo ad esempio picchiava senza sentirsi il padrone. La sua debolezza era sostanza.
La compagna a propria volta nutriva con questa relazione il desiderio di essere indispensabile a qualcuno, dopo essere stata una figlia rifiutata da entrambi i genitori. È occorso molto tempo e molto impegno personale perché riuscisse a staccarsi da lui.

Lettera Aperta a Moni Ovadia

Caro Moni Ovadia,
mi rivolgo a te con il ‘tu’ perché ti conosco da una vita. Non personalmente, ma attraverso la tua opera. Ti ho sempre stimato come uomo di teatro, come autore di testi e per il tuo coraggio nel sostenere valori e posizioni controcorrente. Insomma, nel campo dell’intellettualità di sinistra hai svolto una funzione di pungolo e anticonformismo che ho sempre apprezzato.
Questa che ti scrivo è una lettera difficile e schietta, come dovrebbe piacerti se ti ho giudicato bene nei decenni. Do per scontato il rispetto della libertà di scelta che è sacro per ciascuno. Forse, meno scontata è la libertà di dirsi apertamente come la pensiamo sulle scelte che hanno un evidente significato pubblico ed etico-culturale. Nella storia travagliata della sinistra (storica e non) si è sempre interpretato il dissenso in termini schematicamente drammatici: o come ‘tradimento’, o come l’anticipazione di una innovazione non capita dai più.
La tua decisione di accettare la proposta di nuovo direttore del teatro Comunale di Ferrara per me non è né l’una, né l’altra cosa. Semplicemente la considero un errore. Vedremo cosa ci riserverà  il futuro, ma già ho notato alcune contraddizioni nel muovere i tuoi primi passi pubblici che stridono rispetto alla tua storia pubblica di decenni. Partiamo dall’autore di questa mossa, indubbiamente intelligente dal suo punto di vista: Vittorio Sgarbi. Leggo queste righe in una tua intervista ad un quotidiano cittadino: “Spesso sono in disaccordo con le posizioni di Sgarbi, quasi un anarco-delirio libertario. Al contempo è un uomo d’eccezione di grandissima cultura, tanto libero quanto eccentrico, con amicizie trasversali. E’ un intellettuale spericolato e sperimentale, cosa che mi piace.” A parte la rituale e obsoleta formula retorica di denunciare dissensi avuti con una persona guardandosi bene dall’indicarne almeno uno preciso, ti rivolgo subito una domanda che riguarda un ‘dissenso’ che dovresti esprimere qui e ora. Il ‘libertario’ Sgarbi ti ha chiesto pubblicamente di muoverti in ambito teatrale e di evitare di fare politica. Non ho letto una tua pronta risposta contro questa intimazione.
E’ vero che la cultura deve aiutare a superare ogni steccato ideologico, ma non a cancellare un valore fondamentale scritto nel suo dna: la libertà di opinione. Di conseguenza ti rivolgo un’altra domanda. Se Sgarbi terrà fede nel portare avanti la sua opera di riabilitazione dello squadrista fascista Italo Balbo, fino a chiedere di intitolargli una via, tu sarai libero di dire pubblicamente forte e chiaro il tuo no come si ricava dalla tua coerente biografia di ebreo antifascista? Un’ultima osservazione su un dettaglio significativo. Ho letto che alla presentazione pubblica della tua nomina hai ringraziato il sindaco e il vicesindaco. Conosci qualcosa delle gesta e delle dichiarazioni fatte in varie circostanze dal vicesindaco Nicola Lodi? Se ti fossi informato, forse avresti ringraziato solo il sindaco. O ti interessa solo la parte che il vicesindaco ha avuto nella tua nomina? Bè, una visuale un po’ ristretta, non ti pare? Certamente bene in sintonia con lo ‘spirito del tempo’ di individualismo assoluto che, in tante occasioni, hai efficacemente criticato con una critica culturale efficace e corrosiva.
Insomma, caro Moni, il vice sindaco Lodi sta alla cultura come il sottoscritto alla conoscenza della fisica nucleare. E non mi riferisco alla cultura intesa come erudizione, ma nel suo profondo significato di rispetto, tolleranza, inclusione, apertura ed empatia verso l’altro.
Sinceramente ti auguro buon lavoro nel campo in cui sei stato nominato. E sono sicuro che le idee e le capacità non ti mancano. Sono meno sicuro che tu possa permetterti di comportarti da persona e cittadino libero di esprimere le proprie opinioni su tutto ciò che riguarda la vita della polis. Ma come insegnava il nostro Gramsci, che cosa diventa la cultura se la separi dalla vita della città e della comunità in cui operi? A cosa si riduce la cultura se, nel rispetto dell’avversario, si inibisce una funzione di civile conflitto aperto e acceso delle idee e delle visioni del mondo?
Lo so che sono considerazioni pesanti, ma conosco questa destra e non posso tacere i miei dubbi e le mie inquietudini.
Con immutata stima e affetto.
Fiorenzo Baratelli – Direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara

Cover: Moni Ovadia al SoundMakers Festival 2013. Autore della foto Diego Panico (Shootalive) per conto di SoundMakers Festival (Wikicommons)

Al cantón fraréś
Luciana Guberti: “Nadàl e dialèt”

La vigilia è un giorno di aspettative. La vigilia di Natale è attesa, suono di campane, fede, rito e leggenda. Per rendere l’atmosfera nell’aria a Luciana Guberti non servono tante parole, l’invito è lasciarsi trasportare. In una seconda poesia l’autrice si interroga sul perchè pensa e parla in dialetto: i ricordi dell’infanzia, le espressioni dei familiari, il richiamo del focolare, gli angoli del paese sono le radici della sua esistenza.

La vźìlia ad Nadàl

La vźìlia ad Nadàl
l’è uη gióraη speciàl..!
T’al sént int la źént
chi’è tuti cuntént
i t’al diś ill campàη
che a festa li sóna
da vśin e luntàn.
I t’al diś i culór e tant lampadìη
che i s’impìza e i sa śmorza
su fnèstar e zardìη.
La vźìlia ad Nadàl
l’è uη gióraη speciàl…
parché a meźanòt i’ànźul dal ziél
i’arcòrda a la źént,
cmè cla nòt ai pastór,
che a nas nòstar Sgnór
int na stala, col fréd, seηza gnént!
Ma iη véta ala stala
agh’è granda na stéla
coη la cóa luśénta
c’la fa luś aηch par déntar,
e par chi vol capìr,
aη gh’è àltar da dir..!

La vigilia di Natale
La vigilia di Natale / è un giorno speciale..! / Lo senti nella gente / che è tutta contenta, / te lo dicono le campane / che suonano a festa / vicino e lontano. / Te lo dicono i colori e tante luminarie / che si accendono e si spengono / sulle finestre e nei giardini. / La vigilia di Natale / è un giorno speciale… / perché a mezzanotte gli angeli del cielo / ricordano alla gente, / come quella notte ai pastori, / che nasce il nostro Signore / in una stalla, col freddo, senza niente! / Ma in cima alla stalla / c’è grande una stella / con la coda lucente / che fa luce anche dentro, / e per chi vuol capire, / non c’è altro da dire..!

 

Parché al dialèt

“Parché iη dialèt?” al m’à dmandà uη profesór un dì.
Mi, lì par lì, ag ho rispòst: “Parché l’im vien acsì!”.
Ma la risposta giusta, da dar al profesór,
l’era lugàda déntar int al me cuór
e al n’è sta fàzil niaηch par mi, capìr par ben,
al parché acsì l’im vien.
Al me scrìvar in dialèt l’è turnàr int la cuna,
l’è la téta ad me mama,
l’è ciuciàr in sla tomàna
e acsì pulacìda, far aηch uη sunìη,
col me zié e me mama clì zcór piaη pianiη…
L’è al profum dill ciapeli iη sla piastra dla stùa,
l’è l’udór dla calìźna dal camin ad ca’ tóa,
l’è me fradèl, coη mi sóra ill spal,
ch’à rid e al cmand cmè s’al fuss uη cavàl.
L’è me babo c’al riva coη zastìn ad sfuracèl,
l’è me mama c’la sténd coη corda e furzèl.
L’è la Madona ad piazéta, coη set spad int al cuór,
c’l’at guarda int i oć seηza raηcór,
i’è ill radìś dla me vita, iηgumbiàdi int al pet,
che quand i fa uη fiór al zcór in dialèt.

Perché il dialetto
“Perché in dialetto?” mi ha chiesto un giorno un professore. / Lì per lì, gli ho risposto: “Perché mi vien così!”. / Ma la risposta giusta, da dare al professore, / era nascosta dentro al mio cuore / e non è stato facile neanche per me capire bene, / perché così mi viene. / Il mio scrivere in dialetto è tornare nella culla, / è la tetta di mia mamma, / è succhiare sull’ottomana / e così appollaiata, fare anche un sonnellino, / con mia zia e mia mamma che parlano pianino… / È il profumo di fette di frutta sulla piastra della stufa, / è l’odore di caligine del camino di casa tua, / è mio fratello, con me sulle spalle / che rido e lo comando come fosse un cavallo. / È mio babbo che arriva con un cestino di spugnole, / è mia mamma che stende con corda e forcella. / È la Madonna della piazzetta, con sette spade nel cuore, / che ti guarda negli occhi senza rancore; / sono le radici della mia vita, aggrovigliate nel petto, / che quando fanno un fiore parla in dialetto.

Tratte da: Luciana Guberti, La piazéta, poesie recitate dall’autrice, CD, Modena, Forte House, 2006.

Luciana Guberti
(Bondeno 1935) Orologiaia di Bondeno, con la famiglia ha condotto per anni lo storico negozio laboratorio avviato dal padre Leonello nel 1926 e ubicato int al Stracantón (angolo via Turati). Inizia scrivendo zirudele per gli amici e in parrocchia. Socia del Tréb dal Tridèl, ha ricevuto riconoscimenti e premi in concorsi provinciali e regionali.

Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui] 

Cover: Davanzale invernale, foto di Marco Chiarini

Il lungo racconto di Piazza Fontana

L’esercizio della memoria è un qualcosa che va coltivato giorno per giorno. Proprio da questa idea nasce l’esigenza di riportare oggi questo “racconto”: una conversazione avuta con una delle firme più autorevoli di questo giornale, Gian Pietro Testa, il 25 aprile del 2019, nell’anno del cinquantennale della strage di Piazza Fontana. A farlo siamo stati in due, lo scrivente, e Simone Buonomo, studente dell’Università di Bologna, con l’intento di recuperare la testimonianza di un giornalista che per primo raccontò la strage e che per primo si dichiarò contrario a percorrere la “pista anarchica”, cercando di capire anche quale fu il rapporto proprio della stampa con la narrazione della strage che avrebbe cambiato per sempre le sorti dell’Italia post bellica.

I fatti

12 dicembre 1969, ore 16.37. Una bomba esplode all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano uccidendo 17 persone, ferendone 105. Ciò segnerà per sempre la storia della Repubblica Italiana. Quello che poteva sembrare un gesto omicida isolato, rappresenterà una commistione di intenti che porteranno all’inizio di quel momento storico in cui si attuò la “Strategia della Tensione.” Anni dopo, in fase processuale, si proverà la partecipazione dei servizi segreti e di membri del Governo unitamente a gruppi di estrema destra nel compimento di alcuni attentati.
Tra i primi ad entrare come giornalista ci fu proprio Gian Pietro Testa.

“Un pomeriggio milanese”

Giampietro, come ricorda quel giorno?
“Era un pomeriggio alla milanese. Io avevo la febbre e avevo avvertito la redazione che non sarei uscito di casa. Casualmente abitavo nei pressi di Piazza Fontana. Mi chiamarono dal giornale parlandomi di un incidente nella Banca dell’Agricoltura e corsi a vedere cos’era successo. Arrivato sulla piazza incontrai un mio collega de “Il Giorno”, il quale mi disse che c’era stato uno scoppio, dovuto dalle caldaie. Riuscii ad entrare facendomi largo tra la polizia, ero il primo giornalista a introdurmi nel luogo della strage e capii subito che non potevano essere state le caldaie ed infatti, chiedendo ad un pompiere, costui mi disse ‘ma quali caldaie? È stata una bomba’. Sotto il tavolone in mezzo alla sala circolare c’era il buco, il cratere dov’era scoppiata. Il Prefetto di Milano, Libero Mazza, intervenne immediatamente addossando le responsabilità del gesto agli estremisti di sinistra e agli anarchici. La stampa iniziò a cucire sulla pelle degli anarchici la storia della strage a partire da quelle affermazioni. Insomma bisognava trovare un colpevole e subito, per tranquillizzare l’opinione pubblica, ed i media non ci misero molto a tessere queste tele che coinvolgevano gli anarchici: erano coloro che avevano, per le loro rivendicazioni ideologiche un identikit perfetto per essere i colpevoli che andavano bene a tutti”.

Probabilmente Piazza Fontana rappresenta lo spartiacque per la Repubblica italiana, ma come si arrivò a questo?
“La strage di Piazza Fontana non è arrivata improvvisamente, era nell’aria da tempo. C’erano stati attacchi furibondi all’Italia. Si è arrivati alla strage perché si voleva fare un’azione propedeutica ad un’azione politica. L’avanzata della sinistra, soprattutto con i giovani, aveva portato all’esasperazione le vecchie strutture mentali del paese. C’era questa situazione incredibile. Prima della strage, nel 1962, bisogna ricordare il primo attacco alla democrazia con la bomba che uccise Enrico Mattei, amministratore dell’Eni, vicenda mai del tutto chiarita. Sette anni lunghissimi, fino al ’69, di attesa, ma l’aria era satura. L’Italia era maciullata dagli scontri politici. Tra l’altro, nel 1969, a causa delle manifestazioni di piazza si era creato un aspro conflitto tra i giovani dell’università e le forze di polizia, e di attentati e crisi della democrazia si parlava spesso. Bisogna ricordare anche gli attacchi degli altoatesini che hanno creato molta confusione. La questione dell’Alto Adige, alla fine degli anni ’50, aveva visto un’escalation di violenza che vide protagonisti i gruppi secessionisti germanofoni. Questa situazione portò a numerosi attentati, come la strage di Cima Vallona il 25 Giugno del 1967. Ci fu una serie continuativa di attacchi che si protrassero addirittura fino al 1988.”

Si parlava spesso di stragi sui giornali?
“Si parlava di attentati tutti i giorni. Erano cominciate le stragi e quella di Piazza Fontana fu solo la prima di un periodo lungo cinque anni fino all’Italicus, in questo periodo nel quale fu attuata la cosiddetta “Strategia della Tensione” si viveva in uno stato di incertezza.”

La stampa e le “piste”

Prima di proseguire con le parole di Testa, bisogna ricordare come la stampa, per la gran parte, seguì la pista degli anarchici, i quali cercarono di difendersi dopo i primi arresti. Quest’ultimi fecero una conferenza stampa il 17 dicembre, in cui fornirono la loro versione dei fatti. Dicevano, sostanzialmente, di essere innocenti sia per quanto riguardava l’attentato alla Fiera Campionaria, avvenuto il 25 aprile dello stesso anno, sia per quanto riguardava la strage di Piazza Fontana.

Rispetto alla bomba alla Fiera Campionaria, poi, possiamo trovare ben due elementi di congiunzione con la strage di Piazza Fontana: in primis le indagini sull’attentato del 25 Aprile 1969 furono assegnate al Commissario Calabresi, lo stesso protagonista delle indagini sulla strage di Piazza Fontana, ed anche in questo caso, Calabresi, puntò sulla pista anarchica. Solo successivamente si scoprì che si era trattato di una strage ordinovista. Il secondo elemento di congiunzione è un articolo del “The Guardian”, pubblicato il 6 dicembre sempre del ’69, nel quale si preannunciavano una serie di eventi terroristici successivi alla fiera e denunciava rapporti tra i gruppi fascisti italiani e i Colonelli Greci. Questo articolo fu quasi del tutto ignorato in Italia, tranne che da pochissime testate, tra le quali proprio “Paese Sera” dove lo stesso Testa ha lavorato.
Tutta la stampa, comunque, iniziò a percorrere la pista anarchica. Anzi, quasi tutta tranne Idro Montanelli, il quale a poche ore dalla strage rilasciò un’intervista a Tv7 nella quale diceva che gli anarchici erano innocenti, e proprio Gian Pietro testa, il quale dopo essere stato sul luogo scrisse l’articolo “Un Infame provocazione” aprendo l’ipotesi della pista nera.

Perché scrisse quell’articolo?
“Ricordo la conferenza stampa che fece in Prefettura l’allora Presidente del Senato Amintore Fanfani, il quale ad un certo punto disse: ‘Come lor signori sanno, noi non smetteremo mai di cercare i colpevoli’. Io lo guardai e gli dissi ‘ma non si vergogna di dire una cosa del genere? Sono anni che abbiamo stragi e voi non avete fatto niente e non fate niente’. Lui voltò le spalle e se ne andò silenziosamente. Comunque io ero convinto che fossero stati i fascisti. Alcuni giornalisti seguirono immediatamente la pista anarchica e spesso si ritrovarono ad essere d’accordo con ciò che dicevano la polizia e le autorità. Io ho visto con i miei occhi l’attentato. Non mi tornava niente di quello che si diceva con le accuse agli anarchici e ho scritto un articolo come provocazione, che poi si è rivelata esatta. Il 13 Dicembre, all’indomani della strage, vennero fermati gli anarchici del gruppo ’22 Marzo’ che furono accusati per la strage. Nelle ore successive la Questura di Milano cercò le prove e interrogò i componenti del gruppo: tra questi c’era anche Giuseppe Pinelli, che poche ore dopo l’arresto morirà precipitando dal quarto piano della Questura. Caduta che non ha trovato mai un vero colpevole.”

Quale fu il ruolo della stampa nella costruzione della figura di colpevole addossata a Pietro Valpreda invece?
Pietro Valpreda era un anarchico che apparteneva al gruppo ‘22 Marzo’. Da anni veniva seguito come uomo socialmente pericoloso ed era in stato di massima sorveglianza, quindi si conoscevano tutti i suoi spostamenti e tutti sapevano che il 12 Dicembre era stato convocato in Tribunale a Milano e che l’11 dicembre aveva viaggiato in treno per recarsi in città. Hanno creato un mostro con Valpreda. Fu una creazione giornalistica, mediatica. Ed anche lui non aveva fatto assolutamente niente. Alcuni colpevoli sono stati costruiti sulla carta. Per esempio, mi viene in mente il caso del ‘Corriere della Sera’, il cui direttore Di Bella diceva, anche a distanza di qualche anno: ‘È stato lui, è stato Valpreda. È stato Pinelli’. E così buona parte della stampa italiana. Dovevano trovare un colpevole e così hanno fatto. Tanto è vero che Valpreda fu riconosciuto forzatamente dal tassista Cornelio Rolandi: in mezzo ad alcuni volti rassicuranti c’era anche Valpreda, riconoscibile nel suo stile anarchico. Rolandi disse ‘È lui’, al che gli chiesero ‘Sei sicuro?’. Rolandi disse: ‘Se non è lui, qui non c’è’. Una frase mai riportata dai verbali.”

Con gli appartenenti ad ordine nuovo va ricordato, a questo punto, che la stampa si comportò in maniera diversa rispetto a come descrisse Valpreda e gli anarchici. Attivò la macchina del fango contro i primi. Successivamente, con le svolte processuali, non si trova la stessa reazione nei confronti degli appartenenti ad ordine nuovo. Non si capisce se il motivo è da ricercare nel fattore temporale, e cioè nella non “mediaticità” della notizia, dopo molti anni dai fatti, o perché non si voleva ammettere che alcuni comparti dello Stato avevano partecipato attivamente alla costruzione di questo disegno stragista.

Giuseppe Pinelli

Va ricordato, ora, però, chi fu la “diciottesima” vittima della strage, gettato dalla finestra della Questura di Milano e come fu raccontato dalla stampa. Anarchico, ferroviere, tra i fondatori del Gruppo “Ponte della Ghisolfa”. Marcello Guida, il Questore di Milano all’epoca, organizzò una conferenza stampa il giorno della caduta di Giuseppe Pinelli dal quarto piano della Questura, alla quale parteciparono anche il dott. Antonino Allegra e il Commissario Luigi Calabresi. La prima versione che fu data alla stampa fu quella che raccontava di un Pinelli incapace di convivere con la responsabilità delle morti causate dalla bomba nella banca, una colpa così grande da decidere di suicidarsi. Fu una versione che la stampa accettò costruendo, sull’onda delle responsabilità degli anarchici nella strage, la personalità pericolosa di Pinelli. Solo a seguito delle contro-inchieste del gruppo anarchico di Pinelli e delle Brigate Rosse, fu riconosciuta la sua estraneità nella strage di Piazza Fontana. La sua morte segnò la storia delll’Italia, non solo per le circostanze misteriose, ma anche perché legata indissolubilmente all’omicidio di Luigi Calabresi e del presunto coinvolgimento dei servizi segreti.

Su tutto questo quale fu la sua idea?
“Io fui convinto da subito che Pinelli fosse stato buttato giù dalla finestra. Il racconto di Calabresi non era credibile. Ricordo la conferenza stampa che fece Calabresi. Venne su nell’ufficio del Questore e cominciò a parlare e dire che era stata tutta colpa di Pinelli ed è iniziata questa storia nella storia. Pinelli fu preso perché erano convinti che i colpevoli fossero gli anarchici, ma non c’entravano nulla in realtà. Bisognava, però, difendere la versione della Questura. Calabresi si tradì l’anno successivo, quando in un’intervista disse che Pinelli era innocente e che da lì a poco sarebbe stato mandato a casa perché non c’erano motivi per trattenerlo. Da questo momento si attivò una macchina del fango mediatica nei confronti di Calabresi che fu accusato, grazie all’intromissione dei servizi segreti, di avere rapporti con la Cia. Calabresi e Pinelli sono i figli della tragedia nella tragedia: entrambi innocenti, ma entrambi vittime di un sistema che stava crollando e che viveva una confusione nella costruzione politica. Mi è dispiaciuto ed è stato un errore uccidere Calabresi, un errore tragico. Calabresi sapeva come stavano le cose, ma non le ha dette e questa è la sua colpa. Gli anarchici lo hanno ammazzato, ma è stato sciocco farlo”.

Ordine nuovo

Arriva, così, il 27 febbraio del 1979. A distanza di dieci anni dalla strage, dopo che il processo fu spostato a Catanzaro per incompetenza territoriale di Milano, la corte d’Assise condanna all’ergastolo: Franco Freda, Giovanni Ventura e Guido Giannettini.

Quale fu la sua idea sullo spostamento del processo e sull’inserimento nello stesso degli ordinovisti?
“Farlo a Bologna e Milano sarebbe stato una provocazione che non si è voluta seguire. Erano momenti di assoluta confusione mentale, con le forze dello Stato particolarmente in difficoltà. Questa era la situazione e si optò, quindi, per il trasferimento a Catanzaro del processo. Le Br, unitamente ai gruppi anarchici, non si fermarono un minuto per trovare i veri responsabili e il Governo si cautelò istituendo la Commissione Stragi. Da lì fu scoperta la verità. La Commissione Parlamentare d’inchiesta sul terrorismo e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi indagò e ha una durata di quattro legislature dal 1988 al 2001.”

La vicenda di Piazza Fontana, però, è difficile da analizzare dal punto di vista giuridico. Ci sono stati tanti risvolti e molti episodi successivi che appartengono alla strage, un evento che è iniziato nel 1969 e le ricerche non si sono mai fermate. Si può provare a riassumere così:

  • Prima l’arresto degli anarchici e la responsabilità data a Valpreda;
  • Poi la confusione delle dichiarazioni di Rolandi, il tassista, e la tesi che a mettere la bomba fosse stato Antonino Sottosanti, meglio conosciuto come “Nino il Fascista”, il quale era un infiltrato fascista nei gruppi anarchici, cosa molto diffusa in quegli anni. Ipotesi, però, mai riscontrata.
  • Nel 1974, a Catanzaro, ci fu il primo processo agli ordinovisti e furono condannati all’ergastolo dalla Corte d’Assise Giovanni Ventura, Franco Freda e Guido Giannettini.
  • Freda nel 1978 scappa durante il processo e inizia la sua latitanza in Costa Rica. Sarà trovato l’anno successivo. Per la prima volta Pietro Valpreda fu assolto dall’accusa di aver piazzato la bomba.
  • Nel 1987 la svolta: la Cassazione assolve tutti gli imputati per mancanza di prove. Nonostante varie riaperture delle indagini, le piste ipotizzate che portavano a Stefano Delle Chiaie, fondatore di Avanguardia Nazionale, ci fu sempre un’assoluzione per mancanza di prove.
  • Il Processo si riaprì nel 2000 e si concluse nel 2005: questa volta le inchieste del Giudice Guido Salvini si incentrarono sulle dichiarazioni di Carlo Digilio, ex neofascista di ordine nuovo. Digilio sosteneva di aver ricevuto una confidenza in cui Delfo Zorzi, altro ordinovista, gli confidava di aver piazzato materialmente la bomba, ribadendo le responsabilità di Franco Freda e Giovanni Ventura nella costruzione della strage.
  • Nel processo del 2000 furono condannati all’ergastolo Delfo Zorzi, come esecutore della strage; Carlo Maria Maggi come organizzatore e Giancarlo Rognoni come basista.
  • Il 12 marzo 2004 furono cancellati gli ergastoli per mancanza di prove.
  • Franco Freda e Giovanni Ventura, insieme al gruppo fascista ordine nuovo, furono riconosciuti come ispiratori ideologici della strage di Piazza Fontana, ma non più processabili perché erano stati assolti definitivamente dalla Cassazione nel 1987 per lo stesso reato.

Come commenta la vicenda processuale sulla strage di Piazza Fontana?
“Le ricerche effettivamente sono state molto difficili. Ricordo che Giovanni Ventura mi telefonò più volte per un’intervista che non gli ho mai concesso perché in quegli anni era bene non fidarsi, in quanto c’era da credere a tutti e a nessuno e a mio avviso era un personaggio pericoloso, perché aveva le mani sporche di sangue. Alla fine nessun processo ha evidenziato la persona che materialmente posizionò la bomba. Si è evidenziata solo la cellula che aveva organizzato il tutto, ma sicuramente non da sola.”

Ricostruire la strage di Piazza Fontana, come si legge, è difficile. Alla fine a pagare con la propria vita sono state le vittime innocenti ed è proprio per loro, unitamente alla memoria dell’anarchico Pinelli, che deve essere continuato il racconto della strage del 12 dicembre del ’69 e di tutto quello che ne seguì.

Coloro i quali sono stati riconosciuti colpevoli dall’iter giudiziaro hanno avuto altri destini, invece. Tra questi c’è la storia particolare di Franco Freda, il quale, tra l’altro, nel 2012, nonostante non si fosse mai pentito del suo passato dove si era definito “nazimaoista”, fu chiamato dall’allora direttore Maurizio Belpietro a tenere una rubrica sul quotidiano Libero, chiamata, stranamente, “L’Inattuale”.

Cover: Diapositiva della strage piazza fontana (da: resistenzeintenzazionali.it)