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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


Il tempo delle uova d’oro

A casa mia, in fondo al cortile e vicino alla legnaia, c’è la stanza-dispensa. Ha il pavimento di smalto rosso e le pareti di cemento bianco. Due finestre tondeggianti, un piccolo camino che nessuno accende più da almeno dieci anni. Lo aveva voluto mio padre e un suo amico muratore lo aveva aiutato a costruirlo. La sua parte incavata contiene adesso un piccolo deposito di fiori secchi che io porto al cimitero sulle tombe dei nostri parenti morti.
All’interno c’è un grande tavolo su cui sono posizionati cesti di vimini che tengono separate le scorte alimentari, le scorte di frutta e verdura, i detersivi, le uova che ci porta la mia amica Teresa che ha il pollaio. Noi le diamo il pane raffermo per il suo cane e lei ci regala le uova. Lo scambio è impari, ci guadagniamo sicuramente noi. Ma Teresa è una mia amica da sempre. Lo scambio diventa apprezzabile per entrambe, in nome di tale appartenenza.
L’amicizia permette di trovare una parità, dove parità non c’è. Permette di trovare aiuto e tolleranza là dove altrimenti ci sarebbe diffidenza. E’ un sentimento autentico che non si basa su vincoli biologici, parentali o di appartenenza sociale, ma si basa su qualcosa che è molto meno scontato e molto più fondante: la complicità.

Scrittori e scrittrici hanno dedicato tante pagine a questo tipo di relazione, che tutti noi conosciamo. Alcune storie sull’amicizia sono molto conosciute: ‘Uomini e Topi’ di John Steinbeck, ‘Il cacciatori di aquiloni’ di Khaled Hasseini, ‘Occhio di gatto’ di Magaret Atwood, ‘Parlarne tra amici’ di Sally Rooney.
A Teresa non piace quasi nulla di quel che piace a me. Ma questo non è essenziale. Condividiamo però un passatempo, che circa trent’anni fa era diventato un lavoro: il nuoto. Ci eravamo messe ad insegnarlo. Passavamo le estati con bambini schiamazzanti e bagnati che puzzavano di cloro, il disinfettante che si usa per le vasche d’acqua. Amiamo entrambe l’odore del cloro, che per noi evoca ricordi estivi, belle giornate, tanti giochi, i vent’anni di entrambe. Riparliamo sempre del tempo dei corsi di nuoto, di Vincenzo, il direttore della piscina dove insegnavamo che ci regalava un ghiacciolo ogni pomeriggio, a fine lavoro. A Teresa azzurro e a me rosso, tanto per non fare mai nulla di uguale. Insegnare nuoto ai bambini ci piaceva molto, non ci sembrava nemmeno un impegno.
Quella piscina era diventata casa nostra, ci conoscevano tutti, piacevamo a tutti.  Era uno spazio privo di risentimento dove si poteva sentirsi sicuri, dove il futuro appariva ricco di buone promesse.

Sto guardando le uova nella mia dispensa. Stamattina Teresa ne ha portate trenta. Hanno tutte scritto a matita sul guscio la data in cui sono uscite dalla gallina. Lo scrive sua madre, prima di riporle nel cesto dove le conserva. E’ come se in ognuna di quelle uova io potessi vedere un po’ del tempo di questa amicizia.
Prendo in mano un uovo. È bianchissimo, di media misura, ha una crepa. Quella crepa seghettata mi ricorda l’ingresso della piscina. Il cancello era fissato a due colonne di cemento bianche, diroccate. Da quella porta entravano bambini a frotte, insegnanti, inservienti, badanti, istruttori di nuoto, animatori, personale delle pulizie, amministratori e Vincenzo. Pover’uomo non so cosa gli sia successo. A forza di bere Fernet si è rovinato il fegato. Gli è venuta la cirrosi epatica. L’ho incontrato lo scorso anno. Mi ha davvero impressionato. Magrissimo e color marrone. Anni fa era grasso e bianco come un gelato al limone, come una nuvola solitaria nel cielo d’estate. L’alcol uccide, un po’ alla volta, in maniera spietata, senza tregua, lavora sempre.

Ripongo l’uovo, ne prendo un altro.  Il secondo uovo è rosa e piccolo. E’ come Teresa: rosa e piccola. Teresa ha una sclerodermia che assottiglia la pelle, per questo il suo colorito è molto roseo e le sue labbra rossissime. Terry sa tutto di me, siamo cresciute insieme e abbiamo sempre passato molto tempo assieme. Ricordo che quando insegnavamo nuoto, dopo aver finito il lavoro e dopo aver fatto la doccia, Teresa si asciugava i piedi con una meticolosità impressionante. Un dito alla volta. Se le restava tra le dita qualche goccia di acqua e cloro, la pelle le si screpolava, assottigliava, fino quasi a sanguinare. Per questo problema della pelle ammalata, era sempre l’ultima ad uscire dallo spogliatoio. Stava là fino a quando Vincenzo chiudeva l’impianto. Alla fine le avevano dato una chiave di scorta e lei poteva tranquillamente entrare per prima e uscire per ultima.

Il terzo uovo è chiaro, liscio e stranamente grosso. Probabilmente conterrà due tuorli. Quando lavoravamo in piscina avevamo due piccoli nuotatori fratelli gemelli. I fratelli Baffi. Sebastiano e Silvestro Baffi. Erano bambini piccoli, abbronzati, scattanti, dei grandi nuotatori, dei grandissimi divoratori di gelati. Chissà che fine hanno fatto. Teresa ha saputo che uno dei due si è sposato, abita a Verona, si è laureato in scienze motorie, insegna educazione fisica. Assaporiamo l’orgoglio. Forse anche noi abbiamo contribuito a far crescere in quei due cuccioli d’uomo l’amore per il nuoto, per lo sport in generale, per la vita. Un grande risultato, un bel ricordo tra i tanti che condividiamo.

Nella mia stanza-dispensa ci sono sempre le uova di Teresa e con loro un po’ della nostra amicizia, un po’ dei ricordi che rendono questo rapporto insostituibile. Le immagini del passato sono il fondamento e il contenuto del nostro bagaglio amicale, sono il tampone per i momenti di crisi. Se mai ci dovesse capitare di litigare sono sicura che basterebbe ripensare al periodo dei corsi di nuoto, a Vincenzo, ai nostri piccoli campioni e anche  alle sue galline e al suo golden retriver. (la presenza del cane  è una costante della vita di Terry, ne ha avuto diversi nel corso degli anni). Basterebbe ripensare ai ghiaccioli che abbiamo mangiato e alle  molte giornate passate assieme, nuotate con stili diversi, ma prossime nel desiderio di sperimentare e fare.

Guardo le uova e poi penso che devo ricordarmi di portare a Teresa il sacco del pane raffermo per il suo cane. Questa è una delle tante differenze tra noi: io ho due meravigliosi gatti arancione e lei un cane marrone.
Nel frattempo mi sono ricordata di altri  scrittori illustri autori di libri sull’’amicizia:
Niccolò Ammaniti “Io non ho paura”; Elena Ferrante “L’amica geniale”; J. K. Rowling “Harry Potter”; Fred Uhlman“ L’amico ritrovato”; Andrea De Carlo “Due di due”; Siegfried Kracauer “Sull’amicizia”; Herman Hesse “Narciso e Boccadoro”; Joseph Epstein “Amicizia ”. Credo che se ne scrivessi uno io si intitolerebbe: “Il nuoto e le uova”.
Ci sono anche delle splendide canzoni che parlano di amicizia: Lucio DallaCaro amico ti scrivo”; Lucio BattistiUna donna per amico”; Francesco GucciniGli amici”; Giorgio Gaber  “L’amico”; Laura PausiniUn Amico è Così”.

Una volta o l’altra scriverò una canzone sull’amicizia. Ho ben presente una storia amicale che vale la pena di essere raccontata. Può servire da esempio e da conforto. Ho già deciso il titolo: Il tempo delle uova d’oro. Le riguardo adagiate nel loro cesto e le vedo proprio così: d’oro. Le mie uova sono preziosissime, contengono ricordi, permettono di comunicare, di vivificare in ogni momento un sentimento importante, duraturo e sicuro.
Come dice sempre Teresa: “Ciò che è stato nessuno può cambiarlo ed è questo che fa la differenza”.
Ha ragione.

Per leggere tutti i viaggi nel tempo e nello spazio di Costanza Del Re clicca [Qui]

CONTRO VERSO
Paura del vuoto

Questo bambino era stato segnalato per un insieme di ragioni, ma mi aveva colpito una sua caratteristica: la paura del vuoto che arrivava al rifiuto di andare in bagno. Svuotare le viscere era per lui inaccettabile, voleva dire lasciar andare una parte di sé.

Paura del vuoto

C’è un buco assai profondo
dove finisce il mondo
e dove scivolo anch’io.
Perciò faccio a modo mio.

Sul water non mi siedo,
mi tengo tutto dentro
e quando lo decido
mi sciolgo in un momento.

Mi accorgo di puzzare,
ma che ci posso fare?
Anche se sono grande
mi sporco le mutande.

Diceva la maestra
di aprire la finestra.
Lo dico al professore:
“Mi scusi per l’odore”.

Lo so che i miei compagni
si fidano dei bagni
ma io sono diverso
e mi ritrovo perso.

Piuttosto che restare
sospeso su quel vuoto
trattengo da scoppiare
teso, chiuso e sudato.

“Babbo, guarda, mi mangia!”,
piangevo ancora ieri.
E sento nella pancia
un pieno di pensieri.

Ci proteggiamo con i tic, le abitudini, e anche con i rifiuti. A volte la difesa che ci viene accordata comporta così tanti svantaggi, che non conviene più.

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia  il venerdì. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Il Microfestival diventa noir: Paolo Regina apre il MicroNerofestival

Da: Microfestival delle Storie

Il Microfestival delle storie diventa noir: <br> Paolo Regina apre il MicroNerofestival

Sarà lo scrittore ferrarese Paolo Regina con Morte di un cardinale (edizioni Sem) a inaugurare il percorso MicroNerofestival, una rassegna nella rassegna, dedicata ai libri noir. Intervistato da Consuelo Pavani giovedì 28 gennaio alle 21, lo scrittore anticipa l’atmosfera del secondo romanzo, ambientato a Ferrara, con protagonista il capitano della finanza Gaetano De Nittis: “Racconto la borghesia di una città di provincia, le dinamiche sociali, certi misteri che una città murata nasconde”. Il capitano De Nittis, pugliese trapiantato a Ferrara, si trova a indagare sulla morte di un cardinale. A guidarlo per la città e nella ‘ferraresità’, alla stregua di un Virgilio, l’amico giornalista Gianni Bonfatti. Paolo Regina, avvocato di professione, è interessato a raccontare l’animo umano al di là dell’intreccio noir e dell’indagine che fa da sfondo alla vicenda: “Ho una natura di cantastorie, rifletto sulle tipologie umane che la realtà offre, sulla psicologia dell’uomo di fronte al tragico, sui rapporti di potere e la sociopatia delle persone, che poi trasferisco nei personaggi”.

Dai libri di Regina – il terzo uscirà a marzo -, emerge un affresco di Ferrara: “De Nittis, uomo del sud, ha una cultura diversa da quella ferrarese, De Nittis non è ammesso a tutti gli ambienti della città, che sono ambienti esclusivi, paradigmatici della mentalità di questa città”.

La presentazione di giovedì 28 gennaio andrà in diretta sulla pagina facebook del Microfestival delle storie e di Ferraraitalia.

Sinossi Morte di un cardinale di Paolo Regina. Un uomo cammina velocemente sulle sponde del Po. Ha le mani insanguinate. A un certo punto si ferma e lancia una rivoltella nel fiume, dove le acque sono più profonde. Poi si mette a correre. Poco più indietro, sotto i piloni del pontile, c’è un altro uomo con il foro di un proiettile sulla fronte. È il cardinale di Ferrara. Gaetano De Nittis, brillante capitano della Guardia di Finanza, si trova a indagare su questa morte eccellente. Il caso lo trascina nelle sabbie mobili degli interessi dei notabili della città, tra intrighi di palazzo, giochi di potere e grossi accordi economici.

PAROLE A CAPO
Luca Ispani: “Civago” e altre poesie

“Poesia è lotta continua contro silenzio, esilio e inganno”
(Lawrence Ferlinghetti)

Civago

Sono una pietra che rotola
da un fiume invisibile di calcestruzzo.
Scappo dal cemento
dai camion della tangenziale
dal rumore
voglio piantarmi lì
in una casa abbandonata
ascoltare chi passa
dimenticare tutto
tranne i tassi e i gatti che vengono a strusciarsi qui
dove sono io
facendo le fusa.

 

Gazzano Val Dolo

Abitare la gioia
qui nei castagneti
amare fin dentro le ossa dei muri.

Ascoltare il fiume argentino in lontananza
sentire il tuo cuore e il suo avvicinarsi
imparare una poesia che può leggerti un paese.

 

 Sologno (Appennino reggiano)

Abitare le vene dei faggi
berne il sangue
udire il verso del lupo in lontananza.

Trovare un centro
magari una casa vuota
fare un foro
io metto il mio amore
tu metti il tuo amore
separati
li mischieremo
quando gli occhi dei vecchi
ci parleranno
e sentiremo il pellegrino squittire.

 

Luca Ispani (Modena, 1979)
I suoi preferiti sono Whitman, Berry, Tiziano Fratus, Sinisgalli, ed è affascinato dal movimento della beat generation e il suo legame con la musica jazz di cui è appassionato assieme al rock anni ’70 e ’90. Negli ultimi vent’anni si è appassionato alla paesologia, cercando con i suoi scritti di sensibilizzare sulla vita nei campi e sull’Appennino modenese da cui proviene. Inizia a fare letture poetiche nel 2004 per lo più in eventi di arte di strada dove si sente più a suo agio.
Dal 2014 al 2015 ricopre il ruolo di vice-presidente presso l’associazione culturale i poetineranti. Collabora con il collettivo di poesia nazionale Bibbia d’Asfalto dal 2014 al 2016. Da qualche mese segue il progetto “Grungeart” che é la creazione di un vero e proprio spettacolo basato su testi performanti, musica e arte visiva riconducibili al movimento “grunge” dei primi anni ’90.
Parecchi suoi testi sono stati tradotti negli Stati uniti ,in Messico e in Australia. Vincitore e segnalato in numerosi premi nazionali e internazionali, studia da tempo da autodidatta diversi autori. Ha pubblicato nel 2019 con Roundmidnight Edizioni la sua prima raccolta poetica “il rumore dei passi” che sta avendo numerosi riscontri positivi. Parla con gli alberi e li abbraccia.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui] 

Didattica a distanza e didattica in presenza:
Il naufragio del sistema formativo

My dad, il mio papà, il mio paparino oltre manica e oltre oceano. Detta cosi non c’è niente di più familiare e rassicurante della DAD, della didattica a distanza di casa nostra. Essere a scuola, ma sentirsi come a casa propria, circondato dal calore e dalle comodità domestiche. Chi non l’ha desiderato in vita sua? E poi, diciamo la verità, fare colazione in fretta, caricarsi dello zaino, prendere l’autobus, o sfiancarti con un chilometro di strada a piedi per raggiungere la scuola, non è proprio il massimo. A casa tua ti siedi a tavolino, accendi il computer e sei in classe. Hai già risparmiato un sacco di calorie e ciò ti rende più disponibile, più attento, meno affranto di quando arrivavi in aula già stanco e ancora assonnato. Diciamo la verità: la DAD, con il trasferimento della scuola a casa propria, è riuscita là dove hanno fallito anni di progetti ministeriali di ‘Star bene a scuola’. Anche gli insegnanti sono più disponibili, non stracciati dalla pendolarità quotidiana, dagli affanni famigliari, specie quelli mattutini, per non parlare dei rientri a casa sempre troppo tardi. Senza tenere conto del sacco di soldi risparmiati tra abbonamenti al bus, ai treni o al metró, merendine, Red Bull e caffè non consumate ai distributori nei corridoi della scuola. Siamo sinceri, tutta un’altra vita.

Raccontiamola giusta, la didattica a distanza mica l’abbiamo inventata noi dell’era digitale, l’ha inventata Gutenberg con i suoi caratteri mobili. La parola stampata è il medium di massa, che ha posto fine alla ‘didattica in presenza’, ovvero alla ‘tradizione orale’.
La formazione per generazioni è avvenuta sempre a distanza: libri, biblioteche, archivi, musei e poi i mass media. Docenti seduti in cattedra e studenti tenuti a debita distanza nei banchi, a scuola come nelle aule dell’università.

I digital learners, giovani di età compresa tra i 12 e i 25 anni, per i quali la tecnologia è qualcosa di assolutamente scontato, non dovrebbero avere problemi con la DAD. Cellulare e computer sono i loro strumenti usuali di lavoro e di divertimento. Allora non nascondiamoci dietro alla DAD o ai problemi psico-sociali dei giovani, per non vedere il naufragio di un sistema formativo che fa acqua in presenza, come a distanza.

Innanzitutto perché non puoi fare andare la DAD con lo stesso carburante della didattica in presenza, finendo col proporne una brutta copia. Se ibrido deve essere l’insegnamento che ibrido sia. Per intenderci, in una auto ibrida l’elettricità è elettricità e la benzina è benzina, entrambe muovono l’auto, ma si tratta di due energie nettamente differenti tra loro e non confondibili.

La didattica a distanza, che ripropone la copia di quella in presenza con lo zapping tra i saperi, altro non è che la negazione della tecnologia a cui i giovani sono abituati, senza considerare come il modo con cui gli insegnanti usano le tecnologie finisce per influenzare e condizionare l’apprendimento dei loro studenti.

Ci si doveva pensare prima quando c’era tutto il tempo e non è stato fatto. Si sono spacciati i banchi a rotelle come innovazione didattica, si sono spese parole nella retorica della adolescenza privata di tutta la strumentazione sociale per risolvere i conflitti di un’età che ci siamo inventati, di un’adultità ritardata, come se avessimo sottratto ad Ulisse la sua possibilità di fare ritorno al proprio “luogo delle origini”, per dirla con il grande psicoanalista inglese Donald Winnicott.

Ma di quale socializzazione scolastica stiamo parlando, quella della competizione, quella del bullismo, quella dello spinello, quella del conflitto scuola-famiglia?
Dov’è la resilienza parola tanto emblematica e consumata in questo ventunesimo secolo?
Tutti i nodi vengono al pettine, e con l’emergenza era inevitabile che esplodessero.

È esplosa una scuola che così come è non serve a nulla. Anzi ci sta rendendo sempre più poveri ed ignoranti. L’attuale sistema scolastico è semplicemente anacronistico, strutturato per essere perfetto in una situazione sociale in cui si passava dall’analfabetismo all’alfabetizzazione del nostro paese, dall’era agricola a quella industriale.

La realtà delle scuole è ancora costituita da classi formate secondo l’età degli alunni, l’orario delle lezioni è rigido, persiste la netta prevalenza della lezione frontale, l’ora di lezione è fatta di alternanza di spiegazioni e interrogazioni, le valutazioni sono affidate al voto numerico. Questo modo di essere si è preteso di riprodurlo a distanza con l’uso delle nuove tecnologie. Ora l’incongruenza di tutto ciò salta agli occhi anche del più sprovveduto.

Si levano gli appelli a invocare il ritorno alla didattica in presenza, a tornare a rinchiudere i nostri adolescenti nella gabbia ottocentesca delle nostre scuole, spacciandole per i luoghi dell’istruzione, dell’addestramento sociale, della condivisione delle crisi e dei conflitti di un’adolescenza che altrove non ha spazi.

Tutti continuiamo a fingere che si tratti di una narrazione vera, perché non disponiamo di altre trame per affrontare i numerosi segnali che ormai da tempo indicano l’invecchiamento del nostro sistema formativo, facendo presagire che manca poco al suo esaurimento.

Come continuiamo a giocare a mosca cieca con i problemi e i conflitti di adolescenze che non si risolvono col condividerli con i compagnucci di classe, i quali hanno il tuo stesso problema, quello di vivere in una società che non si mostra affatto accogliente nei confronti dei suoi giovani. Così le adolescenze bisogna relegarle nelle scuole, perché è l’unico spazio che gli resta, considerato che le prime ad abdicare e delegare sono le famiglie e intorno c’è il vuoto.

Nascondere una scuola che non funziona, una DAD che funziona peggio dietro i problemi dell’adolescenza è una solenne vigliaccata, che non aiuta né gli uni e né gli altri a ricercare la propria identità e a conquistare la propria autonomia.

Per leggere gli altri articoli di Giovanni Fioravanti della sua rubrica La città della conoscenza clicca [Qui]

Padre Sorge: dalla Primavera di Palermo
allo scontro con Comunione e Liberazione

Il 2 novembre 2020 è morto Bartolomeo Sorge. Aveva compiuto da pochi giorni 95 anni, essendo nato il 25 ottobre 1925 all’Isola D’Elba.
Ad alcuni il nome può dire poco, ma il punto non è tanto elencare quante cose sia stato: gesuita, teologo, politologo, direttore de La Civiltà Cattolica,  Aggiornamenti Sociali e Popoli, protagonista della Primavera di Palermo (1986-1996) all’istituto Padre Arrupe insieme con il gesuita Ennio Pintacuda, collaborato alla stesura dell’Octogesima Adveniens, la Lettera Apostolica di Papa Paolo VI del maggio 1971, e tanto altro.
Ricordarlo significa, piuttosto, mettere a fuoco alcuni snodi, tuttora non digeriti, nella Chiesa e nel cattolicesimo italiani.

Lo spunto è un suo scritto del 2019 per La Civiltà Cattolica, che diresse dal 1973 al 1985: Un probabile sinodo della Chiesa italiana? Dal primo convegno ecclesiale del 1976 a oggi.
Per Giuseppe De Rita, protagonista di Evangelizzazione e promozione umana (Roma, ottobre 1976) insieme con lo stesso Sorge, Filippo Franceschi (vescovo di Ferrara dal 1976 al 1982) e Achille Ardigò, quello fu “il coraggio di osare” (La Civiltà Cattolica ottobre 2020, intervistato dal direttore Antonio Spataro).
Dietro l’avvenimento ci fu la regia del vescovo Enrico Bartoletti, segretario della Cei, che però non fece in tempo a vederne la celebrazione, perché morì improvvisamente nel marzo di quello stesso anno. Tanta fu l’eco, che la Conferenza dei vescovi italiani decise di cadenzare i convegni ecclesiali ogni dieci anni.

Eppure, l’irrompere del vento conciliare nella Chiesa italiana di lì a poco si interruppe.
I motivi furono diversi. Alcuni, cronologici, li enumera lo stesso De Rita nell’intervista a Spataro: il pontificato di Paolo VI volgeva al termine senza più la spalla del fidatissimo Bartoletti, oltre al fatale 1978 con l’epilogo della vicenda Aldo Moro e la morte, il 6 agosto, dello stesso Papa Montini.
Ma furono le due principali proposte di Evangelizzazione e promozione umana che, secondo Bartolomeo Sorge, subirono uno stop: lo stile del convenire e la nuova concezione missionaria.
La non accettazione dei due punti di svolta ebbe il suo epilogo a Loreto nel 1985 (Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini), quando il nuovo pontefice, Giovanni Paolo II, scrisse in preparazione di quel secondo convegno: “l’episcopato abbia il posto che gli compete per istituzione divina”.
Dallo stile del convenire, in cui vescovi e laici riscoprivano la comune radice battesimale della missione e cittadinanza ecclesiali, si tornava a rimettere le cose nella loro tradizionale distanza.

“Da Loreto a Firenze – scrive Bartolomeo Sorge – i convegni che seguirono furono visti come l’occasione propizia per i vescovi di comunicare al popolo di Dio che è in Italia, con autorità – occupando il posto che gli compete per istituzione divina –, il programma pastorale per il successivo decennio”.
Così avvenne per la concezione missionaria. Se nel 1976 si diceva che non bastavano più dichiarazioni, documenti ufficiali dei vescovi e principi dottrinali, per affermare una nuova forma di presenza dei cattolici nella scena sociale e politica, la prospettiva mutò quando arrivò Camillo Ruini.

“Si renda conto – ne ricorda De Rita il monito – che noi siamo qui non per cambiare la società, ma per predicare il Vangelo”.
Parole che fanno il paio con quelle scritte da padre Sorge su Aggiornamenti Sociali (2009), ricordando Giuseppe Lazzati, storico rettore dell’Università cattolica di Milano e autore dell’espressione Città dell’uomo, che il gesuita scomparso lo scorso 2 novembre usò per intitolare la scuola di formazione politica a Palermo.

Sorge ricorda una lettera che i leader di Comunione e Liberazionedon Luigi Negri, don Angelo Scola, Rocco Buttiglione e Roberto Formigoni – gli indirizzarono il 10 febbraio 1977, delusi dal convegno ecclesiale del 1976, per la mancata “conferma – scrissero – che il problema è quello del recupero di un’identità ecclesiale di fronte al mondo, e quindi di un apporto specificatamente cristiano ed ecclesiale alla soluzione dei problemi umani della nostra società”.
In gioco c’era, e c’è, la questione di fondo della partecipazione a pieno titolo dei laici all’unica missione evangelizzatrice della Chiesa, secondo il criterio della laicità, cavallo di battaglia teologico di Lazzati.
Il punto è se si vuole riconoscere senso alle realtà temporali, rispettandone l’autonomia e, appunto, la laicità, oppure se il mondo vada convertito. Da qui il tipo d’impegno dei cattolici nella Città dell’uomo: se cioè vada costruita-ripristinata una società cristiana (nel perdurante mito della cristianità perduta), anche a costo di prove muscolari, oppure se tale impegno debba assumere lo stile del dialogo e della collaborazione con uomini e donne di buona volontà, lontano da ogni collateralismo o nostalgie del partito cattolico.

Per questo Lazzati fu sempre contrario, e con lui Sorge, tanto a strumentalizzare le realtà temporali a fini religiosi, quanto la fede a fini politici.
Fu questo il terreno pastorale su cui si svolse la partita tra la Scelta religiosa’ dell’Azione Cattolica di Vittorio Bachelet e la Presenza di Comunione e Liberazione di don Luigi Giussani, che vide la prima uscirne nettamente sconfitta.
Comunione e liberazione vinse quel confronto con l’appoggio determinante del pontificato di Karol Wojtyla e della Cei durante il lungo regno di Camillo Ruini, secondo il modello di una Chiesa “forza sociale” oltre che spirituale, con tanto di richiami all’unità politica dei cattolici.

Avrebbe dovuto consumarsi per intero quella stagione, fino agli esiti per certi versi emblematici del Celeste Formigoni, prima che un nuovo pontefice riprendesse i fili di quel cammino interrotto. È successo al convegno ecclesiale di Firenze (novembre 2015), quando Papa Francesco nel suo discorso ha detto: “spetta a voi decidere: popolo e pastori insieme”, quasi volendo ripartire dal quel con-venire che fu il motore di Evangelizzazione e promozione umana.
Qui Bartolomeo Sorge, significativamente dalle pagine di Civiltà Cattolica, ha voluto andare oltre lanciando nel 2019 l’appello di un Sinodo, perché più che un convegno alla Chiesa italiana servirebbe l’andatura del camminare insieme.

Il problema è che i decenni trascorsi hanno fatto tabula rasa di fermenti, riferimenti, idee e speranze, e riprendere i fili di un discorso prosciugato nei contenuti e nei metodi, in un tempo peraltro profondamente cambiato, appare compito – in primo luogo formativo – lungo e arduo, anche per un laicato nel frattempo largamente ridotto a uno stato silente, o quasi.

Cover: Padre Bartolomeo Sorge parla a un seminario (Wikimedia commons)

La pandemia non si combatte coi soldi ma con la buona politica

Le prime istituzioni scese in campo per combattere la pandemia da Covid 19 sono state le Banche Centrali. Lo hanno fatto supportando le crescenti spese e le mancate entrate degli Stati con iniezioni di liquidità nel sistema, attraverso l’acquisto di titoli di stato e la concessione di prestiti a tassi agevolati, a volte addirittura a tasso negativo (cioè regalando soldi).
Rispetto al passato i bilanci delle Banche Centrali si sono gonfiati a dismisura, certo il fenomeno era iniziato già dopo la crisi del 2007-2008 ma i dati confermano che nell’ultimo anno si è notevolmente accentuato. La Bce è passato dai circa 2.000 miliardi di euro del 2008 ai 4.671 miliardi del 2019 (come si può vedere dal grafico di seguito), per arrivare agli oltre 7.000 miliardi di euro a dicembre 2020

Di questi 7.000 miliardi risultanti dal rendiconto del 25 dicembre 2020 risultavano alla voce “Titoli detenuti a fini di politica monetaria” ben 3.704 miliardi, segno che la Bce detiene gran parte del debito sovrano dell’eurozona.
Bankitalia, dal canto suo, aveva chiuso il 2019 con un bilancio di poco più di 960 miliardi, come si vede dall’infografica seguente

Al 31 ottobre 2020 era già a 1.279 miliardi con in pancia ben 523 miliardi di “titoli detenuti per finalità di politica monetaria”, quindi quasi la metà del suo bilancio è costituita dai nostri titoli di stato.
Dall’altra parte dell’Oceano la Federal Reserve non è stata da meno passando dai circa 4.059 miliardi di dollari del bilancio 2019 agli oltre 7.000 miliardi di Agosto 2020

Anche qui, come si vede chiaramente in verde, quasi 4.500 miliardi sono di Treasury Bonds, ovvero titoli del tesoro americano.
Gonfiare i bilanci delle banche centrali è qualcosa che abbiamo scoperto essere possibile dal 2008 anche se la Bce ha cominciato a farlo, con colpevole ritardo, solo dal 2012. Questi bilanci si ampliano comprano titoli di stato e questo permette agli Stati di spendere senza che si alzino troppo gli interessi, il 2020 ci ha dimostrato che si può non solo esagerare ma che quasi la totalità dei deficit messi in atto o programmati dai vari governi possono essere quasi interamente coperti da un’attenta politica monetaria delle banche centrali.
Nel 2021 ci resta da imparare che questo però non basta, che c’è bisogno in contemporanea anche della politica fiscale e programmatica degli Stati. C’è bisogno, insomma, che questi soldi vengano spesi con programmi stabili dedicati alla crescita, alla ricerca sanitaria e scientifica, all’istruzione e ai giovani senza togliere agli anziani, perché non c’è assolutamente bisogno di creare lotte generazionali o di togliere a qualcuno per dare ad altri.
Il 2020 e l’economia monetaria da Covid 19 dovrebbe averci insegnato che i soldi non sempre sono un problema e che il punto non è più come trovarli ma come spenderli in maniera coerente per uno sviluppo sostenibile, solidale e magari anche green. Soprattutto, senza dar vita a conflitti sociali e possibilmente senza lasciarsi dietro troppi cadaveri.

In copertina: elaborazione grafica di Carlo Tassi

SCHEI / Cultura a Ferrara:
quando il mecenate è più potente dell’imperatore

Gaio Clinio Mecenate fu consigliere dell’imperatore Augusto. Sotto la sua gestione da ministro della cultura ante litteram, nella corte imperiale fiorì un consesso di intellettuali e poeti di tale livello (citiamo Orazio e Virgilio tra i tanti) da rendere, nel tempo, il suo nome sinonimo di chiunque si faccia protettore e patrono degli artisti, elemento di collegamento tra l’arte ed il potere, ma con una screziatura di protezione, appunto, dalle grinfie del potere stesso. Ti pago (anche) per cantare le lodi del potente, ma al contempo ti garantisco la libertà e l’indipendenza (anche economica) per esercitare il tuo talento e diffonderlo, per farne godere ai contemporanei ed ai posteri.

La recente nomina di Moni Ovadia a direttore del Teatro Comunale Abbado di Ferrara sembrava, fino a ieri, un paradigma di questo schema. Vittorio Sgarbi (il mecenate), presidente di Ferrara Arte e ministro de facto della cultura della giunta Fabbri, palesando il “traffico di influenze” (inteso in senso non illecito, ma come utilizzo delle relazioni privilegiate tra persone) alla base della sua scelta, disorientava e spiazzava, a destra e a sinistra, chiamando a gestire il Teatro un autorevole artista ebreo, antifascista, impegnato politicamente a sinistra e aspramente critico verso il pensiero intollerante e discriminatorio di quella Lega che governa la città attraverso i suoi rappresentanti locali. Una scelta di libertà, rivendicata come improntata alla prevalenza dell’uomo di cultura sul settarismo di ogni parte e propagandata in conferenza stampa come sostanzialmente disinteressata, perchè in questo caso l’artista non aveva bisogno di denaro (maliziosamente insinuato, da alcuni, come elemento concausale della convinta adesione alla proposta da parte di Ovadia); la sua storia – fatta di grandi successi teatrali e anche di gran rifiuti, come quello di un lauto seggio al Parlamento Europeo – parlava per lui.

Qualche giorno fa Mario Resca, manager ferrarese con una carriera prestigiosa in cui spiccano il ruolo di AD di McDonald’s Italia, amministratore in Eni, Mondadori, L’Oreal, presidente di Kenwood Electronics, attualmente (lui sì a titolo gratuito) presidente della Fondazione Teatro Comunale Abbado, ha rimesso il suo mandato, come quello di tutto il CdA, nelle mani del sindaco Fabbri, in sostanza il suo padrone – essendo il Comune socio fondatore ed unico della Fondazione. La ragione, come si legge dal comunicato diramato dallo stesso Resca, risiede nel fatto che l’incarico formalizzato a Moni Ovadia, comprendente “i limiti della durata e del compenso ad esso attribuibile”, veniva unilateralmente modificato, avendo Resca appreso “da alcuni rappresentanti del socio unico, dallo stesso Moni Ovadia e dal Presidente di Ferrara Arte che i termini della proposta contrattuale andavano totalmente ridiscussi, con un sensibile aumento del compenso e con un prolungamento del contratto a favore del Direttore, in contrasto con la delega ricevuta sulla base di quanto deliberato dal C.d.A. in forza delle sue competenze”. Di conseguenza il Consiglio della Fondazione “all’unanimità, ritiene corretto e istituzionalmente opportuno rimettere il proprio mandato nelle mani del Sindaco stesso…“. Della serie: mi hai sconfessato, Sindaco. Ti restituisco le deleghe, fanne quello che credi.

Il Sindaco Fabbri, senza batter ciglio, dopo aver ricordato le iniziative svolte sotto la gestione Resca, dal “concerto, storico, di Riccardo Muti, a quello di Maurizio Pollini, alle produzioni streaming, e tv, di Alessandro Baricco e Simone Cristicchi”(il tutto garantendo tra l’altro una gestione economica e finanziaria in equilibrio, pur in un anno tragico), ha serenamente accettato le dimissioni di Resca e del CdA. Esaminiamo per un attimo la logica del comunicato di Alan Fabbri: non vi è una sola parola di critica o di presa di distanza, neppure velata, dell’attività della Fondazione Teatro; anzi se ne riconfermano le iniziative d’eccellenza, compresa quella prossima, nel “giorno della memoria” (27 gennaio), con Moni Ovadia e Corrado Augias. Verrebbe da dire: se hai un personaggio con qualità del genere (da te riconfermate) a gestire una delle vetrine della cultura ferrarese, fai qualcosa per non fartelo scappare. Manco per idea: arrivederci e grazie.

Poi leggiamo che il presidente di Ferrara Arte, Sgarbi, afferma invece che Resca ha un approccio “rigido e antico”. Che lo ha scelto lui, certo, ma che ha già pronto il nome di chi lo può sostituire, immaginiamo un uomo dall’approccio elastico e moderno. Esaminiamo per un attimo la logica della parole di Sgarbi: si tratta di affermazioni coerenti con la scelta di accettare le dimissioni di Resca. Mentre le elogiative parole di Fabbri suonano incomprensibili e contraddittorie di fronte alla decisione di non voler trattenere Resca, viceversa le parole di Sgarbi suonano come perfettamente compatibili con la scelta di avvicendare Resca. Non si può nemmeno invocare la diplomazia del linguaggio istituzionale, normalmente reticente e ipocritamente sussiegoso nel licenziare un alto dirigente: sia Fabbri che Sgarbi, infatti, ricoprono un incarico istituzionale. Solo che il Sindaco dirama un comunicato il cui tenore contrasta in maniera sconcertante con la decisione di giubilare Resca. Sgarbi invece “parla come mangia”, per una volta in maniera urbana ma inequivocabile.

Ma chi è, quindi, il “padrone” del Teatro? Il Comune, che ne è socio unico, o Sgarbi? Non staremo qui a ricordare le perplessità (diciamo così) suscitate dalla vicenda dei biglietti per visitare il Castello collegate alla mostra della collezione Sgarbi ivi ospitata, caso singolare di socializzazione degli oneri (al Comune le spese per cataloghi, eventuali spostamenti della collezione eccetera) e privatizzazione degli incassi(il biglietto è unico e una lauta percentuale dello stesso va comunque alla Fondazione Sgarbi). Non ci soffermeremo sulla scelta di azzerare la dirigenza di Ferrara Arte, riconosciuta anche all’estero come fucina di una produzione di rassegne originali e uniche nel panorama nazionale e internazionale, sostituita da mostre standardizzate e sostanzialmente comprate come pacchetto da offrire al grande pubblico, ai Diamanti come negli outlet del resto della penisola. Quest’ultima opzione, peraltro, è stata premiata da una grande affluenza di pubblico (Banksy), per cui la si potrà criticare per l’impostazione, ma non si potrà certo dire che sia stata un fiasco commerciale.

Limitiamoci quindi alla vicenda Teatro. La domanda sorge spontanea: c’è un padrone formale(il Comune, il suo Sindaco) che tesse le lodi del presidente del CdA nel momento stesso in cui accetta con glaciale cordialità le sue dimissioni. E poi c’è il Presidente di Ferrara Arte che rivendica la bontà dell’allontanamento di Resca per far posto ad un uomo più malleabile, che non faccia tante storie sul compenso da riconoscere a Ovadia (si parla di centomila euro). Del resto non si vorrà mica che un artista di simile levatura lavori gratis?

Personalmente ritengo e continuo a ritenere che una scelta non possa essere giudicata a priori, ma a posteriori, dopo aver visto se il prestigioso teatrante metterà la sua passione e il suo talento al servizio di Ferrara e del suo Teatro: solo allora si potrà esprimere una opinione, positiva o negativa, sulla qualità del suo operare. Mi permetto di osservare subito, tuttavia, che le premesse di questo incarico non rassicurano sulla libertà totale e sull’indipendenza di cui potrà godere Moni Ovadia. E non tanto nei confronti del suo “imperatore” quanto, curiosamente, nei confronti del suo mecenate, che appare nei fatti come il vero padrone del vapore.

In copertina: elaborazione grafica di Carlo Tassi

PER CERTI VERSI
La tua voce

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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LA TUA VOCE

Mettimi le tue mani
Davanti agli occhi
Inebriati di luce
Di parole lette
Scritte
Di odori della tavola
Il pane
Il pollo alla diavola
Di amori
Per le vite accanto
Cosi importanti
Fitte

Ma ho bisogno
Della tua sera
Di quel bistro
Che non annerisce indistintamente
Ma che invera
I saluti
Del tuo carbone
Della tua terra
Che rivedo
Nel buio agone
Sfioro
E ascolto
La tua voce
Della Sierra
Svuotare
Il vuoto

Cosa c’è (e cosa manca)
nel “pacco regalo” del recovery plan

Dentro una delle crisi di governo più “incomprensibili” da molti anni in qua, però il Recovery plan, il progetto nazionale per arrivare ad avere le risorse europee di Next Generation UE, dopo l’approvazione nel Consiglio dei Ministri del 12 gennaio, appare in dirittura d’arrivo. Vale allora la pena spendere alcune parole per capire meglio quali sono gli obiettivi lì contenuti e l’orizzonte lungo il quale si muove. Lo si deve fare al di fuori della retorica sulla “svolta” europea, sul suo valore di appuntamento con la Storia, sulle ingenti risorse a disposizione e via dicendo, ma guardando bene contenuti e profilo lì presenti.

La prima considerazione che si può avanzare riguarda l’utilizzo dei 209 mld di € ( 65,4 mld. di sussidi a fondo perduto e 127,6 mld. di prestiti dal Recovery Fund europeo), lievitati nell’ultima versione a 222 mld con l’incorporazione di ulteriori risorse europee. Nell’ultima versione nota, essi sono distribuiti su 6 missioni fondamentali: Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura (46,1 miliardi); Rivoluzione verde e transizione ecologica (68,9 miliardi); Infrastrutture per una mobilità sostenibile (32 miliardi); Istruzione e ricerca (28,5 miliardi); Inclusione e coesione (27,6 miliardi); Salute (19,7 miliardi). Si potrebbe disquisire a lungo se non si poteva trovare un equilibrio più utile tra queste voci, spingere maggiormente in direzione degli investimenti piuttosto che degli incentivi, destinare maggiori risorse ai nuovi progetti rispetto a quelli già esistenti, superare una decisa frammentazione degli interventi previsti nelle singoli missioni.Non c’è dubbio, però, che alcune siano decisamente sottovalutate. Solo per esemplificare, basta pensare a quanto destinato alla salute, che non ripaga neanche l’insieme dei tagli prodotti negli ultimi 10-15 anni. Ragionamento analogo vale per la scuola e l’istruzione.

Al di là di questo, però, ciò che emerge con ancora più forza e, purtroppo, inadeguatezza, sono le finalità cui vengono indirizzate le risorse dei vari capitoli.  Anche qui, senza poter entrare in una disamina più approfondita, non si sfugge alla constatazione che non si affrontano le questioni di fondo che i vari temi propongono, continuando a seguire un pensiero debole e subalterno alle narrazioni mainstream.
Se guardiamo al tema della digitalizzazione, ormai assunto come un mantra in qualunque discussione che dovrebbe portarci nel futuro, non si va al di là delle politiche già avviate in questi anni, con un loro potenziamento, o di buoni, quanto scontati, propositi: incentivi a Industria 4.0, che notoriamente non sono in grado di guidare una reale ricollocazione dell’apparato industriale, e innovazione nella Pubblica Amministrazione.
Su quest’ultima questione, non si può evitare di notare che degli 11,45 mld, ad essa dedicati, ben 4,75 se ne vanno per il progetto Cashless, meglio noto coma Cashback, ossia per l’ incentivo all’utilizzo di mezzi di pagamento elettronici sia per i consumatori sia per gli esercenti. Insomma, si evita di misurarsi con le novità emerse in questi anni, e cioè il dominio delle grandi aziende multinazionali hi-tech made in USA – in primis le famose FAANG, Facebook, Apple, Amazon, Netflix e Google– che hanno dato vita ad un modello costruito sul fatto di produrre profitti mediante le inserzioni pubblicitarie e la pratica strutturale dell’elusione fiscale, utilizzare i dati degli utenti come nuova materia prima e ridurre l’esperienza umana a merce da collocare sui mercati. Fino alla conseguenza di aver privatizzato l’informazione, la comunicazione e la loro produzione, come emerso in questi giorni con la vicenda dell’esclusione di Trump da Facebook e Twitter. Decisione condivisibile, ma, come evidenziato da molti commentatori, che evidenzia il grande potere di soggetti privati nel disporre chi può intervenire o meno in quello che è diventato spazio e discussione pubblica. Questa è diventata la vera questione: ricondurre a bene comune e servizio pubblico informazione, comunicazione e conoscenza e impedire la loro appropriazione privata, su cui la stessa Unione Europea fatica a misurarsi e il Recovery Plan dimostra grande cecità.
Allo stesso modo, si possono avanzare obiezioni forti in tema di quanto previsto sulla cosiddetta “Rivoluzione verde e transizione ecologica”, che non assume fino in fondo l’obiettivo europeo della riduzione del 55% al 2030 delle emissioni da gas climalteranti e tantomeno quella di una fuoriuscita in tempi rapidi dall’utilizzo delle risorse fossili. Per non parlare, per usare un eufemismo, del rischio di supportare interventi di vero e proprio “green-washing”, in gran parte ispirati da ENEL e ENI.
A questo proposito, sembra sia rientrata l’intenzione di erogare risorse per il progetto sbagliato di realizzare a Ravenna il più grande impianto di cattura e stoccaggio della CO2 nel sottosuolo, che comunque rimane obiettivo dell’ azienda energetica nostrana, ma viene confermata l’idea di ricorrere ad un uso massiccio del gas per la riconversione delle centrali a carbone.
Ancora in questa missione, si può leggere quanto emerge sulla tutela e valorizzazione del territorio e della risorsa idrica, dove sono individuate risorse aggiuntive assai scarse e, soprattutto, viene incentivata una nuova spinta per la privatizzazione del servizio idrico, con l’obiettivo di consegnare alle grandi multiutilities quotate in Borsa – Iren, Hera, A2A, Acea– gli affidamenti anche nel Mezzogiorno, dopo che esse sono saldamento insediate in tutto il Centro Nord.
Sulla salute, non si assume con chiarezza  la centralità del ruolo della sanità pubblica, dopo la stagione della privatizzazione strisciante cui abbiamo assistito anche in questo settore, mentre per scuola e istruzione ciò che emerge è che una parte consistente delle risorse stanziate ( 11,7 mld. sul totale di 28,5 mld.) va sotto l’intervento “Dalla ricerca all’impresa”, ribadendo che scuola e istruzione sono subordinate alle esigenze del mercato e del sistema delle imprese.

Quello che, alla fine, emerge dal Recovery Plan, insomma, è un’idea di “ammodernamento” del Paese, fondato sui nuovi “driver” della digitalizzazione e della green economy, senza però mettere in discussione il paradigma della crescita trainata dal mercato e dalla finanza, anzi provando a dargli basi rinnovate e costruendo su queste una lettura ideologica della prossima fase di uscita dalla crisi e del nuovo sviluppo. Un tentativo che va visto anche nei suoi tratti di “novità”, non indulgendo ad un approccio per cui esso sarebbe una pura riproposizione del passato, ma, nello stesso tempo, senza occultare che non basterà la propaganda delle ingenti risorse a disposizioni per mettere tra parentesi che è destinato a non funzionare a quei fini.
Probabilmente ne sono consapevoli anche gli attori più avvertiti delle classi “dirigenti”, a partire dagli estensori del Recovery Plan, nel momento in cui indicano che nel 2023 il PIL crescerà tra il 2,5% e il 3% e il tasso di disoccupazione attestarsi dall’attuale 9,5% all’8,7% nel 2023.
Non grandi dati, in realtà, senza dimenticare che, dopo il forte ricorso all’indebitamento pubblico conseguente alla pandemia, il rapporto debito/PIL passerà, secondo la Nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza, dal 134,6% del 2019 al 158% del 2020, per “rientrare” ad un livello del 143,7% nel 2026. Con tutte le incognite che ciò comporterà in una situazione nella quale si riaprirà, probabilmente nel 2022, la discussione sui vincoli di bilancio in sede europea, dopo la loro sospensione decisa nel corso del 2020. Nonché il rischio, tutt’altro che remoto, che la crisi economica e sociale possa conoscere un ulteriore aggravamento nei prossimi mesise non verrà attivata la proroga del blocco dei licenziamenti, misura osteggiata sempre dagli apologeti del mercato, che non sanno e non vogliono prendere atto che è finita da un pezzo – in realtà mai esistita – la stagione della sua capacità di autoregolazione e, ancor più, di generare ricchezza sociale e sviluppo di qualità.
E’ invece proprio da questa consapevolezza che bisognerebbe ripartire, per riscrivere da capo il Recovery Plan, per prospettare viceversa un reale Piano per il lavoro e i beni comuni, assumendoli come misura e obiettivo di una nuova traiettoria per il Paese

PRESTO DI MATTINA / Antonio e Beatrice:
monachesimo e spiritualità al servizio del popolo

«Dall’Egitto ho chiamato mio figlio»: questo testo del profeta Osea dice la cura di Dio per il suo popolo; di come egli continui ad amarlo senza pentimenti, anche se non ricambiato; anzi accrescendo sempre più questo amore: «Quando Israele era giovinetto, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio. Ad Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare» (Os 11,1-5).

Si riaggancia a questo passo l’evangelista Matteo che, rivolgendosi soprattutto ai cristiani approdati dall’ebraismo, ricorre spesso a ‘citazioni di compimento’, tramite le quali egli mostra ai suoi come le promesse di Dio si siano realizzate nella storia in Gesù. Così troviamo frequenti espressioni come “Questo avvenne perché si compisse”, quest’altro “accadde come era stato detto dal profeta”. Anche l’episodio della fuga in Egitto e del successivo ritorno alla morte di Erode è riportato con questa intenzione. Anche in questa vicenda si deve leggere infatti il compiersi in Gesù della storia del suo popolo, «perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: dall’Egitto ho chiamato mio figlio» (Mt 2,11).

L’evangelista Matteo vuole rendere consapevoli le sue comunità di giudeo-cristiani, che vivono nella diaspora della Siria, che proprio quel Gesù in cui credono è la Parola, che porta a compimento tutte le parole e le profezie di Dio rivolte a Israele. Nella pienezza del tempo, Dio fa conoscere in Gesù la sua parola definitiva, in risposta al grido del profeta Isaia: «Se tu squarciassi i cieli e scendessi davanti a te sussulterebbero i monti» (Is 63,19). Gesù è parola fattasi carne di amore, non solo per il suo popolo eletto, ma attraverso Israele, donata a tutti i popoli e a tutte le generazioni della terra. Tutte le parole di Dio, quelle proferite nei tempi antichi, divengono nelle stesse parole di Gesù a pienezza. Il Padre, manifestandosi, in voce, nel battesimo del Figlio dice anche a noi: “Ascoltatelo”. Le sue promesse, come sementi nella terra d’Israele, divengono nel Figlio come chicchi pieni nella spiga da sparpagliare nel mondo attraverso l’annuncio del vangelo.

Ma siamo proprio sicuri allora che l’andata in Egitto, di cui da poco abbiamo fatto memoria nella liturgia, sia stata solo una fuga? Segretamente, nascostamente, non è stato per Gesù un andare là dove tutto era cominciato, dentro il cuore stesso di un popolo minacciato di sterminio, per condividerne le sorti? Al principio di una storia di liberazione, di riscatto dalla schiavitù e di promettente alleanza?

La sua fu certamente anche la fuga da una strage. Così come Mosè fu salvato dalle acque per sottrarsi alle ire del Faraone, anche Gesù fu custodito da Giuseppe dalla furia omicida del re Erode, ma poi ritornò come Mosè inviato da quel Dio il cui nome è “colui che mette in cammino”. Per questo, il Messia inizia la sua vita terrena scendendo in Egitto, nel luogo simbolo del dolore innocente, alla radice di ogni strage, di ogni sterminio perpetrato dal potere quando si sente minacciato e fa di se stesso un Moloch cui tutto sacrificare.

«Dall’Egitto ho chiamato mio figlio» perché ripercorresse l’esodo, sperimentasse l’esilio del suo popolo, e, peregrinante, affidato al Padre, compiendo la sua parola, giungesse, con un nuovo esodo, alla sua Pasqua, compimento di quella antica e anticipazione di quella futura che è la terra promessa da Dio per tutti i suoi figli e figlie. L’approdo dove ‒ come profetizza Isaia ‒ «sarà strappato il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre che copriva tutte le genti; sarà eliminata la morte per sempre e – come padre e madre – asciugherà le lacrime sul volto dei suoi figli» (25,7-8).

Dall’Egitto ho chiamato pure i miei figli e le mie figlie, si potrebbe anche dire. Ricordiamone alcuni: Antonio l’egiziano e Maria Egiziaca; ma poi anche Benedetto da Norcia e Beatrice II d’Este. In loro ci è dato percorrere le antiche vie del monachesimo orientale e occidentale, fin nelle nostre terre; l’ininterrotta migrazione degli uomini e delle donne delle beatitudini, il continuo esodo della mistica e della spiritualità cristiane, in compagnia di tanti altri viatores e velatores in itinere, a piedi o su barconi, verso la terra che Dio ha voluto donare loro. Questa peregrinazione della fede come speranza e come amore è un continuo passa parola, anche nella vita nascosta degli eremi e dei monasteri; un salmeggiare e celebrare, come in una universale liturgia cosmica che continua nella vita attraverso la carità fraterna dell’ascolto e della condivisone dei beni. Nell’esperienza monastica si custodisce e si rende al vivo quella coscienza della chiesa che sa di non dover vivere per se stessa, ma per il mondo cui è inviata, ricalcando le orme del suo Signore e Maestro che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la sua vita.

Non diversamente dalla discesa in Egitto di Gesù non va paragonata la vita monastica a una fuga (dal mondo), un volontario esilio lontano dagli intrighi degli uomini e dai conflitti della storia. Non c’ingannino dunque le massime aforistiche del monachesimo egiziano (“fuge, tace, quisce”: fuggi, taci e rappacificati”) e di quello occidentale ora et labora. In realtà tutti gli uomini e le donne dell’esperienza monastica sono situati sulla frontiera, in cui si fa argine all’esondazione del male. Li troviamo intenti a quel passante di valico che è il mistero pasquale di Cristo, “passatori oranti” alla sequela del passeur blessé che è il crocifisso Risorto presso quel varco aperto nella morte, in ascolto del dolore del mondo, solidali nella oscura notte del Figlio, che continua in quella dei suoi fratelli, pronti a riporre, ancora una volta come lui, nelle mani del Padre il destino di tutti noi. Il monachesimo, come un tempo nel deserto egiziano della Tebaide, resta anche oggi per le donne e gli uomini che vi si incamminano una lotta e un martirio vissuti a nome di tutti. Per loro, come dice Paolo, «Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti sono uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28). Essi sono persuasi infatti che «né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù» (Rm 8, 38-39). La loro vocazione nella chiesa e nel mondo è quella di condurre all’unità la famiglia umana, con una vita orante ispirata dalla preghiera stessa di Gesù, che chiede al Padre il dono dell’unità (Gv 17,21).

Domani 17 gennaio nel monastero delle sorelle Benedettine si ricorda proprio Antonio Abate titolare del loro monastero; e il giorno dopo, lunedì 18, esse ricorderanno la loro fondatrice la Beata Beatrice II d’Este (Ferrara, 1230 – 18 gennaio 1262). Come si è attuata questa presenza cristiana di Beatrice II per la nostra città? E che cosa dice a noi ancora oggi? Non ho trovato di meglio che rigiocare i tratti della sua spiritualità di mediazione con le indimenticate parole di mons. Antonio Samaritani, che di storia monastica è stato umilissimo e luminosissimo indagatore e scopritore.

«Allora non si davano sante se non canonichesse regolari, di spiritualità agostiniana, o di spiritualità monastica, qui, in zona nostra, benedettina. La beata Beatrice II d’Este è innovatrice e originale: innanzitutto non parte da un normale convento; parte da S. Stefano della Rotta di Focomorto, quindi da un eremitorio; parte da esperienza non monastica, non benedettina, ma mendicante, francescana. Quella della beata Beatrice II d’Este è una tipica spiritualità di mediazione. La vocazione ferrarese forse non è tutta contemplativa, né tutta operativa. La beata Beatrice II d’Este consacra sì la legittimità illegittima, se così vogliamo dire, della sua casata in Ferrara, ma la legittima con connotazioni allettanti per la nuova spiritualità della prima borghesia emergente, supportata appunto dai “fratres minores”, dai domenicani e da tutti gli ordini mendicanti di Ferrara. Si pensa che a Ferrara ci fossero pure delle forme minoritiche avanti la venuta dei francescani, come si possono individuare a Treviso e Vicenza. E’ bello pensare che, in sintonia col messaggio della minorità di S. Francesco, non solo c’è stata una ricezione fra le prime del movimento francescano femminile, le “Sorores Minores”, ma c’è stata direi una precursione, un anticipo tipico della spiritualità padana.  La beata Beatrice d’Este non è la santa contemplativa del Basso Medioevo, la santa medievale dei conventi benedettini; gli Estensi non hanno bisogno di una santa né eccessivamente miracolistica, né eccessivamente contemplativa. Le ossa di Beatrice d’Este sono diventate un centro anche di miracolosità nei secoli, ma molto posteriormente. La spiritualità ferrarese della beata Beatrice d’Este, santa sostanzialmente di ceppo veneto, del basso Veneto, è una spiritualità vicina al popolo: non miracoli, non contemplazioni eccelse, ma testimonianza di povertà e di umiltà. Gli Estensi non erano certamente umili, né certamente poveri, ma hanno avuto bisogno di inserirsi nel cuore dei ferraresi con una carta d’identità di questo tipo» (Radici della spiritualità ferrarese, in Bollettino Ecclesiastico, 2 1993, 349).

Don Primo Mazzolari, in un libro che scrisse per i suoi parrocchiani ricordando l’immagine di S. Antonio, presente in tutte le stalle della sua parrocchia, ne delinea la figura e alla fine si domanda: «cosa fece di straordinario S. Antonio? Niente. Non ha costruito città né fondato imperi, non ha scritto libri né vinto battaglie, non ha scoperto terre né macchine nuove, non microbi di malattie né sieri per guarirle. Eppure il suo posto è tra i benefattori dell’uomo, e, benché la sua lunga giornata si sia svolta in condizioni alquanto diverse dalla nostra, egli ci è di esempio. Vi pare un uomo da poco, uno che non crede nel denaro e non vi corre dietro come fanno i più, vendendo coscienza, pensiero, dignità? Vi pare un uomo da poco, uno che per amore della giustizia e per amore verso i poveri, si spoglia delle proprie ricchezze? Vi pare un uomo da poco, uno che affronta la povertà, la fatica, la solitudine per mantenersi libero onde meglio servire Dio nel prossimo? Vi pare un uomo da poco, uno che potendo fare, secondo l’opinione corrente di tutti i tempi, “il proprio comodo”, sceglie l’ultimo posto e la regola morale del Vangelo?», (S. Antonio Abate. Il contadino del deserto, Vicenza, 1974, 57-58).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

Fotografia di copertina di Giorgia Mazzotti  

CONTRO VERSO
Il democratico

Dev’essere difficile per un uomo cresciuto in una cornice culturale molto precisa, che esalta il dominio maschile sulla donna, accogliere visioni diverse o anche solo modificare il proprio comportamento. Quest’uomo non aveva problemi con la legge, era un onesto lavoratore e ci teneva molto a fare bella figura con l’autorità – che, per colmo di sfortuna, era rappresentata da una donna! Ma non è riuscito a camuffarsi per bene…

Il democratico

Mia moglie è libera
fa ciò che vuole
purché lo faccia
senza rumore.

Anzi, che taccia
e senza sporcare.
E non si azzardi
a denunciare.

Su tutto il resto
non metto bocca.
Lei ha l’occhio pesto
ma mio figlio non si tocca

Sono sincero:
io sono aperto,
sono straniero
e di concerto

con i miei vecchi
e la comunità
sto tra il rispetto
e la modernità.

All’apparenza
assai democratico
salvo l’essenza
e resto arcaico.

Dico a mia moglie:
“Fai ciò che vuoi
ma se m’imbrogli
passi dei guai.

Io mi accontento
se mi ubbidirai.
L’amore è questo
o ti accorgerai:
ti tolgo il bambino.
Tanto, tu che mi fai?”

Il preteso dominio sul destino dei bambini continua a essere una delle minacce più quotate tra gli uomini violenti. A volte pensano di poterli sottrarre alla madre per il peso intrinseco della figura maschile, a volte in ragione della propria superiore capacità economica, altre volte ancora perché li allontano fisicamente, fino ai casi più drammatici.
È importante far comprendere a questi signori che sono i padroni di niente, certo non dei loro figli. I bambini devono essere preservati e protetti dalla violenza. Insieme alla madre.

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia  il venerdì. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Al cantón fraréś
Francesco Avventi: “Viazz d’Lasagnin da Milzana”

Il poemetto “Viazz d’Lasagnin da Milzana” fu pubblicato inizialmente nell’almanacco “Chichett da Frara”, un canto all’anno dal 1845 al 1849. Fu poi stampato per la prima volta in unico volume nel 1925, con grande successo di pubblico.
Narra le avventure di Lasagnìn, ingenuo ma dotato d’ingegno, “quasi in grado a quindici anni di leggere da solo”, avendo frequentato con profitto la scuola. Il nostro viene invitato dal padre ad intraprendere un viaggio per conoscere le cose del mondo, non verso Ferrara ‘che la città è piena di vizi’, ma da Mizzana verso Bondeno.
Lasagnìn parte in ottobre al tempo della vendemmia, con il vecchio somaro Scapuzzón, un fagotto di vestiti, pochi scudi, molte raccomandazioni, l’elenco dei parenti da incontrare, l’itinerario di andata e il percorso per il ritorno.
Prima tappa: Cassana, (ovvero) a due chilometri dalla partenza…
Personaggi e vicende via via comiche e paradossali si dipanano in cinque canti, con alcune rime sull’esperienza teatrale dell’autore.
Si offrono ad una sorridente lettura le prime 9 sestine del poemetto di “formazione”, nella versione originale.
(Ciarìn)

Viazz d’Lasagnin da Milzana

1.

Lasagnon da Milzana, era un vilan
D’ quei che sol dir la zent, ch’j ha i rugnun gross
L’j era sta’ par fator, con Cocapan,
L’aveva fat cumerzi d’ divers coss;
O trà quatrin, e tera, l’avrà avù
Un’intradina d’ tarsent scud e più.

2.

Al spusò la Mudesta, ch’ j era fiola
D’ Mezzazarvela favar d’al Miarin
E al n’avì un mascc, ch’al la mandava a scola,
E che tutti al ciamava Lasagnin;
Qual, grazia al mistar, ch’j era al padar d’l’osta
D’ quinds ann, quasi l’alzeva da sò posta.

3.

Lasagnon che l’amava grandement
Vist al prufitt dal fiol, al pensò ben
Parchè al gniss educà più zivilment
D’ mandarl a far un viaz fin a Bunden
Tant ch’al ciapass d’ l’ om, fasend in fond
Quela che s’ ciama, pratica d’al mond.

4.

Sò madar, verament, quand la savì
Al pensier dal marì, la s’in dols fort
Parchè, la dseva, andand luntan acsì,
Chi sa s’al vadrò più, prima dla mort!
Un viaz d’ sta fatta! Oh Dio! L’ j era dsprada;
Ma par quiet vivr, in fin, la diss: Ch’al vada!

5.

Alora al padar, al ciamò al ragazz
E al gh’ diss: Sapi fiol miè, ch’a j ho fissà,
(Post ch’ a ved t’ ha dl’ inzegn, dal talentazz)
T’ vad viazand a studiar quel che t’an sà,
Essend cumun parer, che col zirar
L’om s’istruis, e impara al mond a star.

6.

A n’ voi che t’ vad chi dala banda d’ Frara
Parchè il zità è pin d’ vizi e d’ distrazion
E mi, da zovan, a n’ ho avù capara
Che essendagh capità, pr n’ ucasion,
Causa i cumpagn, a m’ guadagnò un zert quèl
Che agh mancò poch ch’ a n’ agh lassass la pèl.

7.

A t’ darò al sumar vecc, parchè l’ è quiet
T’ n’ abbi a incuntrar disgrazi par la strada;
Intant preparat in t’ un fazzulet
Na camisa, un par d’ bragh, e la tò vlada
Che t’ putrà po ligar al fagutin
In tla bastina d’ drè dal sumarin.

8.

A t’ dagh anch sò quant scud; ma abi giudizi
Che in t’ al spendar agh vòl ecunumia!
Stà luntan, caminand, dai precipizi
Fa che la bestia tiena al mez d’ la via
Parchè i sumar, va sempr’ avsin ai foss,
E s’ j scapuzza a s’ riscia d’ rompars j oss.

9.

In t’ al prim dì, t’ po andar fina in Cassana
Tant che al sumar s’ avezza a far dla strada;
In cà dal Prèt agh sta miè Cmar Mariana;
Vala a truvar: fà li la to farmada;
Al gioran dop, t’ putrà andar a Vigaran;
E po par Snedga, e acsì al Bunden pian pian.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Viaggio di Lasagnino da Mizzana

  1. Lasagnone da Mizzana, era un campagnolo / di quelli che la gente suole dire, che hanno grossi rognoni / era stato fattore, da Coccapani, / aveva fatto commercio di diverse cose; / tra quattrini, e terra, avrà avuto / un’entratina di trecento scudi e più.
  2. Sposò la Modesta, che era figlia / di Mezzacervella fabbro a Migliarino / ebbe un maschio, lo mandava a scuola, / e che tutti chiamavano Lasagnino; / il quale, grazie al maestro che era il padre dell’ostessa, / a quindici anni, quasi leggeva da solo.
  3. Lasagnone che l’amava grandemente / visto il profitto del figlio, pensò bene / perché venisse educato più civilmente / di mandarlo a fare un viaggio fino a Bondeno / tanto da crescere come uomo, facendo in fondo / quella che si chiama, pratica del mondo.
  4. Sua madre, veramente, quando lo seppe / il pensiero del marito, se ne dolse forte / perché, diceva, andando così lontano, / chissà se lo vedrò più, prima di morire! / Un viaggio di questa fatta! Oh Dio! Era disperata; / ma per il quieto vivere, infine, disse: Che vada!
  5. Allora il padre, chiamò il ragazzo / e gli disse: Sappi figlio mio, che ho deciso, / (vedendo che hai dell’ingegno, del talentaccio) / tu vada viaggiando per studiare quello che non sai, / essendo comune parere, che girando / l’uomo si istruisce, e impara a stare al mondo.
  6. Non voglio che tu vada dalla parte di Ferrara / perché le città son piene di vizi e distrazioni / ed io, da giovane, ne ho avuto un anticipo / essendo capitato, in un’occasione, / a causa dei compagni, mi guadagnai qualcosa / che mancò poco non ci lasciassi la pelle.
  7. Ti darò il vecchio somaro, perché è quieto / tu non abbia ad incontrare disgrazie per la strada; / intanto preparati in un fazzoletto / una camicia, un paio di braghe e la tua giacchetta / che potrai poi legare al fagottino / nella cestina dietro al somarino.
  8. Ti dò anche alcuni scudi; ma abbi giudizio / che nello spendere ci vuole economia! / Sta’ lontano, camminando, dai precipizi / fa che la bestia tenga il mezzo della via / perché i somari van sempre vicino ai fossi, / e se inciampano si rischia di rompersi le ossa.
  9. Nel primo giorno, puoi andare fino in Cassana / intanto che il somaro s’abitua a fare della strada; / in casa del prete ci sta la mia madrina Marianna; / valla a trovare: fa’ lì la tua fermata; / il giorno dopo, potrai andare a Vigarano; / poi per Senetica, e così a Bondeno piano piano… (continua)

Tratto da: Francesco Avventi, Viazz d’Lasagnin da Milzana, Ferrara, Liberty House, 2000.
A cura di Gian Paolo Borghi; con contributi di Gualtiero Medri e di Luciano Maino.

Conte Francesco Avventi (1779 – 1858)
Librettista per G. Rossini, C. Coccia, F. Sampieri e altri, membro della direzione del Teatro Comunale di Ferrara, colonnello della “Guardia Nazionale” contro il brigantaggio del Basso Po, bibliofilo, collezionista di libri antichi, narratore e poeta in lingua e in dialetto. Amministratore pubblico conosciuto e stimato dalla cittadinanza.  Altre note bio-bibliografiche nel testo citato.

Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui] 

Cover: Illustrazione di Gianni Cestari, part. di pag. 54 del libro – Per gentile concessione dell’editore.

PAROLE A CAPO
Liliana Capone: “Il senso” e altre poesie

“La poesia è un atto di pace. La pace costituisce il poeta come la farina il pane.”
(Pablo Neruda)

 Il senso

Graffianti, umilianti parole
nel profondo feriscono
Aprono a silenzi,
dimensioni lontane, solinghe
Ricuci, rattoppi:
il detto , il non detto, le pause,
i lunghi intervalli di tempo
trascorsi in un’arida, sterile guerra
quasi a dar un senso
a qualcosa che si perde nel vuoto
come corpo amorfo privo di testa
E allora taci,
meglio lasciar sbollire il non senso,
non chiudi la porta ma aspetti.
Domani il cielo sarà più chiaro
e il tutto riacquisterà un….senso!

 

Sono nata ieri…

Sono nata di febbraio…
un giorno di freddo pungente,
dai riccioli nevosi corteggiato
Camino scoppiettante a rischiarar
le attonite pareti
al lamento straziante di una madre
Brulicare di persone, parenti
Poi.. uno strillo: il mio
e benvenuta in questo mondo,
piccola e indifesa!
Emaciata, sospesa nel limbo della vita,
indecisa se restare tra i vivi
o dar retta alla voce di lassù
E l’altalena continua
a tenere il fil della speranza
Solo tenacia in quel corpo ostinato a mordere la vita
Abbarbicata, la testa reclina,
non mollare….
E crebbi come esile fuscello all’apparenza,
Col vuoto dentro
di un’esistenza strappata coi denti
Sgomitando, implorando per un gioco, un libro,
vivere, almeno, con una manciata d’amore!

 

Una donna

Il tempo di una donna si sgrana miseramente  nel giorno.
La sua compattezza, osteggiata, contesa, difesa…+
Doveri per l’uno, per l’altro,
a tacitare un ego sociale severo, impassibile.
Gli affanni tanti da togliere il fiato.
Le gioie ben poche…
Effimere, volano celandosi nell’incedere grigio.
Un pezzetto di pace per lei dovrà pur esserci…
ma dove, ma quando?
L’arrovello è potente, non districa, imbriglia, soffoca …
A tacitar la corsa diurna del cuore:
aria, respiro libero, notturno,
nell’ inceder più calmo
al ritmo naturale, vitale.
Al sonno abbandonate, le membra stanche, sopite,
disgiungon fisicità e fantasia.
Mentre ancora la mente galoppa,
in un gioco di irrefrenabile angoscia
che pace non ha.

Liliana Capone (Chieti). Insegnante di scuola primaria, (attualmente in pensione). Psicologa, regolarmente iscritta all’albo della regione Abruzzo. Ama la lettura e la scrittura, le considera: cibo per la mente, (permettono di pensare i pensieri), cibo per il corpo, (danno rilassatezza). La sua formazione socio-psico-pedagogica coadiuva l’introspezione nei rapporti umani.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui] 

Donald Trump, la crisi della democrazia, la crisi della fiducia nelle istituzioni.

Il 7 Gennaio 2021 è stato un  giorno drammatico per tutte le democrazie occidentali. I “partigiani di  Trump” hanno preso in ostaggio le istituzioni della più grande democrazia del mondo. L’America è tramortita, sconvolta dalle immagini del suo Congresso invaso e occupato. Pochi minuti prima della mezzanotte, Camera e Senato degli Stati Uniti bocciano gli ultimi ricorsi contro l’elezione di Joe Biden. E’ il primo segnale di ritorno alla normalità.
Tutto questo rimanda a un tema che avevo già provato a declinare su queste pagine: la grande crisi delle democrazie occidentali.

E’ in crisi l’idea di ‘democrazia’ che ha dominato nel mondo occidentale per almeno cinquant’anni.  Democrazia (dal greco antico: δῆμος,  démos, “popolo” e κράτος,  krátos, “potere”)  significa “governo del popolo”, ovvero sistema di governo, in cui la sovranità è esercitata, direttamente o indirettamente, dal popolo.
Si vedono, a maggior ragione oggi,  delle tendenze generali  che impressionano:
– Non ci si riconosce più nell’idea che un “governo del popolo” sia una “buona” e auspicabile forma di governo. Da qui molte derive: riproporre le oligarchie dei nobili, i governi illuminati dei magnati, le dittature della finanza e dell’esercito fino alle forme di autoritarismo monocratico e assoluto. I fanatici di Trump non conoscono il valore della democrazia e non si fidano delle sue istituzioni. Si fidano solo di quello che dice Trump, il deus ex machina che propone una “nuova verità” accettabile agli occhi di questa gente.
– Queste tendenze tendono a verificarsi quando  la popolazione si trova in un forte  stato di insicurezza e preoccupazione. La storia insegna che in tutti i momenti di forte crisi ‘sociale’ riemergono in maniera prepotente spinte all’autoritarismo. Ma non è solo quello.

Per quale motivo questa gente si fida di Trump?
– E’ più facile credere in una persona che in una istituzione. E’ più facile fidarsi di un magnate della finanza che sembra ricco, potente, invincibile piuttosto che di un sistema ramificato di partecipazione/discussione che trasmette un senso di maggiore incertezza e indeterminatezza da una parte, di inviolabilità dall’altra. “L’inviolabilità della confusione” è l’oggetto contro il quale questa gente si oppone al punto da rischiare di perdere la vita.
– “L’inviolabilità della confusione” crea un senso di impotenza e di irrealtà. L’impotenza derivata da una convinzione di fondo che non si potrà mai cambiare nulla se non saltando tutti quelli che sono gli iter democratici invasi da una burocrazia perniciosa e da una tendenza all’omeostasi  insopportabile. Se a questo si associano esperienze personali di fallimenti professionali e personali si arriva ad una situazione di insofferenza insopportabile che può avere conseguenze devastanti sull’idea di legittimità delle azioni che uno può decidere di intraprendere.
– “L’inviolabilità della confusione” porta a valorizzare altre forme di “confusione” che sono considerate paritarie e legittime al pari della prima. Ad esempio la “confusione” dei travestimenti. E’ un travestimento quello di Biden che si presenta sempre in giacca e cravatta e che, anche attraverso il suo modo di vestire, incarna l’omologazione al déjà-vu, esattamente come è un travestimento quello di Batman che, tra l’altro, è un paladino della giustizia. Allo stesso modo è un accettabile il travestimento del guerriero vichingo con le corna sulla testa. Si fa avanti una forma di partigianeria distorta che prevede anche il ricorso a maschere delle fiction televisiva e dei fumetti.  Tali “maschere” presentano un grado di “verità” non accettabile se paragonate all’abbigliamento dei parlamentari del congresso. Ma se salta l’idea che esistono delle istituzioni di cui fidarsi, di cui accettare un grado di “verità” condivisa e condivisibile, allora la loro esistenza diventa possibile e auspicabile.  Si trasmigra nel mondo dell’  “è vero ciò che io considero vero”. Se per me Batman è vero, allora Batman è vero, perché non esiste altra verità aldilà di quella che io riconosco come tale, per quanto balzana sia.
– “L’inviolabilità della confusione” porta a un ripiegamento sull’individualismo smodato, a una necessità di farsi giustizia da soli, a una allentamento di tutti i vincoli sociali che di fatto garantiscono dei comportamenti corretti. Paradossalmente questo riporta come un circuito malato alla necessità di trovare qualcuno che incarna tutto il malessere, qualcuno che rappresenta un riferimento alternativo, diverso, adatto a dei Batman che non credono più a niente, che odiano le istituzioni perché inviolabili, che detestano  i poteri democratici perché confusi. E’ abilità di pochi legittimare una nuova realtà che possa essere accettabile a dei personaggi delle fiction che prendono forma di esseri umani e invadono uno spazio fisico e simbolico che si chiama istituzione-democratica arrivando al terreno quasi-sacro del potere costituito. Trump è uno di questi e di questo suo potere bisogna prendere atto.
– L’idea di “inviolabilità della confusione” nasce anche da un profondo malessere personale. Dalla convinzione che da soli non si riuscirà mai a fare nulla di buono, che la vita sarà sempre più brutta, che mancheranno i soldi per pagarsi le medicine e la scuola dei figli, che i ricchi saranno sempre  più ricchi e i poveri sempre più poveri. Da una tendenza al nichilismo che annienta tutto e non permette di credere più a niente. Allora si diventa aggressivi per salvare prima se stessi e poi per legittimare una nuova realtà che permetterà ai vincitori di fare cose diverse, creare un mondo migliore, come tanti nuovi super-eroi del mondo nuovo. Apparentemente si vede un miscuglio tra realtà e fantasia che sembra degno di soggetti malati. Ma non è così, il travestimento è solo un modo di affermare la ricerca di una identità diversa perché si è persa la precedente. Questo, non necessariamente è un fenomeno inta-psichico malato.  Lo stigma di “malattia” è, in situazioni come queste,  il segnale di un irrigidimento del sistema delle istituzioni che si deve riprodurre sempre uguale piuttosto che la preoccupazione per una specie di deviazione collettiva verso la fantasia e l’irrealizzabilità. (Poi tutte le scienze umane insegnano che più i sistemi sociali sono rigidi e più tendono ad espellere ciò che è diverso e ciò che fa paura perché minaccia le regole di sopravvivenza del sistema in quanto tale).
– “L’inviolabilità della confusione” ha fortemente a che fare con il tema della fiducia. E’ completamente saltata in queste persone scorrette, fantasiose e aggressive l’idea che le istituzioni democratiche potranno migliorare la loro vita e quella dei loro figli. Forse lo potrà fare un non-democratico, un autoritario dai capelli gialli e dagli occhi di ghiaccio che sembra anche lui uscito da una fiction.
Ricordo che la fiducia può essere riposta nei confronti di una singola persona e nei confronti di un sistema sociale. La fiducia ha quindi una dimensione “personale” che si concretizza nel fidarsi di un’altra persona e ha una dimensione “sistemica” dipende cioè dal fatto che dei sistemi sociali diventino stabili grazie alla comunicazione intersoggettiva. Sistemi stabili riducono la complessità del mondo e permettono alla fiducia di passare dalla personalità singola al sistema, riponendo aspettative sulla correttezza e prevedibilità delle regole di funzionamento dello stesso.

E’ proprio questa previsione di “stabilità” che permette il passaggio dalla fiducia nel singolo alla fiducia nel sistema.  Un sistema stabile, utilizzando le regole che si è dato, garantisce la prevedibilità delle conseguenze di molte azioni e, facendo questo, assolve a diverse funzioni: facilita la codifica dei messaggi, semplifica le procedure, rende relativamente stabili le aspettative. In sostanza riduce la complessità del mondo. Il problema della fiducia è fortemente legato a quello della riduzione di complessità necessaria per capire e prevedere cosa succederà nel mondo. Come scrive Luhman (1989): “Il problema della fiducia è legato ad una riduzione di complessità, e in modo ancora più specifico, di quella complessità che entra nel mondo in virtù della libertà di altri individui. La fiducia ha quindi la funzione di ridurre tale complessità

Se questo avviene si passa dalla fiducia nell’azione del singolo alla fiducia nei meccanismi organizzativi del sistema, cioè la fiducia viene riposta in quelle regole che garantiranno un funzionamento prevedibile e semplice dei sistema stesso.
Ma può anche capitare che la fiducia sistemica sia tradita.  In questo caso per un po’ la fiducia viene comunque reiterata e poi si traduce in sfiducia nel sistema e nell’insieme delle regole che usa per semplificare/ridurre la complessità del mondo. E’ per questo che fiducia e sfiducia convivono in un universo esplicativo di carattere sociale. Sarebbe difficile spiegare il vero significato e le implicazioni di una se non fosse altrettanto chiaro il vero significato e le implicazione dell’altra.

La fiducia e la sfiducia incorporano meccanismi di reiterazione che sono sia riduzionistici che limitati temporalmente e quindi è possibile che a un certo punto si invertano. La fiducia tradita si trasforma in cieca sfiducia oppure, al contrario, la sfiducia assorge a una possibile fiducia retroattiva.
In questo complesso passaggio dalla fiducia nel singolo alla fiducia nel sistema e nelle sue continue trasposizioni e reiterazioni che si innesta e si spiega, a mio parere, quel che è successo ieri.
In quel gruppo di persone è completamente saltata la fiducia nel sistema ed è emersa, in maniera prepotente ed esiziale, la necessità della fiducia in un singolo individuo (Donald Trump il super-eroe invincibile) come unica e ultima strada per risuscitare quel minimo di “mondo buono” che permette di tenere lontano la disperazione più bieca.
Non c’è dubbio che tutto questo attesti una forte crisi della democrazia. Non c’è dubbio che quello che abbiamo visto è solo l’iceberg di un cambiamento sistemico che si sta muovendo da molto tempo, che è molto significativo e degno di  importanti riflessioni da parte di tutti quelli che credono nei valori proposti e sostenuti della democrazia.

Trump centra in tutto questo perchè è stato il catalizzatore di in grande malessere. La sua presenza e azione ha facilitato la retroazione della fiducia dal sistema alla singola persone. Ma anche senza Trump la situazione non sarebbe cambiata di molto. Ed è in quest’ultima consapevolezza la vera riflessione che, a parer mio,  va fatta.  Bisogna analizzare il fenomeno con molta lucidità se volgiamo salvare le nostre istituzioni e aprire la porta a un futuro di cambiamento democratico, di riforma costituzionale, di deburocratizzazione e di ricostruzione di un senso del “vero” che vada bene ai più.

 

Vite di carta /
Donne adulte

Vite di carta. Donne adulte

L’incanto delle parole scabre e possenti mi ha presa di nuovo leggendo Borgo Sud di Donatella Di Pietrantonio. Era accaduto col romanzo precedente, L’Arminuta, vincitore del Premio Campiello nel 2017, storia di una adolescente ‘restituita’ alla famiglia da una coppia benestante di parenti che l’avevano voluta crescere e poi l’avevano riportata dalla città alla povera casa dei genitori e dei numerosi fratelli, al paese in provincia di Pescara.

Ho già avuto l’occasione di parlarne in questa rubrica nello scorso mese di aprile, quando la inaspettata pandemia tentava di spazzare via le nostre certezze, l’idea di invulnerabilità che potevamo esserci fatti, ognuno a suo modo. Mi sembrava che calzasse la vicenda di questa ragazzina senza nome, che arriva col suo bagaglio di abiti costosi e con le scarpette per la danza in una casa e in una famiglia che non sapeva di avere e non trova nemmeno il letto pronto per lei. Il letto è da dividere con la sorella più piccola Adriana e con gli umori del suo corpo, nell’unica stanzetta dove dormono anche i fratelli. Il problema diveniva per lei, come per noi, operare una riduzione rispetto alla vita di prima, assegnare di nuovo il valore alle cose, collocarle in nuove gerarchie, mettere in gioco l’identità.

Ho atteso il periodo del Natale per aprire il nuovo libro fresco di stampa, sapendo, grazie al passaparola tra amiche lettrici, che si tratta del seguito di L’Arminuta e le due sorelle ora sono adulte. Ho subito pensato a L’amica geniale di Elena Ferrante, dove la vita delle due amiche protagoniste è narrata per fasi ben distinte e scandite con ogni evidenza nei quattro tomi che formano l’opera.

Mi sono chiesta cosa potesse raccontare questo nuovo libro della vita di Adriana e della sorella, che rimane ancora senza nome e assume di nuovo il ruolo di narratrice. Il romanzo di Ferrante ha una coralità ampia, una volontà di ricostruire contesti che appartiene al romanzo realistico della nostra tradizione; nell’arminuta è invece dominante la sensibilità individuale, ci sono in primo piano le dinamiche della famiglia e le scelte personali. C’è il travaglio identitario a dare spessore al racconto, e c’è la lingua precisa e potente che dicevo. La sintassi lineare che segmenta in frasi brevi il magma narrativo e lo definisce con rigore introspettivo.

Cosa può essere accaduto alle due sorelle nel corso degli anni? Cambiando il piano temporale a ogni capitolo, la narratrice ritesse le loro scelte di vita, il grande unico amore per entrambe, il rapporto tenuto a fatica con la madre e col padre. Il libro parte dal giorno del suo matrimonio, quando un acquazzone improvviso interrompe il pranzo all’aperto. Il secondo capitolo ci riporta  al presente e alla camera d’albergo, dove non le riesce di prendere sonno. Solo ieri la telefonata dall’Italia, questa sì è stata un temporale improvviso, l’ha raggiunta alla segreteria dell’Università di Grenoble e l’ha spinta a tornare a Pescara dopo anni di lontananza. Precisamente a sud della città, nel microcosmo del Borgo marinaro, che con le sue leggi radicate e la ruvida accoglienza della sua gente è divenuto lo spazio vitale della sorella.

Il tempo della notte è speso nel ricordo degli anni passati. Anche nei giorni di permanenza in albergo e durante le visite in ospedale ad Adriana, che si trova in coma dopo essere precipitata dal terrazzo di casa, la narratrice ripercorre le vite delle persone che le sono state care e della sorella prima di tutte. Ripercorre la sua. Col distacco che si è conquistata andando via dalla sua città e dal marito, dopo la loro dolorosa separazione, riesce a farne la sintesi.

Nei suoi pensieri ci sono le piccole fughe fatte con Adriana, le esperienze giovanili rubate ai ritmi della loro famiglia così povera, che le facevano sentire come le altre ragazze. Negli anni il loro rapporto si è fatto intermittente, durante gli incontri d’estate o a Natale “ci raccontavamo il meglio delle nostre vite, come si fa quando si è distanti”. Eppure nella vita di Adriana non sono mancati i dolori: i contrasti con la madre, le difficoltà economiche, il fallimento del matrimonio con Rafael che è anche il padre del suo bambino. Solo a tratti Adriana ha chiesto aiuto e si è insinuata col suo stile forte nella vita della sorella.

C’è la storia col marito Piero, fatta di devozione e amore prima reciproci, poi solo mantenuti da lei. Le ci è voluto molto tempo, le è servita l’intromissione della sorella per far venire a galla il distacco ormai senza ritorno del marito, il suo inseguire un’altra formula di vita. Piero le è vicino, ora che Adriana è in coma. La ripara dall’umidità di novembre, accompagnandola in macchina alle visite in ospedale, chiede se vuole pranzare con lui. Lei dice no: le fa bene mantenere il confortevole equilibrio costruito nella vita a Grenoble, tra l’insegnamento, qualche serata da trascorrere  in compagnia del vicino di casa, il gatto che hanno in comune. Di Piero pensa: ”Non sono mai del tutto guarita da lui, qualcosa si contrae ancora dentro di me. La sensazione di cunetta o dosso, la chiamava una mia compagna di classe facile agli innamoramenti. Ma adesso è leggera, addomesticata, solo un riflesso attenuato che non è proprio scomparso negli anni”. In queste parole si misura il cambiamento che è avvenuto in lei, quanto abbia saputo lenirsi la ferita, ma anche e soprattutto la fedeltà alla propria indole.

Ecco che spuntano di nuovo, indole e fedeltà. Quando il medico ipotizza che, se Adriana si sveglierà, dovrà comunque affrontare almeno un anno di difficile riabilitazione, lei, la sorella che giorni prima aveva giurato a se stessa di rinunciare a tutto in cambio della vita di Adriana, ora ammette: ”Immaginavo il rientro a Grenoble dopo le vacanze invernali, la neve sui prati del campus…Adesso non sono pronta a sacrificarle un anno. Sono così fragili le mie risoluzioni”. Credo proprio che a farle pensare queste parole sia il senso di colpa per non aver trovato in sé una disponibilità totale verso la sorella. Riconosco l’intransigenza con se stessa, la delusione che prova non trovandosi più in grado di performance assolute, lei che fino dai tredici anni, quando è stata ‘restituita’, ci ha messo caparbietà e impegno totali per studiare e laurearsi, per diventare quella che è, pur rimanendo dentro la sua famiglia. Dentro e fuori.

Torna nei suoi pensieri il periodo in cui ha accudito la madre sul letto di morte. L’imbarazzo di accedere alla sua nudità, la sorpresa di sentirne dentro la presenza feroce insieme alla tenerezza di passarle una tazza di brodo appena dopo l’operazione. Anche dopo tanti anni ripensando alla figura che la madre ha rappresentato per lei conclude così: “Restava in gran parte sconosciuta, non sono mai penetrata nel mistero del suo affetto nascosto. Chiuderò i conti con lei nella mia ultima ora”. Eppure ne ha scoperto alcuni lati ignoti, quando al suo funerale parenti e vicine di casa l’hanno compianta per come si era sacrificata solo e sempre pensando ai figli, dimentica di se stessa, come fosse rimasta distrutta dalla morte del figlio primogenito. Deve essere stata anche questo, pensa la narratrice, una donna che si è annullata nei doveri verso la famiglia e nelle rinunce. Ammette: “Nelle ore che hanno preceduto l’operazione sembrava contenta, forse tutti quei medici e le infermiere intorno le davano il senso inaspettato di una sua importanza almeno lì”.

Deve ripensarsi come figlia, ammettere che ha sofferto tanto per i gesti di tenerezza che non sono mai arrivati, che è stata gelosa del fratello scomparso, di quel Vincenzo a cui la madre si è votata in modo esclusivo dopo la sua morte.
Vincenzo è anche il nome del figlio di Adriana. Quanto è cresciuto,  quanta maturità dimostra di avere ora che la zia venuta dalla Francia per stare accanto a sua madre gli parla, chiede come vanno gli studi. Per dirci di lui la narrazione fa uno scatto in avanti e ci anticipa che conseguirà la laurea, ci ricorda che da sempre è stato dotatissimo in matematica. Adriana è stata una madre attenta, si è presa cura del suo bambino, anche nei periodi di difficoltà, da un certo punto in poi lo ha cresciuto da sola. Ora la narratrice, che madre non è diventata, non può che avvicinarsi come una zia premurosa al sedicenne che ha davanti, fragile e forte come sua madre. Anche lui figlio del Borgo Sud.

Nel testo faccio riferimento ai seguenti testi:

  • Donatella Di Pietrantonio, Borgo Sud, Einaudi, 2020
  • Donatella Di Pietrantonio, L’Arminuta, Einaudi, 2017
  • Elena Ferrante, L’amica geniale, E/O, 2011

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari della rubrica di Roberta Barbieri clicca [Qui]

DIARIO IN PUBBLICO
L’indolenza: effetto collaterale del Covid

Mi trascino di stanza in stanza, mettendo a frutto i consigli dell’amico medico di camminare almeno per 15 minuti, dopo mangiato, nell’appartamento e su e giù per le scale. Alla fine mi abbatto sulla poltrona e sono preso dall’accidia (che bello ogni tanto ricorrere a termini desueti e colti!). Avendo già letto i tre giornali quotidiani e avendo sufficientemente espresso in ululi avvelenati la mia compartecipazione al disastro politico annunciato, riguardo le immagini di qualche telegiornale, che si soffermano sulla giornaliera performance del Matteo Renzi in furore. Ed ecco una voce stupita accanto a me dice: “sembra un panzerotto”. Mai descrizione appare più efficacie: dalla gota piena e dalla ‘gorgia’, fino alla protuberanza posteriore delle natiche, il nostro appare davvero metafora del dolce, anche senza possederne virtù e bontà.

A capodanno ascolto rapito i due concerti da Venezia e da Vienna, poi degusto il cd che mi sono appena regalato di Cecilia Bartoli Queen of Baroque, in attesa dello spettacolo di Roberto Bolle che si rivela disastroso, pretenzioso e sconnesso. Ma ormai rinuncio, preso dall’indolenza, a definire anche i due concerti del nostro teatro Comunale tra Baricco e Cristicchi helas! Chissà cosa ci aspetta nel futuro.

Per un poco rifletto sulla totale differenza di metro e di giudizio della nostra generazione con quelle successive. Mi misuro con i concorrenti dell’Eredità, ormai l’unico programma televisivo che mi scuota dall’apatia, e mi trovo inesorabilmente eliminato dalle prime battute, causa la mia completa ignoranza di qualsiasi sport o di musica cosiddetta leggera. Spinto dalla curiosità tra un biscotto e l’altro mi sorbello Chiara Lubich. L’amore vince tutto di cui tacere è bello. Un’amica molto colta e rigorosa mi domanda perché mi voglio punire in questo modo. La risposta debole e indolente è che in realtà è necessario conoscere ciò che piace ai milioni di telespettatori chiusi nei loro gusci causa pandemia.

Certo che è una risposta deboluccia; ma a risollevare le sorti ecco un libro delizioso e totalmente folle che mi spedisce l’autrice Brina Maurer, Lord Glenn l’anima di Byron nel cuore d’un cane, Biblioteca dei Leoni, 2014. Non c’è male ad affrontare un simile soggetto! Così tra le quasi 800 pagine dell’Odissea di Kazantzakis e le 180 di Lord Glenn trascino la mia indolenza nel cominciare a prepararmi ad impegni importanti, quali il convegno pariniano che si terrà all’Accademia di Brera a metà aprile se… ( lascio a voi la fine del discorso.)

Mi distraggo dai temi ferraresi, sempre per indolente rinuncia che mi pone ad un bivio: lasciare tutto, non lottare per la difesa di un certo tipo di cultura che è stata ed è la ragione prima del mio contributo, piccolo o grande che sia stato alla vita dell’odioso-amata città. Con stupore o meglio con malcelato risentimento constato che bene o male tutte le biblioteche ferraresi aprono secondo moduli ben precisi. Del nostro Centro Studi Bassaniani silenzio e ancor silenzio punteggiano la sua riapertura. Nulla conta l’aver domandato spiegazioni a sindaco e assessore che non rispondono o non si fanno trovare. La mia non certo esaustiva pazienza sta per cedere, se non fosse che sarebbe uno scacco per la città se, avvenisse che, non rispettando i parametri con cui la professoressa Portia Prebys ha donato reperti preziosissimi della vita e dell’opera di Giorgio Bassani alla città, si dovesse constatare che essi non sono rispettati, per cui si decida di trasferire altrove questa fondamentale donazione. Sarebbe una vera sconfitta non per noi ma per la città.
Così l’indolenza ancora mi costringe a non esternare la mia soddisfazione per le importanti vicende canoviane che si concretizzano a Bassano e che coinvolgono l’edizione nazionale delle opere di Canova che presiedo da anni.

Indolentemente sento che scrivere ancora qualcosa mi produce fatica e quindi non mi resta che terminare e attendere fiducioso, scuotendomi dall’apatia l’arrivo da me invocato del vaccino che, come scrive il poeta, potrebbe essere rimedio unico ai mali di questo incredibile anno.

E finisco con il documentario di Barbero su Dante: brrrr….

Per leggere gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

GIOCHI E SCOMMESSE 2020:
Quel benedetto buco nell’erario

Lo so, è difficile trovare un angolo di allegria dentro la tragedia che stiamo attraversando, ma un comunicato stampa arrivato negli ultimi giorni in redazione mi ha fatto sorridere. Di più: mi ha allargato il cuore.
Il Comunicato di AGIPRO (che sarebbe L’agenzia Stampa Giochi e Scommesse) merita di esser pubblicato per intero.
“Effetto Covid sulla spesa e sulle entrate erariali dei giochi. La chiusura prolungata dei punti fisici nel 2020 e la crisi economica hanno portato a un calo del 35% delle giocate, con una spesa complessiva – secondo i dati dell’industria elaborati da Agipronews – crollata da 19,4 a 12,5 miliardi di euro. Il primo lockdown di marzo aveva visto la chiusura di sale giochi e scommesse su tutto il territorio nazionale per oltre tre mesi. A questo, si è aggiunto un secondo stop, scattato lo scorso ottobre e tuttora in corso. In totale, nel 2020, il settore retail (agenzie di scommesse, sale slot, Bingo) ha registrato un calo del 43%: a subire il danno maggiore sono gli apparecchi (slot e Vlt), che registrano un crollo del 54% rispetto al 2019 (a 4,7 miliardi di euro). A seguire, le scommesse, con una diminuzione del 36% della spesa, che si assesta a 800 milioni di euro, mentre lotterie e Bingo hanno perso il 25%, fermandosi a 4,4 miliardi. La chiusura del retail ha “spostato” parte dei giocatori verso l’offerta online, che registra nel 2020 un aumento della spesa del 39% a quota 2,5 miliardi. Il blocco della raccolta nei punti fisici , prosegue agipronews,si è tradotto in un drastico calo delle entrate: nel 2019 gli incassi statali dai giochi avevano superato gli 11 miliardi di euro, secondo i dati del Libro Blu dell’Agenzia delle Dogane. Considerando la chiusura dei punti gioco per oltre cinque mesi nel corso del 2020, alla fine dell’anno la stima dei ricavi fiscali per lo Stato è di poco superiore ai 7 miliardi, con un “buco” di 4 miliardi di euro.
Insomma, secondo AGIPRO: una tragedia nella tragedia: nel 2020 Lo stato Italiano incasserà dai vari giochi “poco più di 7 miliardi”, rispetto agli 11 miliardi del 2019. E meno incasseranno le società che gestiscono giochi e scommesse, Lottomatica in testa.

A me pare invece una bellissima notizia. Se potessimo uscire dal tunnel del Covid-19 senza macchinette mangiasoldi, senza roulette, senza lotterie nazionali, senza superenalotto, senza centinaia di migliaia di ludopati disperati, vorrebbe dire che a una cosa, almeno a una cosa, questa paurosa pandemia è servita.
Naturalmente è solo un sogno. Sembra che lo Stato non possa fare a meno di ‘stare al banco’ per spennare gli italiani.

Sappiamo che giocare è una grandissima e a volte diabolica tentazione. E per alcuni (tanti) una malattia, come ci racconta Fedor Dostoevskij ne Il Giocatore scritto più di 160 anni fa. Ora, come nella Russia zarista, lo Stato continua a recuperare risorse alimentando e pubblicizzando il gioco d’azzardo.
Da qui, anche da qui, il tanto lamentato senso dello Stato di cui darebbero prova i cittadini della Repubblica. Ma si può confidare in uno stato biscazziere?

FUTURO SOSTENIBILE
“LE CITTA’ SIANO IL FULCRO DELLA RIPARTENZA POST COVID”
Il rapporto Legambiente 2020

All’inizio di novembre è stato reso noto il rapporto Ecosistema urbano, curato da Legambiente in collaborazione con Ambiente Italia e il Sole 24 ore: 207 pagine fitte di dati, grafici, tabelle, disegni. Quella del 2020 è la XXVII edizione del rapporto, costruito secondo 18 parametri monitorati da Legambiente e Ambiente Italia. Oltre 30mila i dati raccolti attraverso questionari inviati ai 104 Comuni capoluogo e alle informazioni di altre fonti statistiche accreditate. Il risultato è una classifica generale che, per quel che valgono le classifiche, specie in queste tematiche, è stata costruita assegnando un punteggio in centesimi sulla base dei risultati qualitativi ottenuti nei 18 indicatori relativamente alle aree tematiche aria, acqua, rifiuti, mobilità, ambiente urbano ed energia.

Osservando le prime città classificate si nota che per Trento e Mantova, che occupano i primi posti con 79,98 e 76,75 punti, non vi sono state variazioni rispetto alla classifica 2019. Tra le prime 10 città le variazioni più significative si sono registrate per Reggio Emilia, che risale la classifica di 7 posti posizionandosi al quinta, Cosenza (+6, ottava) e Biella (+10, in nona posizione). Le altre sono Pordenone terza (+1), Bolzano quarta (-1), Belluno sesta (+2), Parma settima (-2) e Verbania decima (+1) con un punteggio di 68,89, 11 in meno di Trento. Treviso, che nel 2019 era nella top ten, scende all’undicesimo posto perdendo quattro posizioni. Tra le città che hanno mostrato, in positivo, le variazioni più significative vi sono Forlì (risalita di ben 44 posizioni), Imperia (+41), Rieti (+39) e Avellino (+31), mentre tra quelle che hanno perso posizioni vi sono Potenza, che ne perde 25, seguita da Caserta (-23), Varese e Chieti (-21) e Pescara (-20). E Ferrara? La nostra città perde rispetto all’anno scorso 12 posizioni e si colloca, con 62,86 punti, al 22° posto della classifica che, su 104 città monitorate, è chiusa da Vibo Valentia con soli 23,31 punti ottenuti dalla valutazione dei parametri considerati.

Inquinamento atmosferico: Ferrara? Insufficiente

Se si va ad analizzare le classifiche per le diverse tematiche del rapporto indicate come performance ambientali, la città estense non è presente in nessuna, ad eccezione di quella relativa alla raccolta differenziata, dove invece svetta con una percentuale dell’86,2, seguita da Pordenone (86,1%) e Mantova (85,6%). Le altre classifiche riguardano le aree tematiche aria rappresentate da quelle della concentrazione in biossido di azoto (NO2), dove capeggiano Agrigento (4 µg/m3), Enna e L’Aquila.
Ferrara presenta per questo indicatore una concentrazione media di 26,2 µg/m3, collocandosi al 52° posto. Per le polveri sottili PM10 e PM 2,5 la nostra città registra rispettivamente una concentrazione media di 29,0 e 18,5 µg/m3 (72° e 68° posto); infine per quanto riguarda l’ozono (sforamento del limite di 25 giorni/anno oltre i 120 µg/m3), si colloca sessantesima. Complessivamente Ferrara, assieme a tutte le città della regione, presenta un’aria classificata come insufficiente, ultima delle cinque classi in cui sono suddivisi i centri urbani che superano per almeno due parametri i limiti della normativa comunitaria sia per PM10 e PM2,5 che per NO2 e O3. Questi, secondo l’Agenzia Ambientale Europea (EEA), sono gli inquinanti sotto osservazione che comportano un rischio per la salute umana, e che dichiara come l’inquinamento atmosferico continui ad avere impatti significativi sulla salute della popolazione europea, in particolar modo per i cittadini delle aree urbane.

Le conseguenze in Italia sono le oltre 60mila le morti premature ogni anno dovute all’inquinamento atmosferico. “In sostanza, continua il dossier dell’ufficio scientifico di Legambiente Mal’aria di città 2020, l’inquinamento atmosferico è al momento la più grande minaccia ambientale per la salute umana ed è percepita come la seconda più grande minaccia ambientale dopo il cambiamento climatico”. In una tabella del dossier [Vedi qui]  che presenta i giorni totali nelle città in cui si è registrato nel 2019 sia il superamento dei limiti del Pm10 che dell’ozono, Ferrara si trova al 18° posto con 103 giorni (Torino, prima, ne ha registrati 147, Piacenza 128, Rovigo, territorialmente molto vicina a noi, 115, Modena e Reggio Emilia 108). Bologna, trentesima con 59 giorni, è l’ultima delle città della regione e presenta il superamento dei limiti solo per l’ozono (25 giorni).
Per il solo PM10, nel 2019, sono 26 le città capoluogo di provincia che hanno superato il limite giornaliero di 35 giorni con una media superiore ai 50 microgrammi/metro cubo. Sempre prima Torino con 86 giorni di superamento. Nella classifica delle città fuorilegge ci sono quasi tutti i capoluoghi veneti (ad eccezione di Belluno), molti capoluoghi dell’Emilia Romagna, tranne Bologna e Cesena, quindi anche Ferrara, e più della metà delle città lombarde (7 su 12), a riprova della criticità espressa nelle dichiarazioni dell’Agenzia Ambientale Europea.
Altro dato ricavato da queste poco esaltanti classifiche è quello delle città che hanno superato il limite per le polveri sottili (Pm10) dal 2010 al 2019: Ferrara si ritrova nel secondo gruppo (9 anni su 10) assieme a Parma e Piacenza, tra le città emiliano-romagnole. Nel primo (10/10) sono presenti Modena, Reggio Emilia, Rimini e Rovigo (questa sempre per ragioni di affinità territoriale). Infine le altre, Ravenna, con 7 anni su 10, seguita da Bologna (6/10) e Forlì (5/10). Per ultime le classifiche dei capoluoghi di provincia che nel 2019 hanno superato con almeno una centralina urbana la soglia limite di polveri sottili in un anno (il D.lgs. 155/2010 prevede un numero massimo di 35 giorni/anno con concentrazioni superiori a 50 μg/m3) e, per l’ozono, dei capoluoghi di provincia che nel 2019 hanno superato con almeno una centralina urbana l’obiettivo a lungo termine per la protezione della salute( il D.lgs. 155/2010 prevede in questo caso un numero massimo di 25 giorni/anno – come media su 3 anni – con concentrazioni superiori a 120 μg/m3 come media massima giornaliera calcolata su otto ore). Nella prima Ferrara è al 12° posto con 60 superamenti nella centralina di Corso Isonzo, mentre nella seconda al 31° con 43 giorni di superamento.

La gestione del ciclo dei rifiuti

Tornando al rapporto [Vedi qui] tra i temi trattati non si può non prendere in considerazione quello dei rifiuti.
In una rappresentazione grafica le città monitorate vengono suddivise in 5 classi, da ottima a scarsa, in base alle modalità di gestione dei rifiuti e ai risultati ottenuti nel 2019. Ferrara si trova nel primo gruppo, anzi capeggia la classifica relativa alla raccolta differenziata, come già accennato, con un 86,2 %, superando di appena 0,1% Pordenone, che si colloca al secondo posto prima di Mantova (85,6%). Del gruppo delle città con una qualità ottima nella raccolta differenziata (quelle che separano più dell’80%) fanno parte anche Reggio Emilia e Parma. Per quanto riguarda la produzione di rifiuti urbani (kg/abitante/anno) il dato di Ferrara nel 2019 è di 650 kg, con Reggio Calabria la città che ne produce la quantità più bassa (371 kg) e Piacenza quella con il dato più alto (766 kg), e che supera di un solo kg Rimini e Ravenna (765 kg). Nel sistema di raccolta porta a porta Ferrara realizza un misero 10,3% di cittadini serviti secondo tale modalità, uno dei livelli più bassi in Italia, dove la maggior parte delle città fornisce un servizio di oltre il 90% e una quarantina arriva al 100% di cittadini serviti dalla raccolta domiciliare. Ma qui si tratta di scelte e strategie delle aziende che gestiscono questo importante servizio.

Proseguendo nell’analisi del Rapporto molti sarebbero gli indicatori che meriterebbero commenti e approfondimenti. Qui voglio solo riportare i dati che interessano Ferrara scorrendo le classifiche rispetto ai vari temi.

Acqua potabile per uso domestico

Per quello che riguarda l’acqua potabile per uso domestico Ferrara consuma 144,7 litri/abitante/giorno, in una classifica dove, oltre a Milano che primeggia con ben 269,1 litri, non sono molte le città che superano la quota dei 200 litri (Brescia, Chieti, Monza, Pavia, Reggio Calabria). La maggior parte consuma quantità che si collocano tra i 100 e i 200 litri, con l’unica eccezione di Frosinone che di litri al giorno per abitante ne consuma solo 95,2.
Altro tema che riguarda l’acqua è la dispersione della rete idrica. Ferrara presenta una differenza tra acqua immessa e consumata per usi civili, industriali e agricoli del 38,8%, con Frosinone, tra le città italiane monitorate, che per questo indicatore mostra la peggiore performance (77,8%) e Pordenone che risulta invece la più virtuosa con solo l’11,3%.
La percentuale di popolazione residente servita da rete fognaria delle acque reflue urbane vede molte città, di ogni parte d’Italia, raggiungere il massimo, cioè il 100%. Solo Pistoia (55%) e Catania (56%) mostrano dati molto bassi e preoccupanti, mentre Ferrara si colloca nella parte alta dei valori con l’88% della popolazione servita. Folto è il gruppo delle città che superano quota 90% registrando valori prossimi al 100%; infine, ad eccezione di Reggio Emilia (83%), tutte le altre città della regione realizzano percentuali che si collocano nella fascia 95-99% di popolazione raggiunta dal servizio fognario.

Mobilità urbana

Altro tema scottante trattato dal rapporto è quello della mobilità. Iniziando dall’indicatore numero viaggi/abitante/anno sul trasporto pubblico Ferrara raggiunge il livello di 70, poco oltre la metà della classifica capeggiata da Milano con 468, se si esclude Venezia (705) che, ovviamente, rappresenta un caso atipico, solo altre 6 sono le città che superano quota 200 (Genova, 413; Roma, 328; Trieste; 310 e a seguire Bologna, Torino e Brescia).
La maggior parte, Ferrara compresa come detto, si colloca ampiamente sotto quota 100 (con Vibo Valentia 2 e Sondrio 3 fanalini di coda), a riprova della criticità della problematica mobilità in Italia. Altro indicatore monitorato è l’offerta di trasporto pubblico misurata come vetture-km/abitanti/anno. Anche in questo caso la città estense non figura tra le città virtuose, riportando un valore dell’indicatore di 19: dato alquanto scarso se confrontato con quello di Milano (88) e delle altre città della parte alta della lista (Venezia, Trieste, Roma). Bologna, la migliore in Emilia Romagna, ottiene un livello di 45, con Parma che segue a 40.

Sempre in tema di mobilità gli indicatori della superficie stradale pedonalizzata in m2/abitante e delle piste ciclabili, sia come metri equivalenti ogni 100 abitanti che come Km totali.
Nel primo dei parametri Ferrara, con 0,39 m2/abitante, occupa la prima parte della classifica dove Lucca distanzia tutte le altre città con 6,73 m2/abitante. Classifica chiusa da L’Aquila e Trapani con nessuna superficie pedonale precedute con un misero 0,01 m2/abitante da Reggio Calabria.
Sulle piste ciclabili ci si aspetterebbero dati di eccellenza dalla nostra città, è così è, ma solo in parte: nella classifica dei metri equivalenti Ferrara è undicesima riportando 20,48 metri di piste ogni 100 abitanti, e viene preceduta, in ambito regionale, da Reggio Emilia, prima con un dato più che doppio (44,37 metri/100 abitanti) e da Ravenna (26,63 metri/100), mentre in quella dei Km totali scala di un posto a fronte di 101,6 Km di piste, anche in questo caso preceduta da Reggio Emilia, sempre prima,  e da Modena (174), Bologna (156,4), Parma (138,4) e Ravenna (129,3), a riprova che la definizione di città delle biciclette non è una sua esclusiva.
L’ultimo indicatore che interessa la mobilità è quello delle auto circolanti ogni 100 abitanti. Le città italiane si distribuiscono in un intervallo che va da 78, Frosinone, a 43 per Venezia, quindi una forbice non troppo ampia. A Ferrara circolavano, nel 2019, 65 auto/100 abitanti, un dato intermedio, condiviso da molte altre città: infatti nella fascia 70/60 figurano ben 65 centri urbani.

Verde pubblico

Per quanto riguarda l’indicatore verde urbano pubblico Ferrara non sfigura, anche se non tanto in termini di valori assoluti: si colloca infatti attorno al 30° posto (20 alberi/100 ab) della classifica che vede Cuneo primeggiare con 203, seguita da Modena con 114 alberi/100 abitanti.
Per l’indicatore m2/abitante di verde fruibile in area urbana la classifica è migliore (17° posto per un valore di 60 m2/abitante), ma sono Matera (997,2), Trento (406,2) e Rieti (333,6) che presentano spazi di verde urbano difficilmente raggiungibili. Tra le città emiliano romagnole solo Parma fa meglio di Ferrara per quest’ultimo parametro, mentre per il precedente tutte, esclusa Piacenza, ottengono migliori performance.

Serve una cabina di regia

A conclusione di questo lungo elenco di dati e numeri alcune riflessioni sul significato dei risultati scaturiti dal Rapporto Ecosistema urbano 2020.
La media del punteggio dei capoluoghi quest’anno si è abbassata al (53,05%), mentre era 53,51% lo scorso anno e “quota 100” non è stata raggiunta da nessuna città e nessun capoluogo supera gli 80 punti, a differenza della passata edizione in cui ci riuscirono Trento e Mantova.
“E’ necessario – afferma Mirko Laurenti, responsabile del Rapporto – dare un contributo alla riflessione globale sul futuro delle città, partendo dalle esperienze positive, da chi è riuscito negli anni a realizzare significative azioni e cambiamenti in chiave green”. L’impegno è notevole perché gli indici del Rapporto raccontano in sintesi di un Italia che si muove a singhiozzo tra le solite emergenze, con qualche luce e molte ombre. Dare allora continuità agli interventi, anche copiando dalle altre città europee. E poi far sì che il Governo istituisca finalmente una cabina di regia per le città, sostenendo e spingendo i sindaci affinché imbocchino con decisione la strada della sostenibilità, dando gambe a quei progetti che rappresentano l’unica via per un futuro più sostenibile, condiviso, salubre.

Siamo tutti la fenice

La fenice è un uccello mitologico presente in moltissime culture: dall’Egitto all’Asia, dalla Grecia al Medio Oriente, dall’India alla Russia. È divenuta anche simbolo cristiano, e la sua narrazione è talmente potente per l’uomo che ancora oggi è ampiamente usata nella cultura popolare e nel folclore. Le storie riguardo ad essa sono molto variegate, ma in genere si tratta di un animale che, dopo una longeva vita, viene bruciata mentre si trova nel suo nido; dalle fiamme, o dalle sue ceneri, si rigenera e comincia una nuova vita.
La sua morte e resurrezione simboleggiano anche tutte le piccole morti e resurrezioni che possono accadere nell’arco della vita di ciascuno. In un certo senso, è anche simbolo della resilienza, ovvero la capacità di far fronte in maniera positiva alle avversità, coltivando le risorse che si trovano dentro di noi. È il saper reagire e rialzarsi più forti di prima, adattandoci ai cambiamenti.
Il 2020 ha messo alla prova tutti, ci ha segnato intimamente. Per certi versi è stato veramente un annus horribilis. Lo abbiamo salutato volentieri, ma non dobbiamo fermarci al semplice e puro lamento, capace solo di appesantire ulteriormente l’aria. In fondo, il 2021 è solo il prosieguo del 2020, ma se cerchiamo di rinascere allora può essere davvero un anno “nuovo”. Sappiamo che non sarà tutto facile e che incontreremo di nuovo le nostre fragilità, ma non importa quante volte siamo caduti, ma quante volte ci saremo rialzati.
Allora ecco qualche atteggiamento utile per essere resilienti in questo nuovo anno:
mantenere il sorriso, accettare il cambiamento, non aver paura di prendere decisioni, saper chiedere aiuto, ascoltare se stessi, accettare se stessi, guardare il lato positivo delle cose, aprire il cuore agli altri, non stancarsi mai di imparare.

PER CERTI VERSI
Il verde olfatto

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
[Qui]

IL VERDE OLFATTO

La tenerezza
Non il tenero
Del secondo abbraccio
Mentre ci stringevano
Le nostre menti
In una notte
Accarezzavo
I tuoi capelli
Un brivido contratto
In una sorpresa
Noi si noi
Dopotutto
Come abbiamo fatto!?

Il rabarbaro
Verde
Olfatto

PRESTO DI MATTINA
L’arca di Noè e il Natale

Cosa c’entra l’arca di Noè con il Natale?

La domanda mi è affiorata alla mente leggendo l’inno alle lodi mattutine del giorno di Natale: «Maria Vergine Madre porta un segreto arcano nell’ombra dello Spirito». Di qui, immediatamente una prima associazione di idee: segreto arcano, arca, Noè. Ma, si sa, una parola ne attira un’altra simile, sino a generare un riconcorrersi di pensieri, immagini e simboli richiamati alla memoria da affinità e parentele. “Aria di famiglia” direbbe Amadeus ai “Soliti ignoti”, quando si tratta di scoprire il parente misterioso. E così pian piano le parole lontane si scoprono vicine, quelle estranee, sorelle, divenendo così una narrazione: di più una storia di famiglia.

Allo stesso modo sono le parole e i simboli per noi: parenti misteriosi, soliti ignoti. Così al richiamo del versetto dell’inno natalizio si è presentato quello del salmo 131: «Sorgi Signore verso il luogo del tuo riposo, tu e l’arca della tua alleanza». La tradizione invoca Maria con l’appellativo “Arca della nuova Alleanza”: là dove il tesoro custodito in lei non sono più le tavole della Legge, ma la vita del Figlio di Dio, Gesù, accolto come la Parola vivente in una storia di uomini e narrante il segreto arcano della storia di Dio.

Per il vangelo di Giovanni il leitmotiv, il motivo principale della venuta della parola di Dio nella nostra umanità, il Verbo incarnato, è stata quella di raccontare e far conoscere Dio, altrimenti invisibile. Si legge, infatti, alla fine del Prologo: «Dio, nessuno lo ha mai visto; il Figlio Unigenito, che è rivolto verso il Padre, lui lo ha raccontato», “exeghéomai” (Gv 1,18) interpretandolo. Il Gesù di Giovanni è il narratore di Dio Padre. E il quarto Vangelo diventa allora il Vangelo narrante, quello che racconta Gesù narratore di Dio (Valerio Mannucci, Giovanni Vangelo narrante, Bologna 1993).

Parole come simboli, segni che mettono in cammino. Ci viene ricordato che essere uomo, e ancor più credere, significa camminare, avanzare, crescere. Siamo stati creati per la libertà, di cui la strada è il grande simbolo. Ma c’è di più. Gesù ha detto: “lo sono la strada!”. E allora, ciò significa che la vera strada da percorrere non è da tracciare, da costruirsi: esiste già prima di noi ed è essa che ci viene incontro, ci conquista e ci invita a percorrerla. «I “segni” operati da Gesù, per condurre alla fede in lui, hanno bisogno della disponibilità a credere senza pregiudizi in coloro che allora “videro” e in coloro che ora “leggono” – si potrebbe dire che ‒ Gesù Cristo (…) è lui in persona che si offre come la luce, l’acqua viva, il pane di vita, la vite. L’umanità di Gesù Cristo nella sua interezza è il grande simbolo vivente e presente di Dio Padre, la “immagine” riassuntiva del Dio invisibile», (ivi, 125; 95; 100-101). Alla domanda di Filippo: «mostraci il Padre» la risposta di Gesù è: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. (Gv 14,9).

I simboli attingono alla vita, oltre che alla parola, come le metafore. Mettono insieme, confrontano, sono il riscontro tra due realtà corrispondenti: un contrassegno per identificare l’altro che lo comprovi essere l’altra metà a cui il simbolo rimanda.

I simboli «danno da pensare» ‒ dice Paul Ricoeur ‒ perché comportano una relazione con ciò che significano senza appropriarsene, sono epifania dell’invisibile senza rinchiuderlo in una forma, mediatori di alleanze sempre nuove. Essi si aprono così ad una molteplicità di significati, perché nessuna interpretazione può esaurire la pienezza di una esperienza. Il simbolo rimanda dunque all’uomo stesso, come simbolo reale, e al suo mistero come alla sua sorgente inesauribile. Posto fra ciò che conosciamo e ciò che non conosciamo il simbolo è punto d’incontro tra il finito e l’infinito. Apertura vivente e in atto dell’inesprimibile e dell’impenetrabile, e tuttavia traccia, riverbero arcano della sua presenza. Il pensiero simbolico, come la poesia, rivela e nasconde al contempo ciò che è più profondo nella realtà, ciò che ancora non è venuto alla luce, quella racchiusa nel suo intimo, il suo luminoso e arcano segreto.

In una lettera al fratello Piero che lo sollecitava a tornare a comporre poesia (12 nov. 1950) Clemente Rebora scrive: «… a me è parso avvertire questa mattina, mentre ero nel ringraziamento dopo la S. Messa … che la poesia … è uno scoprire e stabilire convenienze e richiami e concordanze tra il Cielo e la terra e in noi e tra di noi … La poesia … intesa in modo totale, ossia cattolico, è la bellezza che rende palese, come arcano riverbero, la Bontà infinita che ha sì gran braccia … Uscendo da una lettura di poesia (e qui bisognerebbe dire delle altre arti, ciascuna col suo dono sublime, e della musica che nei grandi è quasi donazione di carità) ci si potrebbe sentire incoraggiati al bene e all’eterno», (Le poesie, Milano 1994, 276).

L’arca può allora essere buon simbolo di un nuovo e più promettente inizio, quello di un ricominciare con speranza sempre di nuovo e non solo ad ogni Natale, alla ricerca di quella pace da costruire attraverso le relazioni, posta come arcobaleno, alleanza irreversibile tra Dio e gli uomini: tra la sua umanità ospitale simboleggiata nell’arca che salva dalle acque e la nostra che viene ospitata in lui. Ospitati entrambi l’uno nell’altro ‒ è proprio il caso di dire ‒ sulla stessa barca.

Arca, immagine poetica della vita nascente come luogo di libertà e di promettente e affidabile salvezza nel suo affrontare il diluvio del mondo, nei suoi sprofondi e nei suoi picchi vertiginosi di ondate spaventose. La stessa parola, anche quella incarnata, è guscio di noce nel suo prendere il largo tra le acque oscure e profonde del silenzio, o della stessa scrittura nel suo navigare nel testo che l’ha originata per giungere fino a noi e trovare un approdo credente, un porto ospitale. Interpretare un testo significa infatti farne emergere la contemporaneità che rigioca espressioni della vita fissate per iscritto: il comprendersi dell’io nel tu narrante.

C’è una vita nascosta ‒ “in uscita” direbbe papa Francesco ‒ racchiusa nell’arca come nel testo, parola scritta pure lei, come Noè salvata dalle acque della dimenticanza e dell’oblio del tempo. Perché i nostri Maestri, i grandi commentatori rabbinici, ci hanno insegnato con i loro commenti al Talmud, che l’arca non è un luogo chiuso. Così come la parola dentro ad un libro, entrambe hanno un’apertura: non diversamente dal lucernario che fa da tetto dell’arca anche il rotolo del libro si può srotolare affinché le parole tornino ad illuminare. E la copertina non è forse una porta? Basta aprirla con la mano ed entrando con gli occhi ci s’immerge poi tutto intero nel libro. Come un palazzo, un castello con tante stanze e tante porte, similmente all’arca che era costruita su tre piani.

Suggestive le interpretazioni a commento dei dialoghi durante il cantiere in costruzione dell’arca tra il carpentiere e l’architetto: «Ed ecco come la farai: l’arca avrà trecento cubiti di lunghezza, cinquanta di larghezza e trenta di altezza». Disse Dio a Noè: «Farai nell’arca un’apertura e la terminerai, in alto, alla larghezza di un cubito di fianco metterai la porta dell’arca», (Gn 6,15-16). Così commenta Rashi di Troyes (Rabbi Shelomoh ben Yishaq, in Commento alla Genesi, 50): «Un’apertura. Alcuni dicono che era una finestra; altri, che era una pietra preziosa che dava loro luce. La farai a tre piani: uno in basso, un secondo e un terzo – Tre piani, uno sopra all’altro: quello in alto per gli uomini, quello di mezzo come scompartimento per il bestiame e quello in basso per i rifiuti»; un’ecologia sostenibile ante litteram?

Il Commento della Kabbala rivela ulteriori particolari «Doterai l’arca (tévah) di un’apertura luminosa» (Gen 6, 16); ovvero: «“Provvederai che ogni parola (tévah) abbia un’apertura luminosa, affinché brilli come il sole in pieno mattino», (F. Rosenzweig, Il nuovo pensiero, commento di Gershom Scholem, Venezia, 1983, 98).

Ma non è ogni natività una pietra preziosa, apertura luminosa, un venire alla luce appunto in quell’arca che custodisce il mistero nascosto in un corpo, in una vita nascente? Non dovrà, terminato il diluvio, approdare sulla terra ferma per abitare e custodire la terra? E stessa sorte non hanno forse anche le parole? Non dovranno avere anch’esse un’apertura luminosa su quel mistero arcano all’ombra dello spirito celato pure in loro? Per dire un inno alla parola quella che «nei giorni che non avevano tempo, viveva con Dio nel silenzio, fiorita in segreto all’Immesso, in lei era la forza del mondo e la vita… Nascendo poi nella storia del mondo, vedemmo tra noi la sua gloria; nel buio la luce era apparsa in un volto, l’amore ebbe il nome di un uomo. L’accoglie chi il cuore aprirà, credendo che quella Parola è la vita, Iddio per Padre avrà. Vivendo le nostre giornate, ai poveri annuncia il perdono e il suo Regno; e come un seme, per crescere grano, dovrà nella terra morire, così, per dar vita, fu uomo di croce, vivente per Dio ritornò» (Vito Valenti; Rino Farruggio).

L’arca esprime la sapienza di Dio, della sua parola che si prende cura della vita, che non rinuncia ad essa, e giunge in soccorso proprio quando è in pericolo di naufragare, per salvarla dai flutti di morte. Si legge nel libro della Sapienza: «A causa sua (Caino) la terra fu sommersa ma la sapienza di nuovo la salvò pilotando il giusto e per mezzo di un semplice legno», (10, 4)

Non sto a narrarvi però le storie attorno a questo semplice, umile legno: le innumerevoli interpretazioni dell’arca nei commentari dei Padri. Non ne usciremmo più per mesi e mesi da quella biblioteca ‒ 221 volumi ‒ raccolta da Jacques Paul Migne (1800-1875) bibliografo, presbitero ed editore francese, che ha curato l’edizione della Patrologia Latina e della Patrologia Greca, contenente tutti i testi dei Padri della Chiesa. Basti un libro: Hugo Rahner, Simboli della chiesa. Ecclesiologia dei Padri, Milano 1995 ed alcuni testi che come un bracconiere gli ho sottratto.

L’arca viene paragonata al piccolo legno della croce, luogo di salvezza per tutto il genere umano; e l’apertura in quel piccolo legno che, come la porta dell’arca, è il costato di Cristo: «Ancor oggi – scrive il vescovo Vito di Vienne – riconosco tutto ciò in nostro Signore, il quale attraverso la morte di croce giunge al suo riposo, lui e l’arca della sua santificazione, ossia la sua carne. Lo riconosco, dico, sul fianco di quest’arca il nostro ingresso in quel luogo ove la fonte dell’acqua viva si nascose nel corpo del morente. Noè è Cristo. Tu sei il secondo progenitore proveniente dalla stirpe annientata. Per mezzo della tua paternità, dopo il primo progenitore, il mondo viene nuovamente popolato» e Remigio di Auxerre: «Misticamente Noè significa l’uomo giusto e anche, secondo il nome e secondo le opere, il perfetto, il Cristo. “Aprici, o Signore, aprici la porta del tuo costato, ossia della tua arca. Tu sei il vero Noè, l’unico che Dio, tuo Padre, trovò giusto al suo cospetto. Facci penetrare in te attraverso la porta del tuo costato», (ivi, 921-923).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]  

Al cantón fraréś
“Al bonàno e La Vciada”

Un tempo, a fine/principio d’anno, varie erano le occasioni per offrire doni ai bambini: S. Nicola, Santa Lucia, la vigilia, il primo gennaio. Oggi è Babbo Natale che domina la scena. A capodanno, i nostri vecchi ci tenevano molto: il buon anno veniva porto dai maschi che, in cambio degli auguri, ricevevano omaggi in natura: uova, verdura, frutta.
Dalle nostre parti i regali arrivavano dalla Befana (6 gennaio), e qualcosa pure dal Befanone (17 gennaio), ovvero da la vecia e dal vción.

Un’altra usanza tipica delle campagne nostrane era la Vciada, una recita più o meno improvvisata che si svolgeva nelle prime settimane dell’anno nei cortili, nelle stalle, sotto i portici e, quando era possibile, in salette parrocchiali o teatrini. Lo scopo, oltre a divertire e divertirsi, era di raccogliere qualche salame, vino, formaggi, da consumare poi in allegra compagnia con la gente del posto.

I personaggi, che variavano secondo il numero degli “attori”, erano introdotti dal Presentadór (dit anch al Sfazà). Potevano esserci: Calzulàr, Cuntadìn, Cavadént, Fàvar (fabbro), Magnàn e/o Stagnìn, Mediatór, Moléto (arrotino), Padrón e Padróna, Pret e Ciarghìn, Sant’Antoni (S. Antonio Abate), Saracàr (quel c’al vandéva ill saràch, sarde sotto sale), Sunadór, ecc.
Altre figure rappresentavano ricorrenze del calendario: L’ann već, l’ann nóv, Carnvàl (o Cranvàl), Quarésma, Pasqua, Nadàl…

Gli ultimi spettacoli locali sono stati effettuati dalla compagnia “Esperia” di Portomaggiore e dalla compagnia “Briciole di Teatro di Ferrara” condotta da Luciano Basaglia. Di quest’ultimo gruppo riportiamo la filastrocca che proponeva “S. Antoni dal buśghìn” nel bel mezzo della Vciada, in serate nei Centri Sociali.
Auguri di buon anno.
Ciarìn

Bonànooo!… 

Bonànooo!…
Sgnóra Padróna,
la méta la pitóna!
La la méta béη béη
che st’altr’ann a turnaréη.
A turnaréη coη la cariola
a purtàr via vostra fiòla;
a turnaréη col cariulón
a purtàr via vòstar nunóη!
La guarda int al castìη
che la tróa di luvìη.
La m’iη daga zinquànta
ch’a m’iηpinìs la panza;
la m’iη daga duśént
ch’a vagh via più cuntént!
Bonànooo!!…

Bonànooo!… (trad. dell’autore)
Buon anno!… / Signora padrona, / metta (a covare) la tacchina! / La metta ben bene / che l’anno prossimo torneremo. / Torneremo con la carriola / a portar via vostra figliola; / torneremo col carriolone / a portar via vostro nonno! / Guardi nel cassettino / che troverà dei lupini. / Me ne dia cinquanta / che mi riempio la pancia; / me ne dia duecento / che vado via più contento! / Buon anno!!…

 

 

Tratto da: Vincenzi, A. Ridolfi, F. Guidetti, Vocabolario italiano-ferrarese, in appendice proverbi tipici del dialetto ferrarese per ogni mese dell’anno, Ferrara, Cartografica, 2007.

 

 

 

Sant’Antoni

Mi a sóη Sant’Antoni e i diś ch’a port furtùna,
ma chì par i puvrìt a n’iη va mai bén una,
a són al protetór d’ogni animàl
però am è più simpatich al maiàl.
La mié benedizióη la viéη źó dal ziél
la ciàpa quéi normài e quéi senza zarvèl.
Mi a banadìs tuti, specialment ogni animàl,
padrùη, sumàr, mul e anch al cavàl.
La benedizióη la sarà d’sicùr più bona
se a la fin am darì uη salàm e na pitóna,
se al salàm iηveηz al sarà piculìn
la benedizióη la cuntarà propia puchìη.
J’am mét sui lunàri d’ogni cuśìna
però mi am truvarìa mej la źó in cantina.
A pòrt i sàndal senza calzìt
e a banadìs i sgnùr e anch i puvrìt.
E intant che a digh n’Ave Maria
dem mo da bévar che po’ a m’iη vagh via.
Dèmal bel piη, rós sćèt e bóη
se a vli ch’la dura sta benedizión.
Amen.

Sant’Antonio
Sono Sant’Antonio e dicono che porti fortuna, / ma qui per i poveretti non ne va mai bene una, / sono il protettore d’ogni animale / però mi è più simpatico il maiale. / La mia benedizione vien giù dal cielo / prende quelli normali e quelli senza cervello. / Benedico tutti, specialmente ogni animale, / padroni, somari, muli e anche il cavallo. / La benedizione sarà di sicuro più buona / se alla fine mi darete un salame e una pitona, / se il salame invece sarà piccolino / la benedizione conterà proprio pochino. / Mi mettono sui lunari d’ogni cucina / però mi troverei meglio laggiù in cantina. / Porto i sandali senza calze / e benedico i signori e anche i poveretti. / E intanto che dico un’Ave Maria / datemi da bere che poi me ne vado via. / Datemelo ben pieno, rosso schietto e buono / se volete che duri questa benedizione. / Così sia.

 

 

Tratto da: La Vciada, testo di autore anonimo, a cura di Suleyka Neri e Luciano Basaglia, trascritto in dialetto da Floriana Guidetti, Ferrara, 2007.

 

Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui] 

Cover: La Vciada a Contrapò nel 1987. Foto Cine Club “Il Girasole” – Voghiera

Cambiare tutti per cambiare veramente

Cambiare è una scelta di libertà e ragionevolezza

È molto preoccupante verificare che chi avrà l’onere di investire le risorse messe a disposizione dall’Europa per rilanciare lo sviluppo del nostro Paese, non abbia alcuna visione di futuro da trasformare in progetti strutturali e lungimiranti.
Questa mancanza di visione è evidente perché le proposte di soluzione fatte dalla classe politica, governo e opposizione, fino ad ora, sono legate solo all’urgenza. Infatti, non c’è ancora stato un tentativo di formulazione di un progetto di investimenti a lungo termine, se non in forma di annuncio roboante quanto indefinito. I casi sono due: o non si ha idea di una strategia o, se c’è, non è condivisa con il parlamento e con gli Italiani e questo non è democratico. Mi dispiace criticare chi ci governa, perché se cadesse il governo adesso l’alternativa sarebbe peggiore. Però non posso tacere e devo sollecitare un cambiamento reale e democratico, quindi di effettiva comunicazione e condivisione.

I giovani del mondo, con il movimento “Friday for future” hanno sollecitato i potenti a pensare non più in maniera localistica, o per settori limitati della società, ma a guardare il mondo e l’umanità come un unico soggetto che abita un unico ambiente. La crisi pandemica ha rapidamente trasformato questa dimensione globale da concetto ideale possibile in tangibile esperienza quotidiana che coinvolge tutti. L’unico documento ufficiale da parte di un capo di stato ad aver risposto a questa sollecitazione dei giovani è stata l’enciclica “Fratelli tutti” di papa Francesco che ha saputo dare una progettualità concreta a questa domanda altrettanto concreta e urgente. L’Europa e il nostro governo potrebbero prendere spunto da questo documento per iniziare la nuova realtà politica e sociale che da tempo il mondo attende.
Infatti, questa crisi non è solamente un problema ecologico, climatico o economico: è una convergenza di questi tre mondi. La pandemia, conseguenza della crisi ecologica, ha accelerato e fatto emergere il limite del pensiero unico economico-liberista, che ha svelato a sua volta e acuito le mai risolte ingiustizie sociali che impediscono l’attuazione di una vera democrazia. Ne è un esempio l’insufficienza del servizio sanitario e, forse ancora peggio, la spietata concorrenza fra i diversi gruppi di ricerca scientifica per arrivare primi alla creazione di un vaccino che ancora una volta non sarà per tutti ma vedrà alcuni gruppi di popolazioni scartati, con costi enormi economici e sociali.
Questo non vale solo per l’Italia o l’Europa: ci troviamo per la prima volta ad un punto di rottura storico che riguarda tutto il mondo. La sollecitazione a pensare in modo universale necessariamente richiede di partire da un nuovo punto di vista che abbia le stesse caratteristiche del fattore di crisi: che sia contemporaneo e globale, cioè complesso.

Il nuovo luogo da cui guardare è il futuro dell’umanità.

Dunque, si dovrà scegliere se questo futuro avrà la durata limitata a qualche decina di anni e dovrà riguardare poche migliaia di persone, abitanti una più o meno grande porzione di terra, oppure se deve riguardare l’intera umanità e la terra come pianeta nell’universo e perciò prevedere un tempo illimitato. La prima scelta richiede di mantenere l’attuale modo di vivere: in continua emergenza, cercando di arginare le conseguenze, via via sempre più profonde e complicate, sempre più impellenti e in costante accelerazione, come questi ultimi decenni ci hanno mostrato. Ci sono dati recenti che rilevano che i fenomeni dei cicloni e degli uragani che si sono verificati in Italia e nel mondo sono aumentati di frequenza e in potenza distruttiva.
Oppure si può decidere di fare un salto evolutivo: cambiare decisamente la scala di valori e mettere al primo posto la persona e la comunità come progetto comune. Questa scelta comporta il costruire una nuova qualità della vita che vede l’ambiente naturale come luogo comune di convivenza e condivisione della realizzazione delle singole potenzialità.
Questa seconda opzione non si verifica in maniera automatica: ci vogliono un atto di volontà, una visione ed un progetto. Bisogna imparare a pensare in modo nuovo e questo richiede un investimento per la formazione di tutti, per darsi gli strumenti culturali e di confronto adatti ad acquisire la consapevolezza del valore dell’essere umano che dobbiamo ancora oggi definire sia nella sua natura sia nelle sue potenzialità.

Un atto di volontà viene compiuto solo se è finalizzato a qualcosa di concretamente raggiungibile e di cui valga veramente la pena, perché quello che si deve abbandonare è la sicurezza e il conforto del già conosciuto in favore di ciò che è desiderabile ma ancora del tutto ignoto e non sperimentato. Questo atto di volontà, perché non sia un salto nel buio, deve essere ragionevole, perciò bisogna dare credito a sé stessi, ai propri desideri, che anche se incompiuti come pensiero, nascono da ciascuno di noi per cui rispecchiano la nostra stessa natura, non ci lavorano contro, non creano attrito, anzi danno forma e senso a ciò che era ineffabile e indeterminato prima di essere da noi nominato.

Così si incomincia a costruire un pensiero che origina dall’essere umano e si apre alla relazione con l’altro. In questo confronto si sviluppa il linguaggio per una nuova antropologia, non più basata sulla sopraffazione e sullo scontro, ma che si definisce nella rivelazione di sé all’altro, perché si è diversi. Si realizza nel gusto di conoscere ciò che ci è ignoto, dove la diversità e l’unicità delle persone sono la ricchezza, il valore aggiunto, pur nel desiderio della condivisione di una realtà comune.
Se si vuole rallentare fino a modificare il cambiamento climatico da noi provocato per abitudini sociali e scelte economiche incoscienti e poco lungimiranti, dobbiamo cambiare i nostri comportamenti, quindi dobbiamo usare tutte le risorse possibili e immaginabili per creare occasioni e spazi dove iniziare a sperimentare questo nuovo modo di conoscersi e relazionarsi. Questa è l’unica visione che permetterebbe di invertire il processo distruttivo dell’ambiente e di trasformare questo momento di crisi in occasione di aprire ad una nuova vita.

PAROLE A CAPO
Roberto Paltrinieri: “Amici per la vita” e altre poesie

“La poesia muore se non la si offende: bisogna possederla e umiliarla in pubblico, poi si vedrà cosa diventa”
(Nicanor Parra)

  

ASSORTO

Aspetto
all’ombra della luce
il cambio di voce
tra giorno e notte
per udir ancora
il suono
di foglie secche
staccate da un debole vento.
Ad occhi chiusi
pare proprio
quello di una pioggia leggera.
Niente è più come prima
Avido di giorni
fingendo gratitudine
ho accumulato ricordi
da raccontare
ai distratti turisti della mia vita
Sazio di tempo
ora non parlo più
non serve
Mi troverai assorto
nella nostra casa di vetro
per non perdere nulla
neppure un attimo
dei sublimi colori del cielo

 

AMICI PER LA VITA

Ti ho conosciuto quando
le stanze erano così grandi
e gli anni piccoli
quando sorpreso guardavi severa negli occhi
chi rideva di me
quando prima di addormentarti
lanciavi di nascosto
un bacio alle stelle
e tirando il panno fin sopra la testa
nascondevi le nostre paure sotto le coperte
E poi una notte
un sogno
i piedi sembrava non toccassero mai terra
mentre il respiro riempiva l’anima
leggera galleggiavi sull’aria
verde come un prato
Sei sfrecciata via
diritto
dentro una notte nera
adesso senza più fermate
Alzo il colletto
ma il freddo non è fuori

 

BEPPINO

Vestito metà di stracci
metà con abiti da festa
congeda la notte alle quattro del mattino
Ancora avvolto dal profumo di lino e di canapa
scende piano le scale
della casa silenziosa
sussurrando con pudore versi da poeta
Di tratto antico
al primo sole
lo puoi vedere già
sulla bicicletta
ondeggiare
nel giardino
tra i suoi fiori del passato
Si ferma
li saluta con la mano
uno per uno
mentre l’altra
passa leggera
sugli occhi di lago
umidi
I visi delle fotografie intorno
scaldano membra rannicchiate
dagli acciacchi mai ascoltati
e sul far della sera
tra i grandi cuscini
della vecchia ottomana
in cucina
alla fine si addormenta
prima
dell’arrivo
dei pensieri

 

QUELLI CHE RESTANO

Gli occhi profondi
di quelli che restano
sono gonfi
di lacrime
gocce salate
di un grande mare
I loro corpi barcollanti
danzano
soli
non si fermano mai
Cullano il dolce nome
nelle notti
in una tenerissima ninna nanna
mentre cercano di addormentare
pensieri rimasti svegli
per tutto il giorno
Increduli
sostano di fronte
alla stanza
in piedi per ore
Entrano
dopo aver tolto
il fiore dal cuore.

 

Roberto Paltrinieri (1958), docente di scuola superiore a Ferrara, collabora con Ferraraitalia scrivendo articoli di ordine filosofico-sociale e da oggi… con le sue poesie

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui] 

Società della cura: nessun profitto sulla pandemia!

di Vittorio Agnoletto

L’Unione Europea ha concluso accordi con varie case farmaceutiche per rendere disponibili a tutti i cittadini europei i vaccini contro il Coronavirus; per raggiungere questo obiettivo i Paesi membri hanno messo a disposizione delle aziende farmaceutiche ingenti risorse di denaro pubblico. Ma, nonostante il forte coinvolgimento economico degli stati e dell’UE, una volta conclusi i trial clinici e approvato il vaccino/farmaco, questo rimane di proprietà privata delle aziende produttrici che per vent’anni avranno il monopolio del brevetto e potranno trattare con i governi da una posizione di forza.

Numerosi ricercatori, varie personalità del mondo scientifico e della cultura, insieme a molti movimenti progressisti europei, si sono mobilitati affinché sia garantito l’accesso universale ai vaccini e ai trattamenti e affinché sui brevetti non sia possibile alcuna speculazione a favore di interessi privati, ma sia esercitato un controllo pubblico. Il Sudafrica e l’India hanno avanzato all’OMC, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, la richiesta di una revisione/moratoria degli accordi TRIPs sulla proprietà intellettuale, almeno per quanto riguarda i trattamenti riferibili al Covid; la richiesta di una discussione con procedura d’urgenza non è stata accettata e il confronto è stato rinviato ai prossimi mesi, con ben poca possibilità di successo.

Di fronte a questa situazione, un gruppo di personalità europee, ricercatori e attivisti, ha presentato un’ICE, Iniziativa dei Cittadini Europei. L’ ICE è lo strumento istituzionale attraverso il quale è possibile proporre una concreta modifica legislativa alla Commissione Europea. Una volta raggiunto 1 milione di firme, la Commissione è obbligata a prendere un’iniziativa in materia.

Il comitato internazionale che ha proposto l’ICE è composto da:

Anne Delespaul, PTB, GP, Geneeskunde voor het Volk, Medecine pour le Peuple, Belgium;

Caoimhghín Ó Caoláin, Sinn Féin’s Spokesperson on Health and Children, Ireland;

Chrysanthos Georgiou, doctor and the head of the health bureau of AKEL, Cyprus;

Isabel Peña-Rey, Congress Member, spokesperson Health Committee, Spain;

Karim Khelfaoui, GP in Marseille, France;

Michael Doubek, professor of medicine at Brno University, Czech Republic;

Michel Limousin, doctor, editor-in-chief of the magazine “Santé publique et protection sociale”, France;

Rosa Maria Medel Pérez, Congress Member, spokesperson Health Committee, Spain;

Sara Murawski, Associate researcher with the Transnational Institute (TNI), Nederland;

Sascha Heribert Wagner, State Managing Director of Die Linke in Northern Westfalen, Germany;
Vittorio Agnoletto, MD, Medicina Democratica, former Member of the European Parliament, Italy;

Qui puoi trovare il testo della iniziativa: https://europa.eu/citizens-initiative/initiatives/details/2020/000005_it

E’ possibile firmare la petizione al link: www.noprofitonpandemic.eu/it

Visto il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea ed in particolare gli articoli 114, 118 e 168 della stessa, chiediamo alla Commissione Europea di avanzare delle proposte legislative finalizzate a:

  • garantire che i diritti di proprietà intellettuale, inclusi i brevetti, non ostacolino l’accessibilità e la disponibilità di qualsiasi futuro vaccino o trattamento contro il Covid-19;
  • garantire che la legislazione dell’UE non limiti l’utilizzo delle licenze obbligatorie, previste dagli accordi TRIPs da parte degli Stati membri;
  • introdurre obblighi legali per le aziende farmaceutiche beneficiarie dei fondi pubblici UE e degli Stati Membri, di condividere la conoscenza relativa alla tecnologia sanitaria sul COVID 19, la proprietà intellettuale e i dati, in una piattaforma pubblica e accessibile;
  • introdurre obblighi legali, per le aziende beneficiarie dei fondi UE/Stati Membri, in materia di trasparenza con particolare attenzione all’uso dei contributi pubblici, ai costi di produzione, nonché alle clausole di accessibilità attraverso licenze non esclusive.

In tutta l’UE è stata lanciata il 30 novembre la raccolta di firme; da tale data abbiamo un anno per raccogliere 1 milione di firme nei 27 stati dell’Unione Europea.

Per raggiungere questo obiettivo è necessario costruire la più ampia convergenza possibile tra tutti coloro, realtà collettive e singoli, che ritengono fondamentale la tutela del diritto alla salute come parte integrante dei diritti umani universali.

Consapevole dell’attenzione che la realtà che rappresenti ha sempre manifestato verso questi temi, ti scrivo per chiedere l’adesione della tua organizzazione al costituendo Comitato Italiano che vede tra i promotori:

Vittorio Agnoletto, Medicina Democratica

Gino Strada, pres. Emergency

Silvio Garattini, Medico ricercatore, fondatore dell’Istituto Mario Negri

Don Luigi Ciotti, pres. Libera

Monica di Sisto, vice pres. Fairwatch

Ricardo Petrella, economista, Agorà degli abitanti della terra

Marco Bersani, resp. Attac italia

Raffaella Bolini, resp. Global Dialogue

Maria Bonafede, pastora valdese

Roberto Morea, pres. transform! Italia

Con la partecipazione straordinaria di Franco Cavalli, oncologo svizzero, già presidente dell’Unione Internazionale contro il Cancro.

Considerando il numero crescente di petizioni, azioni e lettere aperte di cittadini, ONG e responsabili politici su questo tema, crediamo che sia possibile raggiungere l’obiettivo che, in Italia, è di 180.000 firme raccolte attraverso il web (è possibile anche la raccolta con moduli cartacei ma al momento non ci pare proponibile).

Abbiamo previsto un primo incontro, con tutte le organizzazioni e le associazioni che intendano aderire, per il 13 gennaio alle ore 17. Questo è il link per l’incontro:

Topic: Right2cure it.  Time: Jan 13, 2021 05:00 PM Rome; Join Zoom Meeting:

https://us02web.zoom.us/j/85776305494?pwd=dTlYYlltMkhaRVQxTlZ4S20waitaZz09

Meeting ID: 857 7630 5494; Passcode: 393497

Puoi trovare maggiori informazioni sul sito italiano della campagna europea: www.noprofitonpandemic.eu/it/ e sulla pagina FB right2cure.it

In attesa di un tuo riscontro, rimango a disposizione. Un caro saluto,

Vittorio Agnoletto

Moni Ovadia ed Ezra Pound

Giorgio Fabbri

La nomina di Moni Ovadia a direttore artistico del nostro Teatro Comunale aveva suscitato in me alcuni dubbi, ma ora plaudo al maestro per le parole che ho letto sul “Carlino” del 29 dicembre (Cronaca di Ferrara).

«Io non posso vedere popoli segregati o oppressi. La mia spinta etica verso gli ultimi e i vessati non potrà mai cessare perché vengo da un popolo, quello ebraico, vessato, sterminato e condannato a un genocidio. Certo, ho militato per la sinistra e sono di sinistra, ma ritengo che per quanto le idealità siano nobilissime, le ideologie diventano sempre criminali: il grande poeta Sanguineti difese a spada tratta Pound, che si era schierato con i fascisti, perché fu uno dei più grandi poeti del Novecento».

Si tratta di una dichiarazione importante, che accomuna Ovadia ad Hemingway nel giudizio su un grandissimo poeta, che detestava la finanza internazionale senza volto e credeva – come tanti altri che si illusero sognando e poi “dimenticarono” – di aver trovato nel fascismo la “terza via” fra capitalismo e comunismo.

Coerente con se stesso (era cittadino USA) fu inviato a Coltano (dove si trovava, tra i repubblichini ritenuti irriducibili – a torto o a ragione- anche il ferrarese Luciano Chiappini, che lì conobbe un fratello di Romano Prodi) e venne trattato come un animale. Trascorse infatti alcuni mesi di detenzione nel campo, fra cui tre settimane in una gabbia d’acciaio,senza servizi igienici e senza possibilità di ripararsi dal freddo e dal sole cocente (la “gabbia da gorilla”, disse il poeta).

Trasferito forzatamente negli USA, fu poi internato in un manicomio giudiziario, dal quale uscì dopo una decina d’anni grazie all’impegno di poeti ed intellettuali che non lo avevano abbandonato.
Plaudo quindi a Moni Ovadia, perchè i testi di un grande poeta – le cui opere furono a lungo messe all’indice – non possono e non debbono essere giudicate sulla base delle sue idee politiche.
Nè,tantomeno,dal fatto che qualche movimento politico (nonostante la contrarietà e la dissociazione degli eredi) si sia impossessato abusivamente del suo nome.

Anch’io,infine, ho un sogno. Vorrei che, superata ogni barriera ed ogni steccato culturale, Roberto Pazzi potesse leggere pubblicamente qualche brano tratto dai Cantos di Ezra Pound, che – come scrisse Hemingway – “dureranno finchè esisterà la letteratura”.

Giorgio Fabbri