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L’UNICA CHE ABBIAMO
22 Aprile: Giornata Mondiale della Terra

 

Probabilmente il nostro pianeta, la Terra, la cui festa viene celebrata quest’anno il 22 aprile, sarà ben contenta dei tanti libri pubblicati in questi ultimi tempi che trattano i temi dell’ambientalismo e del cambiamento climatico. Meno contenta sarà invece dell’atteggiamento di politici e governanti che, nella maggior parte, continuano imperterriti e sordi agli innumerevoli appelli provenienti dal mondo della scienza e alle proteste di cittadini di tutto il mondo, specie giovani, portate avanti negli ultimi anni. Politici e governanti che continuano a permettere attività produttive e pratiche inquinanti e distruttive della biosfera terreste. Che giornata sarà allora per la Terra? Conosciuta nel mondo come Earth Day, è l‘evento green che riesce a coinvolgere il maggior numero di persone in tutto il pianeta, nel periodo dell’equinozio di primavera.

Come e quando è nata la Giornata della Terra

USEPA Photo by Eric Vance

Si deve a John McConnell, un attivista per la pace che si era interessato anche all’ecologia. Nell’ottobre del 1969, durante la Conferenza dell’UNESCO a San Francisco, McConnell propose una giornata per celebrare la vita e la bellezza della Terra e per promuovere la pace. Per lui la celebrazione della vita sulla Terra significava anche mettere in guardia tutti gli uomini sulla necessità di preservare e rinnovare gli equilibri ecologici minacciati, dai quali dipende tutta la vita. La prima celebrazione fu il 21 marzo 1970, mentre un mese dopo, il 22 aprile 1970, la definitiva Giornata della Terra – Earth Day veniva costituita dal senatore degli Stati Uniti Gaylord Nelson, come evento di carattere prettamente ecologista.
Fu invece Denis Hayes, in un contesto storico dove si era appena presa coscienza dei rischi dello sviluppo industriale legato al petrolio, a rendere la manifestazione una realtà internazionale: Hayes fondò l’Earth Day Network arrivando a coinvolgere più di 180 nazioni. La proclamazione della Giorno della Terra ufficializzava, con un elenco di principi e responsabilità precise, un impegno a prendersi cura del Pianeta. Questo documento venne firmato da 36 leader mondiali, tra cui il Segretario generale delle Nazioni Unite U Thant, con l’ultima firma, aggiunta nel 2000, di Mikhail Gorbachev.

Nel 1990 la Giornata della Terra mobilitò 200 milioni di persone in 141 paesi ponendo l’attenzione sulle questioni ambientali a livello mondiale, dando un impulso enorme alla cultura del riciclo, e contribuendo ad aprire la strada per il Summit della Terra organizzato dalle Nazioni Unite nel 1992 a Rio de Janeiro.
Nel 2000 la Giornata mondiale della Terra combinò lo spirito originale dei primi Earth Day con l’internazionalismo dell’evento del ’90. In quell’anno vennero coinvolti più di 5.000 gruppi ambientalisti, raggiungendo centinaia di milioni di persone in 183 paesi.

Il tema della Giornata della Terra 2019 è stato Proteggi le nostre specie. Gli scienziati paventano il pericolo di una sesta estinzione di massa, di un “annichilimento biologico” della fauna selvatica, che, a differenza delle precedenti, causate da catastrofi e disastri naturali, sarebbe il primo evento provocato dall’uomo. La distruzione e lo sfruttamento degli habitat unitamente agli effetti del cambiamento climatico stanno, infatti, determinando la perdita di metà della popolazione mondiale di animali selvatici.
Nel 2020 si è celebrato il 50 anniversario della Giornata della Terra in corrispondenza delle prime chiusure nazionali per la pandemia di COVID-19.

Ma quali sono oggi le condizioni dell’ambiente terrestre? 

Nel 2019, secondo ISPRA , in Italia le emissioni di gas serra sono diminuite del 19% rispetto al 1990, passando da 519 a 418 milioni di tonnellate di CO2 equivalente e del 2,4% rispetto al 2018 (- 0 milioni di ton), grazie a fonti rinnovabili ed efficienza energetica. Per il 2020 si stima un ulteriore -10% rispetto al 2019, ma principalmente a causa delle restrizioni dovute alla epidemia di Covid. Tale diminuzione, ribadisce ISPRA in un comunicato stampa, “anche se si è ancora in attesa di avere tutte le informazioni necessarie per una stima definitiva, è avvenuta a fronte di una riduzione prevista del PIL pari all’8.9%”. L’andamento stimato è dovuto alla riduzione delle emissioni per la produzione di energia elettrica (-12,6%), per la minore domanda di energia, e dalla riduzione dei consumi energetici anche in altri settori: industria (-9,9%), trasporti (-16,8%) a causa della riduzione del traffico privato in ambito urbano, e riscaldamento (-5,8%) per la chiusura parziale o totale degli edifici pubblici e delle attività commerciali”.
“Un taglio, afferma Luca Mercalli in un recente articolo, che si dovrebbe mantenere ogni anno per frenare la corsa verso un mondo rovente e invivibile, attraverso una strategia di decarbonizzazione a lungo termine che permetta di raggiungere la neutralità climatica nel 2050, come annunciato dall’Italia a Bruxelles nel quadro dell’accordo di Parigi”.

Quanto dichiarato dal climatologo viene confermato da Italy for Climate [vedi il sito]. Questa Fondazione promossa da un gruppo di imprese e di associazioni di imprese scrive che “il calo del 2019 è ancora molto lontano da quanto sarebbe necessario per raggiungere la neutralità climatica entro metà secolo”. Secondo la Roadmap climatica delineata dalla Fondazione “l’Italia nel 2019 avrebbe dovuto ridurre le emissioni di gas serra di 17 milioni di tonnellate di CO2 equivalente, allineandosi così con l’obiettivo del -55% rispetto al 1990 indicato dal Green Deal europeo come tappa intermedia al 2030 per la neutralità climatica”.

A conferma di quanto detto da Mercalli, ci sono i dati, abbastanza impressionanti, dell’aumento del numero di eventi estremi in Italia (fonte European Severe Weather Database) tra il 2018 e il 2019, passati da circa 1000 a 1668, quando la media degli ultimi anni era stata di circa 600 eventi.

Vorrei suggerire la lettura di qualche libro, citandone, tra i tanti, alcuni che mi hanno particolarmente colpito per il messaggio proposto. Inizio con Ora – La più grande sfida della storia dell’umanità, dell’astrofisico Aurelien Barrau, un testo che nasce dall’appello di scienziati, artisti, filosofi, scrittori in occasione delle dimissioni di Nicolas Hulot, ministro francese della Transizione Ecologica e solidale fino a metà del 2018. “Non considerare l’ecologia la principale priorità del nostro tempo – scrive Barrau – si confìgura come un crimine contro il futuro. Non attuare una rivoluzione nel nostro modo di esistere si confìgura come un crimine contro la vita. È tempo di guardare in faccia l’agonia del mondo e impegnarsi seriamente”.

Un altro libro, uscito ad inizio 2021, è quello di Federico Butera, professore emerito ed ex docente di Fisica Tecnica Ambientale al Politecnico di Milano. Già dal titolo, Affrontare la complessità – Per governare la transizione ecologica, si comprende il percorso che l’autore intende trattare. “Affrontare la complessità – si legge nella presentazione – fa chiarezza sulle questioni ambientali – l’inquinamento, i cambiamenti climatici, l’acidificazione degli oceani, i consumi di acqua e di risorse, le trasformazioni dei suoli e la distruzione della biodiversità – da una prospettiva che evidenzia le interconnessioni tra le parti di quel sistema meravigliosamente complesso che è il nostro pianeta. Viviamo in un’epoca, l’Antropocene, in cui gli impatti delle attività umane sul pianeta hanno raggiunto livelli senza precedenti. Anche se la quantità di analisi e ricerche scientifiche su questi temi è ormai sconfinata, è sempre più difficile orientarsi tra fake news e fonti credibili. Per questo, servono strumenti per imparare a ragionare nel modo corretto su questi argomenti, centrali per il benessere, presente e futuro, delle nostre società”.

L’umanità in pericolo-Facciamo qualcosa subito, è un testo di un autrice, Fred Vargas, conosciuta come giallista, ma di professione ricercatrice in Archeozoologia presso il CNRS francese. Scrive Fred Vargas: “Per anni le élite politiche e finanziarie hanno nascosto la verità. Senza una drastica riduzione delle emissioni di CO2, entro il 2100, fino al 75% degli abitanti del pianeta potrebbe essere annientata da ondate di calore. Cambiare non è solo auspicabile ma necessario. Dobbiamo modificare la nostra dieta per incidere sempre meno sul cambiamento climatico; ridurre drasticamente la produzione di rifiuti e passare all’energia pulita. Lavorando insieme, riflettendo e immaginando soluzioni, l’umanità può ancora cambiare rotta e salvare sé stessa e il pianeta”.

Concludo con una citazione dal libro Ora di Barrau che mi sembra sintomatica del nostro tempo, dell’oggi che stiamo vivendo: “I «sognatori» oggi non sono gli ambientalisti, ma quanti pensano di poter sfidare le leggi fondamentali della natura. E il loro sogno diventa il nostro incubo”.

Cover: USEPA Photo by Eric Vance – su licenza Creative Commons

23 APRILE GIORNATA DEL LIBRO
La biblioteca è … cultura, tempo libero e famiglia

W i libri!
(la redazione di Ferraraitalia)

da: Rete delle Reti – AIB – BIBLAB

In settantamila rispondono al sondaggio e confermano che le biblioteche civiche sono amate
e rappresentano uno straordinario volano per far crescere socialmente e culturalmente il nostro Paese.

23 aprile 2021 – Giornata Mondiale del LibroLa biblioteca per te rappresenta la più vasta indagine mai realizzata in Italia sul ruolo che le biblioteche di pubblica lettura hanno nella vita delle persone, sia a livello sociale che culturale. Promossa dalla Rete delle Reti – in collaborazione con l’Associazione Italiana Biblioteche e con la direzione scientifica di BIBLAB, il Laboratorio di biblioteconomia sociale e ricerca applicata alle biblioteche dell’Università di Roma Sapienza – l’indagine chiusa alla fine di marzo fornisce una interessante mappatura dei bisogni e delle attese delle comunità cittadine rispetto ai servizi offerti dalle biblioteche locali. Un’analisi che consentirà di modellarle sempre più sui desideri delle collettività.
In quattro mesi, a cavallo fra dicembre e marzo, 67.250 persone, utenti delle biblioteche civiche italiane, hanno risposto a un questionario fatto di domande semplici – quale biblioteca frequenti, quanto impieghi per raggiungerla, quali servizi utilizzi – ma, anche, personalizzate con approfondimenti che invitavano l’interlocutore ad esprimere liberamente il proprio sentire: “Cosa è per te la tua biblioteca” oppure “In questi periodi …. quanto hai sentito la mancanza della biblioteca?”.
Ed è proprio in questa sezione che emergono considerazioni importanti che richiamano i concetti di benessere e qualità della vita delle persone. Piccole storie, narrazioni brevi che definiscono appieno il sentimento indotto nelle persone da una biblioteca (aperta), che nella frequentazione viene identificata come luogo libero, protetto, prossimo e familiare, dove nutrire relazioni sociali positive e crescere culturalmente.

Frequentazione e Prossimità Il 94,55% degli intervistati ha confermato di frequentare la biblioteca pubblica. Per molti di loro è una destinazione di prossimità: i due terzi, infatti, hanno dichiarato di impiegare meno di 15 minuti per raggiungerla. In un’ottica urbanistica è una riconferma, se necessaria, della valenza del modello Città dei 15 minuti, adottata a Parigi, Barcellona e Milano. Con l’auspicio che i luoghi del lavoro, dell’assistenza sanitaria, dell’istruzione, dello shopping, dell’intrattenimento e della cultura possano davvero essere tutti raggiungibili entro 15 minuti da casa propria a piedi o in bicicletta. E quale luogo di cultura prossimo e vicino lo è più di una biblioteca?

Identità Tra coloro che si dichiarano frequentatori, una buona parte, oltre il 35%, sottolinea che la biblioteca è certamente luogo del libro e della cultura ma è soprattutto il simbolo, l’elemento identitario, il punto di riferimento della città.

Mancanza Alle considerazioni riguardanti lo spirito identitario di una biblioteca, si aggiunge la reazione degli intervistati alla domanda su quanto abbiano influito le recenti chiusure parziali o totali delle biblioteche. Dando un valore alla sensazione di ‘mancanza’, in una scala da 1 a 10, più del 30% delle persone ha espresso il massimo livello, 10 su 10, per un altro 25% il valore è 8 su 10.

Familiare Le donne della fascia di età 35-44 anni, in particolare, hanno dichiarato di frequentare la biblioteca anche per portarci i propri bambini, riconoscendo così un canale di arricchimento culturale sia per se stesse sia per la famiglia.

In definitiva l’indagine La biblioteca per te, tuttora in fase di elaborazione soprattutto in un’ottica di progettualità futura, pone in evidenza i due elementi costitutivi che caratterizzano la biblioteca pubblica, così come sono recepiti dagli utenti. La sostenibilità e il welfare culturale, due componenti che, insieme, connotano un luogo di relazioni tra le persone tale da contribuire al benessere e alla qualità della vita.

Alla domanda “Cosa è per te la tua biblioteca?” riportiamo di seguito alcune tra le più significative risposte:

R – È il motivo per cui, anni fa, scelsi di lasciare il mio paesino del Sud Italia (privo di biblioteche) per trasferirmi in una grande città (dove le biblioteche funzionano). È un’opportunità, per me e per le mie bambine. (Donna, 35-44 anni, Roma)

R – È il luogo che mi permette di soddisfare i miei interessi con la lettura, aumentare la mia cultura personale ed occupare positivamente il mio tempo libero, gratuitamente e quando voglio (Donna, 35-44 anni, Asti)

R – Uno dei luoghi centrali della vitalità della città (Uomo, 65-74 anni, Torino)

R – Asse dinamico di identità e crescita personale senza sosta, stimolo per sviluppo relazionale extraindividuale cosciente e motivato, nutrimento senza fine della mente (Donna, 65-74 anni, Vicenza)

R – Un contenitore ricco di emozioni (Uomo, 15-17 anni, Milano)

R – Confesso che mi divido tra due biblioteche, quella sul luogo di lavoro e quella nella città in cui vivo, entrambe sono un punto fermo della mia vita, sono luogo di incontro e di scoperta, sono anche luogo di silenzio e viaggio dentro me stessa o nel mondo attraverso i libri. In generale sono luoghi in grado di regalare benessere (Donna, 35-44 anni, Torino)

R – Pura vita!!! (Donna, 35-44 anni, Bergamo)

R – È il luogo dove mio padre mi ha condotto da bambina, il paese dei balocchi, dove potevo guardare e scegliere quello che volevo, senza troppi controlli, in un tempo in cui comprare libri era appannaggio di pochi, almeno nel mio entourage. Oggi, che posso acquistare i libri che voglio, la biblioteca per me rappresenta il luogo privilegiato dove lasciarmi catturare dai libri.  È il luogo dove si riunisce il mio GDL all’interno del quale trovo momenti di condivisione, culturalmente stimolanti, incontri che soddisfano il mio desiderio segreto di ragazza, lettrice solitaria con grande desiderio di condivisione e confronto (Donna, 65-74 anni, Pescara)

R – Un’agenzia di viaggi unica nel suo genere. Da la possibilità di viaggiare nello spazio e nel tempo con i libri. È essenziale per me. (Uomo, 18-24 anni, Pistoia)

R – Un posto dove stare bene con me stesso, dove il tempo scorre lento e posso concentrarmi totalmente su una attività di studio o lavoro. Il luogo dove si respira cultura e si sogna un futuro migliore. (Uomo, 25-34 anni, Roma)

Rete delle Reti è un progetto nazionale di cooperazione tra sistemi bibliotecari. Include attualmente 32 Sistemi in tutta Italia, per un totale di oltre un migliaio di biblioteche. Insieme dispongono di un patrimonio – cartaceo e digitale – di oltre dieci milioni di documenti. Dal nord al sud, sono 934 i Comuni rappresentati, sette le Regioni – Calabria, Lazio, Lombardia, Marche, Piemonte, Toscana e Veneto – e un bacino di utenza di 11 milioni e 200mila abitanti. Info su https://retedellereti.dgline.it/

Parole a capo
Roberto Paltrinieri: “Ci vediamo tra vent’anni” e altre poesie

“Le poesie sono pensieri che respirano e parole che bruciano.”
(Thomas Gray)

NON SAREMO MAI PIU’ FELICI DI COSI’

Non saremo mai più felici di così
Scusa papà
non avevo capito
Io vedevo solo
una tavola con noi tutt’intorno
per il pranzo
noi bimbi
tu e la mamma
come sempre indaffarata
a preparare i piatti
nel sole della nostra Domenica
Scusa papà ma non avevo capito
Avevi detto quella frase a noi?
Alla mamma ?
Non saremo mai più felici di così…
Ricordo che alzai gli occhi
dal piatto
Ti guardai
Per un attimo infinito
non eri più lì
Scusa papà
ma adesso
solo adesso
ho capito

 

GOCCE

Sei appena uscita

Ho ancora addosso
il tuo profumo
di mille parole
scivolate fresche
su di me
come gocce di pioggia leggera
su spalle accaldate.
Lo trattengo
nel mio respiro
per confondere
un cielo gonfio
senza sole
ancora grigio
quasi geloso
della nostra felicità.

 

ALLA FINE DEL BALLO
(OGGETTI SMARRITI)

Ho ballato
con te
fino a mezzanotte
su un filo di lana
vestita di sole
Non sei cambiato
mi hanno cambiata
lo sai.
Mi hai riportato
la mia scarpina
ma è il cuore
che ho di vetro

 

CI VEDIAMO TRA VENTI ANNI

 Mi hai chiamato
Ci vediamo tra venti anni
mi hai detto
salutandomi con la mano
Mi sono girato
e non eri più accanto a me
Ti ho sentito
nel vento che scompiglia i capelli
nelle calde notti d’estate
nelle parole sincere
Chiedo di te
con la tua foto nelle mani
Mi hanno detto
che non sei più la stessa
che sei cambiata
che mi hai dimenticato
Non ci credo
continuerò a cercarti
Se mi vedi prima tu
sorridi piano

Roberto Paltrinieri (1958), docente di scuola superiore a Ferrara, collabora con Ferraraitalia scrivendo articoli di ordine filosofico-sociale, racconti e poesie.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Vite di carta /
Sullo scrivere di sé: Teresa Ciabatti “Sembrava bellezza”

Vite di carta. Sullo scrivere di sé: Teresa Ciabatti “Sembrava bellezza”

Ho letto anche Sembrava bellezza. Nello scorso numero dicevo di avere scoperto Teresa Ciabatti, autrice di una autobiografia che ho trovato coinvolgente, La più amata, uscita nel 2017.

Svelo subito perché anche questo secondo libro mi ha attratta: perché “è scritto meravigliosamente”. Tra virgolette metto le parole che ha scelto Michela Murgia per presentarlo insieme a Chiara Valerio in un incontro a cui ha partecipato l’autrice. Tutto si può rivedere su Youtube digitando ‘Teresa Ciabatti’, peggiorata in Ciaby dal diminutivo usato durante l’intervista: l’unica nota stonata di una conversazione a tre per me divorante. Sulla femminilità e sull’essere donna, sulla adolescenza come tempo supremo della inadeguatezza, sul valore del corpo, sul rapporto tra bellezza e percezione della bellezza (la propria, soprattutto).

Tre figure di donna occupano anche il centro del romanzo: la narratrice e la sua amica storica Federica si ritrovano quando hanno quasi cinquant’anni, si aggiunge a loro la sorella di Federica, Livia, che è stata la più bella ragazza del liceo quando erano adolescenti, ma a diciassette anni ha subito un grave incidente che le ha procurato un ritardo mentale. Le altre due nell’adolescenza non sapevano riconoscersi belle e ora che sono cresciute e sono diventate madri, una di loro anche  famosa come scrittrice, rinsaldano la loro amicizia con una solidarietà tutta nuova.

È la narratrice a scavare nel passato suo e delle altre e a dare di sé un’immagine di acuto spaesamento: “Metto in scena la proiezione più bassa di me e scrivendo dipingo la mia adolescenza come l’età della sofferta percezione di me; ero la brutta e inadeguata ragazzina venuta a Roma dalla provincia che nessuno dei compagni di scuola ha mai voluto degnare di considerazione”. Le parole sono più o meno queste, ho messo io “dipingo” per riprendere un’altra osservazione di Murgia: se questo libro fosse un quadro sarebbe un quadro dell’impressionismo, tutto pennellate pesanti che ritraggono con frasi fulminee la percezione che della realtà ha la narratrice.

E io che percezione ho avuto del valore di un romanzo come questo? Un romanzo che si pone in continuità con La più amata e torna insistentemente su come si è da adolescenti, sulla insoddisfazione verso il nostro corpo. Sulla figura dei genitori che ci hanno fatto violenza in qualche modo mentre ci facevano crescere; sulle ferite che ci hanno inferto i compagni di scuola con la loro indifferenza spietata. Su quest’ultimo aspetto merita di essere letto il bel romanzo autobiografico di Diego Marani, Il compagno di scuola, ambientato negli anni Settanta tra la campagna di Tresigallo e il Liceo Classico di Ferrara.

Ci penso da parecchi giorni e di proposito ho centellinato la lettura delle ultime pagine di Sembrava bellezza per lasciar sedimentare la mia reazione di lettrice. Poi stando al mercato del mio paese lo scorso mercoledì ho fatto chiarezza: c’era una bella luce nella piazza e le bancarelle di ogni tipo tornavano a occupare le consuete postazioni. Soprattutto i capi primaverili messi in mostra sprigionavano colori nuovi, tinte pastello per lo più. Ho incontrato amici e conoscenti e ho scambiato più chiacchiere del solito, in cerca di un piccolo risarcimento emotivo dopo le restrizioni dovute al Covid, che ci hanno tenuti in casa per alcune settimane. Nel resto della giornata ho ripensato a come è stato piacevole ritrovare la socialità paesana.

Ho fatto l’appello delle persone incontrate con la loro sana psicologia e ho preso via via le distanze dalla personalità di Ciabatti, o dalla narratrice che senza avere nome è il suo alter ego dentro al romanzo. Quella che dice solo e sempre ‘io’, si guarda nel presente e poi si volta indietro a recuperare l’adolescenza e ne riassapora il tormento, senza superarla mai. Senza fare sintesi tra le fasi della propria vita: ora che è una scrittrice e una giornalista di fama non si sente risarcita e non sa guardare avanti; ora che la figlia è adulta non si perdona di essere stata una cattiva madre e torna ciclicamente ad accusarsi. Non mi trova d’accordo ciò che ha detto Chiara Valerio, che la conoscenza è una forma di perdono; almeno non mi pare che questo accada nel libro.

Dopo averla vista su Youtube conosco il volto dell’autrice e allora mi domando come possano i suoi lineamenti tanto regolari e una gestualità così gradevole racchiudere il tarlo della incompiutezza come persona, come donna. Ha detto alle sue interlocutrici di essere più avanti rispetto ai personaggi che mette nei romanzi e di voler scrivere sulla mancanza di reciprocità tra sé e gli altri, sulla esclusione che l’ha ferita negli anni del liceo. Per me lettrice una ragione di più per tenere separate autrice da una parte e narratrice-protagonista dall’altro. Eppure ci sono cascata e confesso che anche ora se ripenso al libro tendo a sovrapporle. Anche perché a una certo punto dell’intervista lei dice: “La adolescenza la odio e meno male che ora è lontana”.

Per ristabilire un patto chiaro con entrambe mi serve che Ciabatti scriva altri romanzi. Storie che vadano oltre l’autobiografia. Occorre che lei rinunci a provocare i lettori con questa ambiguità di ruoli e si travesta magari da narratore di genere maschile, di un’età diversa, che ambienti la nuova storia in un’epoca lontana. Mi occorre che si stacchi da sé stessa e dalla narratrice che è stata.

Intanto tutte le persone incontrate stamattina mi riportano a queste giornate che viviamo. C’è una ferita collettiva che taglia la carne del mondo, ci attraversa una paura ancestrale per la nostra salute e per quella dei nostri cari. La nota stonata in questa scrittura insistita sul sé, in questo scavo alla ricerca dei traumi subiti nella adolescenza è che rasenta il solipsismo. La trovo fuori tempo come proposta culturale. Però mi convince e mi avvince in quanto scrittura sincopata e sincera fino alle estreme conseguenze espressive; mi piacciono le frasi brevi che denudano persone e cose, mentre le inondano di una luce bianca come sotto interrogatorio.

Alla fine torno a ciò che ho detto nel mio incipit, a ciò che ha detto Michela Murgia: “Questa scrittura vale tutto il libro”.

Nell’articolo faccio riferimento ai seguenti romanzi:
– Diego Marani, Il compagno di scuola, Bompiani, 2005
– Teresa Ciabatti, Sembrava bellezza, Mondadori, 2021 (finalista al Premio Strega 2021)

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari della rubrica di Roberta Barbieri clicca [Qui]

FANTASMI
Ghostbook o I fantasmi della Rete

 

C’è un posto che pullula davvero di fantasmi, ma non è un maniero spettrale in una landa mitteleuropea. Non è neanche Al-Qarafa, nel cuore del Cairo. È Facebook.
Infatti, molti milioni di profili attivi nella sfera virtuale di Facebook corrispondono ormai a persone defunte in quella reale. Si tratta, evidentemente, di un effetto indesiderato della combinazione di due fattori: l’enormità del numero dei fruitori del network e la persistenza della sua popolarità, ragguardevole se rapportata alla volubilità dell’epoca.

A oltre quindici anni dalla sua nascita, e benché ormai démodé soprattutto tra i più giovani, Facebook conta infatti circa due miliardi e mezzo di utenti in tutto il mondo. I dati quantitativi più attendibili sull’ordine di grandezza percentuale del fenomeno dei profili fantasma sono stati elaborati già alcuni anni fa in una ricerca promossa dall’Università di Oxford, il che già di per sé sottolinea il rilievo del fenomeno.
Tale ricerca aveva dimostrato che il numero dei defunti su Facebook cresceva al ritmo di circa ottomila al giorno, ma ormai questa stima è da considerarsi insufficiente. In ogni caso, prima della fine del XXI secolo i fantasmi su Facebook saranno miliardi e il loro numero avrà superato quello dei viventi.

Di fronte alle insidie di questa prospettiva, il social ha tentato di mettere in campo delle specifiche strategie. Sono nate, infatti, le ‘pagine commemorative’, e da tempo agli utenti è data – anzi: suggerita – la possibilità di nominare un curatore che possa, a suo tempo, occuparsi della trasformazione del profilo del caro estinto in quella direzione.
Al momento, tuttavia, questa possibilità non sembra incontrare particolarmente il gradimento degli utenti. È ancora molto difficile, girovagando per Facebook, imbattersi in una qualsiasi di queste pagine.
Potrebbe certo trattarsi di un disinteresse provvisorio, dovuto al fatto che la pratica non si è ancora diffusa e non è entrata nella consapevolezza dei fruitori.

Tuttavia, vogliamo qui prendere in considerazione un’ipotesi diversa, secondo la quale tale renitenza potrebbe derivare da qualcosa di più essenziale, qualcosa di connaturato all’essenza stessa di Facebook.
Bisogna, intanto, cominciare a notare che il tentativo di demarcazione dei vivi dai morti nel milieu di Facebook appare piuttosto debole: non vi è infatti, almeno per il momento, alcuna separazione rigida – come quella fondativa dello spazio urbano contemporaneo stabilita a Saint Cloud – tra lo spazio dei vivi e quello dei trapassati.
Profili normali e pagine commemorative non sono, infatti, divisi da alcun confine virtuale, sì che i morti – anche quando distinti dall’etichetta ‘in memoria’ – popolano la stessa sfera dei vivi e circolano lungo le medesime arterie virtuali.

È ampiamente dimostrato dall’esperienza che gli architetti di Facebook sanno quel che fanno, sì che dietro una scelta come questa si presume vi siano ragioni pregnanti.
Ma quali? L’ipotesi che qui tentiamo di argomentare è la seguente: la pagina di Facebook è, per essenza, un luogo nel quale la differenza reale tra vivo e defunto tende a livellarsi, non certo a strutturarsi.
Una prima indicazione in questa direzione, forse, ce la può fornire quel che succede sui profili dei nostri contatti purtroppo non più in vita.

Per quanto riguarda i miei, nessun profilo è stato ‘volturato’ in commemorativo (e io stesso non ho nemmeno considerato questa possibilità). In alcuni, la situazione si è di fatto congelata con la scomparsa dell’intestatario, ma è interessante che, in tale blocco, siano rimaste attive tutte le ‘amicizie’, come se la rete social alimentasse i suoi nodi a prescindere dal predicato dell’esistenza in vita.
Negli altri, questo alimentazione si manifesta in modo ancora più pregnante: i profili continuano, nell’ovvio silenzio dell’intestatario, a essere frequentati negli anni. Oltre agli auguri di compleanno (una funzione di Facebook sulla quale torneremo tra non molto), gli amici usano la bacheca del defunto per inviargli delle comunicazioni colloquiali, in genere ovviamente affettuose, come se il post fosse una finestra medianica – priva tuttavia di qualunque risvolto parapsicologico – attraverso la quale contattare ordinariamente chi non c’è più.
Infatti, se si capita per caso su una delle pagine di cui poco sopra, il più delle volte non è affatto immediato rendersi conto che l’intestatario è trapassato, e anzi bisogna farsi strada verso questa verità decifrando il senso dei vari post.
Insomma, nello spazio abitativo di Facebook, la discriminazione del vivo dal defunto non è affatto un’operazione intuitiva; al contrario, essa richiede un’attivazione ermeneutica che trova degli analoghi solo nella dimensione letteraria e cinematografica, ad esempio in pellicole come Sixth Sense e Una pura formalità.

Ed eccoci alla domanda decisiva: perché accade questo? Perché nella dimensione di Facebook la differenza di vivente e defunto tende, essenzialmente, a livellarsi?
C’è una risposta abbastanza scontata, ma non per questo superficiale: proprio perché siamo in un mondo nel quale la morte viene il più possibile occultata, si procede alla sua abolizione là dove possibile, ovvero nella sfera disincarnata della rete.
Tuttavia, vorremmo qui avanzare un’ulteriore e diversa ipotesi: e se il problema fosse rovesciato? Se la matrice immaginativa di Facebook non fosse la polis dei vivi, ma il cimitero? Se, in essenza, non fossero i defunti gli intrusi, bensì i vivi accorsi ad abitare una dimensione strutturalmente funebre?

Non credo si possa qui dare una risposta definitiva alla questione, ma se ne può senz’altro saggiare la consistenza attraverso una collezione di indizi.
Facebook è un libro di facce: un’impaginazione di fotografie di volti con sottostante il relativo nome (anche se poi è lecito divagare). Da qualche anno, poi, si è sentita l’esigenza di aggiungere una ‘immagine di copertina’, ovvero uno sfondo orizzontale rettangolare che incornicia e dà risalto alla foto. Tutto questo non riflette esattamente il canone formale della lapide? Provate a guardare un qualsiasi profilo alla luce di questa analogia e poi ditemi se non è inquietante.
D’altra parte, l’invenzione del dagherrotipo è di pochi anni successiva proprio all’editto di Saint Cloud. Non sarà che da questo incontro predestinato è nata una nuova matrice identitaria della quale oggi vediamo dispiegarsi gli effetti planetari?

Continuando nelle analogie, Facebook offre poi l’opzione ‘Aggiungi una biografia‘. Chi la utilizza, crea una finestra di testo che s’impagina proprio sotto il nome, ai piedi del blocco immagine di copertina-foto. Ora, personalmente non ho mai visto questa funzione utilizzata davvero in chiave biografica. Perlopiù, le persone inseriscono una frase evocativa, o allusiva, o anche una citazione, in calce alla lapide. Insomma, “Aggiungi un epitaffio”.

E cosa dire di quando fai una ricerca per nome e cognome, magari nel tentativo di ritrovare qualcuno del quale non hai notizie da tempo? Ecco che tutti gli omonimi ti appaiono con la rispettiva foto e il nome uno sopra l’altro, proprio come in una delle file verticali di loculi sovrapposti caratteristiche dei contemporanei condomini cimiteriali.

Parliamo infine, come anticipato, dei compleanni. Per chi abita un po’ su Facebook, è prassi considerare le notifiche quotidiane dei compleanni dei propri contatti, decidendo di volta in volta presso quali manifestarsi con formule augurali. È anche prassi dedicare una certa parte del proprio compleanno a considerare gli auguri ricevuti e ad articolare una qualche risposta.
Ebbene, in questa seconda incombenza l’insieme degli auguranti appare sempre un po’ incongruo: arrivano auguri, a volte anche pensati, da contatti dai quali mai ce li saremmo aspettati, e al contrario fanno difetto quelli attesi da altri in teoria più ravvicinati.
In breve, la compagine augurante che si raduna su Facebook lo fa in risposta a un annuncio pubblico – la notifica – e in base a una serie di variabili piuttosto eterogenee: gli impegni di giornata, la propensione a presenziare, il tempo libero, la permeabilità alle informazioni, e così via.

Queste, però, non sono le variabili in base alle quali si partecipa a una riunione di compleanno nella vita reale. Sembrano, piuttosto, quelle che regolano l’affluenza ai funerali, nei quali le frasi certamente più bisbigliate sono: “Certo che X sarebbe dovuto venire…”; “Ma che ci fa qui Y? Si conoscevano?”.

Ecco, dunque, che le analogie paiono molteplici e, soprattutto, dense quasi come le omologie.
Facebook si avvia a diventare, se sopravviverà abbastanza a lungo, il più grande cimitero della storia, e questo è un fatto. Ma è solo un’ipotesi che quel fatto non farebbe altro che amplificare la forma, l’eidos, che lo ha caratterizzato fin dall’origine?
Se non lo è, sarà allora il caso di domandarsi: A egregie cose il forte animo accendono i libri di facce? Peccato solo che Pindemonte non sia online.

DOMICILIARE È MEGLIO:
è possibile una terapia anticovid più sostenibile?

 

La notizia è passata in secondo piano, ma lo scorso 8 aprile il Senato ha approvato una mozione all’unanimità (212 favorevoli, 2 astenuti, 2 contrari) che chiede al Governo di sostenere il protocollo delle cure domiciliari antiCovid. Quel protocollo che aveva sperimentato con successo (e proposto) Luigi Cavanna, primario di oncologia a Piacenza, sin dal marzo 2020 (13 mesi fa).
Nessuno può restituirci le vite, ma finalmente si prende atto che abbiamo sbagliato a seguire l’unica via “ospedale-terapie intensive”, mentre bisognava sin dall’inizio usare la medicina territoriale, andando a casa dei pazienti, curandoli subito con ecografo portatile, saturimetro e farmaci antinfiammatori, antibiotici, eparina e cortisonici (come faceva Cavanna). Oggi, solo oggi, anche il Senato ritiene queste cure appropriate ed efficaci.

Ciò dovrebbe dare un impulso a quella ricostruzione della medicina territoriale (smantellata negli ultimi 30 anni) che costa meno, evita di intasare gli ospedali ma soprattutto cura meglio “sull’uscio di casa” ed è più umana.

In una intervista di Alessandro Barbano per conto dell’Huffington Post  [Vedi qui]  il primario di Piacenza, Luigi Cavanna, pioniere delle cure precoci a domicilio, spiega come “aspettare il virus barricati dentro un ospedale non ha funzionato” ed è forse questa la principale causa dell’altissima mortalità italiana (13% in più di quella brasiliana, dove non c’è una sanità pubblica efficace ed equamente distribuita).

Avremmo dovuto curare a casa con farmaci tradizionali, come ha fatto Cavanna sin dal marzo dell’anno scorso?
Un dubbio legittimo che però non è mai stato preso seriamente in esame dal Ministero della Salute e dal relativo Comitato Tecnico Scientifico (CTS) che hanno preferito tenere in considerazione solo la strada della grande ricerca scientifica mondiale. Una posizione difficilmente criticabile sul piano socio-politico e che dava certo maggiori sicurezze nell’inevitabile confronto internazionale e con l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).
In sostanza le linee guida di Ministero e CTS si sono basate su studi completi di fase 3 pubblicati su riviste scientifiche (il livello più accurato di validità riconosciuta) e hanno tralasciato per scelta strategica quelle esperienze cliniche pratiche che, pur di nicchia, erano promettenti. Oltre a Cavanna, dal marzo dello scorso anno  si erano mobilitati centinaia di medici (assieme a un gruppo Facebook di oltre 300mila iscritti) con uno schema terapeutico apprezzato in molti paesi esteri, veicolato anche da IppocrateOrg (che operava a Mauritius e poi in Madagascar e ora in 30 paesi nel mondo) con uno schema terapeutico che veniva sempre più apprezzato in molti paesi esteri (India,…) e che solo oggi è finalmente al vaglio del Ministero della Salute e che contestava le linee guida ufficiali “tachipirina e vigile attesa”. Pare infatti che sia soprattutto l’attesa che favorisce la replicazione del virus (come ha scoperto l’Istituto Negri) e che l’efficacia delle cure dipende dalla loro precocità (nei primi 7 giorni). Che vuol dire: ai primi sintomi si deve curare anche senza aspettare il tampone.

Come mai invece il CTS ha seguito un’altra via? Le ragioni sono legate al fatto che il meccanismo di validazione scientifica procede attraverso passi universalmente accettati (studi di fase 3 e pubblicazione su riviste scientifiche) ma che recentemente sono stati oggetto di critica in quanto non più al passo con i tempi. La peer review (validazione tra par)i è considerata lo strumento fondamentale per garantire la qualità dell’informazione scientifica.
Eppure, da oltre 25 anni viene messa in discussione non soltanto la capacità di questo strumento di filtrare in modo efficace la produzione scientifica, ma anche l’etica di un percorso che può ritardare la condivisione di risultati importanti, penalizzare la veraa spillo, nnovazione o i ricercatori realmente capaci di pensare fuori dagli schemi. Uno strumento in crisi, dunque, ma di cui non si riesce a fare a meno e di cui gli esperti dei comitati scientifici hanno dovuto/voluto tenere conto.
È possibile immaginare dei correttivi? È possibile pensare che singole scoperte possano avvenire al di fuori di questo sistema? Sono molte le associazioni scientifiche che da tempo si interrogano sui modi per ripensare la revisione critica di valutazione e non dover sempre accogliere (con gravi ritardi) le esperienze di successo in cui singoli (o minoranze) hanno avuto il coraggio (e la competenza) di ‘derogare’ dalle regole facendolo però a proprio rischio e pericolo (anche di carriera) pur di innovare a vantaggio del bene comune.

Gioco forza, i Comitati Tecnico Scientifici nazionali e internazionali hanno finito, con declinazioni differenti, per tenere conto della strada maestra conosciuta e teoricamente inconfutabile che, tuttavia, ha finito con lo schiacciare e non riconoscere altre esperienze mediche, apparentemente eterodosse, che avevano avuto esiti positivi con poca spesa e che potevano determinare vantaggi e maggiore sostenibilità (e magari poco valutati nel processo di peer review).

Sul piano dei grandi numeri della pandemia e dei metodi terapeutici dei Paesi più ricchi, tecnologicamente avanzati e con un accesso al farmaco governato dalle grandi industrie farmaceutiche, questa posizione ufficiale (per quanto più ‘comoda’) si scontra però con la spesa sanitaria  e un accesso alla terapia intensiva minore: un problema di costi per i Paesi più ricchi e un problema di accesso per i Paesi più poveri. Un rilievo non piccolo se ci si pone la domanda: sarà possibile vaccinare tutte le persone del pianeta con un mezzo terapeutico costoso come il vaccino? Sarà possibile avere tanti letti di terapia intensiva (con tutto il know out che richiedono) quanti potrebbero essere i potenziali pazienti?

È chiaro che il sistema tampone ‘più ospedalizzazione, più terapia intensiva’ non è sostenibile a livello mondiale (ma neppure da noi) e la medicina deve trovare un sistema per rendere le cure sostenibili in tutto il mondo altrimenti il virus non sarà mai debellato a causa della sua mutabilità (si noti che nei paesi tecnologicamente avanzati già si parla già di tre-quattro cicli di vaccinazione e si rischia di continuare con cicli annuali ad libitum così come accade con l’influenza). Su questa strada il sistema sanitario anti covid rischia di implodere anche a causa di una risposta terapeutica elefantiaca.
È necessario quindi trovare altre vie di guarigione meno costose, meno tecnologicamente avanzate e più umanamente e socialmente compatibili. Ed è per questo che il protocollo “Cavanna” delle cure domiciliari potrebbe essere una grande svolta che giunge dopo le conferme della sua validità (da parte anche dell’Istituto Mario Negri e di altri studi nel mondo) basata su vecchi farmaci e su trattamenti a casa rispetto all’ospedalizzazione forzata. In futuro bisognerà quindi fare più attenzione a cure ‘eterodosse’ sul campo che si rivelano efficaci, (anche se minoritarie sul piano scientifico) e non sbrigativamente avversarle (com’è stato fatto per oltre un anno).

Se il Covid-19 fosse stato combattuto primariamente a casa e non in ospedale avremmo avuto risultati terapeutici migliori?
La legittimità della domanda nasce anche dagli oggettivi esiti di mortalità italiani avendo raggiunto il record mondiale (dopo il Belgio). Quando la pandemia è arrivata, eravamo certo disarmati (ora sappiamo anche senza piano pandemico) e cinesi e OMS ci hanno sviato con indicazioni generiche e spesso contraddittorie se non sbagliate.
In questa luce devono essere considerate le dichiarazioni del dott. Luigi Cavanna, riportate nell’articolo di Barbano prima citato, a proposito di un farmaco antico e poco costoso che ha dato risultati incoraggianti in applicazioni su piccola scala: “l’idrossiclorochina, che oggi si fa fatica anche a nominare, ma che era nelle linee guida della società italiana di malattie infettive tropicali, e alcuni antivirali già impiegati contro l’Aids, associati ad antibiotici (andavano bene, NdR). Timidamente cominciavano a somministrare l’eparina, ma solo per i pazienti allettati. Così abbiamo curato 330 persone a casa, ricoverandone meno di 20, due sole gravi e nessun morto. Poi sull’idrossiclorochina è caduta la scomunica di The Lancet a giugno e Oms e Aifa si sono adeguate”.

Barbano chiede come mai non è stato considerato chi, lavorando sul campo, aveva successo- E Cavanna risponde: “…considero gli interessi dell’industria decisivi per il futuro della ricerca…però so che la messa in commercio di un farmaco passa per uno studio randomizzato di fase tre e non esiste uno studio simile che non sia sponsorizzato dall’industria. E l’industria non ha un grande interesse a investire su una vecchia molecola antimalarica. Non a caso non esistono riscontri attendibili sull’uso precoce dell’idrossiclorochina. Aggiungo ai miei dubbi quelli del professor Antonio Cassone, ex direttore dell’Istituto Superiore di Sanità, uno che sa come vanno le cose: lui fa notare che le riviste più autorevoli non hanno pubblicano un solo report a favore dell’idrossiclorochina, ma lavori di basso livello (poi rivelatisi falsi che The Lancet ha cancellato, Ndr) che la demolivano. Questo per dire che la ricerca è sovrana, l’industria è utile, ma talvolta non sempre l’una e l’altra promuovono l’interesse generale”.
Poi Barbano chiede lumi sul plasma, prima elevato a terapia risolutiva, poi scartato senza un chiaro perché. Sentiamo la risposta di Cavanna: “Gli studi spontanei, opera di medici di buona volontà, non saranno mai così potenti da superare tutti i paletti richiesti per imporre una terapia. E nessuna industria che produca farmaci è interessata a investire sul plasma…attorno al tavolo (del Ministero e del CTS, Ndr) mancava chi cura i malati. La cosiddetta real world evidence, che in un’emergenza inedita e straordinaria vale più di uno studio randomizzato”.

Siamo di fronte ad un tema di una rilevanza che va ben oltre il lavoro dei sanitari e le strategie più appropriate per curare e ridurre la mortalità (in Italia “qualcosa è andato storto”), e che riguarda tutti i lavori di oggi che sono sempre più ‘proceduralizzati’ dai manuali della qualità (domani dall’Intelligenza Artificiale).  Esso mostra come nei casi in cui è necessario innovare o perché si è di fronte ad un problema ignoto (come nel caso del virus Covid-19) o perché semplicemente si vuole innovare/cambiare per migliorare, applicare le procedure previste dai manuali di qualità se, da un lato, garantisce contro eventuali reclami dei pazienti/clienti, d’altro lato rischia di “fare bene cose inutili” (nel caso delle terapie intensive anche dannosi).

Un problema che incontriamo tutti i giorni come lavoratori e/o clienti, che coinvolge tutti i processi di lavoro di società (le nostre) che dobbiamo ricostruire nel post-Covid, evitando proprio di creare con procedure sempre più formali (domani gestite da un algoritmo) più problemi di quelli che risolvono e facendo si che la “fatica del lavoro” si trasformi davvero in servizio al cliente, diventi umana e favorisca la ‘buona vita’ e non diventi una procedura anonima di cosiddetta qualità (di fatto contro il cliente e l’autonomia del lavoratore).

Le ricerche ‘sul campo’ (e le buone pratiche) dovrebbero essere considerate con maggiore attenzione proprio alla luce della loro sostenibilità e forse, se fossero state sin dall’inizio combinate con l’altro approccio (ospedalizzazione-vaccinazione), avrebbero costituito il vero baluardo alla mortalità da covid.
In ogni caso, esse potrebbero costituire, specie nelle aree del pianeta più povere e meno tecnologicamente avanzate, perché non esistono ospedali nè avanzate tecnologie, perché costano poco, la risposta più efficace (come già hanno dimostrato Mauritius, Madagascar, ecc.). E ciò potrebbe permettere anche ai vari sistemi sanitari di far fronte al dilagare di altre patologie oggi quasi dimenticate a causa dell’esplosione pandemica. Ma anche da noi…meglio tardi che mai.

ANCORA VIOLENZE CONTRO I NO TAV DELLA VAL SUSA.
La Lettera-Appello del Prof. Tartaglia del Politecnico di Torino

Angelo Tartaglia, professore di Fisica presso la Facoltà di Ingegneria del Politecnico di Torino, sta diffondendo questo messaggio dopo l’ultima violenta azione repressiva delle forze dell’ordine contro i manifestanti della Val Susa, liberi cittadini che esprimono il loro dissenso e trattati dalla stampa mainstream come criminali e terroristi. Chi è d’accordo con il suo appello, può confermare la sua adesione (firme singole o collettive) scrivendo a info@presidioeuropa.net

LETTERA – APPELLO

Un sentimento di indignazione

In questo momento vorrei esprimere un sentimento di indignazione. L’indignazione non è razionale, ma qualche volta non è evitabile.
C’è una parte del nostro paese (non del Kosovo o dell’Afghanistan) che è soggetta ad occupazione militare da parte di forze armate dello Stato (il nostro). Non si tratta di un santuario della criminalità organizzata, ma di una vallata alpina con i suoi comuni, cellule fondamentali, dice la Costituzione, dello Stato.

Avrete capito che mi riferisco alla valle di Susa.

Tutto questo avviene in quanto, in assenza di argomentazioni di merito, lo Stato sostituisce agli argomenti la forza: un classico, se non fosse che il nostro si definisce “stato democratico”. Con gli armigeri (a parte le fanterie ci sono anche cingolati, filo spinato e simili bazzecole) si vuole imporre un’opera la cui diseconomicità è platealmente conclamata (se n’è accorta anche la corte dei conti europea) e che dal punto di vista climatico è un vero e proprio crimine: gli effetti globali vanno in direzione opposta agli obiettivi nominalmente perseguiti dall’UE (e dallo stato italiano!). Tutto questo è facilmente sostenibile dati e conti alla mano.

Ma dati e conti (direi la realtà) in questa vicenda (come in altre) sono marginali. La ‘politica’ sostiene trasversalmente (inclusa un’ampia fetta del PD) lo scavo del supertunnel tra Italia e Francia o semplicemente schierandosi con l’interesse immediato delle grandi imprese che vorrebbero realizzarlo o a sostegno di un sistema ideologico che afferma e continuamente rilancia un’economia materialmente insostenibile e che produce ovunque (qui come altrove) disuguaglianze crescenti.

A uno stuolo di signore e signori che siedono nei consessi istituzionali (dal parlamento in giù) merito, argomenti e fatti non interessano più di tanto: ho avuto modo di verificarlo in un paio di audizioni svoltesi prima di Natale. In ‘politica’ ciò che conta è da che parte stai: problemi e fatti, sono marginali. E’ il trionfo dell’arroganza ignorante. Parlo dell’ignoranza di chi pretende di non aver bisogno di porsi delle domande e pretende a priori di conoscere le risposte senza bisogno di critica e di confronto.

 

 

 

Ecco la foto di una ragazza colpita in faccia da un lacrimogeno sparato (ovviamente ad altezza d’uomo o di donna) dalle valorose truppe coloniali inviate il 13 aprile scorso in Val Susa a superare ogni obiezione in merito a sostenibilità economica e ambientale.

“SAN DIDERO E’ SOTTO ASSEDIO”, recita il comunicato dell’Amministrazione Comunale di San Didero, uno dei Comuni della Val Susa [leggi il Comunicato]
Quale fiducia si pensa possa esserci, in queste condizioni, nello ‘Stato’? E a cosa si è ridotta la credibilità della ‘politica’?
Angelo Tartaglia
(seguono altre firme)

Cover: il progetto dell’autoporto di San Didero – Val Susa (TO)

ALBERI E FORESTE AL BIVIO:
biomasse per pochi o benefici ecosistemici per tutti?

 

La corsa alle biomasse forestali mette e rischio la biodiversità e la salute dei cittadini: non sono una fonte di energia rinnovabile e non devono ricevere incentivi pubblici. Alberi e foreste a un bivio: biomasse per pochi o benefici ecosistemici per tutti?

Convegno nazionale: Stop al taglio delle nostre foreste per produrre energia
Giovedì 22 aprile, dalle ore 14,00 alle 16,30 – Link Zoom al convegno[clicca Qui]

Roma – Green Impact e GUFI – Gruppo Unitario per le Foreste Italiane, le due organizzazioni italiane che aderiscono alla Forest Defenders Alliance – l’alleanza di oltre 100 ONG in 27 paesi – insieme a ISDE – Medici per l’Ambiente, Parents for Future e WWF Forlì – Cesena hanno organizzato un convegno nazionale contro l’utilizzo delle biomasse forestali per la produzione di energia elettrica, che si terrà giovedì 22 aprile in streaming su Zoom e sulle pagine Facebook delle associazioni organizzatrici. Al convegno aderiscono anche Greenpeace Italia, ProNatura Emilia Romagna, ProNatura Forlì, Centro Parchi Internazionale, SISM (Società Italiana Scienze della Montagna), SIRF (Società Italiana di Restauro Forestale), CISDAM (Centro Italiano Studi e Documentazione degli Abeti Mediterranei), GrIG (Gruppo d’Intervento Giuridico), Italia Nostra Toscana, Italia Nostra Abruzzo, OIB – Osservatorio Interdisciplinare sulla Bioeconomia e Simbiosi Magazine.

Le foreste sono già messe a rischio dagli incendi, dal disboscamento, dai cambiamenti climatici e dal sovra-sfruttamento. L’aumento dei tagli per sfamare la fame di legname delle centrali a biomasse forestali per la produzione di energia elettrica costituisce un’ulteriore minaccia per il nostro patrimonio forestale.
Un recente articolo pubblicato su “Nature” riporta un incremento del 49% della superficie forestale europea sottoposta a taglio e un incremento della perdita di biomassa del 69% in tutta Europa nel periodo 2016-2018 rispetto al quinquennio precedente. Il Wood Resource Balance (WRB) dell’Unione Europea (2018) mostra un incremento in Italia da 12 mila a 43 mila m3 tra il 2009 e il 2015, tra i primi cinque Stati dell’EU28. L’Italia è inoltre tra i maggiori importatori di “pellet”, per circa l’85% dei consumi, causando tagli boschivi e impatti sugli ecosistemi forestali anche fuori dal nostro Paese.
Questa tendenza è favorita dalle politiche, sia europee sia nazionali, di deduzioni fiscali e di incentivi che hanno incrementato l’uso delle biomasse legnose per riscaldamento e produzione energetica, promuovendolo come ecologico e rinnovabile nonostante le criticità in merito.

“L‘impiego delle biomasse legnose a scopo energetico è tutt’altro che neutrale rispetto alle emissioni di CO2 in atmosfera e contrasta con il perseguimento degli obiettivi di limitazione del riscaldamento globale”, dice Fabrizio Bulgarini di Green Impact. Le centrali a biomassa, nate per utilizzare i materiali di scarto, non possono in alcun modo ricevere gli alberi tagliati per essere ridotti in “pellet” e bruciati come biocombustibile.
Una posizione ribadita dalla scienza: a febbraio oltre 500 scienziati, anche italiani, hanno inviato una lettera a cinque leader politici mondiali (la Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen; il Presidente del Consiglio Europeo, Charles Michael; il Presidente degli Stati Uniti d’America, Joe Biden; il Primo Ministro del Giappone, Yoshihide Suga e il presidente della Corea del Sud, Moon Jae-in) per chiedere di arrestare l’utilizzo di biomassa legnosa di origine forestale per produrre energia su grande scala.

Le problematiche poste dalla produzione e dalla combustione delle biomasse forestali sono numerose:

  • la combustione di legno produce CO2 e compromette la capacità delle foreste di assorbirla.
  • La combustione di legno produce particolato: le polveri sottili PM 2,5 e PM 10.
  • I boschi italiani stanno aumentando di superficie, ma rimangono di bassa qualità: hanno i bassi livelli di biodiversità e una bassa provvigione, ovvero pochi metri cubi di legname per ettero. La produzione di biomassa legnosa porta a una gestione forestale con tagli ravvicinati negli anni;
  • La richiesta di combustibile legnoso ha causato l’importazione di legname ottenuto con metodi impattanti quando non illegali da molti paesi del mondo.

“Gli alberi”, dice Giovanni Damiani del GUFI, “sono più preziosi come componente viva degli ecosistemi che tagliati e utilizzati come combustibile”. Le foreste forniscono infatti numerosi benefici ecosistemici: di supporto come la formazione del suolo, la fotosintesi, il riciclo dei nutrienti; di approvvigionamento (cibo, acqua, legno, fibre…); di regolazione come la stabilizzazione del clima, l’assesto idrogeologico, la barriera alla diffusione di malattie, il riciclo dei rifiuti, la purificazione dell’aria e la qualità e quantità dell’acqua nei bacini idrografici; benefici culturali con i valori estetici, ricreativi, culturali, scientifici e spirituali. La gestione delle foreste deve considerare e garantire tutte queste funzioni.

Contatti:
Valentina Venturi – GUFI – Gruppo Unitario per le Foreste Italiane – 340 3386920 | press@gufitalia.it
www.gufitalia.it

LA CURVA DELLA FELICITÁ
una questione di fiducia?

 

La Pandemia ha limitato fortemente la libertà di tutti e ha generato un clima depressivo. L’impatto del virus sulle diverse generazioni è diverso. Il Covid-19 minaccia gli anziani più dei giovani: il rischio di morire per aver contratto il virus raddoppia ogni otto anni di vita.
Eppure in tutto il mondo, confrontando il periodo 2017-2019 con il 2020, la felicità degli ultrasessantenni risulta cresciuta.[1]

Nel Regno Unito, un paese che generalmente registra livelli alti di felicità, tutte le fasce d’età hanno fatto passi indietro. Come in altri paesi ricchi, prima della pandemia, la curva della felicità ha la classica forma ad U: le persone arrivano all’età adulta di buonumore, la situazione peggiora verso la mezza età, poi, passati i cinquant’anni, tornano ad essere più felici. Chi arriva ad un’età molto avanzata, però, ripiomba nella tristezza.
Oggi la felicità sembra crescere con l’aumentare dell’età. I giovani sono meno soddisfatti delle persone adulte, che lo sono meno di quelle anziane. L’ultimo anno non ha cambiato questo trend. Le videochiamate hanno permesso a molti anziani di mantenere e aumentare i contatti con i loro familiari. Le misure di confinamento hanno offerto agli anziani il piacere di sentire che la società faceva dei sacrifici per proteggerli.

Il Rapporto mondiale sulla felicità rileva che gli anziani si sentono più in salute che prima. Su scala globale, solo il 36 per cento dei maschi ultrasessantenni ha dichiarato di aver avuto problemi di salute nel 2020, rispetto a una media del 46 per cento nei tre anni precedenti. Tra le donne, la quota di persone con problemi di salute è scesa dal 51 al 42 per cento. Quale effetto può avere avuto il Covid? Si può ipotizzare che gli anziani si sentono più in salute perché hanno evitato una malattia che poteva essere letale.
I giovani, invece, hanno vissuto un anno difficile. Molti hanno perso il lavoro mentre crescono le difficoltà di trovarlo. Le donne giovani di paesi ricchi hanno trascorso un periodo molto difficile. Spesso i settori del terziario – in cui si concentrano – hanno dovuto chiudere. Le scuole chiuse le ha costrette ad occuparsi di più dei figli.  Anche i giovani hanno visto peggiorare la loro vita sociale.

I dati ci propongono però alcune stranezze interpretative. Se la felicità dei britannici è diminuita nel 2020, la Germania è salita dal quindicesimo al settimo posto nella classifica dei paesi più felici del mondo.
Un fatto sorprendente è che i paesi che si trovavano in testa alla classifica della felicità prima della pandemia ci sono rimasti. I primi tre nel 2020 sono stati Finlandia, Islanda e Danimarca, gli stessi del periodo 2017-2019. Tutti e tre hanno registrato una mortalità in eccesso inferiore alle 21 persone su centomila. L’Islanda ha addirittura un tasso negativo: ovviamente essere un’isola aiuta.

Una delle considerazioni più interessanti che emergono dal rapporto delle Nazioni Unite è che i legami tra pandemia e felicità funzionano in entrambi i sensi. Gli autori non arrivano a dire che la felicità aiuta le persone a resistere al covid-19, ma sostengono che c’è un fattore che rende più capace di affrontare le pandemie: la fiducia. Secondo i sondaggi di Gallup tra i paesi che hanno affrontato meglio il covid-19 ci sono i paesi nordici e la Nuova Zelanda, dov’è forte la fiducia nelle istituzioni e negli estranei.

Vari paesi hanno invece manifestato forti difficoltà nel contenere il Covid-19. Alcuni sono poveri, altri sono amministrati male, altri non hanno avuto esperienza di malattie come la Sars o non sono in grado di sorvegliare i loro confini. Una miscela d’individualismo e scarsa fiducia nelle istituzioni ha indotto talvolta a non insistere sulle quarantene e l’obbligo d’indossare la mascherina, almeno finché la situazione non è diventata disperata. Un altro fenomeno strano riguarda il calo della felicità dell’America Latina e l’aumento della felicità in Asia orientale. Come spiegarlo?
Un’ipotesi chiama in causa la distinzione tra una felicità alimentata dai rapporti sociali stretti piuttosto che da livelli alti di fiducia nella società. Come è noto i livelli di fiducia sono assai variegate nelle diverse società. Inoltre le culture locali hanno un peso. Ad esempio, nei paesi in cui i rapporti sociali sono molto stretti e le persone sono di norma molto socievoli, è difficile per la gente mantenere le distanze.

Il rompicapo sono gli Stati Uniti. Il paese ha affrontato male il Covid-19. Eppure il sondaggio Gallup rileva un leggero aumento del livello di felicità nel 2020. Una ricerca della University of Southern California mostra che lo stress mentale e l’ansia sono aumentati nel paese tra marzo e aprile del 2020, ma poi sono scesi. Due ondate successive d’infezioni e di morti sembrano non aver turbato troppo gli statunitensi. Molti Stati hanno imposto dei lockdown lacunosi, almeno per gli adulti. Questo potrebbe aver tenuto alto il morale generale. Diverse ricerche hanno rilevato che la prima ondata di restrizioni nella primavera del 2020 ha peggiorato molto l’umore delle donne.

[1] “The pandemic has changed the shape of global happiness” The Economist”, Regno Unito, 25 marzo 2021

Ddl Zan: il rischio di cancellare la parola donna

 

Genova – Sesso e genere non sono la stessa cosaÈ sul sesso delle donne che si è fondata la millenaria oppressione sui loro corpi. Le discriminazioni sugli omosessuali, sui transgender, sui disabili vanno condannate ma non al prezzo di cancellare il sesso di più della metà della popolazione mondiale.
Ancora oggi 140 milioni di bambine subiscono la cliterectomia e questo solo a causa di avere un certo sesso biologico e non certo per appartenenza a un genere. Qui non si tratta di non far passare il DDL Zan, ma semplicemente di emendarlo per non aprire a un confusionale “identità di genere e al self identification” (basta che mi sento donna per dirmi donna e viceversa) che sarebbe una mutilazione simbolica del nostro sesso con  conseguenze più che concrete, del tipo: uomini che si sentono donne che gareggiano nella categorie femminili – sta già avvenendo – o che chiedono di accedere alle prigioni femminili o nei centri antiviolenza delle donne (anche questo sta già avvenendo).

Una parlamentare norvegese è stata querelata perché ha affermato che “solo le donne partoriscono” (come se gli uomini potessero partorire?) e in Inghilterra le linee guida mediche impongono parole tipo “mestruatore” o persona che mestrua. Questo è il risultato di norme scritte in questi Paesi dove il genere precede il sesso e non il contrario.

L’articolo 3 della nostra Costituzione recita così: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Questo articolo contiene già tutto e davvero non comprendo perché l’onorevole Zan e la compagine che sostiene il suo progetto di legge, non voglia parlare di transessualità al posto del generico identità di genere.

Un cieco o uno senza gambe o un trans o un omosessuale è una persona come tutti ma non gli si dice che ha le gambe, o che ci vede o che è etero, o che è uomo o donna a prescindere dalla sua transizione, per farlo sentire uguale ai ‘normali’.
Chi è normale? Non ci sono persone non normali, ci sono le persone e tutte sono degne di amore e di rispetto; questo il nodo centrale attorno al quale ogni comunità dovrebbe unirsi, ma amore e rispetto passano attraverso la riconoscibilità e la nominazione di tutte le differenze, a partire da quella più grande quella dimoformica. Chiamare le cose con il loro nome è amore e lo diciamo da madri, insegnanti politiche (etc.).
È la prima cosa che s’insegna ai figli, ai bambini a scuola, ai piccoli di una comunità. Se non si fa questo lavoro di nominazione non si può educare (da educere, tirare fuori) al discernimento.

Va aggiunto che nel DDL Zan vanno inclusi dei fermo restando:
il divieto di surrogazione di maternità, condannare l’utero in affitto non è omofobia,
e l’impossibilità vigente al cambio di documenti per semplice arbitrio individuale: opporsi alla self identification non è transfobia!

Il grande paradosso in cui ci troviamo invischiate noi donne oggi, è che “siamo costrette a batterci perché la parola ‘donna’, strettamente legata al nostro sesso biologico, non venga cancellata in nome del diritto di tutti e tutte a non sentirsi discriminati». Parole della stessa Rowling.
Dovrebbe infine far riflettere che questo disegno di legge è stato scritto da un uomo che rifiuta qualsiasi confronto con noi femministe che da mesi (ancora prima della discussione alla camera) chiediamo di essere audite, il che ci riporta al più becero patriarcato: le donne hanno diritto di parola solo e quando la loro parola è asservita al potere ma gli viene negata se è critica.
Insomma una legge che vuole essere a tutela dei e delle cittadine contro ogni discriminazione ne crea una più grande: quella verso le sue cittadine!

david-armi

Zaki, Regeni, profughi libici:
ma quali Draghi, siamo straccivendoli.

 

Il ministro degli Esteri Di Maio, con la sobrietà che gli è propria, si intesta il merito del ritiro del contingente militare Nato (compreso quello italiano) dall’Afghanistan.
Lo stesso ministro degli Esteri, assieme al Governo di cui fa parte, non riesce a far uscire dal carcere egiziano non un contingente, ma un singolo studente trapiantato a Bologna, Patrick Zaki, detenuto da un anno e due mesi a forza di detenzioni preventive, per un’accusa priva di qualunque fondamento.
Mario Draghi, alla domanda su come il Governo si atteggi di fronte alla richiesta di concedere la cittadinanza onoraria a Zaki, se la cava pilatesco dicendo che è una “iniziativa parlamentare”.

Mario Draghi è lo stesso che, la settimana scorsa, in visita al nuovo premier libico, ha lodato il contributo della Libia nei “salvataggi in mare”. Cito cosa ha scritto Paolo Pezzati di Oxfam (una delle più famose Ong) a proposito di questi ‘salvataggi’: “6.700 persone sono morte in mare e almeno 55.000 sono state intercettate e riportate in Libia dalla cosiddetta Guardia Costiera, di cui quasi 12.000 nel 2020 e la cifra record di oltre 5.900 da inizio 2021. Uomini, donne e bambini finiti in quei centri di detenzione (e non di “accoglienza”, come li chiama l’ex ministro Marco Minniti) dove abusi e torture da anni sono sotto gli occhi dell’opinione pubblica mondiale”.

Mario Draghi, infine, è lo stesso che, ripetutamente richiesto di dire la sua sullo sgarbo che il premier turco Erdogan ha fatto a Ursula Von Der Leyen, facendola prima stare in piedi, poi seduta in posizione defilata e a debita distanza dai due statisti uomini (tra cui il presidente del Consiglio Europeo Michel), si è lasciato sfuggire che Erdogan è un dittatore, ma che bisogna trattarci perchè “ne abbiamo bisogno”.

Nessuno è così idealista, o stupido, da pensare che Mario Draghi debba proclamare ai quattro venti che in Libia e in Egitto i diritti umani sono calpestati dalle istituzioni al potere così, solo per il gusto di farsi dire “bravo” per un filotto di dichiarazioni politicamente corrette, dopo quella sulla Turchia.
Si sa che la diplomazia agisce, non parla. Infatti non si pretenderebbe che parlasse come se fosse il portavoce di Amnesty International: Amnesty può utilizzare solo l’arma della denuncia e della pressione mediatica per perseguire i propri obiettivi, uno stato sovrano invece (sedicente ottava potenza industriale del mondo) dovrebbe avere altri mezzi per persuadere i “dittatori con cui bisogna trattare”  che, appunto, è il caso di trattare non solo su quante armi gli vendiamo, ai dittatori, ma anche su come devono rispettare i diritti di libera opinione senza incarcerare o ammazzare i presunti “oppositori”, che spesso sono ricercatori e studenti formatisi alle nostre università, come Giulio Regeni e Patrick Zaki.

“Bisogna trovare l’equilibrio giusto”, afferma Draghi. Quale sarebbe l’equilibrio giusto da raggiungere nel caso di Zaki, nel caso Regeni, nel caso Libia? Vendere all’Egitto un’altra nave da guerra, la Fremm, frutto della coproduzione Fincantieri e Leonardo, ex Finmeccanica? (a proposito, sapete cosa fa adesso Marco Minniti, ex ministro degli Interni dei decreti sicurezza che lo hanno fatto lodare da Salvini e Meloni? Il responsabile della fondazione che fa capo a Leonardo). Quale sarebbe l’equilibrio giusto con la Libia? in nome della ripresa di grandi contratti di politica energetica, per la costruzione di grandi infrastrutture, chiamare le torture “salvataggi”? Far intercettare, come ha fatto la procura di Trapani, i giornalisti che facevano inchieste sul traffico di esseri umani in Libia (e non solo, si badi, i colloqui con indagati, ma anche tra i giornalisti e i loro avvocati)?

Per trovare soluzioni a problemi enormi bisogna spesso sporcarsi le mani, ne convengo. Sono tutti bravi a dividere la realtà in bianco e nero dalle pagine di un articolo, ne convengo. Però una domanda me la faccio: a cosa serve la politica? Se la politica non opera delle scelte che possano modificare uno stato di cose in senso nemmeno umanitario, ma umano, e si occupa solo (solo) di mettere le mani sulle grandi commesse, sacrificando totalmente sull’altare degli affari qualunque altro diritto umano, e lasciando che la violenza e il sopruso financo verso propri cittadini regnino indisturbati, a cosa serve?
A cosa serve la diplomazia?
La diplomazia non è la capacità di convincere con educazione dei dittatori sanguinari che devono essere meno cattivi. Non è mica questo. La diplomazia è la capacità di esercitare, con discrezione e fermezza, il peso delle proprie armi economiche per ottenere il rispetto dei diritti della persona. Invece noi, la realpolitik sembriamo interpretarla solo in maniera subalterna: siccome dobbiamo fare affari con loro, allora dobbiamo evitare di rompere i coglioni. Ma anche loro devono fare affari con noi, diamine. Possibile che la nostra diplomazia non riesca ad imporre mai alcune delle proprie condizioni alla conclusione di affari che si immaginano profittevoli anche per i dittatori?

Dispiace rilevare come anche sotto il premierato di un uomo che si è guadagnato una statura internazionale, come Draghi, la politica estera del nostro paese dimostri la statura di uno straccivendolo che cerca di convincere un cliente capriccioso e stronzo a comprare i suoi stracci.

mario_miegge

C’era una volta Magistero

 

Il libro Ibridi ferraresi continua a sollecitarmi ricordi, spero di interesse non solo personale.
Si sottolinea l’assenza dell’Università nella riflessione sui processi di trasformazione urbana e sociale che investono Ferrara dal dopoguerra agli anni Settanta.
“C’era il Magistero che era molto modesto” dice giustamente Varese. “Quasi tutte le persone che hanno lavorato come docenti al Magistero sono morte”, annota Scandurra. “Le persone che hanno fatto il Magistero sono morte: Miegge, Magri, Carabelli, Walker”, ribadisce la Zanotti. Bene ho fatto dunque a resistere alle proposte – mi hanno molto lusingato – di Miegge, per rendere più stabile la mia collaborazione di semplice ‘cultore della materia‘. Sulla costituzione ed i primi tempi di Magistero qualcosa, tuttavia, posso dire.

Gli enti locali non danno solo un magro contributo economico, pensano e rendono possibile la realizzazione. L’Università di Ferrara ha una lunga storia. È Università della casa d’Este, poi Università pontificia, quindi Università libera, retta da una commissione di nomina comunale. È divenuta statale dall’anno accademico 1942-43 con intitolazione a Italo Balbo: corsi di laurea in Giurisprudenza, Medicina e Chirurgia, Farmacia, Scienze Matematiche e Fisiche, Chimica, Scienze naturali e biennio di Ingegneria. L’interesse degli enti locali per l’Università, anche dopo la statizzazione, non è mai venuto meno. In particolare nel dopoguerra, su impulso del Comune capoluogo e della Provincia si costituisce il Consorzio fra Enti Pubblici Locali della Provincia di Ferrara per il potenziamento dell’Università degli Studi. Negli anni Sessanta è presieduto dal prof. Amleto Bassi e io ne divento segretario, succedendo al dr. Besini, segretario pure della Provincia, da tempo in pensione.

Il Presidente orienta con decisione l’attività del Consorzio a un unico scopo: realizzazione di una Facoltà che sia un contributo ‘umanistico’ nel quadro universitario presente, elemento di formazione e supporto all’attività educativa, stimolo e ricerca sui servizi pubblici in trasformazione. Magistero appare un obiettivo possibile e condiviso. Ricordo un colloquio, per me interessante e incoraggiante, avuto al riguardo con Luigi Amirante, forse allora preside della facoltà di Giurisprudenza, ma certamente il docente che mi ha fatto appassionare al diritto e alla storia. Ricostruendo le circostanze dell’incontro direi fosse il 1966. Anche dopo la laurea mi avviene di frequentarlo. Ci vediamo a Teatro, alle mostre d’arte. Mi incoraggia alla lettura di Nord Sud, a me nota dagli anni del Liceo, e mi suggerisce una rivista, che non conosco, Il Mulino.
Il mio ruolo nel Consorzio è stato di puro segretario-burocrate: verbali e bozze di convenzione. Bassi ha gestito direttamente i rapporti con Giorgio Spini, che ha dato l’impronta al Magistero.
Tra Spini e Miegge, giovane Preside, hanno realizzato un Magistero che, nelle condizioni date – nozze con i fichi secchi – ha fatto miracoli e si è subito posto come uno dei centri di cultura più vivi in città. “La convenzione istitutiva assegnava alla facoltà cinque cattedre: sette assistenti di ruolo e sette incarichi interni, cioè solo in parte retribuiti… abbiamo dovuto far funzionare cinque istituti e due corsi laurea”, ricorda Miegge. Le lauree sono in Materie letterarie e Pedagogia. E qui non posso non ricordare una straordinaria e vivente pedagogista: Egle Becchi. Quando lascia la facoltà rimangono gli assistenti Annalisa Pinter e Carlo Pancera, divenuti pienamente ferraresi. Ferrarese si è fatto pure Mario Miegge, come Sandro Cardinali e Marco Bertozzi, venuti al suo invito. Non ricordo se il Consorzio abbia con quella realizzazione esaurito la sua funzione. Certo io non me ne sono più interessato. Ho conosciuto Miegge appena giunto a Ferrara, ma non a Magistero, nell’impegno politico, che ho scoperto comune.
Magistero ho però cominciato a frequentare, fin dalle fasi iniziali, su richiesta di Alberto L’Abate, fiorentino, da me conosciuto nel piccolo tenace Movimento nonviolento promosso da Aldo Capitini. Incaricato di Sociologia dell’educazione mi chiede di collaborare. Opere generali di sociologia ho letto fin dal Liceo, su sollecitazione di Paolo Farneti, federalista, allievo di Bobbio, uno scienziato della politica. Sto per iniziare l’attività di assessore alla Pubblica Istruzione a Ferrara, dopo un’esperienza a Codigoro, nel basso ferrarese. Anche per questo accetto volentieri. Collaboro per una decina d’anni, sostituendo il professore in un suo anno sabbatico. Sono anni importanti per me e – mi dicono ancora allieve ed allievi di allora – non solo per me. Nuove amicizie – per restare solo ai primi incontri e non far torto ad altre che sono venute poi – come Carlo Carabelli, vecchie amicizie apparse sotto un diverso profilo, come Sandro Roveri, si spengono con la lontananza e la morte.
Sociologia dell’Educazione è il solo insegnamento di carattere sociologico. Perciò nei seminari largo spazio è dato alle metodologie: causale, strutturale, funzionale, processuale. L’Abate prospetta un modello in cui conflitto e cooperazione coesistono: “equilibrio instabile”.
– Ti ci sei troppo identificato – gli dico io, quando soffre di crisi di vertigine. Conduciamo seminari e ricerche multidisciplinari, soprattutto con Mario Miegge, filosofo e preside della facoltà, Egle Becchi, pedagogista straordinaria e Claudio Greppi, geografo e non solo. I temi sono soprattutto quelli dell’esclusione sociale. Ricordo i seminari di carattere metodologico o sull’esclusione nei suoi vari aspetti, sulla devianza, sulla riforma degli Ospedali Psichiatrici, sull’abbandono scolastico… Ricordo pure le ricerche sulla scuola dell’infanzia, materne e nidi, sulla trasformazione urbana, sulla nascita delle periferie…
Poi c’è tutto l’impegno per le 150 ore, all’Università. Un’attività aggiuntiva, volontaria, straordinaria, con l’esempio trascinante di Miegge e il rapporto con i Consigli di fabbrica. Per me è il coronamento delle iniziative diffuse nei quartieri, dedicate al recupero dell’obbligo scolastico e all’ottenimento del diploma di terza media. Qui siamo già nel ’72/’73. I lavoratori entrano nelle scuole e null’università e con i lavoratori parliamo nelle loro sedi. Ricordo una sera, su invito del Consiglio di fabbrica della Montedison, vado a un’assemblea dei lavoratori per illustrare le diverse iniziative in atto. Alla portineria mi dicono che non posso entrare. Dico di avere un appuntamento al quale non posso mancare e mi denuncino pure, come minacciano di fare. Un rappresentante del Consiglio, forse Barioni, arriva e rientro con lui. Non ho memoria dello svolgimento dell’assemblea. Mi resta solo il calore e l’attenzione. Calore e attenzione si sono spenti, non solo a Magistero. O forse, come spesso capita ai vecchi, ho bisogno ce ne sia di più per accorgermene.

Foto nel testo: Università di Ferrara, la facoltà dell’Ex Magistero, sede attuale della biblioteca della Facoltà di Lettere e Filosofia (foto di Valerio Pazzi)
In copertina: il professor Mario Miegge, preside di Magistero.

 

Ministero della Transizione o della Finzione Ecologica?
Una rete sociale diffusa scrive un piano alternativo

 

Finalmente  anche l’Italia si è dotata di un Ministero della Transizione Ecologica. Tutta una serie di fatti, però, mi fanno venire il dubbio se non siamo, invece, di fronte ad un Ministero della Finzione ecologica.
Intanto, qualche giorno fa, è arrivata l’approvazione della Valutazione di Impatto Ambientale per 11 nuovi pozzi per l’estrazione di idrocarburi, di cui ben 7 in Emilia-Romagna. Tempo addietro è stato deciso di prevedere una procedura semplificata per l’autorizzazione all’ipotizzato CCS di Ravenna, che dovrebbe diventare il più grande impianto di cattura e stoccaggio della CO2 in Europa, con cui ENI intende utilizzare i propri giacimenti di gas a largo della costa ravennate per immettervi la CO2 proveniente da processi industriali o dai suoi stessi impianti, prolungando così il ricorso alle fonti fossili, mentre, sempre a Ravenna, il Progetto Agnes, basato sulle rinnovabili, potrebbe entrare in funzione nel 2023, ma tale data rischia di andare più in là proprio per i lunghi tempi autorizzativi.
Forse qualcuno potrebbe pensare che sono elementi di dettaglio, tutt’ al più segnali inquietanti, ma circoscritti. Se, però, alziamo lo sguardo a ciò che si sta predisponendo sul Recovery Plan, e, segnatamente, sulla missione Rivoluzione verde e transizione ecologica”, le preoccupazioni aumentano ulteriormente. Su questo punto, il lavoro è ancora in corso, il governo Draghi sta rimettendo le mani all’elaborazione del precedente piano, ma, da quanto è dato conoscere, si sta andando in una direzione negativa, che sa molto di ‘greenwashing’ ed è poco attenta e utile per affrontare seriamente il problema del contrasto al cambiamento climatico e di un passaggio forte verso le energie rinnovabili e a un nuovo modello di produzione e consumo energetico.

Il materiale a disposizione è abbastanza complesso e lì non si esplicita una strategia chiara, al di là delle risorse significative a disposizione (circa 70 miliardi di €, che potrebbero persino lievitare attorno agli 80, su un totale di circa 220  miliardi dell’insieme del Recovery Plan). Ci ha pensato, però, qualche giorno fa, in un’intervista su Repubblica,  il neoministro alla Finzione ecologica Cingolani a chiarire il tutto [Vedi qui], sostenendo che la transizione energetica si appoggerà sull’utilizzo del gas, in ossequio ai piani dell’ENI, e che poi, con il 2050 si potrà pensare alla fusione nucleare.
Ora, una simile ipotesi significa allungare la vita all’utilizzo delle fonti fossili, com’è anche il gas, ritardare il passaggio alle energie rinnovabili e, soprattutto, non porsi il tema decisivo, che è quello di puntare all’ autoproduzione e al consumo distribuito consentito da queste ultime, superando un’opzione di sistema centralizzato e tendenzialmente autoritario, quello che deriva appunto dall’utilizzo delle energie fossili e del nucleare.
Né si può stare più tranquilli, esaminando, sempre all’interno della missione “Rivoluzione verde e transizione ecologica”, quanto previsto a proposito di tutela del territorio e della risorsa idrica. Qui, oltre alle poche risorse indicate (complessivamente  circa 15 miliardi, ma di cui 10 già previsti, per un saldo quindi di circa 5 miliardi, mentre si stima che solo per una serio Piano di contrasto al dissesto idrogeologico ce ne vorrebbero 26 nell’arco di diversi anni), viene riproposta, anzi rafforzata, un’idea di ‘riforma’ degli affidamenti del servizio idrico per favorire la completa privatizzazione dello stesso, in particolare nel Mezzogiorno, dopo che nel Centro Nord già la fanno da padrone le grandi multiutilities quotate in Borsa, IREN, A2A, HERA e ACEA. Sarebbe, proprio a dieci anni dai referendum sull’acqua, la definitiva certificazione dell’annullamento della volontà popolare, dopo che essa è stata già fortemente disattesa in questi anni.

Il quadro non è molto migliore nella nostra Regione
In Emilia Romagna, nel dicembre scorso, si è giunti alla definizione del Patto per il Lavoro e il Clima, sottoscritto, oltre che dalla Regione, da diversi altri soggetti, dalle Associazioni di impresa ai sindacati confederali, da Legambiente ai Comuni capoluogo e altri ancora.
Chi non l’ha sottoscritto è stata la Rete regionale per l’Emergenza Climatica e Ambientale (RECA), nata da circa un anno e che per la prima volta è riuscita a raggruppare in una visione comune 76 tra Associazioni e Comitati regionali e territoriali che intervengono, da vari punti di vista, sui temi del contrasto al cambiamento climatico, della conversione ecologica e della difesa dei Beni Comuni.
RECA ha deciso di non firmare perché quel Patto non rappresenta la svolta necessaria per mettere in campo politiche adeguate per affrontare proprio questi ultimi temi. Infatti, al di là degli obiettivi generali individuati – il passaggio alle energie rinnovabili al 100% in Regione entro il 2035 e l’azzeramento delle emissioni climalteranti entro il 2050 –  che possono essere condivisibili, in realtà nel Patto per il Lavoro e il Clima non sono definiti i tempi e gli interventi che dovrebbero portare alla loro realizzazione, né gli impegni da mettere in atto in questa direzione già in questa legislatura.
Di fatto, si continua a tacere, il che vuol dire continuare ad andare avanti lungo scelte che contraddicono quegli obiettivi, come il forte ricorso a grandi opere stradali e autostradali, il ricorso massiccio ad aree dedicate alla logistica senza affrontare la questione del consumo di suolo che ciò determina, il via libera al Centro di Cattura e Stoccaggio (CCS) di Ravenna.
Quest’ultimo progetto è una scelta sbagliata; il CCS è infatti basato su tecnologie costose e non ben verificate, di fatto alternativo al ricorso rapido alle fonti rinnovabili, un vero e proprio tentativo di mettere sotto la sabbia la CO2 emessa anziché evitare di produrla.
Ancora, non ci sono scelte convincenti e coraggiose su diversi punti: solo per esemplificare, non c’è cenno alla ripubblicizzazione del servizio idrico, proprio quando potenzialmente si apre questa possibilità a Bologna con la scadenza della concessione a Hera alla fine di quest’anno. Manca una politica che punti fortemente alla riduzione dei rifiuti prodotti e al loro riciclaggio, così come al superamento degli inceneritori, mentre non sono indicati forti investimenti sul trasporto pubblico e per la riduzione significativa del parco automobilistico privato.
Insomma, per tutto un’insieme di valutazioni, la Rete regionale per l’Emergenza Climatica e Ambientale ha deciso di scrivere il proprio “Patto per il clima e il lavoro” [per leggere il Patto di RECA clicca Qui], un piano alternativo a quello elaborato dalla Regione e sul quale si intende aprire un confronto vasto con le persone e nella società regionale.
Sono davvero tante le realtà e le intelligenze collettive che lavorano per disegnare una reale transizione e conversione ecologica, per la difesa e la valorizzazione dei Beni Comuni. sia a livello territoriale che nazionale: una prospettiva sempre più necessaria per il mondo che viene e che dobbiamo costruire.

PER CERTI VERSI
Tempo da lupi

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
[Qui]

TEMPO DA LUPI

I lupi
Se ne sono andati
Coi loro occhi
Smeraldi
Ci hanno
Ipnotizzati
Andati
In branco
Dispersi
Nell’infinito bianco
L’odio è rimasto
Verso le pecore
La paura
Pure
È rimasto il tempo
Dei lupi
Alto
Distinto
Greve
È rimasto solo lui
A profumare di neve

Racconto:
La camera dalle tende socchiuse

 

– Ecco mamma, ancora pochi metri e siamo arrivati…sei stanca?
– Beh sì, un po’…ma non importa…adesso siamo qui…finalmente!
La macchina si fermò vicino all’ingresso principale di un albergo proprio di fronte al mare.
Addossate alle pareti si potevano notare i tubi dei ponteggi, anzi nella parete più distante era già stato eretto un primo parapetto che era arrivato all’altezza delle finestre del primo piano.
– Finalmente siete arrivate!… – esclamò con gioia Lucia, la proprietaria dell’albergo, uscendo dalla porta di ingresso a braccia aperte in segno di saluto, avanzando verso di loro con un grande sorriso.
– Finalmente! – ripetè a voce più alta abbracciando entrambe le sue ospiti.
– Ma tu…tu devi essere Francesca! – disse rivolgendosi a quella più giovane – Francesca… ma come sei grande adesso! E allora come devo essere diventata vecchia io…
– Ma no, no – la interruppero insieme le due donne – ma cosa dici?
– Parli bene tu Lisa… da quando ti conosco sei sempre la stessa… vero Francesca?
– Certo! Mia mamma non invecchia mai!…
-Su, su, basta complimenti… Lucia… allora… non ci fai entrare?
– Ma certo… cioè veramente qui non si potrebbe più passare… è da lunedì che hanno aperto il cantiere… eh si cara… ci allarghiamo… non saremo più una piccola pensione di fronte al mare, ma un grande albergo quattro stelle con piscina!
– Ma dai! Bravissima ti sei decisa!… anche se lo sai che io…
– Si, si lo so… ecco perché ti ho chiamata subito, appena ho saputo dell’inizio dei lavori. Domani la tua vecchia camera non ci sarà più… inizieranno infatti a demolire l’altra ala dell’albergo e toccherà quindi anche alla camera numero sette… la vostra… ma non volevo che iniziassero prima che tu vi potessi entrare ancora per un’ultima volta…questo è il mio regalo per il tuo compleanno…vedi che me ne sono ricordata… Ma dai entriamo… al diavolo il responsabile della sicurezza e i suoi divieti: qui la padrona sono io!
– Mamma io intanto vado a cercare un meccanico… sai l’olio… la spia che si accende… ti ricordi?
– Certo cara… vai… vai pure… mi troverai qui… fai tutto quello che devi fare con calma… io sono in buona compagnia…

Lisa  insieme alla sua amica Lucia, la proprietaria di quel piccolo albergo di fronte al mare, dopo aver rimosso la sbarra di protezione entrarono in silenzio.
– Tutto come allora – pensò Lisa mentre a piccoli passi timorosi, quasi per non disturbare il passato, si accingeva a varcare la soglia di ingresso – i profumi, i colori, la luce…tutto come tanti anni fa
– Lucia mi devo sedere un attimo…
– Ma certo cara… aspetta… ecco… siedi qui… qui starai bene – disse l’amica portandole una poltroncina imbottita di velluto chiaro.
Lisa non riuscì ad ascoltare neppure le sue parole e si accomodò, sedendosi lentamente, senza staccare gli occhi da tutto quello che dopo tanto tempo le si ripresentava intorno.

– Non sei più voluta ritornare qui… perché Lisa?
– Si… è vero cara… sai quante volte ci ho pensato? Ma come potevo farlo? Qui ho conosciuto mio marito, il nostro amore è nato qui e qui siamo sempre tornati ogni anno, fino a che i bambini sono diventati grandi… e poi il lavoro… altri impegni… i nipotini… ma come vedi la vita che sembrava avermi fatto lasciare questo magico posto, ti fa poi ritornare… – rimase un attimo in silenzio.
– Mi manca sai – riprese – …anzi no… lui non mi manca… è sempre con me… sai cosa mi manca veramente?
– Cosa cara… dimmi.
– Mi manca non essere riuscita a comprendere…
– Cosa intendi, non capisco.
– Ma sì… perché è rimasto sempre con me?… non me lo ha mai detto veramente…
– Ma cosa dici?
– Lucia so tutto, l’ho sempre saputo…Ti amava Lucia lo so.
Lucia non disse nulla
– Non mi ha fatto mai mancare nulla, ci amavamo e tanto è vero, ma è come se in fondo al suo cuore ci fosse stato un posto dove io non potevo entrare e il motivo… eri tu!

Lucia ascoltava in silenzio le parole dell’amica e alla fine disse:
– Tra noi c’è stato solo un bacio devi credermi… solo…
– No… Lucia… tornavamo qui per te, perché voleva passare un po’ di tempo potendo stare anche in tua compagnia… io non mi sono opposta… non volevo costringerlo, speravo che col tempo tutto sarebbe poi passato… e invece…
– Cosa dovevo fare? Ho provato a farlo ragionare, a dirgli che io non potevo continuare a vederlo, ma lui mi rispondeva che non riusciva, che neppure io potevo capirlo, che non voleva fare del male a nessuno, ma che…
– Non lo so… abbiamo vissuto momenti bellissimi… per il resto facevo finta di non sapere. La cosa strana è che fino a che era in vita non sentivo rabbia verso di te, dopo sì… tanta. Ma adesso mi manca… mi manca soprattutto il suono dolce delle sue parole… non lo riesco più a ricordare sai…quello sì che mi manca… ma sono brava… ai ragazzi non lo faccio vedere…sì sono brava.
– Sei sempre stata brava… – sussurrò Lucia.
– Lo so a cosa ti riferisci… sono innamorata, tutto qui… Lo sono. Ancora adesso… l’Amore vero non dipende dal carattere, ognuno ha il proprio. Ad un certo punto non ci badi più e ti dirò che non dai più neppure troppa importanza all’aspetto fisico e forse non dipende poi nemmeno dalla certezza di averlo tutto per te.
– Ah sì? Ma allora da cosa dipende?
– Dall’essere perfettamente sostenuti… – disse seria Lisa – almeno per me è stato così …Guarda io purtroppo non sono mai stata sicura di niente, ma credimi ciò che conta in tutto e per tutto è l’essere amati per quello che si è… quello che si è stato l’uno per l’altro… e per me lui è stato molto, moltissimo e così io per lui.

Le due donne rimasero in silenzio, una accanto all’altro, come in fondo erano sempre state.
– Adesso però saliamo, fammi vedere la mia camera…ti ricordi? Ogni anno provavi a convincerci a cambiare stanza, ma non c’era verso, volevamo sempre quella, la numero sette, l’unica con un piccolo balcone, quella che ci ha visto per la prima volta insieme, felici…
Lucia la guardò sempre in silenzio, troppo impegnata a contenere tutte le immagini che le parole dell’amica avevano riportato fuori dopo così tanti anni.
Si alzarono lentamente e insieme cominciarono a salire i ripidi gradini in legno che conducevano al piano superiore. Arrivate sul pianerottolo in fondo al corridoio Lisa vide di fronte a sé la porta della ‘sua’ camera.
– Adesso però ti lascio un po’ da sola… puoi rimanere qui quanto vuoi, io ti aspetto giù. Ti attendo fuori in giardino, aspetterò Francesca; se hai bisogno prima… chiamami.

Lisa la guardò e senza dire nulla, ringraziò. La sua mano afferrò con timore la maniglia della porta ed entrò. Immediatamente tutta la luce proveniente dalle due finestre aperte le irradiò il viso, mentre lo sguardo andò all’azzurro del mare che inondava i vetri. Sulla sua pelle sentì correre un brivido profondo che dalla schiena le percorse tutto il suo corpo, adesso senza età. Le parve di avvertire ancora le belle mani di suo marito su di sé e, come avvolta da un bene infinito, riprovò quella sicurezza che non l’aveva mai lasciata, fino a quando lo aveva avuto vicino. Pensò che adesso non avrebbe desiderato niente altro.

Era felice di essere dov’era. Le sue mani cercavano la sciarpa che le impediva quasi il ritorno del respiro. Si avvicinò alla sedia presso il tavolino perché le gambe sembravano oramai non poter più reggere i ricordi. Le dita delle sue mani giocavano tra loro nervosamente, fino a quando sentì il profumo dell’ultima cortesia di Lucia… i suoi fiori preferiti…. un mazzolino di fiori di campo adornavano il tavolino.

Quando successe l’incidente, tutto durò un tempo indefinito. Avrebbe voluto morire anche lei là dentro quella automobile. Prima la salvarono i pompieri e in seguito i figli, o almeno così aveva sempre creduto…
– Ma non l’ho fatto per loro – pensò – per loro ho rinunciato a volte a me stessa…Se sono come sono, qui ora, è perché l’ho voluto io! L’ho capito bene solo adesso entrando in questa camera.
Si meravigliò di non sentire più la rabbia che l’aveva accompagnata fino a quel momento.
Non era solo questione di ricordi…Tutto sembrava esserle più chiaro…

Solo adesso era diventata consapevole di cosa le era capitato, per cosa aveva vissuto tutti quegli anni, cosa aveva riempito tutti i suoi giorni e tutte le sue notti, cosa aveva impedito alla sua vita di fuggire via dopo l’incidente.
Il loro lungo amarsi nel tempo, nonostante Lucia, l’aveva trasformata. Ripensando infatti a tutti i momenti trascorsi assieme, inseguendoli uno per uno nel tempo passato, ecco …questo… si era come rivista con lui, aveva capito quanto lei fosse stata veramente la cosa più importante per suo marito, quanto doveva averla amata, tanto da rinunciare ad una persona per lui così speciale come Lucia .
Per questo motivo era rimasto con lei.
Lo aveva capito bene solo adesso.

Rimise a posto il copriletto, poi chiuse gli occhi mentre rubava per l’ultima volta il profumo ai fiori sul tavolino. Senza accorgersene poi, quasi inconsapevolmente, si trovò vicino alla finestra, quella accanto alla sua parte del letto. Allungò allora la mano per tirare le bianche tende, come aveva sempre fatto prima di uscire insieme dalla loro camera per recarsi al mare. Fece poi per andare anche presso l’altra finestra, quella che ogni volta, quasi per gioco, con una battuta spiritosa sollecitava suo marito a chiudere…
Ma si accorse che la tenda era già stata tirata.

 

COSTRUIRE L’EUROPA POLITICA
per una democrazia basata sul benessere e la giustizia sociale

 

Torino – Ci risiamo! I mezzi di informazione per convincere della necessità della vaccinazione facendo riferimento a un sistema organizzativo unico nazionale riguardo alla pandemia e chi ci governa presentano le loro argomentazioni usando un linguaggio tipo ‘siamo in guerra’. Ancora una volta un linguaggio bellico, un pensiero di aggressione e prevaricazione, per affrontare problemi che esigono invece collaborazione e coordinazione.

Il virus non è un nemico alieno che invade la terra, ma è il risultato di nostre scelte, la conseguenza dell’aver posto il profitto e i privilegi di alcuni al di sopra della qualità della vita umana per tutti. Realizzare una buona qualità di vita richiede un ambiente che abbia altrettanta qualità; non si può prescindere dal rispetto delle risorse naturali, per realizzare una vita dignitosa non solo per pochi ma per tutti.

L’aver messo il profitto al vertice dei valori a cui l’umanità tende è all’origine della pandemia. Il privilegio di pochi su molti corrisponde allo squilibrio con cui è stato trattato l’ambiente. L’inquinamento è il terreno di coltura di virus e batteri. La terra non può diventare il contenitore dei nostri scarti: se non la pensiamo come il luogo da abitare, e abitare piacevolmente, invece che come terreno di conquista, questi effetti pandemici si susseguiranno a ritmo sempre più frequente, con le conseguenze disastrose che stiamo vedendo e possiamo immaginare.

Le tante morti che la nostra nazione ha subito sono anche conseguenza dello smantellamento del sistema democratico avvenuto negli ultimi anni. La distribuzione dei servizi alla totalità dei cittadini, base della democrazia, è stata una prerogativa italiana distribuita su tutto il territorio efficiente ed efficace. La sua realizzazione aveva richiesto anni di lavoro civile a partire dal secondo dopoguerra e il suo obiettivo era ottenere una eccellente qualità del servizio accessibile a tutti.

È importante ricordarlo, perché nelle democrazie i governi sono eletti dai cittadini. Non dobbiamo dimenticare quali sono state le scelte che hanno portato a questo disastro, perché in una democrazia siamo tutti corresponsabili delle azioni sociali. Ricordiamocelo al momento di tornare alle urne: quante persone sono morte perché tanti hanno votato chi proponeva la supremazia di alcuni su altri e ha trovato consenso? E chi ha dato questo consenso sono stati proprio quelli che, per primi, si sono visti togliere i servizi pubblici che garantivano la loro qualità di vita e la loro salute.

L’Italia è riuscita a restare al passo con lo sviluppo della società occidentale perché ha costruito la propria unità politica e, dopo il blocco dello sviluppo conseguenza al fascismo, ha scelto la via democratica, l’unica forma di governo a garantire sviluppo umano e sociale. Ora la sta distruggendo per seguire le sirene, prima della secessione, ora dell’autonomia. E questo anche grazie ai nuovi mezzi di comunicazione che indiscriminatamente propugnano la cultura del vacuo. In questa ultima fase di gestione della pandemia si può vedere bene fino a che punto sia inefficiente questo sistema di frammentazione amministrativa. Spero che quanto succede in Italia, con le autonomie regionali che lavorano l’una contro l’altra, anziché all’unisono, sia un monito per l’Europa. Nelle due realtà il problema è lo stesso: la necessità di mettere d’accordo un puzzle di territori reciprocamente diffidenti rallenta qualunque procedimento. Un esempio lampante è la distribuzione dei vaccini per il Covid-19 che, tanto in Italia quanto in Europa, sta procedendo così a rilento.

Il mondo è ormai organizzato in potenze dalle dimensioni di continenti: le piccole nazioni sono destinate a contare sempre meno nelle relazioni internazionali fino a sparire del tutto. Il comportamento dell’Egitto nei confronti dell’Italia, mi riferisco ai casi Regeni e Patrick Zaki, è emblematico – come pure quello del caso del ricercatore scientifico Ahmedrez Djalali in Iran – l’Italia in quanto nazione singola, senza l’appoggio dell’Europa non ha forza sufficiente a esigere il rispetto delle norme diplomatiche.

Finalmente, con la Next Generation EU abbiamo fatto un primo passo necessario per rispondere ai problemi creati dalla pandemia, però non è sufficiente: ci vuole la costituzione dell’Unità europea politica, un unico governo forte e presente che non esiste ancora: siamo in ritardo di 70 anni nella realizzazione del progetto d’Europa promesso da Schuman, De Gasperi e Adenauer e ne stiamo pagando le conseguenze.

Molti problemi del bacino del Mediterraneo, da quelli legati alle migrazioni alle tensioni con la Turchia, sono diretta conseguenza dell’atteggiamento passivo dell’Europa, che non ha la forza di uno stato unitario; i flussi migratori sono connaturati alla natura umana, la storia dimostra che ci sono sempre stati, non si possono frenare, ma vanno governati: se non lo si fa in modo democratico, alcune nazioni stanno già progettando l’unione delle democrazie illiberali che danno al concetto di democrazia un valore solo quantitativo di maggioranza e non qualitativo di libertà.

Ma come è possibile una democrazia senza libertà? Cosa stiamo aspettando ancora? Oppure vogliamo che altri casi come quello del dittatore turco Erdogan e la Presidente della commissione europea von der Leyen si ripresentino nella prevaricazione e nella mancanza di rispetto e decenza nei riguardi di governanti europei pienamente accreditati, solo perché donne? E non finisce qui. Se l’Europa finalmente riconoscesse, lei per prima, il valore di essere nazione unita chiederebbe a Charles Michel le dimissioni immediate.

Bloccare la costruzione dell’Europa politica ci condanna a diventare terra di conquista di tutte le grandi potenze e non è solo una sconfitta territoriale: è la stessa democrazia a essere messa a rischio, perché molte di queste potenze sono dittature. Vogliamo proprio distruggere la più bella conquista del Novecento: la democrazia basata sul benessere e la giustizia sociale?

Parole a capo
Cristiano Mazzoni: “Dal Batiguàza al Bronx” e altre poesie

“Vivere senza poesia è come navigare senza timone”
(Michele Gentile)

L’UBRIACO

Il fumo rendeva di ovatta l’aria umida della notte,
il porfido lucido, sembrava riflettere i pensieri intrappolati nelle luci dei lampioni,
rumore calpestato di crudi ricordi.
L’uomo barcollava ubriaco,
nel silenzio della città,
l’odore di tabacco, si mescolava ai vapori dell’alcool,
in un gorgo di solitudine, senza speranza.
La luna, da qualche parte nel cielo,
provava a riflettere in basso,
la luce del sole agli antipodi,
mentre l’ombra dell’uomo spariva,
ingoiata dalla nebbia.

 

NEGLI OCCHI L’AURORA

Negli occhi, il rosso dell’aurora,
il sole chiuso nel pugno,
come mantello l’arcobaleno,
e ai piedi ?
Scarpe rotte.
Camminiamo in montagna, di fianco ad un fiore,
fischia il vento e le idee di rivolta?
Non sono mai morte.
Immagina di vivere un sogno,
ma non sei l’unico,
lo condividi con i matti,
gli ottusi e gli ubriachi.
Sventola bandiera,
di rossa primavera.

 

DAL BATIGUÀZA AL BRONX

Case popolari a perdita d’occhio,
vecchie sedute a conversare sui gradini delle scale,
cortili chiusi da quattro mura,
pieni di indiani e cow-boy,
cerbottane, come gli aborigeni,
urla e strepitii infiniti rincorrendo il sogno di un pallone.
Poi la terra di nessuno, dietro al cinema,
un grande prato, mille compagnie a contendersi il territorio,
un sottopasso per l’inferno,
dove improbabili graffitari citavano Dante sui muri.
Il quartiere dormitorio, giovani distrutti,
regalavano la loro vita, appoggiati al nulla,
aria stantia, anticorpi contro la malavita;
eppure, siamo diventati adulti,
sempre grati alla borgata,
che ci ha insegnato a camminare.

 

MEDIOCRITÀ

Una vita vissuta tra il cinque e il sei
come a scuola,
i numeri delle mie maglie.

Perennemente sotto media,
nessuna arte, anche se di parte,
sussurri gridati,
urla silenziose.
Sassi che rotolano,
acqua che evapora,
un peso medio,
contro montagne di giganti.

(Poesie tratte da “I pensieri del comandante” di Cristiano Mazzoni  – Freccia D’oro edizioni, 2019)

Figlio unico di madre impiegata e padre sindacalista, Cristiano Mazzoni nasce a Ferrara, nell’autunno caldo del 1969, nelle case popolari a due chilometri dal centro cittadino. Ha pubblicato Batiguàza. Resoconto di una adolescenza (Este Edition 2011), Parole dissociate. Memorie e pensieri (Este Edition 2012). Nel 2014, in occasione dei mondiali di calcio, un suo racconto “Speriamo di non cadere”, viene inserito in una raccolta dal titolo Racconti Mondiali, edito da Autodafé Edizioni di Milano. Nel 2015 un suo racconto dal Titolo “Petrolchimico” è inserito in una raccolta pubblicata sempre da Autodafé. Con Autodafé pubblica il suo primo romanzo “Il Bar dei Giostrai” nel 2017, nel 2019 pubblica “I pensieri del comandante” raccolta di parole in colonna con Freccia d’Oro edizioni.
Gestisce una rubrica su Ferraraitalia.com “Gli spari sopra”.
E’ in redazione a “Lo Spallino” dove scrive di un grande amore.
Scrive, come autoanalisi, per raccontare, soprattutto a se stesso, che non è mai troppo tardi per autodeterminarsi.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

 

M’AMA NON M’AMA …
Riconoscere le radici della violenza e scegliere la libertà

 

Si definisce ‘femminicidio’ o ‘omicidio di genere’ un omicidio doloso o preterintenzionale, in cui una donna viene uccisa da un individuo di sesso maschile per motivi basati sul genere.

Si allunga ogni settimana la lista delle donne vittime di questo tipo di omicidio. Nei primi tre mesi del 2021 sono state ammazzate da compagni e fidanzati quindici donne e la lista continua a salire ogni giorno che passa. Un fenomeno che non si arresta, che non tende a diminuire. Più se ne parla, più se ne scrive, e più la situazione peggiora, come se un minimo di rilevanza mediatica desse a questi assassini un po’ di voglia in più di ammazzare.

Nel 2020 sono stati commessi novantuno femminicidi, di questi ottantuno sono stati commessi nel contesto familiare, cioè l’89% del totale (Rapporto Eures 2020). C’è poco da fare, i mostri li abbiamo in casa. Sono i nostri compagni o ex-compagni, che ci sfigurano con l’acido, provano ad ammazzarci, ci calpestano, ci prendono a schiaffi e calci, ci rapiscono i figli (non tutti, s’intende!). Mi chiedo sempre da dove arrivi un odio del genere. Per quanto la psicanalisi provi a spiegarne le motivazioni profonde, le modalità, le giustificazioni e i mezzi, io continuo a stupirmi e addolorarmi ogni giorno.

Mi tornano così alla memoria storie di soprusi che ho sentito raccontare, storie di umiliazioni perpetrate all’infinito, che tolgono qualunque tipo di dignità, che lavorano in maniera silente e costante come tante stalagmiti che crescono grazie al lavorio delle gocce d’acqua. Conformazioni calcaree che ci mettono molto tempo a diventare visibili, una vita a calcificare e a diventare punte acuminate che perforano l’aria. A un certo punto le vedi, piantate nella grotta nella quale si trovano, pronte ad acuire il senso di pericolo, pronte a fare male senza esitazione. Una sberla un giorno, poi una dopo una settimana, poi due dopo un mese e poi più in là ancora altre.

Non c’è sempre la possibilità di ribellarsi a questo mostro che cresce dentro casa, a questa modalità lenta, silente e progressiva che si nutre di quotidianità, di impossibilità di rompere legami sbilanciati, dal punto di vista della relazione e/o delle necessità economiche. C’entra l’indipendenza come arma a doppio taglio: si può odiare una donna perché è indipendente, così come la si può odiare perché è dipendente. La dipendenza crea umiltà, paura, sottomissione. Ma il mostro è spesso un vile e gli piace molto, in quanto vile, prendersela con chi non sa difendersi. Allo stesso tempo il vile ama a sua volta i rapporti sbilanciati. Adora chi è prepotente con lui, detesta chi è sottomesso, chi è ridotto a una passività imposta dal logorio di un’umiliazione costante. È questo logorio che riduce una donna al suo livello, quello che proprio lui detesta. Un vile odia se stesso e adora i prepotenti. Per questo odia sua moglie, che è una sua pari, una che conosce i suoi difetti che lui non sopporta, le sue paranoie dalle quali tenta sempre di sfuggire, ma dalle quali è riacciuffato.

Un uomo violento è un uomo pieno di malessere e rancore. In una donna piena di malessere riconosce se stesso e per questo l’odio si moltiplica. È un odio che si nutre di odio per se stessi. È un odio che consuma l’altro per ridefinire le caratteristiche di un mondo interiore che non lascia spazi di libertà a nessuno. Una donna sottomessa, privata della sua volontà e della sua indipendenza è la vittima preferita di questo tipo di maschio violento. Vile coi vili e decisamente servizievole con gli arroganti e prepotenti. I vili non hanno mai saputo trovare un equilibrio giusto, una autostima accettabile, un senso del perdono e della pietà eticamente fondato.

Un secondo tipo di maschio violento è il prepotente per antonomasia. Quello che non tollera la donna indipendente che sa ribellarsi. Qui però non c’è un gran logorio giornaliero. Se mai c’è la ribellione e subito dopo la ripercussione. L’atto aggressivo e violento è una ripercussione, una reazione esagerata a un atto contrario alla propria volontà, al proprio desiderato e alle proprie aspettative. Spesso l’aspettativa di un prepotente non è reale. Il maschio in questione non è empatico e non riconosce i segni di disagio femminile, fino a quando emergono come un fiume in piena che nessuno sa più contenere e frenare. Un fiume che corre e se ne andrà lontano.

La prepotenza si nutre di confronti aggressivi, di necessità di umiliare l’altro e di ricondurlo a una via conosciuta, a un percorso controllabile e prevedibile, che permette l’aggressione come atto liberatorio, come conferma di un potere effimero. Un’illusione come quella di controllare una relazione, le sue conseguenze, i suoi possibili sviluppi e anche la sua fine. Il maschio aggressivo sa quando e come finirà una relazione, ma non lo deve e non lo può sapere la donna con la quale si relaziona. E così, nel gioco di potere tra viltà, sottomissione, mancanza di indipendenza e atti di rivendicazione di una dignità mai trovata, si consuma la violenza e la persecuzione nei confronti delle persone per le quali questo è possibile, è nascondibile, occultabile.

Poi c’è il degrado della mancanza di spazio familiare, della mancanza di evasione culturale, di sostegno economico, che permette un po’ di trasgressione, quella buona che riduce la conflittualità, che ridimensiona il senso di angoscia, che rischiara i rapporti. E poi c’è l’uso di alcol e di sostanze stupefacenti, che scatenano l’aggressività anche in chi non è aggressivo, anche chi in condizioni normali sa mantenere una mitezza esagerata, che mai farebbe pensare che presto quel ‘dipendente’ ti sfigurerà coll’acido. L’uso di droghe altera la percezione che una persona ha di se stessa. Altera la sua autostima e il suo bisogno di successo, ridimensiona la sua dignità rendendolo schiavo e succube. Le esplosioni di rabbia sono impreviste, legate all’uso dell’alcol che annienta i freni inibitori e fa sì che la selvaggia e primordiale voglia d’uccidere attraversi le menti di individui un po’ strani e molto eccitabili, dal comportamento dannoso.

Ma il danno più grosso succede prima. Durante il processo di annientamento. In quella fase a volte lunga (può durare anni) e a volte cortissima (può durare qualche minuto), in cui la dignità di una donna viene distrutta. È la mancanza di dignità che fa uscire dalla tana il mostro. Una mancanza di dignità causata dal mostro stesso e dai suoi comportamenti reiterati, dai suoi malumori. La psicologia insegna che i comportamenti più radicati non sono quelli che hanno rinforzi continui, ma quelli che hanno rinforzi occasionali. L’imprevedibilità del cambio d’umore accompagna spesso gli atti denigratori. Gli abbassamenti di status e di ruolo si configurano come un rinforzo occasionale, come un risucchio verso il basso, come una voragine che si apre all’improvviso e non è possibile arginare. La voragine imprevista risucchia chi sta camminando sopra di lei. Lo trascina verso il basso, lo copre col fango, lo deteriora un po’ alla volta, lo ricopre di terra, lo sotterra e lo dimentica.

La violenza si scatena sopra tutto questo, dentro tutto questo, lo sovrasta, lo ricopre e lo abbandona. Poi ricomincia, si crea un’altra voragine che inghiotte qualcuno, anche in maniera quasi casuale, lo mastica e lo consuma. I comportamenti violenti tendono a reiterarsi, perché sono lo sfogo di una personalità fatta così, di un dramma interiore che si manifesta così, di una incapacità di essere riflessivi, corretti, altruisti e anche giusti. Tutto ciò che si vede è così, senza possibilità di fraintendimenti.

Non fermatevi donne davanti alla prima sberla, lasciate quella casa e quella famiglia, portatevi via i vostri figli, se li avete. Non c’è ragione per sopportare la situazione, non c’è giustificazione da portare a se stessi, non patria per il pensiero, non c’è rimedio al dolore. A volte aprire una porta è un grande segnale di coraggio, la prova di un orgoglio che non è stato annientato, di una speranza che non è stata disintegrata del tutto, che riscopre qualcosa, che ricorda la luce.

Dentro ogni donna c’è la possibilità di sperare, credere e camminare con decisione e fiducia, ma ogni donna è anche una possibile vittima della situazione, delle circostanze, del dolore dell’abbandono e della malattia. Una donna fragile attira i fragili che cercano una vittima sacrificale per la loro necessità catartica volta a immolare loro stessi insieme alla vittima. Maschi che tentano di uccidere la sottomissione che riguarda entrambi, che annientano, attraverso l’aggressione, quella vergogna perpetrata di non essere mai all’altezza di niente. Sicuramente non all’altezza del proprio orgoglio smodato e invece degni di una bassezza da rasentare la terra marcia.

Spero che in ogni donna ferita e oppressa nasca la voglia di uscire dal guscio, di dire la verità, di rischiare la vita per una nuova possibilità, di abbandonare una vecchia vita per una nuova prospettiva.

Andatevene voi uomini aggressivi e senza dignità.

FANTASMI
Fondi di caffè e alberi magici

Fondi di caffè e alberi magici

Stamattina mi sono alzato molto presto. Ho trascorso la notte in un penoso dormiveglia, senza riuscire a prendere sonno, una consuetudine ormai da mesi. Dopo una veloce colazione ho raccolto le idee e sono uscito per la solita passeggiata: dovrò fare anche la spesa, mia moglie si è raccomandata. Con passo stanco sono andato al parco, come faccio nei giorni di sole, anche se oggi è nuvoloso: ci portavamo i bambini quando erano piccoli, ogni tanto ci torno per rivivere momenti lontani.
Comincio a camminare, da solo: la mascherina posso toglierla, non c’è nessuno. Lì davanti a me, un cane randagio va annusando, frugando vicino a un cassonetto ribaltato.
Tra me penso che questo mondo alla rovescia e contraddittorio, strabordante di cattiveria e di ipocrisia, è proprio come quel cassonetto.
Su una panchina poco distante un ragazzo sta seduto assorto nei suoi pensieri, giocando con un bastoncino di legno. Disegna sul terreno qualcosa.

Il cane – ha un collare… mi sa che non è un randagio, l’ho giudicato troppo presto – si avvicina al giovane e gli deposita davanti un sacchetto mezzo rotto, rovesciandone il materiale contenuto: bucce d’arancia e poco altro.

Ero uscito per fare due passi e cercare qualcosa che riaccendesse in me l’interesse verso l’umanità, dopo una notte insonne vuoto come una bottiglia di birra a testa in giù in una duna sabbiosa del deserto, cercando qualcosa a cui appassionarmi per dimenticare questa pandemia. Mi siedo all’altra estremità di quella panchina, consapevole che avrei trascorso un’altra mattinata grigia alla ricerca, inevasa, di un motivo per non pensare ai miei figli lontani.
Guardo quel giovane a 2 metri da me: distanza di sicurezza. Il mio coinquilino di panchina avrà trent’anni circa, è un ragazzo alto. Penso che alla sua età sarei stato in giro a inseguire sogni, chitarra a tracolla e sigaretta sempre accesa, per fare serenate a due-tre ragazze e decidere come cambiare il mondo.
“Ecco, questo tipo è una delle cause del mondo capovolto di cui sopra” rifletto tra me.

Il bastoncino tra le mani del ragazzo attira non solo la mia attenzione, ma anche quella del suo cane, che cerca di strappargliela addentandola per coinvolgerlo nel gioco del lancio e recupero, quello che fa sempre felice un cane, cucciolo o attempato che sia. Ma non riesce a distogliere il giovane dal suo muto vagabondo tracciamento di ghirigori. Stufo il cane si allontana inseguendo una foglia, attività infinitamente più interessante.
Anche io guardo quei ghirigori: con la punta del bastoncino il ragazzo disegna, spiana, poi ritraccia altri segni, gli occhi bassi.
“Ciao” gli dico. Senza alzare lo sguardo, lui, a voce bassa: “Ciao”.
“Cosa fai di bello?”. E lui: “Cerco una risposta”.
Gli chiedo allora quale risposta si possa trovare rigando un po’ di terra.
“Non è terra: è un fondo di caffè”.

Avrei potuto alzarmi e tornare sui miei soliti, annoiati passi, ma qualcosa mi fa restare.
Tento di farlo parlare: la mia indole di professore in pensione, abituato a cacciar fuori con le pinze una parola dagli studenti pur di fargli dire qualcosa e non dar loro un “impreparato”, mi spinge a chiedergli quale verità ci sia in un po’ di posa di caffè caduta da una busta di un cassonetto.
Risponde: “Mio nonno mi raccontò che dalle sue parti, al Sud, le donne per interpellare gli spiriti usavano il fondo di caffè, mentre gli antichi leggevano le viscere e i comportamenti degli animali”.
Gli chiedo: “Ma tu cosa cerchi in quel fondo di caffè?”.
Spostando appena un po’ lo sguardo, dice: “Vorrei trovarci dei fantasmi, per poterli seguire, anzi inseguire… chiedergli tante cose. Ma non funziona. Forse è decaffeinato, perciò non funziona”.

Il cane torna a chiedere una carezza, alla ricerca di affetto e di un compagno di giochi: la ruvida leggerezza con cui il suo muso sfiora la gamba del ragazzo mi ricorda vagamente la carezza di un padre. “Joker, va’ a giocare…” sbotta lui.
“Davvero credi ai fantasmi?” gli chiedo.
Iniziamo così a parlare: a raffica gli racconto della mia famiglia, dei miei figli, di cui uno ha circa la sua età, lontani per colpa del COVID e del lavoro inesistente. Gli parlo di un nipotino che non vedo da molti mesi: io non ho avuto i nonni, ma quel bambino un nonno ce l’ha, perché non posso stare con lui, portarlo al parco, al cinema? Raccontargli tante cose, articoli di giornali, favole, teorie, testi di canzoni, romanzi, trame di fumetti…?
Luca, così si chiama il ragazzo, alza gli occhi e mi guarda. Un leggero sorriso incurva appena le sue labbra notando i capelli bianchi sfuggenti sotto il mio cappello. E così mi parla di suo nonno: un ex-professore di latino e greco che gli aveva insegnato tante cose, come scrivere l’alfabeto greco e storie di mitologie e leggende… storie bellissime.
“Perché non vai a trovarlo, tuo nonno, ogni tanto?” gli chiedo, burbero.

Ricomincia con quel bastoncino a interrogare il fondo di caffè, non vuole parlarne, ma poi alla fine, risponde:
“Ero al battaglione in quel periodo. Sapevo che nonno stava male e che forse dovevano ricoverarlo, ma mia madre non mi aveva detto nulla di più. Poi quel giorno di marzo accadde tutto: ci chiamarono dal comando. Ci dissero che servivano i camion, bisognava trasportare i morti del COVID perché erano troppi in città e non c’era più posto. A me sembrava tutto assurdo, incredibile, avevo solo voglia di guardare lo sport sullo smartphone per non pensarci, ma poi mi telefonò mia madre e disse che nonno non ce l’aveva fatta. Nessuno sapeva dove era stato ricoverato, né dove ora l’avrebbero portato. Nulla”.

Joker si era accucciato ai suoi piedi, ad ascoltare: anche lui voleva finalmente capire perché Luca fosse così da giorni, anzi mesi.
“Io chiesi al capitano di poter essere uno degli autisti: ma come me ce n’erano altri che avevano perso qualcuno allo stesso modo. Tutti volevamo … non so… magari trovare un nome su una cassa. Ma il capitano rispose che noi eravamo troppo coinvolti, perciò avrebbe scelto altri come autisti. Allora mi sono ricordato del cavallo di Troia e di Ulisse, quello che con una bugia faceva fare ciò che voleva a chiunque: ho seguito il capitano e gli ho detto che l’ultima volta che avevo visto mio nonno avevamo litigato. Così il capitano mi ha inserito nel gruppo degli autisti” ha concluso Luca.
Comincio a capire: mi ritornano in mente quelle lunghe file di camion nella notte di Bergamo, viste in televisione da miliardi di persone attonite e sconvolte. Ma non avevo mai pensato agli uomini che guidavano quei camion. Luca aveva pochi altri ricordi, e tanta rabbia e dolore. Poi ha continuato, a voce bassa: “Quando abbiamo chiuso quel cancello dietro al quale avevamo ammassato le casse, siamo rimasti lì fuori, in attesa. Di che cosa poi? Boh.
Uno di noi autisti disse: ci vorrebbe una preghiera.
Un altro disse: ci vorrebbero dei fiori. Ma non avevamo nulla.
Un sergente magrolino andò allora nel suo mezzo, e tornò con due Arbre Magique, uno azzurro un po’ usato e uno rosso nuovo che tolse dalla bustina, e fece cenno a tutti di fare altrettanto. Li andammo a prendere e li mettemmo tutti insieme: erano di tanti colori diversi, c’era un profumo intenso. Ma non sapevamo come legarli tra loro. Io mi sono strappato il braccialetto di cotone colorato, il portafortuna, e ho detto agli altri di fare lo stesso. Quel sergente mi ha guardato, li ha intrecciati velocemente in modo ordinato: così, nonostante la mascherina, mi sono accorto che era una sergente. Lei mi ha guardato con due occhi … quegli occhi che non riesco più a dimenticare. E così sul cancello abbiamo legato quella piccola corona di alberi profumati variopinti: è stata come la celebrazione del Milite Ignoto. Non so nemmeno di quale brigata fosse quel sergente, né il suo nome, non so nulla. Certe volte non so neppure se ho sognato tutto. Per questo ora cerco di capire qualcosa negli oscuri segni del destino o nei fondi del caffè: vorrei trovare almeno una risposta”.

Joker ha infilato la sua testa sotto la mano di Luca, e questa volta Luca lo accarezza, poi afferra il bastoncino e lo lancia lontano. Joker come un fulmine schizza a riprenderlo e glielo riporta, felice di aver ritrovato l’amico fraterno di giochi.
Sono rimasto lì, confuso: ribaltato come il cassonetto di prima.

Ho salutato Luca e distrattamente gli ho teso la mano, ma l’abbiamo ritratta entrambi, memori delle regole sul distanziamento, così ho scorto sul suo polso un braccialetto portafortuna.
“Sì” dice Luca” il giorno dopo ne ho comprato un altro: questo servirà per ricordarmi mio nonno. Ho deciso che lo terrò per tutta la vita, o almeno fino al giorno in cui non ritroverò gli occhi di quel sergente”.
“Li ritroverai, ne sono certo” gli ho detto. ”Come fai ad esserne così sicuro?” mi ha ribattuto Luca.
“Lo so. Studiavo i greci come tuo nonno: io però guardo le nuvole per indovinare i venti e cercare di capire gli eventi. E poi scrivo racconti, da leggere forse un giorno a mio nipote: se vuoi posso raccontare la tua storia, magari ritrovo quel sergente…”.
Luca ha annuito e ha sorriso, finalmente. Poi mi ha salutato con il gomito e un gesto della mano.

Sono tornato di corsa a casa, dimenticando di fare la spesa, l’animo in subbuglio ma vivo: e ho subito iniziato a scrivere.

Per leggere tutti gli interventi di Fantasmi, la rubrica curata da Sergio Kraisky e Francesco Monini, clicca [Qui] 

La drammatica attualità della paura

 

Fiorenzo Baratelli e Maura Franchi

 In questi mesi ognuno di noi ha messo in atto un grande sforzo per dare continuità alla vita di sempre, mentre il virus immerge tutti noi in un perenne stato di precarietà e paura. Paura di qualunque forma di contaminazione che sperimentiamo in ogni momento della vita. Paura del vicino in treno, benché munito di mascherina e collocato a debita distanza. Paura dell’estraneo, ma anche del noto. Ogni comportamento si accompagna ad un inconsapevole sentimento di pericolo. Il nemico potenziale è nell’amico che non vediamo da tempo e può essere persino identificato nel medico, quando scrutiamo l’attenzione con cui si sta sanificando le mani, prima di porle sul nostro corpo.

Nessuno è immune dalla paura, così la nostra vita ‘sanificata’, rischia ormai l’implosione. È una paura particolare quella generata dalla pandemia. Qualcosa di simile avevamo sperimentato con il terribile episodio delle torri gemelle quando, per ragioni sconosciute, da parte di sconosciuti, si era sgretolato il simbolo del nostro mondo sviluppato e solido.

La ripresa è stata lunga. Intanto l’episodio aveva dato vita ad una ricca serie di dispositivi di sicurezza che avevano, in una stagione, riempito le nostre case e i nostri giardini: monitor delle effrazioni, dispositivi per fronteggiare un estraneo malvagio e non prevedibile. I dispositivi ci seguivano al mare con i trilli involontari dei gatti, che segnalavano la falsa minaccia di estranei sul terrazzo. Abbiamo capito brevemente che tornare dalla Corsica era più costoso dei danni provocati dai ladri estivi.

La nostra paura è finita nel fascino di una eterna protezione, mediata da un’ampia proposta di dispositivi, pubblicizzati addirittura all’uscita del supermercato. Sembra che siano trascorsi secoli da quando una gran parte di noi trovava ragionevole interrompere le vacanze al mare per un innocuo gatto sul tetto.

La pandemia è oggi una paura più vera e più forte, testimoniata dalle migliaia di morti poste alla nostra attenzione, ogni giorno in ogni canale televisivo. La paura in questa esperienza del virus è incomparabilmente più grave, innanzitutto per gli esiti proposti. Si tratta di una paura in cui non esiste un colpevole che possa essere individuato, ma ogni esperienza che ci metta a contatto dei nostri simili rappresenta un rischio. Da qui scaturisce la qualità particolare della paura che stiamo vivendo. Da questa radicale paura del contagio scaturisce un’universale condizione di solitudine.

La distanza tra gli individui non è solo proposta da una necessità sanitaria, ma è anche l’esito di una particolare e nuova paura da contatto: tema di cui sappiamo in realtà molto poco. È difficile convivere con la contraddizione tra la domanda di un colpevole e l’impossibilità di individuarlo.

Molte opere di letteratura ci hanno indicato vicende reali simili a quelle sperimentate in questi mesi. Il primo effetto emotivo è la crescita di una domanda di capro espiatorio che ad esempio nell’episodio della peste, Manzoni individua nella figura dell’untore. Una traccia di un approccio simile lo ritroviamo nella presenza in rete di una ricca produzione di tesi complottiste. Il complottismo diventa una rassicurazione perché scarica su un colpevole vagamente identificato una rabbia impotente.

Alcuni esiti prevedibili della paura generata dall’esperienza collettiva in corso, sembrano confermare i due caratteri che il sociologo Rainer Koselleck considerava distintivi della modernità.

Il primo carattere è il fatto che durante il dispiegamento della modernità, si riduce la base dell’esperienza degli individui, cioè le tradizioni forniscono sempre meno senso e significato al presente. Si passa dall’illusione che la storia sia maestra di vita, alla constatazione che ogni evento non appartiene ad una sequenza lineare. È la fine di un certo storicismo deterministico che funziona come una garanzia di rapporto lineare tra passato-presente-futuro. È come se si fosse prosciugato un filone aureo che forniva significati e senso alle esistenze ed era in grado di orientarle verso un futuro percepito come migliore.

Il secondo carattere distintivo della modernità individuato da Koselleck, è l’abbassamento dell’orizzonte delle aspettative e delle attese. In parole semplici ciò significa sempre meno fiducia in un futuro migliore. Viviamo appiattiti nel momento puntuale del presente senza un sostegno che ci viene dal passato, né una speranza rivolta al futuro. È da meditare seriamente cosa può causare il diffondersi di ‘un comune sentire all’insegna della paura, sia in termini di perdita di energia creativa nell’immaginare una società migliore, sia in relazione ad un possibile uso che ne può fare il potere. La paura ha molte applicazioni, ma è certo uno dei piani utilizzabili per la costruzione del consenso.

Per leggere tutti gli articoli di Elogio del presente, la rubrica di Maura Franchi, clicca [Qui]

Aprile 2060 – Pit-x

 

Quando la zia Costanza compì cinquantun anni, la sua amica Teresa le regalò un canarino olandese interamente bianco. Teresa aveva saputo da Albertino Canali che la zia desiderava un canarino. Albertino le disse che Costanza glielo aveva confidato una sera d’estate mentre parlavano delle stelle cadenti. Così Terry aveva aspettato il compleanno della zia e, il 20 Aprile 2021, era arrivata con Nuvola. Nuvola fu il nome della prima canarina olandese di casa. In realtà la zia voleva chiamarla Perla, ma io e Enrico, che allora eravamo piccoli (io avevo appena compiuto tredici anni e Enrico cinque), insistemmo per chiamarla Nuvola e così fu. Nuvola visse un paio d’anni da sola e poi la zia, per trovarle una compagnia, comprò un secondo canarino olandese, questa volta maschio e color giallo intenso. Il secondo canarino fu chiamato Cirro. In quell’occasione io e Enrico non potemmo interferire con la scelta del nome perché, quando tornammo da scuola, la zia aveva già deciso e fu irremovibile. Si chiamano cirri le nubi bianche d’alta quota. Quelle esili e quasi trasparenti con una struttura fibrosa. Letteralmente ‘cirro’ significa ‘ricciolo’, ‘ciocca di capelli inanellata’. Un nome sicuramente adatto ad un canarino olandese che ha un aspetto esile e le penne arricciate.

Nuvola e Cirro vissero per dieci anni molto felici. Avevano una bella voliera banca, dove potevano volare, giocare e cantare. Avevano a disposizione una vaschetta d’acqua per fare il bagno, delle mangiatoie con semi di prima qualità, radicchio fresco appena raccolto nell’orto e ossi di seppia per grattarsi il becco. Una buona sistemazione sicuramente. Inoltre la zia era stata attenta a posizionare la gabbia in un punto della casa dove la temperatura era pressoché costante durante tutto l’anno e non c’erano spifferi d’aria pericolosi per quei piccoli e delicati volatili. Per questo Nuvola e Cirro restarono per molti  inverni nella grande cucina della casa di via Santoni Rosa, sopra un vecchio mobile che proveniva dalla casa della bisnonna Adelina. D’estate la zia spostava la voliera sotto il portico e i canarini potevano godersi la bella stagione protetti e accuditi.

La zia palava sempre con Nuvola e Cirro. “Pit” diceva lei, “Pit pit” ripetevano in coro i canarini e andavano avanti così, comunicando a modo loro per decine di minuti.
Da allora la zia Costanza ha sempre avuto canarini che discendono da quella prima coppia di “olandesi volanti”. Anche adesso che siamo a Marzo 2060, ne possiede due che, per rispettare le origini e la tradizione, si chiamano Nuvola e Nembo. Anche ‘nembo’ è il nome di una nuvola, quella scura e minacciosa che annuncia i temporali estivi e che affascina la zia. Quando sta per arrivare un temporale, si ferma sempre in mezzo al cortile con la faccia all’insù ad osservare le nuvole finchè scendono i primi goccioloni di pioggia e lei è costretta a spostarsi sotto il portico o addirittura a rincasare.

Oltre a Nuvola e Nembo nella voliera della zia abita un canarino-robot che si chiama Pit-x.
Pit-x ha delle penne artificiali gialle e verde scuro, delle ali meccatroniche che gli permettono di volare e delle piccole zampe con le quali saltella, si aggrappa ai supporti della gabbia e si gratta la testa. Ha due occhietti piccoli e neri che contengono le telecamere che usa per guardare il mondo e imparare dai suoi simili come comportarsi, un un piccolo becco arancione con il quale tritura i semi, toglie la parte interna e la ingurgita, trasformando gli alimenti in calore e poi in energia che gli serve per funzionare. Anche lui apprende per imitazione e i suoi comportamenti sono molto simili a quelli di Nuvola e Nembo.

Prima di regalare Pit-x alla zia Costanza ci abbiamo pensato un bel po’. Non sapevamo come l’avrebbe presa, né se le sarebbe piaciuto avere un robot-canarino nella sua voliera. Ci sarebbero stati degli indubbi vantaggi. Pit-x sa segnalare se le mangiatoie devono essere riempiete di semi, se manca l’acqua, se fa troppo freddo o troppo caldo, se serve riparare la voliera dal sole. Inoltre sa segnalare se Nuvola e Nembo hanno parassiti o non si sentono bene. Allo stesso modo sa registrare se ci sono pericoli esterni alla gabbia, quali un gatto in avvicinamento o delle api che ronzano nelle vicinanze. Se un canarino viene punto da un’ape muore. I pungiglioni di questi meravigliosi insetti, che tanto fanno per il benessere della terra, sono fatali per i canarini. Bisogna tenere le api lontane dalla voliera, così come tutti gli altri insetti col pungiglione. Inoltre Pit-x si accorge se ci sono bambini che tentano di infilare la mani nella voliera e cani aggressivi in avvicinamento. Si mette sempre a svolazzare e a chiamare la zia quando si avvicinano alla gabbia i due gatti arancioni di casa. Il richiamo consiste in tre Pit successivi: “Pit, pit, pit”. Il numero dei pit dipende dal tipo di problema. Un solo Pit: serve qualcosa nella gabbia. Due Pit: Nuvola e Nembo non stanno bene. Tre Pit: Ci sono problemi esterni alla gabbia. E così via.

All’inizio la zia era perplessa, ma poi l’idea di poter proteggere e accudire meglio i suoi canarini ha avuto il sopravvento e Pit-x è stato inserito nella gabbia, direttamente dagli ingegneri del Centro- Trescia-111. Per alcuni giorni abbiamo dovuto lasciare la gabbia con i suoi inquilini al centro di assistenza, in osservazione. Il piccolo robot è stato quindi settato, caricato di energia e ha cominciato la sua attività. All’inizio ha osservato i suoi due coinquilini senza fare praticamente nulla. Un po’ perché stava apprendendo e un po’ per fare in modo che Nuvola e Nembo si abituassero alla sua presenza, senza viverla come una fastidiosa interferenza nella loro soddisfacente quotidianità. Poi, un po’ alla volta, Pit-x ha cominciato a muoversi, cantare, mangiare e mandare tutti i segnali di pericolo per cui è stato programmato.

Adesso sono tre anni che Pit-x abita nella voliera della zia e si comporta molto bene. Gli altri due canarini lo hanno accolto tra loro senza problemi e se si entra nella cucina della zia li si sente cantare tutti e tre soddisfatti “pit pit pit”.La zia Costanza li guarda sempre con molto orgoglio e lo sguardo abbraccia tutti e tre i canarini allo stesso modo. Anche lei si è affezionata a Pit-x.
Purtroppo Nuvola e Nembo non hanno mai fatto piccoli. Nonostante ci sia il nido nella gabbia, Nuvola non ha mai deposto nemmeno un uovo. A volte ci chiediamo se è la presenza di Pit-x che ha interferito con l’attività riproduttiva. Potrebbe essere, ma non sappiamo in che modo. A Trescia-111 ci hanno detto che in altri casi i canarini-robot sono stati ben accolti dalle nuove nidiate, anzi che sono diventati dei bravissimi Pit-sitter per i neonati. Da noi questo non è successo.

Un giorno Pit-x è svenuto. L’abbiamo visto disteso sul fondo della gabbia col le zampette all’insù e gli occhi chiusi. Sembrava morto. Ce ne siamo accorti perché Nuvola e Nembo si sono messi a fare dei cinguettii molto strani. “Pi Pi Piii Piiiii” Una specie di gorgheggio sincopato del tutto inusuale. Anche loro pensavano che Pit-x fosse morto. Invece era un problema elettronico che è stato risolto velocemente. Quando l’abbiamo rimesso nella gabbia aggiustato, abbiamo visto che Nuvola e Nembo erano molto contenti. Saltellavano di qua e di là cantando e poi si sono messi a strappare un po’ di radicchio e l’hanno offerto a Pit-x. Lui ha mangiato il radicchio e poi dai suoi occhi sono scese due lacrime. Questa cosa ci ha impressionato. Da chi ha imparato Pit-x a piangere? I canarini olandesi non piangono mai. Ha imparato da noi umani? Ha visto qualcuno di noi piangere e ha associato questo stato d’animo ad un’emozione forte? Non sappiamo. Sappiamo solo che Pit-x sa piangere.

I processi di apprendimento di un robot avvengono per imitazione e per ricostruzione di catene neuronali che associano quel che le telecamere registrano. La spiegazione più semplice sembra quindi quella che Pit-x sappia osservare e registrare i comportamenti, non solo dei canarini, ma anche quelli di altri esseri viventi che può osservare da vicino. Questa costatazione fa riflettere. Cosa può imparare davvero un canarino-robot, fin dove può arrivare la sua modalità di apprendimento per imitazione? Un dilemma che non vale solo per i canarini ma per tutti i robot di nuova generazione. Le frontiere dell’apprendimento per imitazione sono la scommessa delle scommesse ma, per fortuna, centrano poco con la tranquilla vita che si svolge ogni giorno nell’allegra gabbia della zia Costanza. “Pit” dice la zia, “Pit Pit Pit” gli rispondono in coro i nostri tre canarini.

Avvertenza:
Costanza e il suo mondo sono solo apparentemente diversi e distanti dal mondo che usiamo definire “reale”, e quasi sovrapponibili ad ogni mondo interiore. Chi fosse interessata/o a visitare gli articoli-racconti di Costanza Del Re, può farlo cliccando [Qui]

Eataly: cosa c’è sulla punta della forchetta

 

Eataly chiude definitivamente gli store di Bari e Forlì. I due negozi, che hanno complessivamente 80 dipendenti, non riapriranno neppure quando l’emergenza sanitaria sarà finita. “La decisione è maturata su fattori di contingenza locale aggravati dalla pandemia. I piani di sviluppo di Eataly restano confermati. Bari e Forlì sono gli unici negozi che non verranno riaperti, e la priorità oggi riguarda la situazione del personale e lavorare con le organizzazioni sindacali in modo fattivo e collaborativo per ridurre gli impatti di stabilità reddituale sul personale dei due negozi”, spiega l’azienda in una breve nota.
Il punto vendita di Bari era stato aperto nel 2013 nell’area della Fiera del Levante, quello di Forlì nel 2014 in un palazzo storico della città come una costola dell’azienda principale, Romagna Eataly, proprietà al 50% di Farinetti e il restante della famiglia Silvestrini, fondatori di Unieuro.
La Filcams Cgil parla di “doccia fredda” e chiede che sia tutelata l’occupazione.

Quella sopra riportata è la nota stampa dell’ANSA. Mi viene in mente, leggendo la fredda descrizione dei fatti, quel che William Burroughs scrisse a proposito del significato del titolo “Il pasto nudo”, uno dei suoi più celebri romanzi: “Il pasto nudo è l’attimo congelato quando ognuno vede cosa c’è sulla punta della sua forchetta”. Le forchette a Eataly si muovono al ritmo delle canzoni pop trasmesse alla Leopolda, tra un brainstorming e l’altro foderati di imprenditori moderni, illuminati, che disegnano visioni di un’impresa attenta ai bisogni dei propri dipendenti. Tutto questo racconto, la cui trama è formata dalle storie di cavalieri del lavoro senza macchia e senza paura, pronti ad affrontare con piglio progressista le sfide del futuro, prodigiosi e filantropici “creatori di posti di lavoro” come se questo fosse il loro vero scopo ultimo (qualcosa di filosofico, di umanistico), si accartoccia come le pagine di un racconto gettato frettolosamente tra i pellet di una stufa, non appena i fatturati calano.

Ma come. Eppure, a gennaio 2020 sul Corriere della Sera Oscar Farinetti, fondatore e proprietario di Eataly, raccontava le magnifiche e progressive sorti della sua creatura, mentre annunciava la ascesa del figlio (che sarà bravissimo, come tutti i figli d’arte) al ruolo di amministratore delegato:

“E così il 35enne Nicola, il figlio “americano” di Oscar, si appresta a prendere i pieni poteri dell’azienda come amministratore delegato. Andrea Guerra non lascerà immediatamente. Andrea Guerra resterà presidente di Eataly almeno per tutto il 2020. Il diretto interessato conferma: «Si è completato un percorso di cinque anni, oggi Eataly ha una sua struttura manageriale e può gestire il ricambio. Quanto a me riposerò per un po’ e poi valuterò nuove opportunità nel business». Ma il cambio di governance che cosa comporta per l’itinerario della società? Addio Borsa, penseranno i più. «Assolutamente no — replica il fondatore Oscar Farinetti — Eataly non ha bisogno di rastrellare quattrini sul mercato, è in grado di finanziare la crescita tranquillamente con il suo cash flow. E comunque siamo pronti per la Borsa e quando un giorno decideremo magari ci quoteremo direttamente a New York».
Ci dà però i numeri di Eataly ad oggi?
«Oggi Eataly ha un perimetro di ricavi, compreso il franchising, di 620 milioni. Ha un Ebitda vicino al 5% e un utile netto che si colloca tra i 5 e i 10 milioni. Nell’ultimo anno siamo cresciuti del 10%, il 3% con i negozi già esistenti e il resto con le nuove aperture. Toronto è stato uno spettacolo, c’era la fila per tre isolati. Ma non ci fermiamo qui, vogliamo aprire in altre 100 città del mondo. E possiamo farlo proprio in virtù del gran lavoro che Andrea Guerra ha fatto in questi cinque anni con noi»“.

Con un utile del genere, ricavi stramilionari e aperture previste in tutto il mondo, tuttavia, se un punto vendita funziona peggio del previsto si tagliano i posti di lavoro. Licenziamenti collettivi, senza tante discussioni. Del resto, la legge lo consente. I sindacati in questi casi sono costretti a giocare di rimessa, a limitare i danni, a cercare soluzioni alternative che l’imprenditore illuminato non ritiene di dover cercare da solo, nonostante la filantropia e l’umanesimo. Del resto, la legge lo consente.

Come spesso accade, la cruda verità non trapela dai numeri dei bilanci o dalle storie ammantate di leggenda di questi “capitani coraggiosi”, ma appare nelle parole di un visionario delirante e tossicodipendente, quale Burroughs indubbiamente era quando scrisse “Il pasto nudo”. Nessuno, tantomeno il sottoscritto, ha titoli per mettere in discussione le capacità di intrapresa di un signore che (peraltro con una buona base familiare) ha creato un’azienda coi numeri che lui stesso ha entusiasticamente sciorinato solo un anno fa. Quella che infastidisce è la narrativa di gloria che accompagna le gesta di questi capitani d’industria, cui però non corrisponde uguale e contraria censura quando le loro scelte d’impresa (perchè sono loro e del loro amministratore delegato, non di un’entità aliena e malvagia) portano un colosso dai flussi di cassa che si autofinanziano a cancellare con un tratto di penna posti di lavoro perchè alcuni store vanno male. Se vanno bene, l’imprenditore assurge a moltiplicatore dei pani e dei pesci, se vanno male pazienza, chi ci rimette sono “i suoi ragazzi”.

Ci sono alcune parole che sono state cancellate dal vocabolario d’impresa, perchè troppo brutte da pronunciare, perchè evocano lo scontro, il conflitto di classe. Che non esiste più, è roba obsoleta, ottocentesca. Una di queste è la parola “padrone”. Cosa c’è di innominabile in questa parola, tale da non poterla più dire? Il padrone è quello che della sua roba fa quello che vuole: questa è la sostanza quando le cose vanno male, o anche semplicemente meno bene del previsto. Chiamare le cose con il loro nome aiuterebbe almeno a fare pulizia mentale.

PER CERTI VERSI
Infanzia

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
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INFANZIA

Quella volta
il temporale…
I fulmini
Mettevano trecce alla luna
La nostra palla magica
Te la ricordi
Saltare
Sempre più in alto
Ci chiedevamo fino dove
Forse ce lo chiediamo ancora
Il mappamondo
Dei sogni
Quella sfera
Che portavamo
In petto
Medaglia d’oro
Dopo una corsa
Il temporale
Rovesciava straventi
Ululati
Pensavamo ci fossero
I lupi
Di là dal giardino
La pioggia liberava
I profumi
L’odore acre
Del calore
Ci imprigionava
Tra le sue sbarre
Allora ci buttammo
Saltellando
Tutti fradici
Di acqua e felicità

Al cantón fraréś
Nino Tagliani: “Via Campofranco”

 

La denominazione della Via deriva dalla concessione data, nel XIV secolo dagli Estensi, ai duellanti per potersi battere in un campo franco. Nel vicolo si trova la chiesetta del Corpus Domini. Vi sono sepolti personaggi della famiglia d’Este, fra cui Lucrezia Borgia. Vi è annesso l’antico monastero di clausura delle Clarisse, dove operò S. Caterina de’ Vegri, celebrata anche per il miracolo della cottura del pane. Nella poesia, Nino Tagliani immagina la piccola strada, appartata e silenziosa, come luogo d’incontro tra innamorati, tratteggia le peculiarità del luogo di culto, ricorda l’episodio della santa.
(Ciarìn)

Via Campofranco

L’è na stradéta aηcora coi giarùη,
stricàda fra du mur, već, scalzinà,
na stradéta ch’aη pasa quaś nisùn,
al dì, mo iηvéz ad sira, tut stricà
spiplànd al scur, na ciòpa d’ambruśìn
i zérca al paradìś int uη baśìη.

Uη sitìη quiét, coη sol una ciśìna
dill vòlt avèrta mo più spés saràda
che pochi i tgnós dal tant ch’l’è piculìna,
e da chi mur, a dśéη, quasi lugàda
mo chi ‘g va déntar par curiosità
al sent ch’l’è la più granda dla zità.

Briśa parché là déntar j’à suplì
Lucrezia Borgia, e źént tuta impurtànta
dla storia ad Frara, mo parché uη bel dì
int al cuηvént, da suóra, è dvantà santa
faśénd al paη col Sgnór, ogni matìna,
na ragaza di Vegri: Catarina.

Via Campofranco

È una stradina ancora coi ciottoli, / stretta fra due muri, vecchi, scalcinati, / una stradina dove non passa quasi nessuno, / di giorno, ma invece di sera, tutti stretti / bisbigliando al buio, una coppia di fidanzatini / cerca il paradiso in un bacino. /

Un luogo quieto, con solo una chiesetta / a volte aperta ma più spesso chiusa / che pochi conoscono tanto è piccolina, / e da quei muri, diciamo, quasi nascosta / ma chi vi entra per curiosità / sente che è la più grande della città. /

Non perché là dentro hanno sepolto / Lucrezia Borgia, e altra gente importante / della storia di Ferrara, ma perché un bel giorno / nel convento, da suora, è diventata santa / facendo il pane col Signore, ogni mattina, / una ragazza dei Vegri: Caterina.

Tratto da:
Nino Tagliani (Faηghét), Spulgadur fraresi : da lèzar intànt c’as brustèla la pulenta, Ferrara, SATE, 1968.

Nino Tagliani (Ravalle 1905 – 1998)
Generale dell’Arma dei Carabinieri. Conosciuto nell’ambito dialettale con lo scutmai (soprannome) di Faηghét, ha pubblicato varie raccolte di poesie, tutte in sestine endecasillabi: Spulgadùr fraréśi (1968), Bidùη, urtìg e campanèli (1969), Al marafóη śligà (1971), Sfuracèli (1976), La fiéra di śdaz con Luigi Vincenzi (1977), La pèrdga dal lóv (1978), Stupiùη (1982), Al granadèl (1983).

 

Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui] 

In copertina:  Ferrara, via Campofranco – foto di Marco Chiarini

Mo-LESS-tie

 

È un giovedì mattina come tanti altri: mi alzo, faccio colazione, prendo il mio cellulare e spreco il poco tempo libero che mi rimane, prima di mettermi a studiare, scorrendo il dito sullo schermo. Sono gesti automatici a cui non presto attenzione, tocco dopo tocco sono diventati parte della mia routine.
E così l’Evergreen che blocca il canale di Suez, la nascita di Vittoria Lucia-Ferragni e il pittore impazzito che si diverte a colorare le regioni italiane accompagnano il mio risveglio ogni giorno.
Altre informazioni indistinte allungano il mio caffè, scambio qualche messaggio e rimango fedele alla mia appendice digitale.

Una notizia in particolare però coglie la mia attenzione più delle altre. Leggo articoli, vedo Instagram Stories, post e commenti aventi un solo soggetto, Damiano Coccia alias Er Faina. Lo sgomento provocato da questo personaggio, noto per avere opinioni irriverenti e mancanza di filtri, inizialmente mi incuriosisce: è possibile che tra commenti anarchici e trasgressione, a cui ha abituato il suo pubblico, riesca ancora stupire? A malincuore scopro che la risposta è positiva.

Prima di concentrarmi sulla frivolezza delle parole utilizzate da Coccia, mi permetto di introdurre il tema con la delicatezza che merita. A meno di un mese dall’aver promesso rispetto ed uguaglianza alle donne l’8 marzo, il primo Aprile 2021 si parla di CatCalling sminuendolo e facendolo passare per un complimento desiderato ed altamente formativo per l’autostima femminile. Purtroppo, nonostante la data potesse far pensare ad uno scherzo, di divertente non c’è nulla.

Il Catcalling, o molestie di strada, oltre ad includere azioni come avance sessuali persistenti, palpeggiamenti da parte di estranei ed inseguimenti, include anche le tanto discusse molestie verbali, quali fischi, gesti o commenti indesiderati, che possano mettere altamente a disagio chi li riceve. La sopracitata polemica di Coccia, il quale dopo essersi messo in ridicolo davanti a tutta Italia, ha avuto almeno la decenza di chiedere scusa, pretendeva che frasi puramente oggettificanti, gridate a squarciagola in luoghi pubblici, senza alcun consenso da parte di chi le riceve, dovessero passare come meri complimenti.

Ora, non voglio soffermarmi sulle intenzioni dell’influencer, personalmente sono lieta che si sia reso conto dei suoi errori e che si sia scusato pubblicamente. Mi interessa ancora meno della natura di queste scuse, certo non deve essere difficile capire di aver sbagliato se tutto il Web ti ripete che non devi fare altro che vergognarti.
È l’ignoranza che vorrei mettere al centro dell’attenzione e vorrei puntare i riflettori su questa parola dal suono straniero che tanti non conoscono.

Nel 2021 è ora che si capisca che la violenza, di qualsiasi natura e in qualsiasi contesto, nasce quando qualcuno insiste dopo aver ricevuto un no come risposta. Il consenso deve diventare la nuova chiave di lettura di ogni comportamento e di ogni azione. Ogni individuo, di qualunque genere, etnia ed orientamento sessuale deve avere il diritto di sentirsi al sicuro. Abbiamo il dovere di creare una società che rispetti la libertà altrui e che sia libera da quella limitazione culturale, a cui ci ha da sempre abituato il patriarcato. Il sessismo, così come il razzismo e la xenofobia, sono costrutti mentali e culturali che vanno sdoganati ora e per sempre: il nostro mondo è cambiato e si è evoluto, non abbiamo più né tempo né voglia per dei limiti impostici a priori.

È tempo che, quando una donna esce di casa da sola, giorno o notte che sia, si senta al sicuro quanto un uomo. È tempo che il nostro genere, il colore della nostra pelle e il nostro dio non mettano a rischio la nostra incolumità. È tempo che l’uguaglianza evolva dalla sua connotazione statica di utopia e condanni a morte l’ignoranza.