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Elezioni: “Tutti noi ce la prendiamo con la storia ma io dico che la colpa è nostra”

Non è vero che la maggioranza degli italiani è di destra. Magari è vero che la maggioranza degli italiani non è di sinistra (questo lo diceva D’Alema per giustificare il tentativo di sfondare al centro per vincere le elezioni).  Ma la destra cos’è? E cos’è la sinistra? Il pittore più talentuoso del quadro è sempre Giorgio Gaber:

Il pensiero liberale è di destraOra è buono anche per la sinistraNon si sa se la fortuna sia di destraLa sfiga è sempre di sinistra

Non si può fare l’esegesi di Gaber. E’ lui l’esegeta delle nostre miserie, per cui sarebbe ridicolo cercare di interpretarlo, come si fa a scuola o nei testi di critica. Non c’è bisogno, basta leggere o ascoltare. Quante cose vengono in mente solo leggendo quelle quattro righe? E’ come un ipertesto. Il liberismo economico sposato da gente che ha usato il vecchio “partito” come un tram cui far cambiare strada, per poi scendere e mollarlo come un ferrovecchio in mezzo a quella strada. Lo smottamento ideale di chi, dissolta la cortina di ferro, non sa più “a chi credere” e quindi diventa più realista del re, cioè più liberista del padrone. L’immagine degli sfigati perdenti rovesciata dal vincente (oramai da un pezzo ex vincente) Renzi.

Una donna emancipata è di sinistraRiservata è già un po’ più di destraMa un figone resta sempre un’attrazioneChe va bene per sinistra e destra

E queste? Se mi dici che, da persona di sinistra, non hai mai ceduto al fascino del figone, magari esibito dal puttaniere di cui detesti la cafonaggine, non ti credo. In questo caso nulla di grave, solo dovresti prenderti meno sul serio: evita di fare il moralista.  Se non pretendi di imporre agli altri quello che tu non pratichi, sarai automaticamente meglio di loro.  Per il resto fai come loro, fregatene. Vivi e lascia vivere. Loro vivono come gli pare ma vogliono dire a te come vivere. Lascia a loro il primato del bigottismo.

L’ideologia, l’ideologiaMalgrado tutto credo ancora che ci siaÈ il continuare ad affermareUn pensiero e il suo perchéCon la scusa di un contrasto che non c’èSe c’è chissà dov’è, se c’è chissà dov’è

Se sei Pepe Mujica lo capisci dove sta il contrasto, perché lo vivi dalla parte di chi sta peggio. Se sei un parlamentare che si è assuefatto al ponentino romano (si fa presto) e si porta a casa 500 euro al giorno, il contrasto non lo vedi, perchè non lo vivi. Non si tratta di fare l’elogio della miseria, ma di praticare la sobrietà. Se stai sopra, quelli che stanno sotto ti appaiono come persone con la colpa addosso, quella di essere poveri. Al massimo meritevoli di un po’ di carità. Stare in mezzo alla gente non vuol dire andare nei mercati, o servire mezza giornata alle mense dei poveri, o dei ristoranti coi ragazzi autistici. Vuol dire essere parte di quella gente, essere uno di loro.

Tutti noi ce la prendiamo con la storiaMa io dico che la colpa è nostraÈ evidente che la gente è poco seriaQuando parla di sinistra o destra
(Giorgio Gaber)

Destra – sinistra Giorgio Gaber

2 ottobre, Elezioni in Brasile: 182 indigeni si presentano come candidati

da: Associazione per i Popoli Minacciati( APM)  

Quest’anno sono 182 i candidati di 45 popoli indigeni che si presenteranno alle elezioni brasiliane del 2 ottobre.

Provengono da un totale di 24 Stati della regione amazzonica, del nordest e del sudest, dell’ovest e del sud del Brasile. Oltre al presidente, la popolazione brasiliana elegge i nuovi governatori e i membri del Senato e del Congresso.

Si vota anche per i parlamenti statali di tutti i 26 Stati federali. Qui, 30 indigeni sono in corsa, altri 21 sono in corsa per la Camera dei Deputati a Brasilia, tre sono in corsa per i governatorati, uno per il Senato. Un’altra donna indigena è in corsa per la vicepresidenza insieme alla candidata presidenziale socialista Vera Lucia.

Quattro anni di politica anti-indigena sotto Jair Bolsonaro hanno politicizzato ancora di più il movimento indigeno in Brasile.

I rappresentanti indigeni vogliono essere presenti attivamente a tutti i livelli politici e rappresentare direttamente i loro diritti.

Da quando Bolsonaro si è insediato, le popolazioni indigene brasiliane hanno subito un enorme regresso e non poche violazioni dei diritti umani e spesso attacchi mortali alle loro comunità.
L’invasione dei territori indigeni, l’accaparramento delle terre e gli omicidi difficilmente vengono puniti.

Soprattutto durante la pandemia di Coronavirus, la violenza e le invasioni sono aumentate.
Senza il sostegno delle autorità competenti, le popolazioni indigene brasiliane hanno dovuto fare affidamento su organizzazioni partner nazionali e internazionali per rendere pubblici gli attacchi e le violazioni dei diritti umani.

È tempo che il Brasile elegga un presidente migliore e più umano. Allo stesso tempo, per l’Associazione per i popoli minacciati (APM) è importante che venga eletto il maggior numero possibile di candidati indigeni, affinché possano difendere i loro diritti e contrastare gli interessi delle grandi aziende. Nessuno può rappresentare politicamente gli interessi indigeni meglio di loro stessi.

La rappresentante mbya guarani Kerexu, candidata come deputato a Brasilia, spiega: “Se Joenia Wapichana da sola [eletta deputata nel 2018] è riuscita a mobilitare parte del parlamento per difendere i diritti indigeni e l’ambiente, immaginatevi due, tre, quattro donne indigene in parlamento!”. È riuscita a lavorare come lavora un rappresentante indigeno, collettivamente”.

Sônia Guajajara, candidata al Parlamento di Brasília, afferma: “Le nostre candidature non sono una ricerca del potere per avere il potere. Siamo le voci che devono essere ascoltate. ma la nostra lotta non è solo a livello politico, è una lotta permanente per la sopravvivenza”.

Associazione per i Popoli Minacciati
L’APM dà voce alle vittime delle violazioni dei diritti umani. Assieme alle vittime, ci impegniamo per i diritti delle minoranze etniche, linguistiche e religiose minacciate e perseguitate, dei popoli senza Stato e delle comunità dei popoli indigeni. Senza condizionamenti politici o ideologici rendiamo noti crimini contro l’umanità e accusiamo i responsabili di genocidi, di esodi di massa, di repressioni, di persecuzioni e di discriminazioni. Con il nostro stato consultivo presso le Nazioni Unite abbiamo il diritto di parola alle Conferenze internazionali. In questo modo consentiamo ai rappresentanti di queste minoranze l’accesso agli organi dell’ONU. La nostra organizzazione lavora al livello internazionale: l’APM si trova in Germania, Italia (Sudtirolo), Francia, Svizzera, Austria, Lussemburgo e Bosnia-Herzegowina. www.gfbv.it

Cover: manifestazione di protesta dei popoli indigeni in Brasile (Foto di http://www.survival.it/)

ACCORDI
Spaghetti al pomodoro

A Long December (Counting Crows, 1996)

Spaghetti al pomodoro
Sulle note dei Counting Crows ho appena preso una cipolla quando K entra in cucina e mi fa «Spero sia tropea, ne basta mezza.»
«Certo certo, naturalmente!» rispondo subito.
Viviamo insieme da dieci anni, io e K, e ogni volta che mi metto ai fornelli arriva lui a controllare che faccia tutto per bene, come se non sapessi come si fa un banale sugo al pomodoro.
Allora, taglio a pezzetti sottili la mia mezza tropea, la metto in padella, ci verso l’olio…
«Alt, è extravergine spero!»
«Ovvio, è da una vita che usiamo solo quello!» faccio io.
Quindi inizio a soffriggere e…
«Mi raccomando, basta un’indorata!»
«Un’indoche?» faccio un sospiro «Sì dai che ho capito.»
Abbasso la fiamma e butto il pomodoro nel soffritto.
«Hai usato i pezzettoni? Lo sai che sono meglio della passata.»
«Ceeerto che ho usato quelli, che ti credi?», altro sospiro.
Inizio a mescolare e…
«Ricordati il dado vegetale!» insiste di nuovo. Usare il dado era stata un’invenzione di Viki.
«Senti, vuoi farlo tu?» rispondo io porgendogli il dado che avevo appena scartato «Se vuoi accomodati!»
«Ok, non parlo più.» dice lui sistemandosi in un angolo tra la tavola e il frigorifero.
Finalmente concludo la mia preparazione senza ulteriori interventi di K. Rimescolo il tutto a fiamma lenta finché il dado non s’è completamente sciolto, nel frattempo m’accorgo che l’acqua nella pentola sul fornello a fianco ha iniziato a bollire, così ci verso gli spaghetti, regolo il timer a undici minuti, metto il fuoco del sugo al minimo e aspetto.

In effetti K non ha mai parlato, ma mi piace pensare che lo faccia. Lui si limita a guardarmi con interesse, qualsiasi cosa faccio. Lo fa da sempre, lo faceva anche con Viki.
Viki manca come l’aria, a tutti e due. Da quando non c’è più, K ha preso il suo posto sul divano: sente ancora il suo profumo sul cuscino.
Ogni giorno K mi ricorda di Viki, di quando lei tornò una sera con un caldo batuffolo di pelo in braccio e me lo porse dicendomi “Ecco questo è K, è un maschietto e starà con noi per tanto tempo spero.”

“Viki, amore, K è sempre qui mentre tu te ne sei andata. Curiosa la vita eh?”

Sento squillare: la pasta è pronta!
Butto gli spaghetti nello scolapasta in una nuvola di vapore, li verso nella padella del sugo e li mescolo per bene, per finire aggiungo tre foglioline di basilico.
K esclama «Evviva si mangia!»
Ovviamente lo dice senza parlare: scodinzola e si lecca i baffi, gli occhi gli brillano di gioia.
Non ci vuole molto per capire K e quelli come lui, chi ama un cane lo sa bene.
Porto la padella in tavola, una bella spolverata di parmigiano e… buon appetito!

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IL PREMIO ESTENSE VISTO DA DENTRO
Mario Breda vince la 58° edizione. Premio Granzotto a Giovanna Botteri

 

Quest’anno vi vogliamo raccontare il Premio Estense visto da dentro. Una vera coccola per i nostri affezionati lettori. Proprio così, vi raccontiamo la 58° edizione del premio da (co)protagonisti della decisione sul vincitore dell’Aquila d’oro consegnata sabato 24 settembre al Teatro Comunale di Ferrara: per il primo anno sono parte della giuria dei lettori. Un onore che mi ha reso felice per la ricchezza dell’esperienza ma, soprattutto, orgogliosa del privilegio di far parte di quel gruppo ristretto che ha potuto dibattere con una giuria tecnica di grande prestigio intellettuale. Una ricchezza che ci si porta dentro.

Nella nostra città, il Premio Estense è un’istituzione da oltre 50 anni, ricordo quando al liceo sognavo di parteciparvi come spettatore elitario. Mai avrei immaginato che un giorno avrei potuto essere dalla parte di chi quei libri li avrebbe letti e votati. La vita sa riservare belle sorprese. In realtà questo prezioso riconoscimento è ormai diventato noto e prestigioso anche a livello nazionale. Nel tempo si è sempre di più contraddistinto per il suo livello e la qualità dei partecipanti. Senza contare che da 18 anni viene presentato da una bravissima giornalista, Cesara Bonamici, ormai affezionata e gentile padrona di casa.

La quartina finalista del premio quest’anno è stata selezionata fra ben 45 opere, un bell’impegno per la giuria tecnica composta da 10 grandi firme del giornalismo: Giacomo Bedeschi, Michele Brambilla, Luigi Contu, Tiziana Ferrario, Paolo Garimberti, Jas Gawronski, Giordano Bruno Guerri, Laura Laurenzi, Agnese Pini, Venanzio Postiglione.

A contendersi il titolo di eccellenza nel e del giornalismo italiano, Mirella Serri con Claretta l’hitleriana. Storia della donna che non morì per amore di Mussolini (Longanesi), Dacia Maraini, con La scuola ci salverà (Solferino), Maurizio Molinari, con Il campo di battaglia. Perché il Grande Gioco passa per l’Italia (La nave di Teseo) e Marzio Breda, con Capi senza Stato. I presidenti della Grande Crisi italiana (Marsilio).

Quartina finalista a Palazzo Crema, foto Valerio Pazzi

Ammetto, e quindi vi svelo, che fino quasi all’ultimo ho tifato e votato per Mirella Serri, poi alla quinta votazione ho dovuto cedere, dando vita a quello che una brillante giovane giurata (mi scuserà se non ne ricordo il nome) ha definito come il necessario terzo polo che doveva avere – e ha avuto – un ruolo decisivo nella decisione finale.

Inizialmente si pensava a un duello tutto al femminile. A fronteggiarsi, infatti, nelle preferenze di entrambe le giurie, Mirella Serri e Dacia Maraini, che parevano le favorite. Sembrava fatta, ma poi l’acceso dibattito, i vari punti di vista e il pronostico si ribalta. Non si deve votare il tema o la personalità, si dice fra i giurati, ma il lavoro giornalistico. Qualcuno deve essere disposto a convergere verso i due che, a un certo punto, hanno più voti, Marzio Breda e Dacia Maraini. Un bel testa a testa. Deduco che sul primo siano convogliate le preferenze che erano di Molinari, ma non solo. E si arriva al verdetto. A sorpresa, il quirinalista Breda, con il suo Capi senza Stato. I presidenti della Grande Crisi italiana, si aggiudica il prestigioso riconoscimento.

Ma veniamo ai libri, a ritroso. Tutti meritevoli di lettura e attenzione.

Il testo di Mirella Serri è un’autentica scoperta. Rigore storico (Mirella è docente di letteratura italiana contemporanea all’Università La Sapienza di Roma, oltre che collaboratrice de La Stampa, di Rai Storia e di Rai Cultura), profonda analisi e conoscenza di documenti inediti e notizie ricavate dalle lettere e dai diari di Claretta Petacci, con questo libro assistiamo a una rilettura non convenzionale di uno dei simboli del Novecento femminile, all’interno di uno dei capitoli più controversi della nostra storia recente. Claretta non è più la donna che si immola per amore di un uomo, come ci è stata sempre presentata: anche Sandro Pertini, il valoroso comandante partigiano che aveva ordinato l’esecuzione di Benito Mussolini, divenuto poi presidente della Repubblica italiana, negli anni ‘80 condannò l’uccisione di Claretta, sostenendo che era stata una donna coraggiosa e generosa. Il ruolo di vittima immolata sull’altare dell’amore è stato a lungo uno stereotipo che oggi non regge più, quasi un’attenuante alle colpe del fascismo e al ruolo che una donna poteva avere in quel mondo fatto di gerarchi corrotti parte della casta (ricorda qualcosa…).

Mirella Serri, foto Valerio Pazzi

In queste pagine della Serri, che si leggono come un romanzo, Clarice, detta Claretta, viene dipinta non come una sciocca o una delle numerose mantenute di Stato ma anche e soprattutto come un’abile e astuta calcolatrice. Una vera arrivista alla ricerca di privilegi per sé e la propria famiglia con l’ambizione, nella fase finale del regime, di porsi come intermediaria con i vertici del Terzo Reich, fino a voler arrivare a Adolf Hitler. La protagonista non è più personaggio ma diventa persona, ritratta nella sua quotidianità fatta di arrivismo, opulenza e privilegi ma anche di violenza fisica e morale, come quella che i gerarchi, e lo stesso Duce, perpetuavano su compagne, mogli e amanti. Tradimenti e schiaffi, calci di stivali e percosse, tutto taciuto e accettato. Mirella, a fianco di ogni gerarca, apre una parentesi per ricordarne la fine (giustiziato dopo il processo di Norimberga, suicida…): le interessa mettere a confronto la loro vita “normale” fatta di pranzi, cene e passeggiate con quella sconosciuta e sotterranea in cui lavoravano a orrendi misfatti. In tale ambiente Claretta sopravvive con cinismo, spietatezza, avidità e ambizione, attratta e, in fondo, innamorata del suo potente amante, sopportandone i tradimenti continui (ho più corna di un cesto di lumache, dice) ma determinata a ricavarne ogni sorta di vantaggio. Fortemente antisemita, per sé stessa e la sua famiglia si dedica al malaffare, dal traffico d’oro e di petrolio fino ai soldi presi dagli ebrei a cui concedeva certificati di arianità, presunto passepartout per la salvezza.

Clara certamente non andava condannata a morte, con una fine indegna anche del peggior criminale (a dirlo sono in molti), ma andava sottoposta a un regolare processo per le sue responsabilità: non tanto, e solo, per gli imbrogli da lei gestiti fin dalla metà degli anni Trenta ma soprattutto perché Clara a Salò, tramite l’ambasciatore plenipotenziario Rahn, fu la “portavoce degli interessi di Hitler presso Mussolini”, come fu esplicitato dagli stessi partigiani. Al Duce stanco, qui isolato e spiato dai nazisti, lei continuava a suggerire di affidarsi all’amico Hitler per la salvezza. Quando invece sarebbe stato tradimento. Un prezioso e interessante documento storico che si legge d’un fiato.

“Tu sei odiata al pari di me e forse più di me… Fatti dimenticare” – Benito Mussolini

La scuola ci salverà, di Dacia Maraini, è, invece, un libro, per la precisione una raccolta di articoli e racconti pubblicati negli anni principalmente sul Corriere della Sera (poco o nulla è cambiato, paiono scritti oggi), che aiuta a capire la scuola italiana, ma soprattutto a spazzare via molti luoghi comuni.

Secondo questo scrittrice vero patrimonio nazionale, la scuola, soprattutto nei momenti di crisi, può fare la differenza, la scuola che è un diritto e non un dovere. La scuola che deve formare e aiutare a crescere, non un’azienda che produce tecnocrati perfetti ma un luogo che forgia i cittadini di domani. Queste pagine sono un vero messaggio d’amore nei confronti della cultura e dei giovani e invitano a riflettere, nelle storie di chi, in Africa, vuole andare a scuola ma non può e allora decide di andarsene.

La scuola in Italia è fatta di tanti insegnanti mal retribuiti (i meno pagati d’Europa) ma fortemente motivati e con una Missione, quella di educare, trasmettere valori e conoscenza. Perché solo sapendo si può capire e crescere nella tolleranza e accettazione dell’altro.

Dacia Maraini, foto Valerio Pazzi

Sono ottimista”, dice la scrittrice in un’intervista, “perché vado continuamente nelle scuole e vedo che tanti presidi e insegnanti si danno da fare con coraggio e generosità. Suppliscono all’assenza dello Stato che finora ha sempre tagliato e mai investito in questo settore strategico per la crescita di un Paese che si vuole definire civile”.

La scuola è sacra, una sacralità fatta di disciplina, di rispetto per i professori ancora prima da parte dei genitori che degli alunni, di reverenza per un percorso che non deve produrre nulla ma solo formare dei cittadini responsabili, rispettosi e consapevoli, con la mente aperta e sempre critica. Per arrivare a pensare sempre con la propria testa, “confrontandosi coi grandi pensatori del passato e con la Storia nella sua complessità”.

Sulla scuola, quindi, si deve investire, basta essere la Cenerentola di ogni piano a breve, medio o lungo termine. Con coscienza del suo ruolo, in pura meritocrazia. Perché nessuno resti indietro o sia costretto ad andarsene all’estero in cerca di meglio.

Messaggio d’amore ma anche di speranza e richiesta di aiuto. Da portare sempre con sé.

“Gli insegnanti lavorano con il futuro e il futuro è misterioso, a volte buio come le notti senza luna. Ma chi crede nel futuro è capace di attendere che dietro quelle nuvole rispunti la luce, ed è quello di cui ha bisogno la scuola in questo momento”.

Maurizio Molinari, nel suo Il campo di battaglia. Perché il Grande Gioco passa per l’Italia, ci parla della storica – e da noi italiani sottovalutata – importanza strategica del nostro paese sullo scenario geopolitico mondiale. L’Italia è oggi più che mai è un “campo di battaglia” e di sfida per tutto l’Occidente e il direttore di Repubblica, grande esperto di politica internazionale, ce ne spiega le ragioni profonde dalle radici lontane.

L’Italia, è la tesi del libro, è la cartina di tornasole della capacità delle democrazie occidentali di adattarsi alle trasformazioni del XXI secolo. Dal ruolo che ricopre nel tentativo della Russia di conquistare accesso al Mediterraneo (questo spiega il legame con i passati interventi militari russi in Georgia, Siria, Libia e Mali così come l’interesse a incalzare NATO e Unione Europea lungo il loro fianco sud. “Perché chi controlla lo Stivale”, dice Molinari, “domina gran parte dello scacchiere del “Mediterraneo allargato”, … il prepotente ritorno della Storia che riposiziona l’Italia nel bel mezzo del palcoscenico geostrategico globale”), fino a quello trainante ricoperto in momento di pandemia (primo Stato europeo a dovervi fronteggiare). Senza tralasciare l’importanza che il nostro paese può avere nel dibattito sui cambiamenti climatici e nella transizione ecologica. “L’Italia è in grado di essere protagonista dell’Agenda Verde della Commissione Europea perché il suo territorio fisico ne fa una piattaforma naturale per lo sviluppo di energie alternative – eolico, solare, idrico, sottomarino – e perché c’è un grande sostegno pubblico a premiare tali politiche. Ciò che manca è invece un piano governativo per lo sviluppo di una nuova generazione di infrastrutture capaci di proteggere la popolazione, che in gran parte si trova a vivere lungo le coste e dunque è più esposta ai rischi che ciò comporta. Serve anche un potenziamento dell’istruzione nelle scuole sui cambiamenti climatici affinché ognuno sappia che cosa implicano per noi tutti”. In tutto questo siamo terreno di scontro, il campo di battaglia su cui si giocano molte vitali partite.

“Il Grande Gioco attraversa la nostra Penisola, assegnandoci un ruolo strategico che supera spesso anche la nostra percezione”.

Infine, eccoci al vincitore, il Quirinalista Marzio Breda, autore de Capi senza Stato. I presidenti della Grande Crisi italiana. Trentadue anni passati al Corriere della Sera, seguendo le vicende e gli avvicendamenti al Quirinale. Cinque presidenti (Cossiga, Scalfaro, Ciampi, Napolitano, Mattarella), tutti diversi, con i quali, dice l’autore, “sono riuscito a stabilire un rapporto che andava oltre a quello che c’è tra il giornalista e la sua principale fonte. Il presidente, appunto”. “Per fortuna ho ottenuto la loro fiducia (in qualche caso anche l’amicizia)”, continua, “e ho cercato di farne un uso responsabile. Vale a dire che, quando mi veniva chiesta riservatezza, la garantivo, offrendo comunque ai lettori la genesi delle loro scelte con cognizione di causa. Senza faziosità o storture”. Tanti i retroscena e gli aneddoti di questa convivenza di autentica fiducia.

Marzio Breda, foto Valerio Pazzi

Equilibristi accorti o benevoli arbitri, notai o interventisti decisi. Molti sono gli “stili di regia” che i Presidenti della Repubblica hanno adottato negli ultimi decenni, (co)stretti fra fronti esterni e interni complessi. Ciascuno a suo modo ha affrontato la grande crisi italiana, con ruoli che si sono evoluti, allargando o restringendo le maglie delle prerogative della presidenza. Sono 19 gli articoli della Costituzione dedicati al presidente della Repubblica. Secondo i costituenti i capi dello Stato devono essere rappresentanti dell’unità nazionale e garanti della Costituzione, oltre a officiare i riti repubblicani (sciogliere le Camere, nominare i presidenti del Consiglio, promulgare le leggi). Un ruolo ‘notarile’ di scelte compiute comunque dal sistema dei partiti, rimasto tale e fermo fino ai primi anni Novanta, quando Mani Pulite fece tabula rasa dei partiti, scenario anticipato da Cossiga. È con lui che comincia la metamorfosi dei presidenti: il Quirinale diventa la camera di compensazione delle crisi, un centro di neutralità e tutela. Un interventismo giustificato dal potere non scritto di mediazione sottinteso alla carica. Rievocando Carlo Esposito, padre del costituzionalismo liberale, il quale sosteneva che quando il sistema si inceppa, il capo dello Stato diventa legittimamente ‘il motore di riserva’ della Repubblica. Questo spiega tutto, inclusa la spinta a trasformarsi in ‘presidenti governanti’. Il recente Mattarella docet.

Marzio Breda, vincitore, foto cortesia Premio Estense

“Siamo allo svuotamento della politica, alla rottura di un equilibrio storico”.

Eccoci al passaggio finale della cerimonia, non per questo meno empatico ed emozionante, fra gli applausi: il 38° “Riconoscimento Gianni Granzotto. Uno stile nell’informazione” assegnato a Giovanna Botteri. Notissima al grande pubblico (e da esso molto amata), di lei diremo solo che ha una laurea in Filosofia, un dottorato in Storia del cinema alla Sorbona, una grande passione per il giornalismo con gli inizi sulla carta stampata e l’approdo in Rai, che è stata per 13 anni corrispondente di guerra, da Sarajevo all’Iraq, prima di andare negli Stati Uniti, in Cina e oggi in Francia. Con un empatico discorso sulla sua esperienza di vita da giornalista (la Cina che estrania e la guerra che puzza), conclude: “umiliato da decenni di servilismo, nei confronti del potere politico e delle lobby, il giornalismo ha in questo preciso momento storico un’opportunità unica: tornare a essere credibile agli occhi delle persone. In gioco c’è la democrazia”. Un esempio per tutti.

Mirella Serri, Marzio Breda e Dacia Maraini, foto Valerio Pazzi

La scelta del vincitore del premio Granzotto è stata fatta dalla giuria presieduta da Gian Luigi Zaina, presidente della Fondazione Premio Estense e composta da sette industriali (Marco Arletti, Gianna Bigliardi, Nicola Lamacchia, Gianluca Loffredo, Andrea Panizza, Rudi Ricci Mingani, Paolo Saini), sentito il parere della Giuria Tecnica. Istituito nel 1985 in memoria di Gianni Granzotto, presidente per venti anni delle giurie dell’Estense, il riconoscimento viene conferito a chi, operando nel campo dell’informazione, si sia particolarmente distinto per correttezza, impegno e professionalità.

Foto in evidenza, Giovanna Botteri e Marzio Breda, cortesia Premio Estense

Per rivedere i momenti salienti del Premio Estense 2022 

ANALISI DISANALITICA DEL VOTO
Teniamoci per mano in questi giorni tristi

 

Mi arrabatto come una gabbianella in una chiazza di petrolio sull’oceano magno del nulla cosmico. Vorrei dire, vorrei pensare, vorrei essere, ma non sono, peggio non so neppure se sia giusto fare commenti. La democrazia sta nel rispetto del voto, i nostri partigiani ci sono morti per darci questa opportunità. Eppure cerco compulsivamente, nel web, nella mia memoria, troppo spesso vacillante, scavo tra i ricordi che non ho, per trovare un appiglio, la forza di credere in una rinascita, di trovarlo questo cazzo di ultimo che da terra riprenda la mia bandiera e la sventoli pure. Ma non lo trovo. Non c’è, non esiste, oppure se esiste si è talmente nascosto bene che non si fa trovare. Il tempo scorre, inesorabile, come una emorragia e noi rimaniamo fermi in posizione fetale o adottiamo la tecnica dell’opossum per sembrare morti, con la speranza che l’orso grigio non ci mangi.

Ho votato, con la tecnica di chi da dietro da un pugno a Tyson, ben consapevole di quello che accadrà subito dopo. Dove ho votato? Vabbè autodomanda inutile, a sinistra, senza minimamente raggiungere il quorum, come mi capita oramai da alcune tornate elettorali a questa parte.

Ma sinceramente cosa si può dire che già non sia stato detto?

Anzi ,di più, l’analisi della débâcle era iniziata ancora prima della chiusura delle urne, settimane, mesi prima. Gabriel Garcia Marquez scrisse un meraviglioso romanzo “Cronache di una morte annunciata”, dove in ogni pagina si assapora il profumo dolciastro dei frutti tropicali. Nell’odierno remake gli odori sono di tutt’altro genere.

Mi incaponisco a voler scrivere qualche cosa di diverso, di originale, ma pare che i pensieri mi ristagnino in testa come l’acqua di una laguna mefitica, talmente immobile che le zanzare con le pinne ci organizzano il mondiale di pattinaggio artistico nel macero.

Ferrara, la ex rossa, la mia città, quella in cui alle manifestazioni negli anni Settanta si riversavano nelle piazze migliaia di operai, studenti e pensionati è diventata una roccaforte della destra, dove Fratelli D’Italia diviene il primo partito aumentando di 20 punti percentuali, roba che accadde solo nelle elezioni del 1920, sei mesi dopo la vittoria dei socialisti. Mio padre e mia bisnonna si stanno rivoltando talmente tanto nelle tombe che nel Borgo di San Luca le persone sono scappate fuori dalle case pensando al terremoto.

La storia è maestra, ma non ha scolari (A.G.)

In realtà, non temo un vero e proprio rigurgito fascista, pur nella consapevolezza che tra le pieghe della destra italiana siano ben presenti i nipotini del pelato. Ho paura di una regressione nei diritti civili delle persone. Ho paura che Dio, Patria e Famiglia divenga uno slogan consolidato, un modus operandi, che la famiglia tradizionale (per gli altri) sia uno schema sotto al quale nascondere l’omofobia o la non conformità ai loro schemi.

Beh sì, in effetti, penso che LVI (vedi QuiQvando c’era lvi”, il fumetto di satira antifascista di Antonucci e Fabbri) sarebbe contento del risultato di queste elezioni.

Immagine da “Qvando c’era lvi”, la satira antifascista di Antonucci e Fabbri

Quindi cosa propone il mio appassito e ripetitivo neurone, quali idee metterebbe in campo quella particella di materia organica che mi rimbalza nella disabitata vastità della mia scatola cranica?

E qui continuo a starnazzare nelle sabbie mobili, più penso, più cerco e più affondo. Credo di averlo scritto un milione di volte, cambiamo agenda, passiamo dalla agenda Draghi alla agenda Berlinguer. Come può il più grande partito di opposizione prendere come modello un banchiere figlio del sistema, metafora di tutto ciò che rappresenta il contrario della storia della sinistra?
La Meloni, furbescamente, non lo appoggiava e rimaneva in attesa lungo il fiume. Così la destra, figlia del sistema, nata stoicamente per proteggere lo status quo, agli occhi di un terzo dei votanti è apparsa come una soluzione, una ribellione gattopardesca per fingere di cambiare tutto per non cambiare nulla.

Io penso che la sinistra abbia il dovere di essere dalla parte dei ceti meno abbienti, debba dimostrare di volere cambiare le sorti di un mondo destinato alla catastrofe. Se questo non avviene e la ribellione viene lasciata in mano alla destra, ti ritrovi Meloni, Salvini e Berlusconi al governo.

Non occorre essere fini analisti.

Forse la speranza oggi deve essere riversata nel quaranta per cento di non votanti, non come modello, ma come bacino d’utenza, persone che non possono più essere marchiate con la lettera scarlatta del qualunquismo, rappresentano certamente qualcosa di più. Il non voto in Italia da qualche decennio è diventato voto. Ed è li che occorre trovare un collante di sinistra.

Anche se, lo sappiamo bene, l’unità a sinistra è come l’unicorno, bello, elegante, raffinato, ma inesistente.

E allora che facciamo?

Mettiamoci in proprio, togliamoci le spille dei mille partiti e partitini che abbiamo votato, cancelliamo i se, annientiamo i però, disintegriamo i ma. E contiamoci.

Teniamoci per mano in questi giorni tristi (cit.)

Colloqui di Dobbiaco 2022
Etica Animale e Cambiamenti Climatici nel piatto

Dal 30 settembre al 2 ottobre tornano, con i loro 35 anni di storia, i Colloqui di Dobbiaco, fiorente cittadina definita la porta delle Dolomiti, nell’Alta Val Pusteria.

In questo luogo di serenità, vero e proprio laboratorio di idee per una svolta ecologica, si dibatte di questioni come l’energia solare, la mobilità sostenibile, l’agroecologia e la nutrizione, la digitalizzazione e l’istruzione ma di animali, i nostri simili, si è parlato poco.

   

Dall’edizione del 2019: “cosa sanno gli alberi?”

Nell’edizione 2019 (pre Covid) “cosa sanno gli alberi?” si era discusso di iniziative quali quelle dell’associazione “Plant for the Planet”, di biodiversità e di “verde intelligente”. Si è compreso, soprattutto, che gli alberi sono esseri viventi, che comunicano e sentono, che si relazionano tra loro aiutandosi, protagonisti di una vera ragnatela interattiva, in una necessaria condivisione con l’uomo. Stefano Mancuso docet.

Una consapevolezza sulla natura della relazione tra gli alberi, a cui deve corrispondere un cambio di prospettiva dell’uomo nei confronti della natura stessa e dei boschi, un tema che oggi, a Dobbiaco, porta a parlare di un altro mondo, altrettanto importante, con cui inter-relazionarsi, in pieno rispetto e comprensione, quello animale.

Persone, animali, piante e funghi sono da intendersi come una rete universale di vita. La narrazione, quindi, continua: da qui l’argomento della ricca edizione di quest’anno: “Cosa sanno gli animali?”.

… a quella del 2022: “Cosa sanno gli animali?”

Gli animali hanno sempre svolto un ruolo fondamentale seppur subordinato all’uomo. Eppure, anch’essi hanno dei diritti, per quanto dibattuti e spesso controversi.

Le grandi contraddizioni nella relazione uomo-animale saranno al centro del dibattito dei Colloqui di quest’anno. Da un lato, coccoliamo i nostri animali domestici, viziandoli e rendendoli spesso delle vere star dei social, dall’altro mangiamo carne a pranzo, cena o nei fast food. Mentre guardiamo, estasiati e rapiti, documentari mirabolanti sulla Natura selvaggia e la sua unica e rara Bellezza, tolleriamo le condizioni aberranti e miserabili degli allevamenti intensivi, prima dell’approdo sulle nostre tavole. Quindi?

Il programma, per un ampio dibattito

Tempo, dunque, di riflessione, di quelle diverse e che portano a cambiamenti necessari.

Fra i vari interventi in programma a Dobbiaco 2022, il 30 settembre, un relatore di rilievo, vera autorità in materia, introdurrà il tema della connessione tra prestazione, salute e benessere del bestiame: il Prof. Matthias Gauly, della Libera Università di Bolzano. Secondo il professore, l’assunto che una maggiore protezione e benessere degli animali significhi automaticamente un aumento dei costi non può, in alcun modo, essere generalizzato. Ad esempio, se si riesce a convincere un agricoltore che il tipo di pavimento della stalla comporta stress sugli zoccoli e quindi prestazioni inferiori, allora dovrà accettare che migliorare il pavimento porta anche vantaggi economici.

Soprattutto nell’ultimo decennio, il tema della zootecnia e del benessere animale ha assunto un’importanza crescente, tendenza che difficilmente si invertirà. Anzi. Sempre più persone hanno un rapporto attento e critico con la zootecnia, a volte rifiutandola completamente e scegliendo altri stili di vita e abitudini alimentari. Si tratta di uno sviluppo positivo che non va a scapito dell’agricoltura, come suggeriscono alcuni, ma di una reale opportunità per introdurre metodi “rispettosi” di allevamento su larga scala di cui gli stessi agricoltori siano soddisfatti. Salvo, poi, chiedersi, indica Gauly, per chi non è vegano, “cosa si fa con gli animali alla fine della giornata. Oggi utilizziamo spesso il cibo come un qualsiasi prodotto, di cui grandi quantità finiscono come rifiuto”, ricorda il professore. “Quando all’ora di pranzo vedo nella mensa universitaria la quantità di carne rimasta nei piatti, mi rendo conto che manca a chi l’ha lasciata un’idea di chi sia “morto” per questo. Chi ne è consapevole può anche consumare prodotti di origine animale, ma chi non se ne rende  conto dovrebbe starne lontano”. Anche qui, riflessioni necessarie.

Il programma di sabato 1° ottobre prevede un intervento di Fabian Scheidler, scrittore e drammaturgo berlinese (“Dall’automa all’essere vitale. Perché gli animali sono altrettanto misteriosi di noi stessi”) e uno di Ludwig Huber, professore all’Università di Vienna (“Animali intelligenti. Cosa hanno in comune cani, maiali, pappagalli e tartarughe”).

Seguirà un ampio spazio dedicato ai film e ai documentari. Si inizierà con la proiezione, alle 14h30, di Cow” (2021) di Andrea Arnold, seguito da testimonianze dei partecipanti a tema “Ci sono mucche felici? Osservazioni sul benessere degli animali basate sul film”, dibattito animato da Anet Spengler Neff, dell’Istituto per la Ricerca sull’Agricoltura biologica (FiBL Svizzera) di Frick.

Sarà poi il turno di “Gunda” (2021) di Victor Kossakovsky. Gunda è il nome che il documentarista di Leningrado attribuisce con il titolo al suino che conosciamo nelle prime inquadrature. Il film-documentario non ha didascalie, voce introduttiva o esplicativa che forniscano dati allo spettatore, né musica e dialoghi, ma solo i grugniti dei suini, il chiocciare delle pennute, il muggito dei bovini, rumori lontani di fondo, per lo più di insetti, tra fango e paglia. Non ci sono umani, per riconsegnare agli animali l’identità da primattori che loro spetta e che gli è ancora negata. Perché gli animali ci guardano.

Domenica 2 ottobre, appuntamento, invece, con la scrittrice e giornalista televisiva Giulia Innocenzi, con “Le macchine del cibo. Gli allevamenti intensivi e il costo del nostro cibo” e con la giornalista tedesca Tanja Busse (“Quanta carne possiamo mangiare senza danneggiare il pianeta?”).

Giulia Innocenzi, l’autrice di “Tritacarne” (2016, da allora nulla è cambiato), porta avanti da tempo una battaglia contro gli allevamenti intensivi e le terribili condizioni in cui vi versano gli animali. Un modello che, nonostante sia ormai noto ai più, continua ad essere portato avanti. “Ci sono piccole riforme che vengono adottate dalla Commissione Europea”, precisa Giulia in un’intervista, “ad esempio, entro il 2027, le scrofe non dovranno più essere allevate in gabbia, oppure si cerca di incentivare le gabbie arricchite per le galline ovaiole, vale a dire che all’interno della gabbia ci deve essere la sabbietta per permettere alle galline di vivere una vita leggermente meno sofferente. Nessuna di queste misure è nemmeno lontanamente sufficiente a garantire agli animali il benessere che è citato in ogni legge che regolamenta il tipo di allevamento. Più c’è scritto “benessere animale”, meno è”. Di fatto, continua la scrittrice-attivista, non ci può essere una vita dignitosa di un animale in un allevamento intensivo, il modello va assolutamente abbandonato. L’Italia dovrebbe fare una moratoria contro tali allevamenti, sottolinea, soprattutto oggi, quando stiamo parlando di abbassare le temperature nelle case e di spegnere il riscaldamento negli uffici pubblici: nessuno menziona gli allevamenti intensivi, dove si utilizzano risorse alimentari che potrebbero essere destinate agli umani, invece di essere convertite dagli animali in modo inefficiente in proteine per la nostra alimentazione. Si tratta di una dispersione enorme. Pensiamo, per esempio alla siccità di quest’estate, gli allevamenti intensivi sono tra i più grandi utilizzatori di acqua e non se ne parla. In Olanda il governo ha ridotto del 25% degli allevamenti intensivi, il che ha scatenato proteste da parte degli allevatori, ma è questo che va fatto e va raccontato ai cittadini. Invece si continua ad elargire fondi pubblici agli allevatori che oggi sono in crisi. Purtroppo, questo modello non può andare avanti e bisogna raccontare la realtà, sia per il bene degli animali che per il nostro bene e del pianeta.

Nella realtà, dal dibattito sull’energia, tutto il nostro stile di vita è in discussione. E il nostro piatto ne fa parte. L’ONU ha indicato chiaramente che per salvare il pianeta (per non parlare dei danni anche alla salute) dobbiamo passare a una dieta vegetale mentre un autore del calibro di Jonathan Safran Foer ha dedicato due libri al tema di legare i cambiamenti climatici a quello che mangiamo (“Possiamo salvare il mondo prima di cena. Perché il clima siamo noi”, Guanda, 2019, e “Se niente importa. Perché mangiamo gli animali?”, Guanda 2016). Ma oggi, anche nel dibattito politico sull’energia, si parla solo di cambiamenti climatici legati ai combustibili fossili e ai trasporti. Argomento assente, invece, quello degli allevamenti intensivi che vi contribuiscono di più dell’intero settore dei trasporti. Aldilà degli aspetti culturali, vi sono il potere degli inserzionisti pubblicitari nei confronti dei media e quello della lobby alimentare. L’ambientalismo non si coniuga ancora, come dovrebbe, con l’animalismo, anche per affrontare l’industria alimentare.

Prima del documentario Cowspiracy (2014), le associazioni ambientaliste non si occupavano di cibo e carne e solo dopo la nascita di questo movimento, Greenpeace, ad esempio, ora ha come obiettivo anche quello di ridurre il consumo di carne. Evoluzione da monitorare.

Chiuderà la giornata e i Colloqui l’intervento di Martin Lintner, professore di teologia morale e spirituale a Bressanone, “Uomini e animali: coabitanti dell’unica terra. Appello per un’etica della convivenza in una prospettiva cristiana”. Per una riflessione etica congiunta.

 

Letture consigliate, opere dei relatori e altri

Giulia Innocenzi, “Tritacarne: Perché ciò che mangiamo può salvare la nostra vita. E il nostro mondo”, Rizzoli, 2016, 258 p.

L’autrice descrive le terribili condizioni di vita degli animali negli allevamenti intensivi. Dalla castrazione a mano senza anestesia, all’uso a tappeto di medicinali e antibiotici per debellare malattie causate dall’allevamento in condizioni igieniche scadenti e non adeguate alla specie. Anche se non si vuole rinunciare a una bistecca, esistono metodi di allevamento e di macellazione che minimizzano la crudeltà che però richiedono un ripensamento radicale del modello degli allevamenti intensivi. Una riflessione per tutti, carnivori e no.

Martin Lintner, “Etica animale. Una prospettiva cristiana” (Queriniana, 2020, 304 p.)

Il libro affronta le questioni fondamentali di un comportamento verso gli animali rispettoso delle loro esigenze specifiche e individuali e presenta le posizioni dibattute nel campo dell’etica animale evidenziando, in particolare, tenendo conto di differenze e somiglianze tra essere umano e animali, la nostra responsabilità. Un libro di etica relativa agli animali, per rispettarli e amarli in un modo che corrisponda alla loro natura.

Henry Mance, “Amare gli animali. Allevamento, Alimentazione, Ambiente. Una proposta per convivere con le altre specie”, Blackie, 2022, 480 p.

Nel momento peggiore della Storia per un animale – tra allevamenti intensivi, deforestazione e cambiamento climatico – il giornalista del Financial Times Henry Mance parte per un viaggio molto personale, per capire se è possibile vivere su questo pianeta in un modo più giusto e sostenibile per tutti. Mance visita mattatoi e zoo, incontra cacciatori, pescatori, chef e proprietari di animali domestici. Con una prospettiva rivoluzionaria: prendere sul serio le esperienze degli animali. Senza fanatismi e senza perdere il senso dell’umorismo, questo libro cerca di rispondere a un quesito fondamentale: amare gli animali, sì. ma come?

Francesca Buoninconti, “Senti chi parla. Cosa si dicono gli animali”, Codice, 2021, 372 p.)

Si dice che gli animali non abbiano voce, eppure dal giardino alle foreste pluviali, dai parchi alle profondità dell’oceano, l’aria e l’acqua pullulano di messaggi. C’è chi canta come un usignolo, anche negli abissi; chi “parla” utilizzando dialetti tramandati da generazioni; chi comunica danzando; chi con mosse, pose e parate, oppure odori, puzze e profumi. In un mondo fatto di messaggi in codice, cosa si dicono gli animali? Gli uccelli cantano ogni volta che aprono becco? E i pesci sono davvero muti? Perché i camaleonti cambiano colore? Cosa passa per la testa di una gazzella che, inseguita da un predatore, invece di correre inizia a saltare? I delfini si chiamano per nome? Ma soprattutto, perché gli animali mentono?

Jonathan Safran Foer, “Possiamo salvare il mondo prima di cena. Perché il clima siamo noi”, Guanda, 2019, 320 p.

Ormai siamo tutti consapevoli che se non modifichiamo radicalmente le nostre abitudini l’umanità andrà incontro al rischio dell’estinzione di massa. Ma non agiamo come si dovrebbe, quasi paralizzati. Quali sono le rinunce necessarie, adesso, per salvare un mondo ormai trasformato in una immensa fattoria a cielo aperto? In questo libro Foer racconta, con grande impatto emotivo, la crisi climatica che è anche “crisi della nostra capacità di credere”, mescolando in modo originale storie di famiglia, ricordi personali, episodi biblici, dati scientifici rigorosi e suggestioni futuristiche. Un libro che parte dalla volontà di “convincere degli sconosciuti a fare qualcosa” e termina con un messaggio rivolto ai figli, ai quali ciascun genitore, con le proprie scelte, spera di riuscire a insegnare “la differenza tra correre verso la morte, correre per sfuggire alla morte e correre verso la vita”.

Jonathan Safran Foer, “Se niente importa. Perché mangiamo gli animali?”, Guanda 2016, 368 p.

Una riflessione sul cibo che parte dal ricordo personale della nonna, dalla forza che durante la guerra la spinse a rifiutare della carne di maiale che l’avrebbe tenuta in vita, perché non era cibo kosher, e “se niente importa, non c’è niente da salvare”. Il cibo per lei non era solo cibo, ma era anche “terrore, dignità, gratitudine, vendetta, gioia, umiliazione, religione, storia e, ovviamente, amore”. Diventato padre, Foer ripensa a tale insegnamento e inizia a interrogarsi su cosa sia la carne, perché nutrire un figlio è più importante che nutrire sé stessi. Un libro che è frutto di un’indagine durata quasi tre anni, che è insieme racconto, inchiesta e testimonianza e che invita tutti alla riflessione, indicando nel dolore degli animali, inermi e senza voce, il discrimine fra umano e inumano, fra chi accetta senza battere ciglio le condizioni imposte dall’allevamento industriale e chi, invece, le mette in discussione.

Marco Ciot, “Consumare carne. Problematiche ambientali, sociali, salutistiche”, Fondazione ICU, 2016, 160 p.

Secondo la FAO, tra il 1970 e il 1990, il consumo di carne è cresciuto, nel mondo, del 50% e la produzione del settore zootecnico di oltre 250% dagli anni ‘60 al 2000. Se il consumo si è stabilizzato in Occidente, è aumentato in paesi come Cina e India. Ma nel mondo occidentale, dove tale consumo è diffuso, si fa sempre più forte la critica nei suoi confronti: moltissimi studi scientifici provano i danni dell’abuso di carne (certificato nel 2015 dall’Agenzia per la Ricerca sul Cancro-IARC dell’OMS). A questi si aggiungono crescenti pressioni animaliste contro allevamenti intensivi insostenibili. La catena produttiva della carne, per emissioni di metano e consumo di suolo, è fonte di emergenze ambientali e climatiche e causa profonde disuguaglianze a livello planetario: immense praterie del Sud del mondo diventano monoculture per nutrire animali da macello, piantagioni che tolgono spazio a coltivazioni che potrebbero sfamare miliardi di persone. Per questo, secondo Ciot, il Nord del mondo deve promuovere un nuovo stile di vita meno dipendente dalle proteine animali, agendo con le istituzioni per modificare il sistema di sussidi che alimenta tale mercato e orientare le scelte verso prodotti più salutari, una dieta più vegetariana, basata su prodotti locali e stagionali. Ci guadagnerebbero salute, ambiente e animali.

Colloqui di Dobbiaco 2022, 30 settembre-2 ottobre 2022, “Cosa sanno gli animali?”
Ideazione: Wolfgang Sachs e Karl-Ludwig Schibel – info@colloqui-dobbiaco.it

PROGRAMMA 2022

27 settembre, ore 19,30: Il giallista ferrarese Marco Belli al Centro Sociale La Resistenza

Martedì 27 settembre
La Biblioteca Popolare Giardino e  il Centro Sociale La Resistenza

Invitano alla presentazione
della serie letteraria di Marco BelliLe indagini di Vivian Deacon”:

“Uno sbaffo di cipria” e “Canalnero” (Edicola Ediciones)


Dialogano con l’autore Emanuela Cavicchi e Maria Calabrese della BPG

Martedì 27 settembre ore 19.30
Presso il Centro Sociale La Resistenza

Via delle Resistenza 34 – Ferrara

Due gialli che hanno come protagonista Vivian, una donna inglese di mezza età e… barbona. In entrambi i casi (uno ambientato a Ferrara, l’altro a Magnolina nel Polesine) Vivian indaga privatamente su due morti sospette allontanandosi dai canoni del detective tradizionale.

Marco Belli (Ferrara, 1975) è insegnante di scuola superiore e direttore artistico del festival dell’editoria indipendente Elba Book Festival. Co-fondatore della Rete Pym, collabora con la rivista Millebattute. Con Edicola Ediciones ha pubblicato Uno sbaffo di cipria e Canalnero, nel 2021 è uscito per Graphe.it Edizioni il racconto illustrato Storia di A.; con il collettivo LAPS ha pubblicato nel 2022 il romanzo corale Più di Undici con il sostegno della Curva Ovest di Ferrara. Le sue ultime pubblicazioni come fotografo sono Adagio Polesano (Babbomorto Editore, 2018) e insieme a Sandro Abruzzese, Niente da vedere. Cronache dal Polesine e altri spazi sconfinati (Rubbettino 2022).

ore 21.00
A seguire Aperitivo e OpenPalco

un Open Mic aperto a cantautor*, scrittor* e musicist*
Si potrà  leggere pensieri, riflessioni, poesie, cantare e suonare in piena libertà

“L’ambientalismo senza lotta di classe è giardinaggio”:
la nuova dimensione conflittuale dei Fridays For Future

di Andrea Trucco
pubblicato da valigia blu del 23.09.22

E’ arrivata l’ora di agire!

“Col vuoto delle generazioni precedenti facciamo i conti ogni giorno. Ma se prima ci limitavamo ad accusare chi c’è stato prima di noi, ora ne comprendiamo le ragioni”. Ottavia fa parte dei Fridays For Future di Chieti, in Abruzzo. La incontro insieme a una quindicina tra ragazzi e ragazze, in occasione di un aperitivo, organizzato dallo stesso gruppo ambientalista, allo scopo di far conoscere le ragioni dello sciopero globale per il clima. L’appuntamento internazionale, voluto dal movimento di giustizia climatica noto anche con l’acronimo FFF, in Italia arriva a ridosso delle elezioni del 25 settembre. Una (quasi) coincidenza che gli stessi attivisti e le stesse attiviste non hanno mancato di sottolineare.

“Dopo quattro anni di scioperi, le persone si stanno svegliando, ma i responsabili politici sono ancora fermi”, afferma Alice Quattrocchi, di Catania. “Abbiamo organizzato marce e incontrato politici, ci siamo impegnati tutti i giorni per avere un impatto, oltre che per informare le persone di cosa succederà nei prossimi decenni. Oggi abbiamo davanti nuove elezioni, ma la crisi climatica è ancora assente dal dibattito. Più noi parliamo di clima, più i principali partiti sembrano fare a gara per prenderci in giro con belle parole a favore dell’ambiente, senza nessun piano completo, ma anzi chiedendo nuovi rigassificatori o altre misure che accelerano la catastrofe climatica”.

Rispetto ai proclami nazionali, il gruppo abruzzese di FFF sembra arrivare all’appuntamento con qualche affanno in più. È una difficoltà diffusa anche presso altre città. Nonostante la mobilitazione di oggi 23 settembre veda coinvolte 70 città tra cortei e manifestazioni, il numero e il livello delle adesioni agli scioperi globali sono molto diverse rispetto agli inizi. Sono passati soltanto quattro anni da quando una giovane attivista svedese di nome Greta Thunberg sceglie di rimanere seduta davanti alla sede del Parlamento svedese, ogni giorno durante l’orario scolastico, con lo slogan “sciopero della scuola per il clima”Da allora quell’appuntamento, ripetuto ogni venerdì, diventa il Global Strike For Future, e da lì nasce il movimento di giustizia climatica così come lo conosciamo oggi.

Sia Greta Thunberg che i Fridays For Future italiani ne hanno fatto parecchia di strada, da allora. L’attivista svedese è stata ricevuta in molti consessi internazionali – dal summit ONU sul clima (New York, 2019) alla Pre-COP26 (Milano, 2021) – e ha scritto un best-seller (La nostra casa è in fiamme, Mondadori); il movimento ha portato nelle piazze di tutto il mondo centinaia di migliaia di giovani e ha partecipato chiedendo giustizia climatica e sociale.
In questi pochi anni, in ogni caso, il mondo è profondamente cambiato. E con esso anche l’attivismo.

Prima critiche moderate, ora l’esigenza del conflitto

“In mezzo c’è stata la pandemia da COVID-19 che ha complicato moltissimo lo scenario”, dice Ottavia, che studia Scienze Politiche all’università di Teramo. “Prendi per esempio Chieti: qui c’è l’università ma noi non riusciamo a fare molta aggregazione perché studenti e studentesse in questi due anni di pandemia sono rimasti e rimaste a casa, e anche ora che la COVID-19 ha allentato la morsa tendono a preferire la didattica a distanza. In più i giovani finiscono per andare via dai paesi, una volta terminata la scuola dell’obbligo, così quando si riesce a creare una rete sociale spesso si finisce per dover ripartire da zero. Il nostro movimento, poi, è identificato con Greta e più in generale con le scuole superiori, è difficile scardinare questo concetto. Mettici pure che l’ambientalismo viene spesso associato come qualcosa legato alla sinistra, intesa come parte politica, e per una lotta come la nostra che vuole essere intersezionale questo è un limite”. 

Se da una parte, dunque, è COVID-19 ad aver modificato forme e sostanza dei vari tipi di attivismo, dall’altra il movimento dei Fridays For Future si trova, già così giovane, a dover maturare per non essere strumentalizzato dai partiti nella solita maniera paternalistica, capaci esclusivamente di blandire i giovani con vaghe promesse elettorali e pragmatismo di maniera. A tal proposito particolarmente significativo è il recente incontro organizzato da Il Fatto Quotidiano: ogni volta che le puntuali osservazioni dei portavoce FFF sollevavano aspetti concreti (rigassificatori, rinnovabili, settimana breve) dall’altra c’era il malcelato fastidio di chi non vuole sentirsi dire cosa fare. Tanto che l’agenda climatica presentata dai Fridays For Future in campagna elettorale è stata pressoché ignorata dalle forze politiche, che hanno preferito al massimo “pescare” da singole proposte e amalgamarle nei propri programmi.

Come ha ribadito il giornalista ambientale Ferdinando Cotugno su Domani, in occasione del meeting europeo dei Fridays For Future che si è svolto a Torino dal 25 al 29 luglio, la principale lezione appresa in questi anni di attivismo sarebbe la consapevolezza che non basta la forza delle idee: “A Torino, estate 2022, non è più lo stesso movimento del 2019, o del 2020, perbene, presentabile e innocuo. Perché è cambiato il contesto, si è allargato l’ambientalismo italiano, sono arrivate o sono maturate altre realtà, le membrane si sono permeate tra loro, Extinction Rebellion, Ultima Generazione, Ecologia politica. Nel frattempo la crisi climatica si è aggravata, e la politica istituzionale ha dismesso la sua postura di educato ascolto degli amici di Greta, perché c’erano la crisi energetica e la guerra, fine dei giochi, fine del dialogo. Insomma, conflitto.”

Appena un anno e mezzo fa i Fridays For Future sono stati ascoltati dalla commissione Ambiente della Camera dei deputati su possibili suggerimenti in merito al Piano nazionale di ripresa e resilienza, per poi scoprire che il PNRR è stato redatto in solitudine dal governo e che “il piano è ancora lontano dal potersi definire verde”, in quella che appare una delle critiche più moderate all’utilizzo dei fondi del Next Generation Eu.

L’etichetta di “bravi ragazzi” invece sta adesso stretta ai Fridays For Futurenon più (solo) striscioni e indipendenza dalle altre lotte ma dialogo coi comitati territoriali e altre forze sociali, non più (solo) giovani ma persone, non più ricette riformiste ma pigli rivoluzionari. In un articolo su Jacobin firmato da Giorgio De Girolamo e Ferdinando Pezzopane, entrambi attivisti di Fridays For Future, alle proposte più prettamente climatiche e ambientali si susseguono anche i modi per trovare le risorse necessarie per attuarle (aumento del prelievo fiscale per i ricchi, tassa di successione e patrimoniale). Il finale, poi, è incendiario:  “Di fronte alla crisi climatica ci stiamo accorgendo che se il sistema non rende possibile coniugare giustizia climatica e sociale è perché esso stesso va superato. Data quindi la cifra eversiva di tali proposte rispetto all’attuale sistema economico, misurabile anche dalla difficoltà di introdurle nel dibattito pubblico (basta pensare alla poco benevola accoglienza di non radicali tasse patrimoniali o di leggerissime imposte sulle successioni), è evidente la necessità di portarle avanti, oltre le urne dominate da una deprimente campagna elettorale, attraverso una recuperata conflittualità sociale (storicamente efficace, basti pensare alle lotte sindacali per il salario e i diritti sul lavoro). Per questo occorrerà una coalizione sociale sempre più ampia nell’autunno che ci attende. Tra bollette stracciate e utopie reali da costruire.”

La parola chiave è convergenza

Il primo segnale di questo cambio di passo si è avuto lo scorso marzo, quando il movimento ambientalista si è unito al collettivo di fabbrica GKN annunciando “due giornate di mobilitazioni convergenti”: lo sciopero globale del 25 marzo per la giustizia climatica e la mobilitazione nazionale “Insorgiamo” del 26 marzo a Firenze. Con lo scopo di superare la “falsa dicotomia tra ambiente e lavoro”, come dice spesso Dario Salvetti del collettivo di fabbrica GKN.
Nella nota congiunta di marzo si legge che: “Non permetteremo mai più di giustificare delocalizzazioni, licenziamenti, precariato con la scusa della crisi climatica. Né permetteremo di giustificare con la difesa dei posti di lavoro un rallentamento o una deviazione nella transizione ecologica e climatica. La transizione ecologica, se reale, deve misurare la propria efficacia anche sui tempi, e non è più concepibile alcun rallentamento. Il pianeta è in fiamme, da ogni punto di vista, e ogni secondo sprecato è un crimine. In una reale transizione ecologica non c’è spazio per il greenwashing da parte di Stati o grandi aziende, ma solo per misure sociali e ambientali adeguate all’urgenza della situazione. In una reale transizione ecologica il lavoro inquinante cessa gradualmente di esistere: non si lavorerà più a discapito dei diritti, dell’ambiente, della salute e della pace, ma si passerà per una ridefinizione democratica di cosa è realmente necessario produrre, definendo modelli di produzione, trasformazione e consumo  al servizio della comunità piuttosto che del capitale, nei limiti delle biocapacità del pianeta.

Rispetto alla campagna “Ritorno Al Futuro”, lanciata ad aprile 2020 nella primissima fase della diffusione in Italia del coronavirus, si registra meno fiducia nelle istituzioni. E si ha meno paura ad assumere posizioni meno equilibriste – come ad esempio è avvenuta con quella sul nucleare, che pare aver lasciato qualche malumore (anche interno). Adesso, invece, l’opposizione alla guerra in Ucraina e a qualunque conflitto armato è netta.

I nuovi Fridays, dunque, sembrano aver imparato una delle lezioni fatte proprie da Extinction Rebellion: è da un ruolo di minoranza che lo status-quo può essere rovesciato, a patto di saper individuare gli interessi in gioco e di saper tessere relazioni sociali.

La sensazione è che ai nuovi movimenti di giustizia climatica, almeno nella declinazione italiana, manchi ancora una capacità di connessione tra le questioni ambientali locali e la comprensione globale dei fenomeni in atto. Al più volte citato meeting di Torino dello scorso luglio, ad esempio, i Fridays For Future hanno dato molto risalto alle popolazioni provenienti dai MAPA (Most Afflicted People and Areas), vale a dire le popolazioni più colpite dalla crisi climatica in corso e già oggetto di sfruttamento e colonizzazione, soprattutto Africa, Asia e America Latina. Un acronimo che, si spera, possa entrare anche nel dibattito pubblico. Anche perché la stessa Italia ha già le proprie MAPA, a ben guardare: sono i SIN, i 42 Siti di Interesse Nazionale in cui è lo stesso Stato ad aver riconosciuto nel 1998 la contaminazione ambientale e ad aver indicato la priorità delle bonifiche.

Come insegna il caso di Piombino, l’ex capitale siderurgica in cui il governo e i partiti vogliono installare un rigassificatore entro marzo 2023, per questi siti industrializzati vale l’antico adagio del “fine pena mai”: industria eri e industria rimarrai. Più in generale sembra che i Fridays facciano fatica a occuparsi di battaglie locali. È quel che mi confermano Ottavia e Rebecca, entrambe appartenenti al gruppo FFF di Chieti. “Partiamo dal fatto che si vive sempre più immersi in bolle sociali” dicono. “Qui in Abruzzo noi proviamo a parlare con tutti e tutte, a partire dalle associazioni e dalle consulte giovanili, che poi spesso sono i primi canali di attivazione giovanile. E fino a quando si parla di questioni generali – le rinnovabili, l’economia circolare, la riduzione della produzione – ci si trova spesso d’accordo. Ma se poi si declinano questi temi a livello locale, ci scontriamo con la paura di poter essere strumentalizzati. L’interesse alle questioni locali c’è, quello sì, ma non si citano per non perdere credibilità”.

La contaminazione del nucleo FFF di Civitavecchia

Ma è davvero così? L’esperienza del nucleo di Civitavecchia sembra raccontare una storia diversa, come ci racconta Mathias Mancin, attivista di FFF a Civitavecchia che lavora come informatico a Roma, nonché uno degli otto portavoce nazionali di FFF. La sua è una storia particolare proprio perché parte dalla conoscenza di ciò che gli accade attorno e dalla capacità di saperlo interpretare in una cornice più ampia. “Civitavecchia è da sempre una delle principali vittime dell’egemonizzazione da parte delle industrie fossili”, osserva Mathias. “Abbiamo visto una centrale a olio, poi riconvertita a carbone e, per non far mancare nulla alla filiera fossile, la presentazione di un progetto di riconversione a gas”. Il giovane attivista lega quindi il suo impegno alla cultura del territorio, che definisce “una cultura strettamente legata alla soggiogazione subita da generazioni”. Da questo sentimento, dunque, scatta “il conseguente ripudio verso queste grandi imprese, inquinanti non solo in termini ambientali ma anche dal punto di vista sociale e culturale. Ho sempre creduto che in una situazione di ingiustizia bisognasse prendere attivamente in mano il proprio dissenso per portarlo in piazza, per la mia generazione è accaduto con la nascita di FFF nel 2019 a Civitavecchia”.

Rispetto ad altri territori industrializzati, il gruppo laziale si contraddistingue perché ai processi di formazione e informazione sulla crisi climatica in atto accompagna la presa in carico del conflitto ambientale locale. “Da quel momento in poi ho cominciato a informarmi”, aggiunge Mancin, “da un lato leggendo articoli scientifici sul cambiamento climatico e dall’altro parlando direttamente con i lavoratori delle filiere fossili e inquinanti (come il porto) insieme a vari collettivi cittadini, tra cui il mio. L’aspetto che forse mi ha sorpreso di più e ha avuto un impatto fondamentale su di me è stato scoprire che fondamentalmente un impiego nelle industrie fossili non è affatto voluto dagli stessi lavoratori, ma piuttosto sopportato per la necessità imprescindibile di lavorare. Il ricatto occupazionale che ha subito Civitavecchia – o il lavoro o l’ambiente – è ciò che mi ha spinto più di tutto ad attivarmi sul territorio e, successivamente, a livello nazionale. Assistendo alla scelta delle famiglie tra chi protestava e chi doveva lavorare, ho effettivamente avuto modo di vedere con i miei occhi quanto fosse subdolo e distruttivo (a livello ambientale, sociale e culturale) questo tipo di contrapposizione”. Partendo dall’analisi e dalla critica, il gruppo FFF di Civitavecchia comprende sin da subito che per essere ancora più efficaci non basta più protestare ma costruire un orizzonte differente.

“In sintesi” ribadisce Mathias, “il mio impegno nasce quindi dalla possibilità di contribuire in prima persona e dalla necessità di pensare a un futuro diverso, che non ha le proprie basi sulle logiche del profitto di pochi sulle spalle di tutti, ma un futuro le cui basi siano la salute e l’ecosostenibilità, dal punto di vista ambientale ma soprattutto dal punto di vista sociale che, secondo la mia opinione, è raggiungibile solo tramite una filiera energetica non deleteria né per chi ci lavora né per il comprensorio”.

Viene però spontaneo chiedersi, e chiedergli, perché allora i Fridays da altre parti d’Italia fanno fatica a sposare vertenze territoriali. “Essendo un nostro un movimento frastagliato, cioè composto da gruppi locali a livello territoriale” osserva Mathias, ciascun nucleo poi porta avanti la propria idea di giustizia climatica e la declina a livello locale come meglio crede. È altrettanto vero che sui gruppi specifici a livello nazionale si trova una marea di risorse su quel che riguarda, ad esempio, le grandi aziende come ENI, ENEL e SNAM, che poi spesso sono le stesse che hanno impianti che a livello locale portano problemi. E per esempio su questi gruppi ci si può confrontare insieme su come impostare una narrativa. Le incertezze a sposare le battaglie locali si possono comunque comprendere: spesso di fronte hai i colossi energetici ed industriali, che fanno paura”.

Più in generale quel che appare evidente è che l’approccio dei Fridays For Future risulta diverso. Più attenti e attente a non farsi irretire, con la consapevolezza che non basta studiare bene un argomento, ragionando a compartimenti stagni. In questi pochi anni, insomma, i Fridays hanno costruito una visione. E lo hanno fatto grazie alla contaminazione. Le piazze hanno loro insegnato che l’eterogeneità è la parola chiave. “Credo che il nostro approccio sia effettivamente cambiato grazie all’esposizione alla società reale” conferma Mathias. “È un rapporto a cui teniamo moltissimo che ci ha permesso di connettere con le persone e iniziare a sottolineare la necessità (e la possibilità) di unire la lotta tra giustizia ambientale e giustizia sociale. Siamo partiti da una premessa, ossia ripensare il sistema estrattivista, patriarcale e capitalista che affligge attivamente tutti gli aspetti della nostra società attuale. Il punto di stacco è stato però confrontarsi poi con parti integranti dei meccanismi della società reale: lavoratori, persone lontane dall’attivismo, persone che sono sempre state militanti o che ci si sono riscoperte dopo anni”.

Da qualche tempo la connessione tra istanze ambientali e lavorative viene sintetizzata dai Fridays con lo slogan “dalla fine del mondo alla fine del mese è la stessa lotta”, che ha fatto il suo esordio nelle due giornate di convergenza con il collettivo GKN.  “Mettere nero su bianco le stesse rivendicazioni (dalla riconversione ecologica del lavoro al carobollette) con un collettivo di fabbrica ci ha fatto effettivamente capire come mostrare quanto siano intersecate le lotte” osserva l’attivista di Civitavecchia. “Per queste ragioni credo che la massima che descrive meglio il mio approccio all’attivismo sia: “l’ambientalismo senza lotta di classe è giardinaggio” (frase attribuita al sindacalista, ambientalista e politico brasiliano Chico Mendesnda).

Il rapporto con la scienza

A unire il nuovo attivismo climatico di Extinction Rebellion e Fridays For Future (e, in misura minore, di Ecologia Politica) è la citazione continua dei dati e dei rapporti elaborati dalla comunità scientifica, in particolare dall’IPCC. “Ce lo dice la scienza” è un po’ la frase mantra che accompagna la gran parte degli interventi di XR e FFF.

Una fiducia che sfocia quasi nel fideismo. O no?
“Dubito onestamente che si possa mai essere troppo vicini alla scienza quando si parla di clima” dice Mathias a riguardo. “Anche se questa premessa generale non esclude nella maniera più assoluta una prospettiva aperta ed equilibrata volta all’ascolto delle realtà e delle persone con cui ci interfacciamo per valutare problematiche e soluzioni. Ascoltare i professionisti e le soluzioni che propongono è il primo passo per creare una narrativa che non si limita al “No” dettato dagli ideali, ma si sviluppa fino alla costruzione di alternative concrete. Personalmente credo che l’immobilismo e l’ostruzionismo riguardo la crisi climatica/sociale si aggravi in misura direttamente proporzionale all’allontanamento dalla scienza. Informarsi da chi può spiegare concretamente le soluzioni oltre che le problematiche è il primo passo, fondamentale secondo me, per strutturare un’argomentazione funzionante e con uno sguardo che va oltre la propria generazione. Proprio per questo però ci premuriamo di considerare anche che la scienza è in costante evoluzione e soprattutto estremamente influenzata dalla comunità scientifica stessa che – proprio grazie all’attivismo delle comunità più vulnerabili e colpite – sta iniziando a riconoscere la propria visione influenzata da fattori come la prevalenza di uomini, l’assenza sostanziale di persone razzializzate, e una prospettiva eurocentrica dei problemi, reagendo con l’apertura a importanti riforme interne per un futuro più equo”.

Cambiare il sistema, non il clima

Il protagonismo dei Fridays è riuscito in questi anni a incidere perlomeno sul discorso politico. Anche se i media continuano a dare (troppo) spazio alle voci che negano o contestano il cambiamento climatico, i governi e le aziende si premuniscono di dichiararsi attenti e attente alla sostenibilità. Molto spesso si tratta di greenwashing, d’accordo, ma la percezione è cambiata. Come ha efficacemente detto a La Stampa Giorgio Brizio, attivista FFF, “più che di negazionismo, parlerei di dilazionismo climatico”. Ora che si è riusciti ad attirare l’attenzione, perciò, come si cambiano le cose?

“Come con l’uscita dalla crisi climatica tramite le rinnovabili, la soluzione non è una sola ma un mix”, afferma Mathias. “La pressione politica, per esempio, è una conseguenza diretta della sensibilizzazione pubblica: sensibilizzando chi partecipa ai cortei, o semplicemente si interessa al tema, si massimizza la pressione sulla politica – stantia, ostruzionista e molto spesso ipocrita sulla questione ambientale – fornendo alle persone gli strumenti per esprimersi ed agire sia direttamente (con proteste, cortei, presidi etc) sia in maniera più indiretta attraverso il voto. Le azioni dirette d’altra parte possono essere un inizio e un mezzo, possono essere efficaci e utili quanto controproducenti anche a seconda delle pratiche. Perciò, ripeto, credo possa solo essere un mix di fattori a portare un cambiamento effettivo, anche se la nostra narrativa parte sempre dal presupposto che senza cambiare il sistema non si risolve il problema. Per questo è così importante per noi la nostra richiesta principale: system change, not climate change”.

Il rapporto con Greta Thunberg (e con i soldi)

Se il racconto dei media molto spesso vivono di semplificazioni e personalismi, ciò vale anche per i Fridays For Future, identificati ancora oggi con la figura della fondatrice Greta Thunberg. Emergono nuovi attivisti e nuove attiviste a livello globale (come l’ugandese Vanessa Nakate che pone l’accento sulla nuova colonizzazione energetica dell’Africa), eppure i giornali italiani continuano a chiedere di “Greta”, e quelli di destra in particolare denigrano con il termine “gretini” gli attivisti e le attiviste . Ma qual è il reale rapporto del gruppo italiano dei Fridays con Greta Thunberg?

“Il nodo italiano di FFF è unito nella lotta di Greta Thunberg, naturalmente”, spiega Mathias Mancin. “Condividiamo l’opposizione attiva agli extraprofitti e allo sfruttamento di territori e intere popolazioni, con un’attenzione particolare ai MAPA (Most affected people and areas). È innegabile quanto un’iniziativa partita da una sola persona abbia influenzato profondamente il sistema attuale del movimento che le si è creato intorno, nonostante sia composto da centinaia di migliaia di attivisti in tutto il mondo e prosegua in costante evoluzione insieme a loro, lasciando sempre sovranità territoriale ai vari nodi nazionali o locali sulle soluzioni sistematiche da proporre e implementare per un futuro migliore”.

Nelle trasformazioni, inevitabili, che il movimento dei Fridays For Future ha compiuto – di età, di contesto, di analisi, di proposta – c’è una costante che però resta: quella relativa ai soldi. Pur aprendosi a nuovi dialoghi e a nuovi percorsi, ci tiene a precisare Mathias Mancin, FFF Italia si finanzia attraverso il crowdfunding, tutte le donazioni e le transazioni sono accessibili e visibili dal sito di FFF Italia”. Perché per essere liberi bisogna essere indipendenti.

Cover: Manifestazione Friday For Future Italia,  foto iconaclima.it

Le Elezioni, l’Elettore e il Partito che non c’è


Domani le elezioni.
Sappiamo tutti chi vincerà, ci manca solo di sapere di quanto vincerà.  Non c’è ‘voto utile’ che tenga, la storia si ribalta: la Invencible Armada della Destra questa volta è davvero imbattibile. E lo sarebbe stata ugualmente se il Pd avesse scelto altri e diversi compagni di sventura.

A due passi dalle urne, non è il caso di far la conta dei tanti errori, prossimi e remoti, della Sinistra o della ex Sinistra italiana. Dopo, da lunedì in poi, ci sarà tutto il tempo per esercitarsi sull’argomento.
Qui. invece, vorrei provare a ragionare di elezioni, voto, elettore, partito: quattro parole che sono sempre andate a braccetto, quattro ‘ingredienti base’ di ogni cucina politica.

Una volta le elezioni

Generalmente mi ricordoUna domenica di soleUna mattina molto bellaUn’aria già primaverileIn cui ti senti più pulitoAnche la strada è più pulitaSenza schiamazzi e senza suoniChissà perché non piove maiQuando ci sono le elezioni
Una curiosa sensazioneChe rassomiglia un po’ a un esameDi cui non senti la pauraMa una dolcissima emozioneE poi la gente per la stradaLi vedo tutti più educatiSembrano anche un po’ più buoniEd è più bella anche la scuolaQuando ci sono le elezioni
Persino nei carabinieriC’è un’aria più rassicuranteMa mi ci vuole un certo sforzoPer presentarmi con coraggioC’è un gran silenzio nel mio seggioUn senso d’ordine e di puliziaDemocrazia
[…]
È proprio vero che fa beneUn po’ di partecipazioneCon cura piego le due schedeE guardo ancora la matitaCosì perfetta e temperataIo quasi quasi me la porto viaDemocrazia.
(Compositori: Alessandro Luporini / Giorgio Gaberscik)

Più di trent’anni fa, l’insostituibile Giorgio Gaber raccontava così – con grazia e ironia – il rito italiano delle elezioni.  E’ tutto vero, e un po’ me la ricordo ‘la domenica delle elezioni’,  era un giorno speciale, diverso da tutti gli altri giorni.  C’era qualcosa nell’aria, un’attenzione, un sentimento che ci veniva da qualcuno più vecchio di noi: il diritto/dovere del voto.  C’era l’idea, la convinzione che anche il nostro microscopico voto – una goccia nel mare –  era importante. Decisivo, Non avrebbe cambiato l’Italia. Certo che no. Il nostro voto era una briciola, ma insieme a tante altre briciole avremmo contribuito al bene comune, migliorato il nostro paese, o almeno, avremmo raddrizzato qualche torto.

Dov’è finito il ‘mio partito’?
Inutile dire che di quel clima oggi non c’è più traccia.
E non ditemi che oggi siamo meno ingenui. Siamo sinceri, il fatto è che oggi (e da parecchi anni) in tanti, specie tra chi votava dalla parte della sinistra, alle elezioni non ci credono proprio più. Lo dico con più grazia: gli italiani hanno una diversa percezione del voto elettorale, non lo sentono più come un momento importante, il punto culmine della loro partecipazione alle sorti del paese.
E non è un fatto di poco conto; perché il nostro sistema democratico, così come è stato disegnato dalla Costituzione repubblicana, si basa sulla democrazia rappresentativa: tu voti un partito (quello che più rappresenta i tuoi valori, i tuoi bisogni, le tue istanze) e il ‘tuo partito’ ti rappresenterà in parlamento. Il tuo partito sarà la tua voce, lavorerà giorno e notte per raggiungere gli obiettivi che ti sono cari e cambiare in meglio l’Italia.
Ma dov’è finito oggi il ‘mio partito’? E a cosa servono, a chi rispondono i partiti?
Partito ed elettore, Politica e Società sono diventati due mondi distinti e lontani, due insiemi non comunicanti.
O qualcuno pensa che a colmare quel fossato possano servire i reiterati e retorici appelli agli indecisi, o il serrato corteggiamento ai giovani che voteranno per la prima volta? (E questa volta saranno la bellezza di 4 milioni gli elettori debuttanti, da qui la insistenza sui giovani di tutti i partiti, fino a diventare il chiodo fisso di Enrico Letta).
Politici e politologi si interrogano da sempre sul fenomeno crescente dell’astensionismo.
Le risposte sono sempre quelle. La colpa dei partiti di sinistra è quella di aver abbandonato il lavoro porta a porta, in gergo politico ‘il territorio’. L’aver ripiegato le bandiere e accantonato i propri valori identitari. La colpa è dei programmi di partito, general-generici, ondivaghi, incomprensibili. O delle tattiche e delle alleanze spurie, contraddittorie, scandalose. O ancora, e questo è un must che è ancora possibile ascoltare in qualche bar Sport superstite: “Manca un vero leader, uno come Berlinguer”, uno capace di infiammare i cuori e riempire le piazze (e le urne).
Qualcosa di vero ci sarà, ma nessuna di queste spiegazioni mi convince.
In realtà, l’astensionismo, inutilmente combattuto, è la spia di un fenomeno molto più ampio e profondo. 
Proviamo a sommare agli astensionisti (e alle schede bianche e nulle) tutti quei ‘bravi cittadini elettori’, che anche domenica prossima metteranno la croce su un partito e su uno sconosciuto candidato, ma che l’hanno fatto solo per un’antica abitudine o un rimasuglio di ‘dovere civico’. Tutti gli elettori che hanno votato senza convinzione (lasciamo perdere l’entusiasmo), tutti gli elettori che non credono che il loro voto possa contare o servire a qualcosa. Mettiamoli tutti insieme e ci accorgeremo che la maggioranza assoluta degli italiani ha smesso di credere nella politica, nei partiti, nelle elezioni.


Voto… non voto… e se voto per chi voto?
 
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Mai come in queste settimane incontro amici, ricevo messaggi e telefonate che mi chiedono per chi è giusto o è meglio votare, e se io voterò e per chi voterò. Sono tanti, soprattutto giovani e giovanissimi. ma anche ex militanti di partito e attivi nei movimenti e nel volontariato sociale.
Alcuni di loro (i più giovani) mi sparano addosso domande secche, radicali, imbarazzanti: “Dimmi di preciso che senso e che valore ha il mio voto?” Cosa cambia in Italia e nella mia vita? Devono essere confusi o disperati per chiederlo proprio a me, io che non sono né un politico né un sociologo, tantomeno un maître à penserRispondo che voterò, per dovere civico, e per mettere il mio sassolino contro la Meloni. E per chi voti? Voto a Sinistra. E cioè, per quale partito? Non lo so, è un problema, ci sto ancora pensando.
Il disorientamento, la incapacità di riconoscersi dentro un progetto politico di questa o quella formazione politica non ha niente a che fare con quella che è stata rubricata (e condannata) come antipolitica. Il popolo italiano non è incazzato (non ancora almeno), non aspetta un Messia o un Masaniello. Ha solo ‘staccato la spina’, chiuso la comunicazione con una politica e con un sistema politico che non lo rappresenta più.
Abbiamo smesso di credere che il nostro destino individuale (non la carriera, la nostra vita tutta) sia legata a filo doppio con il destino collettivo della comunità, della nostra città, del nostro paese. Cos’è, se non questo, la politica?
Su queste colonne, l’amico Michele Ronchi Stefanati [Vedi qui] lancia un appello, un ultimo salvagente, al Pd, l’ultimo ciuffo di foglie di un albero centenario piantato a Livorno da Antonio Gramsci, giardiniere politico e filosofo. A quelle radici, dice in sostanza Ronchi Stefanati, bisogna tornare, a quella idea di un mondo nuovo, a quel desiderio di eguaglianza. Solo così un partito di sinistra sarà riconosciuto e riconoscibile, solo così ‘essere di sinistra’ riacquisterà un senso.
Le radici, le ideologie, i valori sono importanti, ma in mezzo c’è la storia di un secolo. C’è un mondo dominato dal neoliberismo finanziario. C’è un modo diverso di vivere, di pensare, di comunicare, perfino di sognare. Un solo esempio: insieme alla critica e alla lotta contro le ineguaglianze (la bandiera antica dell’eguaglianza) c’è la rivendicazione della diversità e delle differenze. ‘Uguali e diversi’: sembra un controsenso ma a me pare sia il centro, il nocciolo, il gomitolo da sbrogliare. Non è un compito da poco e non basterà guardare indietro e rispolverare le vecchie idee gloriose. Deve fare molta strada la sinistra se vuole ritrovare se stessa e il suo popolo.
C’è qualcuno che si incamminato su questa strada? E quale mezzo di locomozione ha scelto per esplorare, interpretare e rappresentare il nuovo? Da più di un secolo la risposta è questa: il partito. I partiti sono stati l’anima e il motore della politica del Novecento. Il soggetto mediatore tra popolo e governo, il “corpo intermedio” necessario per attuare la democrazia rappresentativa, non a caso valorizzato in tutte le costituzioni liberali e democratiche.
Oggi, questa è almeno la mia impressione, non è più così. 
Da moderno principe a macchina elettorale
E’ stato proprio Gramsci, richiamandosi al Valentino di Macchiavelli, a indicare nel Partito, nella ‘forma partito’ il Moderno Principe. Il partito cioè, come centro dell’azione politica, come luogo della rappresentanza e della sintesi politica. Così è stato, infatti, e i partiti hanno avuto anche la capacità di cambiare la loro forma secondo la rapidissima evoluzione della società e degli stili di vita.
Gramsci ha ancora ragione: per fare politica occorre un moderno principe, una forma, un luogo, un soggetto che colleghi in modo efficace rappresentati e rappresentanti. Se non c’è questo, salta tutto il banco. Ed eccoci ad oggi, in Italia e non solo: crisi della rappresentanza, crisi della politica, e di seguito, fra non molto, crisi della democrazia.
Possiamo protestare contro il ‘soggetto partito’ diventato ‘macchina elettorale’, ma questa non è altro che la moderna evoluzione del ‘forma partito’. La fase terminale, il punto di non ritorno di un soggetto ormai incapace di svolgere un ruolo di sintesi e di rappresentanza. 
E’ possibile una riforma radicale del partito, teoria e prassi? Personalmente faccio fatica a pensarlo.  C’è l’arteriosclerosi galoppante dei partiti: leaderismo, correntismo, tatticismo eccetera eccetera. Bisognerebbe capovolgere il partito come un calzino, svuotarlo completamente di uomini e cose, e ricominciare a riempirlo con bisogni, idee, speranze, passione.
Ma nemmeno questo, temo, basterebbe: le istanze che percorrono la società, le identità che la popolano, si sono moltiplicate e il ‘calzino partito’ e decisamente troppo stretto per contenerle.
Dal piccolo osservatorio di periscopio (si chiama così anche per questo) cerchiamo di osservare il mondo oltre la cortina fumogena del Pensiero Unico dominante. Non vediamo solo le macerie e le stragi del nuovo capitalismo. Vediamo anche ‘il nuovo che avanza’, la fatica e la passione di uomini e donne,  il lavoro carsico dei nuovi movimenti, e innumerevoli iniziative solidali, comunitarie, cooperative. In ogni parte d’Italia nascono orti sociali e culturali dove si coltiva il nuovo.
Come sarà possibile dare rappresentanza a queste ‘cucine popolari’, che sono poi la parte migliore del paese? Con quale strumento sarà possibile una sintesi (e si chiamerà ancora ‘sintesi’?) per portare le nuove istanze in parlamento e al governo.
Non penso alla Rivoluzione, ma insomma, ci vorrà qualcosa di simile.
Domani intanto si vota. La cucina del convento, la rissosa e deprimente campagna elettorale, ci passa solo questa minestra. Manca di sale, c’è cascata una mosca, per alcuni è addirittura disgustosa. Ma mentre cerchiamo il nuovo… sarebbe sbagliato voltarsi dall’altra parte e non andare a votare.
Cover: 18 aprile 1948. In una giornata di primavera si svolgono le prime elezioni politiche per il Parlamento. Italiani e italiane affollano i seggi elettorali.

IRAN: Dopo la morte di Mahsa Amini
si riaccende in tutto il paese la rivolta delle donne

Teheran. E’ morta Masha Amini, 22 anni. Era in mano alla polizia,
arrestata perché non portava in modo adeguato il velo.

Nel suo nome si riaccende la rivolta delle donne iraniane

di Valeria Cagnazzo
da Pagine Esteri, 21.09.22

Pagine Esteri, 21 settembre 2022 – Aveva solo 22 anni Mahsa Amini, la donna che il 14 settembre scorso ha perso conoscenza in una stazione di polizia a Vozara, in Iran, ed è entrata in coma, per morire poche ore dopo nella terapia intensiva dell’ospedale di Kasra.
Era a Teheran per visitare alcuni parenti insieme alla sua famiglia con cui vive a Saqqhez, nel Kurdistan iraniano, quando gli agenti della Guidance Patrol, la “polizia morale” iraniana, l’hanno arrestata perché non indossava adeguatamente il velo. Il foulard, infatti, non nascondeva integralmente i suoi capelli neri. E’ stata pertanto condotta in commissariato in stato di fermo, e dopo appena due ore è entrata in coma, in circostanze misteriose. La sua morte ha provocato reazioni di protesta nel Paese e nel resto del mondo.

La polizia ha negato qualsiasi forma di colluttazione con la donna, sia durante l’arresto che nelle ore di fermo in cui Amini sedeva in attesa di essere interrogata insieme ad altre donne. Il comandante della Polizia di Teheran, Hussein Rahimi, ha affermato che i suoi agenti hanno “fatto di tutto” per aiutare la donna e ha parlato di un “incidente sfortunato”. La tv di stato ha diffuso un video in cui in un commissariato una donna si alza dalla panca per parlare con un poliziotto e cade improvvisamente a terra. Nella versione del comando di polizia si tratterebbe appunto di Mahsa Amini.

A scatenare l’episodio, si legge in una dichiarazione della polizia del 15 settembre, sarebbe stato un arresto cardiaco. La famiglia di Amini, tuttavia, ha violentemente rigettato questa ipotesi, affermando che la ragazza godeva di ottima salute.

Nelle parole di Rahimi, sarebbero “accuse codarde” quelle che si sono diffuse intorno a questa morte, secondo le quali il decesso si dovrebbe attribuire, invece, alle violenze degli agenti sulla detenuta. Diverse sono, infatti, le testimonianze che, in seguito alla notizia della morte inspiegabile della donna, hanno riferito che Mahsa Amini sia stata picchiata dagli agenti della “polizia morale” al momento dell’arresto, mentre veniva caricata sul furgone della polizia e poi probabilmente anche durante il fermo. A ucciderla letteralmente di botte, secondo la versione che in poche ore ha investito il dibattito pubblico iraniano, sarebbero stati i poliziotti, tanto da farla arrivare in terapia intensiva, secondo quanto riferito dall’ospedale di Kasra, già in stato di morte cerebrale.

Al suo rientro dal vertice a Samarcanda con Putin e Xi Jinping, il primo ministro Ebrahim Raisi ha trovato un Paese travolto da uno tsunami di proteste di iraniani, ONG e comunità internazionale, che nessuna versione ufficiale sull’accaduto diramata dalle tv nazionali è riuscita a frenare. E’ per questo che ha annunciato che il ministero dell’interno svolgerà un’indagine per accertare le cause della morte della ragazza.

Che si sia trattato di morte cardiaca improvvisa o meno, non è la prima volta in Iran che una donna, oltre a subire l’arresto, sia vittima di violenze a causa del suo modo di vestire. Dai tempi della rivoluzione di Khomeni nel 1979, infatti, in Iran è obbligatorio il rispetto delle norme di abbigliamento e di comportamento dettate dalla Sharia.  Con il premier Mahmoud Ahmadinejad, il Paese si è dotato addirittura di una “polizia morale”, un corpo di agenti, uomini e donne velate integralmente di nero, chiamati a vigilare che tutte le donne, non solo quelle musulmane, abbiano i capelli e il collo completamente coperti da un hijab. Per chi trasgredisce, la pena può essere il carcere.

Nel 2017 si accese nel Paese un movimento di ribellione che vide molte donne, soprattutto volti pubblici, liberarsi dei veli e lasciare liberi i capelli in segno di protesta contro la “legge morale”. Il risultato fu, però, piuttosto un inasprimento della sua applicazione. Diversi video online iniziarono a testimoniare arresti sempre più violenti di ragazze con ciuffi di capelli liberi sulla fronte o trecce che si affacciavano sotto al bordo dell’hijab. Schiaffi, pugni, donne messe all’angolo da altre donne che le accusavano di condotte vergognose e peccaminose, poi gettate brutalmente su furgoncini della polizia per raggiungere il commissariato.

E’ per questo che l’episodio della morte di una ragazza di 22 anni arrestata per motivi “morali” ha riacceso nelle donne iraniane una rabbia mai sedata. L’ennesima morte, l’ennesima violenza alla loro dignità, che le ha fatte esplodere nell’urlo di “Morte al dittatore”.

Sabato mattina, infatti, si sono svolte le esequie di Mahsa Amini nel suo villaggio di Sagghez, a 460 km da Teheran. Le autorità avrebbero chiesto alla famiglia di svolgere il funerale all’alba, in modo che il rito si celebrasse tra pochi intimi e lontano dalle attenzioni mediatiche, ma i familiari di Amini non hanno accettato di salutare la ragazza prima che il sole non si fosse levato alto in cielo e intorno alla loro casa non si fossero radunate centinaia di persone.

Urla di protesta si sono presto sollevate dalla massa di partecipanti all’eco di “Morte al dittatore”, rivolto all’ayatollah Khomeini, ritenuto responsabile dell’uccisione della donna per mano della “polizia morale”. Le donne nella folla si sono liberate dell’hijab e molte di loro l’hanno innalzato su bastoni di legno come una bandiera. Nelle stesse ore, anche nella città di Teheran una folla marciava al grido degli stessi inni e con le stesse donne svelate pronte a sfidare il braccio della “polizia morale”.

Contro la folla, che dopo il rito funebre ha continuato a protestare e si sarebbe radunata poi davanti all’ufficio del governatore, si è scatenato l’esercito, con spari e lacrimogeni: negli scontri sarebbero rimasti uccisi quattro manifestanti e almeno 15 sarebbero i feriti.

Non solo per le strade: anche i social sono stati travolti dalla rabbia. In poche ore, l’hashtag #MahsaAmini è stato menzionato oltre due milioni di volte. “Togliersi l’hihab è un crimine punibile in Iran. Chiediamo alle donne e agli uomini nel mondo di mostrarci la loro solidarietà”, si legge sull’account di una ragazza. E ancora “La cosiddetta polizia morale l’ha arrestata arbitrariamente prima che morisse per far rispettare le leggi abusive, degradanti e discriminatorie del Paese che impongono il velo. Tutti gli agenti e gli ufficiali responsabili devono essere sottoposti alla giustizia”.

Sotto all’hashtag #MahsaAmini, insieme ai tweet si sono moltiplicati  video di donne disposte a tagliarsi i capelli in segno di protesta. Un paio di forbici in mano e uno sguardo furioso in camera, mentre i loro capelli cadono a terra e l’acconciatura si trasforma in un caschetto improvvisato.

Dure anche le denunce di diverse personalità del mondo dello spettacolo.  Il regista premio Oscar Asghar Farhadi ha scritto “Sono disgustato, stavolta da me stesso. Tu sei su un letto d’ospedale, ma sei più sveglia di noi, mentre noi siamo tutti in coma. Noi ci fingiamo addormentati, di fronte a questa oppressione senza fine. Noi siamo complici di questo crimine”, a commento di una foto della ragazza in coma.

L’ONG Iran Human Rights ha chiesto l’intervento delle Nazioni Unite. “Indipendentemente dalla causa ufficiale della morte annunciata dalle autorità”, ha dichiarato il suo direttore Mahmood Amiry-Moghaddam, “la responsabilità dell’omicidio di Mahsa Amini ricade su Ali Khamenei come leader della Repubblica islamica, Ebrahim Raisi come capo del governo, e delle forze di polizia sotto il loro comando”.

Ferma la condanna di Amnesty International: “Le circostanze che hanno portato alla morte sospetta della ventiduenne Mahsa Amini, che comprendono accuse di tortura e maltrattamenti durante il fermo, devono essere indagati penalmente”. L’obbligo del velo e la sua applicazione venivano denunciate anche nel rapporto annuale dell’ONG sull’Iran relativo al 2021, in cui si legge: “Le discriminatorie norme sull’obbligo di indossare il velo hanno continuato a condizionare la vita delle donne, determinando molestie quotidiane, detenzioni arbitrarie, aggressioni equiparabili a tortura e altro maltrattamento e diniego di accesso all’istruzione, all’impiego e agli spazi pubblici. Almeno sei difensori dei diritti delle donne sono rimasti in carcere per aver condotto campagne contro il velo forzato”.

Le carceri iraniane in cui le donne iraniane rischiano di restare rinchiuse per anni per contravvenzioni alle norme dell’abbigliamento rappresentano tra l’altro gironi infernali in cui si rischiano quotidianamente torture e condanne a morte arbitrarie. Proprio nei primi mesi del 2022, infatti, Amnesty International ha registrato un preoccupante inasprimento della giustizia iraniana: da gennaio a giugno, sono state giustiziate almeno 251 persone. “Una media di una condanna a morte al giorno”. L’anno scorso, il numero totale delle esecuzioni era stato di 314.

I detenuti possono morire per omicidio, stupro, rapina, ma anche, denuncia la ONG per i diritti umani, “relazioni omosessuali tra persone adulte e consenzienti, le relazioni extraconiugali e i discorsi ritenuti “offensivi nei confronti del profeta dell’Islam”, così come reati descritti in modo del tutto vago come quello di “inimicizia contro Dio” e “diffusione della corruzione sulla terra””.

Per questo la protesta delle donne iraniane e le loro denunce sui social rappresentano un atto di coraggio estremo, con il quale rischiano tutto. Si può diventare detenute politiche per molto meno, ed essere rinchiuse in prigioni tristemente famose come quella femminile di Qarchak, che ospita oltre 2.000 prigioniere.

Il reparto 8, conosciuto come “il Rione delle Madri”, è quello delle prigioniere di coscienza. Tra di loro, la scrittrice Golrokh Iraee, arrestata nell’ottobre del 2016 perché nella sua casa era stato trovato un suo racconto contro la lapidazione. Rilasciata nel 2017 dopo che col suo sciopero della fame suo marito aveva richiamato l’attenzione internazionale, è stata di nuovo arrestata alla sospensione dello sciopero della fame e allo spegnimento dei riflettori mediatici sul suo caso.

Per aver criticato sui social il record di esecuzioni capitali detenuto dall’Iran, anche Atena Daemi, attivista per i diritti umani, è stata condannata a 7 anni di carcere e rinchiusa in una cella di Qarchak. I suoi post su Facebook e su Twitter sono stati ritenuti “offensivi” nei confronti dei pubblici ufficiali. E’ ancora rinchiusa nel carcere di Evin, dove protesta con scioperi della fame contro le condizioni di vita nel carcere e contro la pena di morte.

Un tempo sede di un allevamento industriale di polli, il carcere femminile di Qarchak ospita più donne di quante ne possa contenere, in condizioni disumane. Le detenute vivono in assenza di acqua, di cibo sufficiente, con le finestre sbarrate, senza il diritto alle più elementari norme igieniche. Non sono solo la fame e le malattie che si diffondono, però, a tormentarle. La direttrice del carcere, Soghra Khodadadi, è stata accusata di aver creato condizioni “insopportabili” per le prigioniere e di aver incoraggiato abusi nei confronti di prigionieri politici e pacifici. Nel giugno 2016, in seguito a un episodio in cui le guardie carcerarie avevano picchiato “brutalmente” le detenute, Amnesty intervenne per richiedere la chiusura del carcere. Nel 2021, il Dipartimento del Tesoro americano ha indirizzato le sue sanzioni economiche anche alla Khodadadi.

Nonostante i rapporti e le denunce internazionali, però, il carcere continua a tenere rinchiuse centinaia di donne, condannate alla tortura per reati d’opinione. Lo stesso reato che compiono in questi giorni le donne che si tagliano pubblicamente i capelli sotto a un hashtag. Resta la percezione, però, che calato l’interesse internazionale, nei commissariati e nelle carceri iraniane si continuerà a morire e in strada le donne continueranno a essere vittime indifese della “polizia morale”

IRAN, Mahsa Amini,
36 dimostranti uccisi dalla polizia ma la protesta non si placa

di Valeria Cagnazzo
da Pagine Esteri, 24.09.22

Repressione violenta delle manifestazioni nel Paese: centinaia gli arrestati, tra i quali giornalisti e attivisti per i diritti umani.

Pagine Esteri, 24 settembre 2022 – Non si sono fermate le proteste in Iran dopo la morte di Mahsa Amini mentre era in stato di fermo, il 16 settembre scorso. Migliaia di iraniani da giorni sfilano per le strade contro il “dittatore”, l’ayatollah Khamenei, e il premier Ebrahim Raisi, considerati i veri responsabili del decesso della ventiduenne, che era stata arrestata dalla “polizia morale” del Paese. Sono state occupate le università di Tehran, Karaj, Yazd e Tabriz e le donne hanno continuato a tagliarsi i capelli e a bruciare i propri veli in pubblico.La repressione del governo iraniano prosegue intanto violenta. Secondo gli attivisti, sarebbero almeno 36 i civili uccisi dalla polizia durante le manifestazioni di questa settimana.

Mahsa Amini

Secondo Human Right Iran, oltre 60 iraniani sarebbero stati arrestati durante le proteste soltanto nella sera del 21 settembre. Molto peggio è andata per i manifestanti nelle regioni curde, dove, secondo quanto riferito dal Kurdistan Human Rights Network al Guardian si sarebbero superati i 530 arresti tra i manifestanti.

Nella notte tra il 22 e il 23 settembre, sarebbe stato prelevato dalla sua casa Majid Tavakoli, attivista per i diritti umani che aveva partecipato alle proteste per la morte di Amini. La stessa sorte sembra essere spettata a un altro attivista, Hossein Ronaghi, freelance per il Washington Post: dopo aver registrato un’intervista in cui appariva nervoso, sarebbe stato raggiunto dagli agenti iraniani. Anche Nilufar Hamedi, la giornalista iraniana che tra i primi aveva coperto il caso di Mahsa Amini e aveva attirato l’attenzione dei media mentre la ragazza era ancora in coma, è stata arrestata in queste ore: l’annuncio è stato dato dalla sua agenzia stampa, lo Slargh daily, sui social.

Iran, la rivolta di questi giorni

A sostegno del presidente Raisi, che a proposito delle notti di proteste che stanno infiammando l’Iran giovedì scorso aveva dichiarato che nessun “atto di caos” sarebbe stato “tollerato” nel Paese, nella serata di venerdì hanno sfilato sostenitori filo-governativi. Nei loro slogan, si chiede che i manifestanti scesi in strada per Mahsa Amini siano “giustiziati”: secondo i manifestanti pro-Raisi, nelle folle ci sarebbero sionisti e agenti segreti americani infiltrati nel Paese con l’obiettivo di destabilizzarlo.

L’Unione Europea, le Nazioni Unite e gli Stati Uniti hanno fermamente condannato la morte di Mahsa Amini, per la quale Raisi continua a promettere un’indagine interna. Intanto, nonostante le restrizioni che vengono applicate in queste ore alla navigazione su internet nel Paese, le immagini mostrano un Paese infiammato dalla rabbia delle donne, che malgrado gli arresti urlano da sette giorni “Morte al dittatore” e “Morte alla repubblica iraniana”.

PRESTO DI MATTINA /
Desiderio desideravi

 

“Desiderio desideravi”

«Quando fu l’ora, prese posto a tavola e gli apostoli con lui. E disse: “Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione”.»
(Lc 22,15)

Gli voli un desiderio, [Un desiderio che gli voli v.]
Quando toccato avrà la terra
Incarnerà la sofferenza…
Un vagante raggio ebbe la luce,
Tenue filo dell’anima
Del mio bacio donato
Solo dal desiderio.
Ma dall’esilio ci libererà
L’ostinato mio amore
(Giuseppe Ungaretti)

Il desiderio di Gesù, ci dice Luca, è la nuova Pasqua; attorno a quella mensa si manifesta tutto il suo desiderio di noi. Desiderare è fissare attentamente le stelle: “de-siderare. Attratto dai suoi, dai loro volti, attratto da noi, come colui che è attratto da ciò che gli manca di più e fissa lo sguardo alle stelle (sidera).

Nella sua Pasqua si dispiegano tutti i suoi desideri come le stelle nel firmamento, e questo firmamento l’evangelista Giovanni lo indica nella preghiera di Gesù al Padre prima dell’arresto, che precedette la passione e la morte. Quanti desideri in quella preghiera! Pregare è ardentemente desiderare l’altro, desiderio di donarsi e unirsi a lui.

“Desiderio desideravi”; questo il desiderio desiderante di Gesù prima di essere sottratto ai suoi. Egli alzò gli occhi alle stelle, proteso al Padre nostro che è nei cieli. E ancora una volta il suo desiderio siamo noi:

«Quindi alzati gli occhi al cielo disse: “Non prego solo per questi, (i Dodici) ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17, 20-21).

Un gemito desiderante, passione di amore è quello di Gesù, il suo desiderio è azione che ci fa liberi e amanti, come narra nei Canti ultimi David Maria Turoldo [Qui]:

Care ti siano queste parole
che la mia bocca ora ti canta, Signore:
Gemito sei dell’intera natura
il desiderio che ci fa verticali:
passione di esistere di tutte le vite.

Il desiderio è l’anelito, il turbine avvolgente creativo dello spirito. Il desiderio, come lo spirito, è legame sostanziale, ciò che tiene l’esistenza alla totalità dell’essere, la corporeità al suo soffio attirandola verso l’oltre.

Così ancora Giuseppe Ungaretti [Qui]:

Nel molle giro di un sorriso
ci sentiamo legare da un turbine
di germogli di desiderio
Ci vendemmia il sole
Chiudiamo gli occhi
per vedere nuotare in un lago
infinite promesse
Ci rinveniamo a marcare la terra
con questo corpo
che ora troppo ci pesa
(G. Ungaretti, Fase d’Oriente, 1916)

La cena della nuova Pasqua risveglia in Gesù nella sosta conviviale, come il tramonto nel poeta, spazi di un desiderio nomade d’amore:

Il carnato del cielo
sveglia oasi
al nomade d’amore
(G. Ungaretti, Tramonto, 1916)

Una liturgia fatta desiderio

Una liturgia fatta desiderio dunque, perché luogo del venire tra i suoi del Maestro, nomade d’amore, fattosi tutto desiderio. Una liturgia plasmata dal suo anelito, luogo dell’accadere e ripresentarsi dello stupore del mistero pasquale, dello scambio conviviale, irruzione dello spirito desiderante di Gesù, che ci raccoglie e ci riunisce di nuovo, fa di molti un corpo solo, come di sementi un pane, di chicchi d’uva un vino: liturgia, culmine e fonte di un ostinato, incessante e risorgente amore.

Così mi è venuto da pensare e da interrogarmi quale fosse il posto del desiderio nelle celebrazioni delle nostre comunità. Il discernimento mi è giunto da papa Francesco:

«L’assemblea ha diritto di poter sentire in quei gesti e in quelle parole il desiderio che il Signore ha, oggi come nell’ultima Cena, di continuare a mangiare la Pasqua con noi. Il Risorto è, dunque, il protagonista, non lo sono di sicuro le nostre immaturità (coloro che celebrano) che cercano, assumendo un ruolo e un atteggiamento, una presentabilità che non possono avere.

Il presbitero stesso è sopraffatto da questo desiderio di comunione che il Signore ha verso ciascuno: è come se fosse posto in mezzo tra il cuore ardente d’amore di Gesù e il cuore di ogni fedele, l’oggetto del suo amore.

Presiedere l’Eucaristia è stare immersi nella fornace dell’amore di Dio. Quando ci viene dato di comprendere, o anche solo di intuire, questa realtà, non abbiamo di certo più bisogno di un direttorio che ci imponga un comportamento adeguato. Se di questo abbiamo bisogno è per la durezza del nostro cuore» (DD 57).

DD sta per Desiderio desideravi, la lettera di papa Francesco, del 29 giugno 2022, alla chiesa sulla formazione liturgica del popolo di Dio. Condizione di questa formazione è l’umiltà dei piccoli, perché è questa condizione che sola può aprire allo stupore, accendendo il desiderio di lasciarsi attrare e coinvolgere nell’azione liturgica da cui principia e attinge sempre di nuovo la vita cristiana.

È necessaria così una celebrazione che evangelizzi; altrimenti perde di autenticità come «non è autentico un annuncio che non porta all’incontro con il Risorto nella celebrazione: entrambi, poi, senza la testimonianza della carità, sono come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita» (DD 37).

Con questa lettera papa Francesco continua la riflessione sull’attuazione della riforma liturgica del concilio. Già nel 2021 aveva scritto la lettera: Traditionis Custodes sull’uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970, con cui il papa ha voluto ristabilire pur nella varietà delle lingue una celebrazione e “una sola e identica preghiera che potesse esprimere l’unità della chiesa”.

Il motu proprio ha determinato una forte ripresa del disegno conciliare che superasse il lungo periodo di esitazione che aveva segnato la chiesa circa l’uso della liturgia romana anteriore al concilio.

Egli ha inteso così riprendere l’intenzione profonda della riforma liturgica volta a sottolineare il carattere “comune” dell’azione liturgica, anzitutto quella eucaristica, perché uno è Cristo ed una la chiesa.

Questa lettera invece non è un’istruzione pratica o un direttorio, come la precedente. Semmai una meditazione che aiuta a comprendere la bellezza della celebrazione liturgica.

Scrive papa Francesco: «la liturgia non ha nulla a che vedere con il moralismo ascetico. L’incontro con Dio non è il frutto di una ricerca interiore individuale del Cristo, ma è evento donato, che appartiene e coinvolge tutta la totalità dei fedeli riuniti in Lui. La comunità ecclesiale entra nel Cenacolo per la forza di attrazione del desiderio di Gesù che vuole mangiare la Pasqua con noi» (DD 20).

Con questa lettera papa Francesco desidera pure recuperare il valore simbolico, relazionale della celebrazione, non solo tra le persone, ma tenendo unite spiritualità e corporeità di coloro che partecipano all’assemblea domenicale.

La formazione liturgica deve così sviluppare nelle persone la capacità di comprendere di nuovo il linguaggio simbolico dei segni liturgici, perché quello simbolico è lo stesso linguaggio con cui si esprime e si relaziona la nostra vita.

Se il linguaggio liturgico diventa didascalico, rubricistico non sarà mai capace di comunicare il mistero di vita che racchiude. Senza simboli, la liturgia muore. È la liturgia che fa i simboli, ma sono pure i simboli che danno forma alla liturgia. Allo stesso modo noi facciamo la liturgia, ma è la liturgia che forma noi. Nondimeno formarsi alla liturgia – dice papa Francesco – è funzionale all’essere formati dalla liturgia.

Citando poi Romano Guardini [Qui], egli ricorda che si deve diventare di nuovo capaci di comprendere e vivere i simboli. E ciò accadrà, nella misura di un discepolato, se si saprà sottoporsi ad una disciplina, quella del simbolo, che è maestro di apertura, di raccordo e raccoglimento; colui che unisce gli opposti, ci fa comprendere il reale come un vivente concreto:

«Non si tratta di dover seguire un galateo liturgico: si tratta piuttosto di una “disciplina” – nel senso usato da Guardini – che, se osservata con autenticità, ci forma: sono gesti e parole che mettono ordine dentro il nostro mondo interiore facendoci vivere sentimenti, atteggiamenti, comportamenti.

Non sono l’enunciazione di un ideale al quale cercare di ispirarci, ma sono un’azione che coinvolge il corpo nella sua totalità, vale a dire nel suo essere unità di anima e di corpo.

Tra i gesti rituali che appartengono a tutta l’assemblea occupa un posto di assoluta importanza il silenzio. Il silenzio liturgico è il simbolo della presenza e dell’azione dello Spirito Santo che anima tutta l’azione celebrativa, per questo motivo spesso costituisce il culmine di una sequenza rituale. Proprio perché simbolo dello Spirito ha la forza di esprimere la sua multiforme azione.

Così il silenzio muove al pentimento e al desiderio di conversione; suscita l’ascolto della Parola e la preghiera; dispone all’adorazione del Corpo e del Sangue di Cristo; suggerisce a ciascuno, nell’intimità della comunione, ciò che lo Spirito vuole operare nella vita per conformarci al Pane spezzato. Per questo siamo chiamati a compiere con estrema cura il gesto simbolico del silenzio: in esso lo Spirito ci dà forma». (DD 51-52)

La liturgia: complexa realitas

Realtà complessa come la vita è la liturgia. È detto infatti: vivere la liturgia, non l’evento, ma dentro l’evento, non dal di fuori, spettatori, ma partecipi della complessità delle sue polarità contrapposte, per cui il reale è il vivere concreto nella sua complessità.

Potremmo affermare lo stesso del desiderio e del simbolo. Entrambi dicono, come la liturgia, la qualità della relazione, l’esserci dentro la realtà, prendere parte all’agire che unisce gli opposti senza mescolarli o respingerli, ma tenendo distinte e arricchendo le loro differenze.

Occorre vivere la liturgia come alla scuola interattiva, esperienziale del simbolo; così impareremo a collegare le parti, gli ambiti della complessità del reale, tenendo insieme il dentro e il fuori della realtà: oggettività e soggettività, pensiero ed emozione, immanenza e trascendenza, spirituale e corporale, dolore e gioia, desiderio e gratitudine, pensiero e azione, il già e il non ancora, l’in-avanti della storia e la sua trascendenza, il Cristo già venuto eppure atteso: il presente.

Complexa realitas è termine che compare nell’ecclesiologia conciliare al n. 8 della Lumen gentium là dove si vuol esprimere la realtà della chiesa, assemblea visibile e comunità spirituale.

Dice la complessità della relazione tra ciò che in essa è visibile e ciò che in essa è mistero, come il volto e il corpo in relazione alla propria interiorità, formano un’unità complessa, uno spazio e cantiere di comunione.

In quanto comunità di fede, di speranza e di carità, la chiesa è organismo visibile, sociale, ma è pure segno, sacramento, volto che rivela l’invisibile dono dello Spirito che l’abita. Questi due aspetti «non si devono considerare come due cose diverse; esse formano piuttosto una sola ‘complessa realtà’».

Complessità dunque che deriva alla liturgia dal mistero stesso della chiesa; la liturgia è il cuore generativo, culmine e fonte di questa complessità di relazione e di azione comunionale, che tende alla comunione piena:

«Nella liturgia non è il singolo che agisce e che prega. E neppure il complesso di una molteplicità di persone…  Il soggetto, l’io, della liturgia è piuttosto l’unione della comunità credente come tale, è qualcosa che trascende la semplice somma dei singoli credenti, è insomma la Chiesa» (R. Guardini, Lo spirito della liturgia, Morcelliana, Brescia 1996, 17-18).

L’esortazione finale di papa Francesco: «Abbandoniamo le polemiche per ascoltare insieme che cosa lo Spirito dice alla Chiesa, custodiamo la comunione, continuiamo a stupirci per la bellezza della Liturgia. Ci è stata donata la Pasqua, lasciamoci custodire dal desiderio che il Signore continua ad avere di poterla mangiare con noi» (DD 65)

Domani, e le domeniche che seguiranno, non lasciamo appassire i fiori e le palme e gli ulivi dell’ultima cena; pur senza vita essi custodiscono ancora memoria, anelito del Suo desiderio. Osiamo ancora dire “dove vai?”, “vengo con te”, ma non “Addio”.

Il desiderio del suo cuore rimane con noi. “Andiamo”, allora, affrettiamoci anzi, come desideranti desiderati, pure noi verso quel «Desiderio desideravi hoc Pascha manducare vobiscum, antequam patiar» che ci cammina sempre d’innanzi.

La fine dell’ultima cena

Triste l’anima mia sino alla morte.
Eppure ardentemente
l’anima mia desiderava
questo momento
e ancora un poco
stare con voi
finché venga la sera
e la grande ombra.
Tu non temere,
piccolo gregge.
Il tuo pastore pascolo perenne
si fa per te:
qui le limpide acque
e la frescura
e la voce che chiama nella sera
ed il quieto calore dell’ovile.
Ecco che vi ho lasciato
il sangue mio
e la mia carne.
E il cuore che vi ama,
il cuore mio
non lo porto con me.
Ma nessuno mi chiede
“dove vai”,
nessuno che mi dica
“vengo con te”
o solamente “addio”.
Ah come
scende la sera.
È l’ora. Andiamo.
E forse per le strade
stanno ancora
appassiti
i fiori che per me furono colti
e le palme e gli ulivi.
(Elena Bono [Qui], Alzati Orfeo, Milano I958, 116-117)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

Ferrara, Ciak si (ri)gira: 100 preludi

Ferrara grande set, lo abbiamo visto qualche giorno fa con Lu’ duchessa d’Este. Fama e infamie di Lucrezia Borgia, ma le sorprese continuano.

In città arriva, infatti, la troupe della regista Alessandra Pescetta, che ha diretto vari videoclip per noti artisti italiani e internazionali tra i quali Ligabue, Avion Travel, Elio e le Storie Tese, Subsonica, Elisa, Planet Funk e spot pubblicitari per brand italiani di fama mondiale (tra cui Campari, Bulgari, e Disaronno), ma soprattutto nota ai cultori di cinema d’arte per il suo primo lungometraggio, La Città Senza Notte (2015), storia d’amore fra Giappone e Sicilia, liberamente tratta dal breve racconto La pace di chi ha sete e sta per bere di Francesca Scotti, selezionato in vari Festival internazionali e vincitore di molti riconoscimenti tra cui il Best Narrative Feature Film Award al Sydney World Film Festival, il Sigillo della Pace del Festival Internazionale di Cinema e Donne e il Gran Premio della Giuria Emidio Greco del Gallio Film Festival.

Alessandra è attualmente in preparazione del suo secondo lungometraggio, 100 Preludi, che oggi si gira, appunto, a Ferrara.

Riprese a Langelo Atelier, foto Valerio Pazzi

Poche, pochissime le indiscrezioni sul film, prodotto Revok Film, Rai Cinema, con il contributo del Ministero della Cultura e il sostegno di Emilia-Romagna Film Commission.

Sceneggiatura di Alessandra Pescetta e di Francesca Scotti, il film drammatico, che uscirà nel 2023, ruota intorno alla giovane Mara, che si trasferisce a Venezia con l’aspirazione di diventare una grande violoncellista. All’Accademia di musica, dove regna un clima di forte concorrenza fra gli allievi, frequenta il corso di un maestro dai metodi poco convenzionali ma che lei ammira molto, entrando a far parte di un trio con cui instaura un ottimo rapporto. Mara, dopo un periodo di studio coinvolgente, non tollera più la singolare metodologia del maestro. Quando una persona importante del suo passato viene a mancare cade in una profonda crisi, decidendo di abbandonare gli studi e isolarsi nella propria ambizione, esercitandosi in maniera sfiancante per dimostrare a sé stessa il talento negatole. Inizia così a vivere con razionalità disumana eliminando tutto il superfluo, rinunciando e scegliendo di vivere con soli 100 oggetti in una lenta e inesorabile autodistruzione. Mara però troverà in questa esperienza l’equilibrio per catturare, con la musica, i momenti effimeri della bellezza e riportarli in una composizione rivoluzionaria e geniale.

L’attenzione agli oggetti ha portato la regista a girare parte del suo film a Langelo Atelier, di Ferrara, di cui abbiamo parlato tempo fa. Un posto delicato, con un carisma e un’attenzione molto particolare alla memoria e al significato degli oggetti che sono e sono stati parte importante di una vita. Per non dimenticare la forza che portano con sé.

Riprese a Langelo Atelier, foto Valerio Pazzi

In attesa di maggiori dettagli su questa interessante produzione (pare si spostino a breve a Bondeno, ma chissà…), noi seguiremo con attenzione e curiosità.

Riprese a Langelo Atelier, foto Valerio Pazzi
Riprese a Langelo Atelier, foto Valerio Pazzi

Foto a Langelo Atelier di Valerio Pazzi

VITE DI CARTA /
Dopo il Festivaletteratura di Mantova (seconda parte)

 

Sorpresa! Compro Racconti di due Americhe, il volume curato da John Freeman e tradotto in Italia da Federica Aceto per Mondadori, e ci trovo un fumetto.

Il titolo è Ferite invisibili, il tema sono le ferite che il protagonista, un giornalista freelance che vive nella California del Sud, si porta dentro dagli anni in cui ha prestato servizio in fanteria in Iraq, tra il 1997 e il 2009.

Sono poche pagine che però rendono bene l’idea del sottotitolo della raccolta: Storie di disuguaglianza in una nazione divisa.

Di fumetti volevo già parlare come di una scoperta mia personale avvenuta in questa ventiseiesima edizione del Festivaletteratura aMantova. Non me ne vogliano gli appassionati del genere: meglio tardi che mai, scopro che al disegno vengono affidati libri di valore e capolavori.

Sono in servizio al Festival e l’evento n. 157 di sabato 10 settembre sta per cominciare: il pubblico entra a frotte e si sente che attende autori di rango. In tre arrivano e si avvicinano al tavolo dove dovranno salire e parlare alla gente che intanto ha riempito ogni posto disponibile.

I tre chiacchierano e si fanno cenni di assenso col capo, quando ci avviciniamo per farli accomodare uno di loro, Giacomo Keison Bevilacqua [Qui], sta sparando battute che fanno sorridere gli altri due.

Sarà così per tutto l’incontro: da vero mattatore terrà banco nel porre domande sia a Zerocalcare [Qui] e al fumettista e illustratore inglese Andi Watson [Qui], seduti alla sua destra, sia rivolgendosi al pubblico per coinvolgerlo nella conversazione.

È Una conversazione kafkiana di nome e di fatto: i due fumettisti nazionali battibeccano tra loro dal primo momento, alludono al firmacopie che ci sarà alla fine dell’incontro, uno più dell’altro palesano l’ansia di non avere nessuno che attenda la loro firma. Che strano inizio.

Dovendo rispondere ad alcuni ritardatari che prendono posto in platea seguo solo a tratti le loro battute, sarà questo che me le fa sembrare oscure. Poi capisco.

Stanno lanciando il libro del loro prestigioso ospite inglese, quell’Andi Watson che sta seduto tra loro e sembra seguire con la testa una partita di ping pong: stanno parlando del suo Book tour. L’autore incontra il suo pubblico, dove pare che il personaggio protagonista trovi deserta la prima libreria in cui va a promuovere il suo ultimo libro.

E così per tutta la conversazione i due fanno allusione alle situazioni inusuali e misteriose in cui si trova lo scrittore Fretwell, poi passano la parola a Watson, che spiega le proprie scelte narrative senza svelare troppo della trama. Men che meno del finale.

Facendo il giro attorno alla platea che ascolta e applaude mi avvicino al banchetto dove sono in vendita piccole montagne di libri, noto che sono disposti esattamente come i loro autori.

Dalla pila di copie sistemate al centro del tavolo prendo tra le mani Book tour, scorro le prime pagine e comincio a capire la chiave comunicativa di questo evento così particolare, dove la chiacchierata si è fatta surreale per fare il verso al libro che ne è l’oggetto.

Dove si parla di storie raccontate attraverso l’arte del fumetto per parlare anche di fumetto, la cosiddetta nona arte, al crocevia tra letteratura e pittura. Dove Zerocalcare, che le colleghe dell’Ariosto mi hanno spesso caldeggiato, parla per sottrazione della propria scrittura, della autobiografia che vuole metterci e rivela una modestia che mi pare essergli profonda.

Alla fine dell’incontro tutti noi volontari ci diamo da fare a disciplinare le lunghe code di pubblico che si è precipitato ad acquistare le copie e si è disposto in tre lunghe file.

Dopo un’ora i tre sono ancora lì: firmano e intanto scambiano due ulteriori chiacchiere col lettore di turno. Bevilacqua è sempre gioviale, Zerocalcare è più trattenuto e schivo quando riceve un apprezzamento, Watson sorride e ringrazia brevemente in inglese. La paura di non avere copie da firmare come accade nel libro al povero Fretwell, questa sì è la cosa rivelatasi più surreale.

La coda di un’ora al firmacopie non è nulla rispetto ai tempi che si prenderà Igort, dopo l’evento delle 17 con Francesca Mannocchi.

Il responsabile della nostra postazione a San Sebastiano ci dice di spostare sul prato accanto alla platea un tavolo e una sedia: Igort prende posizione armato di alcune matite e accoglie così i lettori in fila di fronte a lui.

Traccia uno schizzo su ogni copia che a mano a mano gli viene aperta davanti, è assorto e intanto fissa la propria mano. La moglie gli sussurra il nome del destinatario, chiude la copia già firmata e sorride al lettore successivo.

Stanno calando le prime ombre della sera, noi abbiamo fatto entrare il pubblico dell’evento successivo e Igort ancora disegna il proprio stigma sugli ultimi libri rimasti in coda ad attenderlo con devozione.

Prima ha parlato di guerra e di pace, e ora il suo schizzo non può che avere aggiunto un anello alla catena delle idee che si dipana come ogni anno qui a Mantova.

Di pace, la pace cercata tenacemente da Papa Francesco, hanno  parlato qui giovedì (nell’evento 30, La diplomazia della pace) anche Marco Impagliazzo [Qui], direttore della Comunità di Sant’Egidio, e Antonio Spadaro [Qui], direttore di Civiltà Cattolica.

E di poesia, di musica. Sono venuti poeti, esperti musicali, musici come Angelo Branduardi. Sono venuti nella mia e nelle altre postazioni in cui hanno prestato servizio gli studenti dell’Ariosto, con cui ho condiviso l’intera esperienza mantovana.

Nelle loro foto e nei loro racconti la mia collega ed io abbiamo raccolto entusiasmi, piccoli trionfi e anche qualche utile perplessità. Tutte esperienze che vorrebbero rifare, dalla foto con la poetessa Mariangela Gualtieri, alla intervista fatta a Roberto Saviano a Blurandevù, alle amicizie fatte con i loro coetanei e rafforzate durante i pasti e soprattutto durante la festa finale, domenica sera, alla mensa del Festival.

Questi sono i ragazzi che abbiamo accompagnato per la prima volta a Mantova, alcuni di loro sono già stati al Salone del libro di Torino e fanno confronti.

In un paio di luoghi del Festival ora sono diventati responsabili di postazione due studenti venuti col gruppo dell’Ariosto ormai parecchi anni fa. Uno di loro ha i capelli appena stempiati: mi fa pensare a quanti ragazzi abbiamo accompagnato qui in un tempo che ancora porta frutti.

Sabato Francesca Massarenti, una di loro che ora è diventata critica letteraria, ha conversato su due autrici straniere insieme a Vincenzo Latronico [Qui] nell’evento 170, La parte dei critici.

Sono schegge. Il mosaico dei 238 eventi del Festival è molto di più. Sono tornata però ancora più attaccata alla catena delle idee e delle parole. Nella postazione Una scuola al quadrato la mia collegamica Valentina e io ne abbiamo scelte due da mettere nel collage fotografico riferito alla scuola che potevamo comporre liberamente. Si tratta di due aggettivi bellissimi che possono essere rivolti anche alla iniziativa del Festival,  ‘inclusiva e appassionante’.

Nota bibliografica:

  • John Freeman, Racconti di due Americhe. Storie di disuguaglianza in una nazione divisa, Mondadori Strade Blu, 2022
  • Andi Watson, Book tour. L’autore incontra il suo pubblico, Edizioni BD, 2021 (traduzione di Simone Roberto)

La Prima Parte del reportage sul Festivaletteratura di Mantova puoi leggerla [Qui]

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

Cover: Zerocalcare, Andi Watson e Giacomo Keison Bevilacqua a Mantova per una chiacchierata kafkiana – foto dell’autrice

BOMBE NUCLEARI STRATEGICHE E TATTICHE
Un tema di drammatica attualità

di Angelo Baracca*
(articolo pubblicato su pressenza il 22.09.22)

La minaccia di una guerra nucleare, che pareva scomparsa dopo la fine della Guerra Fredda, sembra riaffacciarsi. Il tema è ovviamente molto complesso, ma vorrei fornire un’informazione molto schematica (e ovviamente incompleta) rivolta soprattutto alle/i giovani che domani manifesteranno in Italia e in tutto il mondo perché i governi intervengano in modo radicale contro i cambiamenti climatici e oggi anche contro la (le) guerre. Chi volesse approfondire può trovare numerosi articoli miei negli archivi di Pressenza.

La radice della minaccia nucleare

Una premessa necessaria. La guerra in Ucraina ha riportato l’incubo di una guerra nucleare, ma è assolutamente necessario dire che il rischio di uso – intenzionale o accidentale, per usare un eufemismo – delle armi nucleari si è progressivamente aggravato nei decenni recenti.

La paranoia (che ha dietro interessi colossali) di evitare l’«errore umano» ha esasperato la tendenza ad affidare il controllo delle armi nucleari alle macchine: ma le macchine non sono infallibili e possono venire “ingannate”. Il Bollettino degli Scienziati Atomici ha scritto: “Se l’intelligenza artificiale controllasse le armi nucleari, tutti noi potremmo essere morti!”.

Da una quindicina d’anni le potenze nucleari hanno in corso programmi “triliardari” di cosiddetta modernizzazione delle armi atomiche (testate, missili, sommergibili, bombardieri) che le rendono sempre più pericolose!

Bombe nucleari strategiche e tattiche

Con questa premessa da non dimenticare, vengo al tema. La distinzione tra bombe nucleari strategiche e tattiche sorse specialmente durante la “Crisi degli Euromissili” (1977-1987) quando vennero installati in Europa dall’Urss e “in risposta” dagli USA missili nucleari a media gittata (max. 500 km), i quali, si badi bene, potevano colpire l’Urss, ma ovviamente non gli Usa. La crisi si risolse con il trattato INF (Intermediate Nuclear Forces) del 1987, con il quale questi missili vennero eliminati. Va anche detto che questo trattato, un tassello fondamentale, è caduto tre anni fa quando Trump lo ha disdetto.

Qual è allora, sommariamente, la distinzione fra bombe nucleari strategiche e tattiche, anche se non si tratta di una distinzione netta e adottata da tutti gli Stati nucleari? In primo luogo la gittata: le armi strategiche sono portate da missili intercontinentali con gittata 10-12.000 km. C’è una “complicazione”, però: i sommergibili con missili nucleari si avvicinano a distanze enormemente minori dagli obiettivi “avversari” e costituiscono una delle minacce maggiori, anche perché in caso di “crisi” bellica potrebbero perdere i contatti con il rispettivo comando e l’eventuale decisione di lanciare i missili nucleari verrebbe presa dal comandante del sommergibile. Le armi tattiche con gittata inferiore a circa 500 km sono potenzialmente destinate al campo di battaglia (anche questa è una definizione generica, perché non è esclusa l’eventuale decisione, terrificante, di utilizzarle sulle città).

Una seconda distinzione riguarda la potenza delle bombe: quelle definite tattiche hanno potenze “limitate” a un massimo di 50 kt (migliaia di tonnellate di tritolo equivalente). Mi sembra opportuna un’osservazione: le bombe che distrussero Hiroshima e Nagasaki avevano una potenza di 15-20 kt e i bombardieri le trasportarono per meno di 500 km da un’isola del Pacifico: insomma, oggi sarebbero da considerare bombe nucleari tattiche!

Ricorso alle armi nucleari

In quali casi gli Stati dotati di armi nucleari ne prevedono l’eventuale uso?

Nel gennaio scorso le cinque maggiori potenze nucleari confermarono che <<una guerra nucleare non può essere vinta e non deve mai essere combattuta>>, ma poche di loro hanno adottato un impegno ufficiale di no-fist-use: formalmente solo la Cina e l’India.

In generale le dottrine nucleari delle maggiori potenze (compresi USA e Russia) contengono una clausola che più o meno prevede il ricorso all’arma nucleare in caso di un attacco, anche con armi convenzionali, che metta a rischio l’esistenza stessa del Paese. Con l’evoluzione della guerra in Ucraina è stata sollevata l’eventualità di questa opzione. Devo dire a titolo personale che la ritengo remota, ma i recenti sviluppi aprono scenari imprevedib

La nuova premier britannica conservatrice, Liz Truss, ha ribadito con insistenza che non esiterebbe a usare le armi nucleari qualora se ne presentasse la necessità.

Potrebbe esserci una differenza fra l’uso di testate strategiche – che scatenerebbe una vera guerra nucleare, con la quale l’esistenza stessa della società umana sarebbe messa gravemente a rischio – e quello di testate tattiche in misura limitata e locale, ma ovviamente dobbiamo impegnarci perché questo non avvenga in nessun caso!

Questo è il punto in cui ci troviamo e l’impegno delle popolazioni deve moltiplicarsi.

Ma noi in Italia siamo “innocenti”?

Questo è un aspetto cruciale e so per esperienza personale che molti purtroppo non lo conoscono. L’Italia fa parte della NATO, che ha adottato, in ossequio agli USA, la “condivisione nucleare” (nuclear sharing), “grazie” (!) alla quale quattro Paesi europei ospitano bombe nucleari tattiche statunitensi sul proprio territorio. La cosa è rigorosamente segreta (come il segreto di Pulcinella!), il loro numero non viene rivelato, ma è certo che una quarantina sono schierate nella base militare italiana di Ghedi nei pressi di Brescia e nella base statunitense di Aviano. Le bombe statunitensi a Ghedi sarebbero operate in caso di uso dall’aeronautica italiana: questa è una cosa gravissima, che fa dell’Italia di fatto uno Stato nucleare!

Va detto che nel caso sciagurato di un conflitto nucleare queste basi militari potrebbero essere uno dei primi obiettivi dell’avversario, che potrebbe eliminare in un colpo solo una quarantina di bombe nucleari. Sembra superfluo dire che ci sarebbe una strage spaventosa per lo meno in gran parte dell’Italia settentrionale: vittime … “collaterali” della follia nucleare! Non mi sembra ozioso osservare che i cittadini statunitensi sanno esattamente (per il trattato Nuovo Start del 2010 fra USA e Russia) quante bombe nucleari hanno gli USA e dove sono schierate. In Italia invece noi cittadini e cittadine siamo tenuti all’oscuro: è ufficialmente un mistero dove e quante bombe nucleari statunitensi “ospitiamo”! Fra l’altro queste testate B-61 saranno fra poco sostituite con testate B-61-12 molto più precise.

È fondamentale che le/i giovani siano, in primo luogo, informate/i, per poter “pretendere” dai nostri governi il rifiuto di questa capitale minaccia.

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Angelo Baracca*
Professore ora in pensione dell’Universita di Firenze. Saggista specializzato nelle tematiche legate al nucleare civile e militare e attivista pacifista e ecologista. Editorialista per Pressenza sulle questioni nucleari e sull’etica nelle scienza.

Cover: no alle armi nucleari (foto greenpeace)

ALLE CINQUE DELLA SERA
Lamento per Giuliano De Seta

di  Gianni Giovannelli
(pubblicato da Effimera*  il 22.10.22)

Son cussì disgrazià che pianzo tanto,
Né so se gò dirito ai sfoghi e al pianto
(Giacomo Ca’ Zorzi  Noventa)

Alle cinque della sera, in un reparto della piccola fabbrica metalmeccanica BC Service, nel cuore del laborioso nord-est, a Noventa di Piave, è morto Giuliano De Seta, diciotto anni appena compiuti, ultimo anno all’Istituto Tecnico Leonardo Da Vinci (Portogruaro). Per poter conseguire il diploma il giovane studente doveva, necessariamente, documentare qualche centinaio di ore di prestazione gratuita nell’ambito del programma di alternanza scuola-lavoro; e così, alle cinque della sera, mentre stava eseguendo le tassative disposizioni ministeriali, Giuliano De Seta ha perso la vita, schiacciato da una lastra d’acciaio, solo, senza scampo. Lo demas era muerte y solo muerte a las cinco de la tarde.

La cosiddetta alternanza fu introdotta con una legge chiamata “buona scuola”, la 107/2015, commi da 33 a 45, quando ministro in carica era Stefania Giannini, in quota “tecnica” legata al gruppo parlamentare del senatore Monti, durante il governo Renzi. Il comma 36 escludeva qualsiasi onere per la finanza pubblica e assegnava al dirigente scolastico la responsabilità di individuare le imprese presso le quali il lavoro gratuito obbligatorio si sarebbe in concreto materializzato, anche con riferimento ai problemi della sicurezza.
Le linee guida attualmente in vigore sono quelle contenute nel decreto ministeriale n. 774 del 4.9.2019, a firma di Marco Bussetti, indipendente di area leghista, quando era in carica il governo gialloverde guidato da Conte e Salvini; si applica altresì la Carta dei diritti e dei doveri degli studenti varata con il decreto interministeriale 3.11.2017 n. 195.

Non è stato reso noto, nell’immediatezza, con chiarezza e trasparenza, il testo della convenzione fra scuola e impresa che si riferisce all’assegnazione di Giuliano De Seta presso B.C. Service s.r.l.; sappiamo solo – lo ha riferito la dirigente scolastica Anna Maria Zago – che questa società collaborava da tempo con l’ITIS Leonardo Da Vinci. Ancora ignote sono invece le generalità del tutor interno e del tutor esterno, soggetti che secondo l’articolo 4 delle linee guida avrebbero dovuto interagire costantemente fra loro e tenere sotto controllo l’attività svolta. Ma alle cinque della sera, in quel drammatico venerdì 16 settembre, non c’erano, mentre la muerte puso huevos en la herida.
Ci pare davvero difficile rinchiudere questo terribile accaduto nel recinto della fatalità, della semplice disgrazia imprevista e imprevedibile. Il quadro che caratterizza la vicenda è quello di responsabilità plurime, di comportamenti tollerati dalle istituzioni dello stato, concretando quella che con suggestiva immagine venne qualificata ‘complicità ambientale’.

Da molti anni, troppi ormai, l’impunità sostanziale accompagna ogni morte sul lavoro, sia per esposizione all’amianto, sia per consapevole rimozione dei dispositivi di sicurezza, sia, come in questo caso, per una mal concepita, e mal eseguita, alternanza di studi e lavoro.
Chi ha imposto l’alternanza come obbligatoria al fine di conseguire il diploma ha costruito una fitta ragnatela di regole ben difficilmente applicabili (anche, ma non solo, per mancanza di fondi), volutamente dimenticando un idoneo conseguente apparato di sanzioni. Non è questione di invocare un giustizialismo inutile e insensato, come presumibilmente suggerirà la critica interessata dei giuristi ingaggiati dalle associazioni datoriali o da pseudo-sindacalisti foraggiati; è piuttosto la constatazione di come si sia consolidata nel tempo una cultura giuridica e legislativa di appoggio a chi reprime le lotte dei precari nella logistica o le proteste contro il TAV in Val di Susa, ma al tempo stesso reticente nel contrasto di inquinamenti, omicidi sul lavoro, riciclaggi, bancarotte. Per i primi compare sempre più frequentemente l’addebito di associazione per delinquere, per gli altri la conclusione, per una ragione o per l’altra, è l’impunità.

Noventa di Piave era il borgo in cui era nato uno dei più importanti poeti dialettali del secolo scorso, Giacomo Ca’ Zorzi. Amava la sua terra e per questo volle firmarsi “Noventa”. Era un convinto cattolico liberale, antifascista nel ventennio, legato a Croce e a Gobetti; non certo un comunista, ma ugualmente sensibile e attento a quel che avveniva nei ceti popolari. Giuliano, nato in una famiglia di lavoratori emigrati dalla Calabria, viveva a Ceggia, un paese in cui negli anni Sessanta aveva messo radici Potere Operaio. Questa morte, alle cinque della sera, in un piccolo triangolo di territorio veneto capace di lotte sociali e sottomissioni, pronto sempre a lavorare senza risparmio nella speranza di migliorare il destino della collettività, ci deve far riflettere. Magari potrebbe diventare un grimaldello per superare questa bonaccia di apatica rassegnazione in cui siamo caduti, per riaprire una porta sul futuro.

Giovanni Cagnassi, cronista per La Nuova di Venezia e Mestre, il 17 settembre, commentando l’incidente ha così descritto  B.C. Service s.r.l.: “una di quelle aziende specializzate e poco sindacalizzate che sono la spina dorsale dell’economia del territorio e di una zona industriale molto attiva”. L’articolo rende bene il contesto, ci fa comprendere le ragioni profonde della complicità ambientale in cui si radica il consenso e non trova ostacoli una organizzazione neoliberista che in poco conto tiene la vita umana. I genitori della vittima vanno rispettati, nella loro identità e nel loro dolore; e anche nel loro procedere prudentemente, senza proclami. Al tempo stesso vanno sostenuti, evitando ogni strumentalizzazione, quando dicono: “Non ce la sentiamo di esprimerci finché la magistratura non avrà accertato l’esatta dinamica dei fatti. Però, è ovvio, vogliamo sapere la verità su come sia stato possibile che la vita di nostro figlio finisse in questo modo”.

Non credo sia possibile condividere tanta fiducia negli accertamenti della magistratura, a fronte di una inaccettabile incapacità, nella gran parte dei casi, di pervenire rapidamente all’individuazione dei responsabili. E penso sia bene invece esprimersi subito, qui e ora, incalzando senza sosta, perché la “verità”, in casi come questo, è per sua natura ribelle, se non anche rivoluzionaria. E allora potremmo procedere alla redazione di un testo in cui si chiede, ora, che sia reso di pubblica conoscenza il testo della convenzione (deve farlo Anna Maria Zago che dirige l’ITIS Da Vinci di Portogruaro) e che diano subito la loro versione, previa identificazione, i due tutor. I genitori hanno riferito al giornalista del Corriere Andrea Priante (18 settembre, pagina 23) che Giuliano aveva lavorato come operaio presso la B.C. Service s.r.l. nei mesi di luglio e agosto con un regolare contratto di apprendistato. Lascia perplessi un contratto di apprendistato di due soli mesi, fra l’altro risolto proprio quando ebbe poi inizio lo stage di alternanza. Che senso abbia poi un breve stage di alternanza dopo due mesi di lavoro è un bel mistero; certamente va acquisita anche tutta la documentazione relativa a questo contratto (dall’aria assai poco regolare se la descrizione risultasse esatta)  e la direttrice Anna Maria Zago (con i due tutor) dovrebbe sentirsi tenuta a spiegare come le due prestazioni siano state ritenute compatibili. L’assegnazione ad un’impresa metalmeccanica rientra fra quelle a rischio elevato secondo le norme che regolano l’alternanza; dunque era necessario un congruo periodo formazione in presenza, con una idonea informazione sui rischi. Lo svolgimento dell’attività  lavorativa gratuita prima dell’inizio dell’anno scolastico induce qualche perplessità.

 

* ) Effimera è nata nel 2013, dopo la fine dell’esperienza di UniNomade 2.0, avviata nel 2011. Attualmente è un collettivo “virtuale” composto da più di 200 persone, interconnesse tra loro, che risiedono in varie parti del mondo. Una rete di ricercatori e attivisti, accomunati da una pratica di ricerca militante che origina dall’operaismo italiano a partire dai Quaderni Rossi degli anni Sessanta, fino alle più recenti teorie sul capitalismo biocognitivo-relazionale. Si tratta di una realtà assai composita, aperta alla discussione e all’elaborazione collettiva, anche attraverso l’organizzazione di seminari che rappresentano momenti di confronto pubblico e di autoformazione, indirizzati a chiunque sia interessato/a a partecipare. Effimera dedica un’attenzione particolare alle tematiche relative alla soggettività nella crisi, alla precarietà, ai femminismi e alla critica delle identità, nonché all’ecologia politica, alla battaglia per il reddito e alle analisi sul comune e sui beni comuni. Alla ricerca di pratiche e teorie che possano favorire un processo di autonomia e esodo costituente da opporre alle gabbie del capitalismo contemporaneo.

Cover:  foto della Rete Studenti Medi

LA GIUSTIZIA È PER L’ALTRO
Enzo Bianchi al Festival della Filosofia

18 settembre. Sassuolo, Piazzale della Rosa ore 18
Enzo Bianchi inizia la sua lezione magistrale al Festival della Filosofia edizione 2022

Sembra non essere cambiato nulla
La voce è la stessa
Inconfondibile
Profonda
Profetica
Lievemente roca, tagliente .
Le sue parole,  come se passassero su una lama arrotata,
colpiscono profondamente l’orecchio e il cuore di chi ascolta.
La piazza segue in silenzio tutti i passaggi della relazione sul tema assegnato dagli organizzatori a Enzo: “Misericordia: pratiche di giustizia e di perdono”.
Nessuna introduzione, nessun cenno agli avvenimenti che a partire dal maggio del 2020 hanno sconvolto la sua storia personale, da quando cioè quel decreto singolare del Vaticano, approvato in forma specifica dal Pontefice, ha chiesto l’allontanamento a tempo indeterminato della comunità di Bose da lui fondata.

Enzo Bianchi al Festival della Filosofia, 18 settembre 2022 Enzo Bianchi al Festival della Filosofia, 18 settembre 2022 Enzo Bianchi al Festival della Filosofia, 18 settembre 2022

Sono emozionato.
Vedere tutta quella gente stretta ancora una volta ad ascoltarlo è la testimonianza concreta e visibile del grande significato che continua ad avere la figura di Enzo Bianchi per la fede personale di moltissime persone.
Enzo parla di Misericordia e Perdono abbattendo come sempre luoghi comuni, scuotendo coscienze addormentate di laici e credenti
“Il perdono deve entrare nelle Istituzioni, nella legislazione!” dice con fermezza.
E ancora:
“Se la giustizia  non trascende quella di scribi e farisei non entrerete nel regno dei cieli.”
Ma attenzione.
Enzo non aderisce alla macchietta con cui vengono dipinti scribi e farisei in molti pulpiti domenicali.
“Scribi e farisei sono studiosi della Legge, osservanti in buona fede della Legge!
La giustizia non deve essere bendata, ma deve guardare alle situazioni.”
Il pensiero di Bianchi, uomo di fede, ricalca con forza quello laico dei relatori che lo hanno preceduto, il giurista Luciano Eusebi  e il filosofo Umberto Curi.
Emblematico il commento ad un brano scandaloso delle Scritture , quello del padrone della vigna che dà la stessa paga a tutti gli operai,  anche  a quelli dell’ultima ora!
“Vogliamo davvero non dare la paga a tutti? Forse che anche quegli operai che rispetto agli altri hanno lavorato meno , non hanno una famiglia a cui provvedere? Non devono mangiare?
Il pensiero evangelico si posiziona attraverso questi racconti,apparentemente paradossali , potentemente contro ogni logica meritocratica, stando a fianco a chi da solo non gliela fa!”
Emerge parola dopo parola nella relazione di Enzo un concetto di Giustizia non astratta e generale , ma che sa guardare in faccia alle persone, che sa distinguere caso per caso, una concezione che oggi più  che mai scandalizza, ma che fa felice coloro che non hanno nulla.

E poi Enzo richiama alla memoria un brano evangelico particolarmente interessante.
“Una paginetta  – dice lui – che ha vagato  fino al sesto secolo, che non è stata subito accolta tra i rotoli riconosciuti dalla Chiesa come ufficiali e che solo dopo molto tempo ha trovato collocazione nel capitolo 8 del vangelo di Giovanni”.
Si tratta della pagina dell’adultera.
Secondo la legge ebraica l’ adulterio rientra nei peccati più gravi e quindi meritevole di una pena tremenda, la lapidazione.
Le osservazioni di Bianchi fanno pensare:
“Alle parole di Gesù  del ‘chi è senza peccato’,  tutti se ne vanno.
Restano Gesù e la donna.
Secondo i canoni morali attuali oggi si direbbe:
Donna sai cosa hai fatto?
Hai capito che hai compiuto una atto gravissimo ?
Sei pentita?
Gesù  invece non dà condizioni, non prescrive penitenze : va’ in pace, dice, è non peccare più!
Va’ in pace!
Questa pagina imbarazza tanto che la Chiesa di Oriente ancora nel 1000 non la considerava vangelo!
Perché la Chiesa, composta da uomini,  non è esente da pratiche contrarie alla giustizia!
Anche nella Chiesa di oggi si calpesta il diritto al buon nome … il diritto alla difesa, non riconosciuto come ai tempi dell’Inquisizione…” .
Le parole di Enzo arrivano scevre da ogni acredine, da ogni intento polemico, sono quelle di una persona addolorata ma serena , di una persona che ha vissuto sulla propria pelle in modo consapevole
le contraddizioni di una giustizia lontana dalla misericordia.

Non posso non pensare ai  fatti che come un uragano hanno travolto la figura di Bianchi, cambiato la sua vita a quasi ottanta anni, e destato incredulità e sconcerto  in tantissimi suoi amici e simpatizzanti
Ripenso alla dubbia utilità  del commissariamento da parte di padre Amedeo Cencini, delegato pontificio e psicoterapeuta canossiano, all’ulteriore divisione nella Comunità di Bose seguita al provvedimento di autorità vaticana, il clima di tensione crescente conseguenza di sentenze mai spiegate in modo chiaro neppure agli interessati, al conflitto sicuramente così non sanato tra Luciano Manicardi, successore di Bianchi nel priorato di Bose, e il fondatore stesso Bianchi, fino alla fuoriuscita da Bose di 37 fratelli e sorelle e ad un grande numero di ospiti che da allora non hanno  più frequentato la comunità!

“E’ quella della misericordia una realtà che tocca tutti.continua Bianchi – Nella nostra vita abbiamo conosciuto se va bene la calunnia, se va male il tradimento .
Quindi tutti abbiamo occasione di Misericordia.
Il perdono è un cammino lungo, ricco di regressioni, immagini di sofferenza che ritornano alla mente e che possono allontanarci da una remissione.
Non è facile per nessuno.
Io guardo a Cristo.
Cristo sulla croce non ha detto a quelli che lo stavano torturando ‘Io ti perdono’, ma ha detto: ‘ Padre perdonali tu! Io non ce la faccio!’.

Conclude Bianchi con un ricordo emblematico sulla difficoltà di questo cammino, un ricordo legato al periodo di studi a Gerusalemme.
“Sono stato a Gerusalemme alla scuola del grande rabbino David Flusser.
A lezione diceva  sul perdono dei nemici voluto da Gesù  che gli ebrei non ce la faranno mai, se c’è qualcuno che ci riesce è uno che fa i miracoli come lui!!”.

Un lungo applauso accompagna le parole di ringraziamento finale di Bianchi a chi è venuto ad ascoltarlo, a portargli vicinanza, sostegno al suo lungo cammino di ricerca sull’ecumenismo, sull’impossibile  realtà della misericordia, che va oltre le contrapposizioni,  le incomprensioni, per chi  non vuole stare da una parte contro l’altra, ma sempre a fianco di ogni uomo.

Nota: le foto nel testo sono di Roberto Paltrinieri

CONTRO IL PROGETTO FE.RIS.
Idee a confronto: sabato 24 settembre ore 9,30

da Rete Giustizia Climatica di Ferrara

Vi scriviamo come Rete per la Giustizia Climatica per invitarvi a un incontro sul progetto FERIS,  sabato 24 settembre dalle ore 9.30 alle 13, presso la Sala Polivalente del Grattacielo, viale Cavour 189.

L’invito è rivolto a tutti coloro, associazioni o singoli cittadini, che si sono pubblicamente espressi contro la realizzazione del progetto Feris e l’Accordo di programma così come presentato dalla Giunta di Ferrara. Un progetto radicalmente sbagliato, non ambientalmente sostenibile e regressivo rispetto ad un’idea di città che guarda al futuro.

L’invito è rivolto anche a tutti coloro che condividono la contrarietà al progetto e intendono impegnarsi in futuro attivamente per bloccarlo e modificarlo.

Non abbiamo inteso, in questa fase, invitare alla riunione rappresentanti dei partiti politici, sia per garantire un’elaborazione di idee e progetti a partire “dai cittadini”, sia per evitare facili strumentalizzazioni, soprattutto in questo periodo di campagna elettorale

Proponiamo l’incontro per confrontarci e valutare insieme  possibilità e modi di costruzione di un percorso partecipativo che supplisca al mancato coinvolgimento dei cittadini da parte dell’Amministrazione.

Per ostacolare e far bocciare  il progetto FERIS nei prossimi passaggi procedurali  necessari  alla sua approvazione.

Per dare voce a tutti i soggetti – cittadini, associazioni e organizzazioni, intellettuali  – che si oppongono a FERIS ed elaborare un’ipotesi alternativa ad esso, come premessa per impostare un nuovo ridisegno della città, considerato che un orientamento progettuale complessivo e una visione di quale città vogliamo dovrebbe guidare e precedere interventi così caratterizzanti.
Rete Giustizia Climatica – Ferrara

Sotto l’egida della “riqualificazione urbana” il progetto Fe.Ris punta a cementificare migliaia di metri quadrati a ridosso delle Mura di Ferrara, una delle più importanti emergenze della Città Patrimonio UNESCO dal 1995 nonché una delle ultime storiche aree in cui la campagna si affaccia sulla città.
All’insaputa della cittadinanza e dell’opinione pubblica ferrarese, si apprende in questi giorni che, il progetto di riconversione dell’ex Caserma Pozzuolo del Friuli in via Scandiana-Cisterna del Follo, comprende nell’ambito di un Accordo di Programma altri due interventi in un unico, micidiale “pacchetto”: l’ennesimo ipermercato in via Caldirolo che, di fatto, caricherà di traffico veicolare l‘asse Via Caldirolo-Via Turchi, e un parcheggio nell’area di Viale Volano, che nega il valore del “vuoto” necessario per valorizzare il paesaggio e le fortificazioni storiche.

La dichiarazione della Rete

“Cambierà il volto della città” dice l’Assessore Balboni: ma i cittadini cosa dicono?

Nelle scorse settimane  è ’stato presentato dal Sindaco e dall’Assessore Balboni un importante progetto di riqualificazione urbana che modificherà una parte della città prospiciente le Mura a Est della città, il progetto Fé.ris, destinato secondo l’assessore Alessandro Balboni a “cambiare il volto della città futura: la nuova vita della ex Caserma Pozzuolo del Friuli, che si trasforma in studentato e diventa una piazza verde e aperta ai cittadini, trasformerà in meglio l’intero quartiere”.

Quale sostenibilità ambientale?

Come si può ritenere ambientalmente sostenibile un progetto che intende realizzare l’ennesimo supermercato cementificando su suolo agricolo/coltivabile, o creando un parcheggio nel vallo delle Mura? Un progetto che prevede migliaia di metri cubi di cemento? Un intervento che reputiamo totalmente insostenibile è in primis quello dell’ipermercato di via Caldirolo, che si vorrebbe realizzare proprio di fronte le Mura, in una delle ultime storiche aree in cui la campagna si affaccia sulla città, in netto contrasto con la necessità di arrestare il consumo di suolo per fini urbani. 13.500 metri quadri di terreno verrebbero sacrificati al cemento, e a fronte di questo scempio ambientale a nulla varrebbe il millantato “tetto verde”. Egualmente insostenibile Il progetto di un parcheggio che, di fatto, incentiva la circolazione di auto nel vallo delle Mura e nega il valore del “vuoto” necessario per valorizzare il paesaggio e delle fortificazioni storiche. L’area di via Volano dovrebbe essere acquisita dal Comune e utilizzata a completamento del disegno delle Mura stesse con un progetto architettonico del verde. Solo alberi in quella zona! Gli interventi di riuso e di rigenerazione urbana sono diretti a elevare gli standard di qualità ambientale e architettonica e si pongono l’obiettivo di “conseguire una significativa riduzione dei consumi idrici e di quelli energetici, di realizzare bonifiche di suoli inquinati e la riduzione delle aree impermeabili, potenziare e qualificare la presenza del verde all’interno dei tessuti urbani, sviluppare una mobilità sostenibile, incentrata sugli spostamenti pedonale e ciclabile”: questi criteri non sono rispettati in tali progettualità.

Quale rigenerazione?

Come si può ritenere intervento di rigenerazione la costruzione di un nuovo centro commerciale in una zona che nei dintorni ne conta già altri tre: a 500 metri dal luogo in cui sorgerà il cantiere si trova rispettivamente il centro commerciale Cadoro, a 800 metri l’Interspar, a 1300 metri l’Ipercoop. E’ certo, inoltre, che l’attività caricherà di traffico l‘asse Via Caldirolo-Via Turchi.  Ma soprattutto come si può ritenere rigenerativo cementificare un’area attualmente destinata a seminativo?L’area di via Caldirolo interessata è di 27.410 m2. Attualmente 26.110 a seminativo e 1280 fondiario, occupato dall’immobile che secondo il progetto verrà demolito. Si prevede la realizzazione di 14,777 m2 di spazio fondiario adibito a parcheggi (per 3.500 m2 di ipermercato e 250 m2 di negozi di prossimità) e 10,950 m2 di “parco”. Poco importa che tutto questo nuovo cemento venga camuffato, “armonizzato”, con un tetto verde, che per altro con le altissime temperature estive, unite alla pessima manutenzione del verde che caratterizza da sempre gli esercizi commerciali ferraresi, si trasformerebbe presto in un tetto giallo di erbe secche, vanificandone la funzione! Quanto a Via Volano, non si può considerare rigenerazione il fatto di costruire un parcheggio ex novo, quando invece sarebbe più opportuno liberare e bonificare un’area, importante e degradata, a ridosso del baluardo di Porta d’Amore dando spazio al vuoto e al verde. Al contrario si intende cementare nuovamente a ridosso delle mura, su un’area grande circa un terzo del parcheggio dell’ex Mof.

Questi due progetti sono profondamente sbagliati e, se realizzati, pregiudicheranno la qualità urbana e ambientale della città.

Quale innovazione?

Un ipermercato rappresenta la perpetuazione di un modello di sviluppo e di consumo ormai in via di superamento ovunque. Nella presentazione del progetto dell’area commerciale si cita (a sproposito, a nostro parere) il modello della città a 15 minuti: il modello del prof. Carlos Moreno è l’esatto opposto rispetto a quanto proposto dall’intervento di Via Caldirolo, perché tale modello prevede di rafforzare i servizi di vicinato (che non sono solo le “lavanderie” o le “edicole” come detto dal dott. Da Dalto durante la riunione della 3^ Commissione del 5/7/2022). Per città 15 minuti Carlos Moreno intende “un’idea di spazio urbano in cui la maggior parte delle necessità quotidiane dei residenti può essere soddisfatta spostandosi a piedi o in bicicletta direttamente dalle proprie abitazioni”. Un centro commerciale di quasi 4000 metri quadri di superficie di vendita è quanto di più lontano ci possa essere dal modello della città 15 minuti. Nella stessa area esistono già strutture commerciali di “medie e grandi dimensioni”: nel raggio di 1 km dal nuovo centro commerciale ipotizzato (quindi a distanza di camminata) ce ne sono ben 5 e hanno una superficie totale di vendita di oltre 6000 metri quadri; in quest’area risiedono oltre 13000 ferraresi (quindi il rapporto tra superficie di vendita e 1000 abitanti sarebbe di 461 mq/abitanti … un’enormità e un’aberrazione).

Per città 15 minuti dobbiamo quindi intendere ciò che Moreno (e altri urbanisti seri) definiscono come “città che avvicina i servizi, ne semplifica l’accesso, riduce le disuguaglianze migliorandone la coesione sociale e dando valore ad una nuova dimensione sostenibile di vicinato”.  Un centro commerciale da 3750 metri quadri di vendita non si avvicina nemmeno a questa idea. Così come non lo è l’idea del nuovo parcheggio auto previsto lungo via Volano, area che sarebbe opportuno riqualificare a verde, in modo da dare continuità al verde presente dopo l’intersezione con via Quartieri (ricordiamo inoltre che lungo via Volano esiste già un’area parcheggio, peraltro poco utilizzata). Un parcheggio nel vallo delle Mura rappresenta un un modello di mobilità vecchio che continua ancora a essere incentrato sull’uso dell’automobile privata a detrimento del trasporto collettivo, in aperta controtendenza con quanto si sta sperimentando in tante città del nord Europa sempre più“ car free”. I parcheggi scambiatori devono essere attestati in zone diverse da quella prescelta. Eppure avremmo bisogno di progetti di innovazione vera in tema di mobilità.

Quale utilità pubblica?

E’ quantomeno da valutare la positività del recupero dell’ex caserma Pozzuolo del Friuli, area da anni abbandonata, per la riqualificazione dell’area tra via Scandiana e Cisterna del Follo: da area dismessa a nuovo quartiere della città e nuova rivitalizzazione. Non basta dire che siccome l’area è degradata va bene qualsiasi intervento. Quali finalità pubbliche e sociali vengono garantite? “Favorire la rigenerazione dei territori urbanizzati e il miglioramento della qualità urbana ed edilizia” e “tutelare e valorizzare il territorio nelle sue caratteristiche ambientali paesaggistiche favorevoli al benessere umano ed alla conservazione della biodiversità” sono i principali criteri di utilità pubblica sottesi all’approvazione di un Accordo di programma pubblico/privato che, lo ricordiamo, permetterà importanti varianti agli strumenti urbanistici e di pianificazione vigenti (Piano strutturale Comunale, Piano Operativo Comunale, Regolamento Urbanistico Edilizio e Piano provinciale per il commercio POIC):  di certo questi criteri non vengono soddisfatti dalla trasformazione di un’area attualmente a seminativo in un ipermercato e costruendo un nuovo parcheggio nel vallo delle Mura. L’assessore ha spiegato in commissione consigliare che il progetto è unico (non si può quindi stralciare il parcheggio o l’ipermercato) perché solo la realizzazione dei tre interventi insieme permette la sostenibilità economica del progetto.

Quale coerenza con la risoluzione ”Stop consumo di suolo” da noi proposta e approvata dal Consiglio comunale meno di 3 mesi fa?

Arrestare il consumo di suolo rappresenta una strategia fondamentale non solo per contrastare il dissesto del territorio e la perdita di biodiversità ma anche per mitigare gli effetti drammatici del riscaldamento globale (stoccaggio di carbonio, maggiore disponibilità di spazio per la piantumazione di numeri elevati di alberi che rappresentano uno dei mezzi più’ efficaci per ridurre l’aumento delle temperature). In particolare, poiché Ferrara è uno dei capoluoghi di provincia con il maggior numero di ondate di calore, sarebbe estremamente importante che le scelte di pianificazione dell’amministrazione della città fossero volte ad impedire un ulteriore cementificazione del suolo comunale. Peraltro nella delibera del 12 aprile 2022, il Consiglio comunale si era impegnato a contrastare in maniera concreta il consumo di suolo libero e a quantificarne il valore quale fornitore di servizi eco-sistemici.

Quale partecipazione dei cittadini?

opo oltre due anni di lavoro tra l’Amministrazione e la società privata titolare dell’intervento il progetto andrà in consiglio comunale lunedì prossimo senza una preliminare discussione con i cittadini, senza un loro coinvolgimento diretto nelle scelte di trasformazione di una parte della città.

Nonostante il grande impatto urbanistico che questi interventi avranno sulla città, poichè sono presentati, come ha spiegato l’architetto Magnani in commissione, trattandosi di un Accordo di programma, non c’è alcun obbligo da parte dell’amministrazione di organizzare percorsi partecipativi.

Ma, al di là degli obblighi amministrativi, non sarebbe stata questa l’occasione giusta per creare  uno spazio di confronto pubblico dove approfondire idee, proposte e visioni per la Ferrara futura, in cui poi inserire la declinazione di questo progetto?

Eppure la necessità di un orientamento progettuale complessivo e di una visione di quale città vogliamo dovrebbe guidare e precedere interventi così caratterizzanti.

Perché non si è aperto un dibattito?

Quale idea di partecipazione della cittadinanza alle scelte politiche persegue l’Amministrazione?

E’ stato affermato che in consiglio si voterà solo un Accordo (art. 11 L.241/90), preliminare al successivo Accordo di Programma e che ci sarà spazio per la partecipazione dei cittadini.

Sappiamo che non è così. Il coinvolgimento dei cittadini andava fatto prima di iniziare l’iter autorizzativo.

Rete Giustizia Climatica Ferrara

Tutte le informazioni sul sito della Rete:  http://www.giustiziaclimaticaferrara.it/

Cover: La ex caserma Pozzuolo del Friuli aperta in occasione del Festival Riaperture, marzo 2019 (foto di repertorio – periscopio)

Parole a capo
Daìta Martinez: Testi tratti da “Nutrica”

Testi da nutrica di daìta martinez, LietoColle edizioni 2019

del borgo  s’addormenta
l’obliquo pendio la fonte
bianca  silente  assente l’
errore dal cielo  raccolto
lucido sinonimo  la casa
sottilissima   una  stanza
attesa  ha candore  tra le
dita nude di bimba lieve
e solitaria promessa   un
giorno tra le scapole e il
segno antico  di viddana
nenia  assittata   supra ‘u
ciatu di la chiazza  grapi
‘a cascia  di li sô cianchi
stanchi  alla dolcezza di
un bacio  più baci anche
il dondolio nel sonno fa
pudico il viso  arrossato
quasi tondo quasi  mela

*

strada   d’albicocco
dalle mani  s’odora
il silenzio del treno

;

ancora una  carezza
e un passo sulla via
le mani  pianissimo
sfiorarsi dal  sorriso
rosa   bianca bianca

;

un silenzio solo
due malinconie
non sai  angelo
del fiore che giù
si fa improvviso

*

in qualche silenzio
siamo stati bravi a
imbrattarci di anni
e nascevo un poco
custodisci le more

;

capitami di   ciliegia
negando o irrequieta
sintassi  una guancia

;

mammole piccine    un attraverso
l’araba antesi del porto giallo  sia
cerchio  più perfetto   il cerchiato
vuoto all’imbrunire dal tetto cede
santa teresa l’ombra al viso della
stanza sacra  un silenzio  o senza

*

s’è appena accesa l’alba nella stanza del fornaio
pochi spicci e uno sbuffo caldo ai sogni lievitati
nel taciturno avanzare delle tapparelle schiuse a
piedi è uno sbuffo la vicinanza dai vicoli antichi
la piccola vergine nell’ovale della piazza spinge
materna la filigrana della gonna arrossata in una
culla di cartone salta prima la zampetta del gatto
partigiano e il tuorlo del sole arriccia la fronte ai
gradini della chiesa una cartolina lasciata andare
d’altri lievi movimenti una fessura accovacciata
tra rintocchi di mani sciupate a legno nudo sugli
annali dei banchetti insorta catenina la pazienza
dei vecchi innaffia d’acqua di colonia il tabacco
di una guerra e il ricamo del fazzoletto assettato
sul taschino di cent’anni nascosto ancora dentro
il bacio di un amore nel buongiorno del mattino

*

una parola   basterebbe  una parola  rotta  anche  solo quella  una parola  da svitare e vomitare dall’inizio della pentola a bollire ai capelli raccolti sulla guancia a pezzetti di quegli anni che proprio non  mi  riesce  imbastire su questa carezza  soffiata adesso che non ha volume la pioggia e le bancarelle del mercato e quella terrazza che ritorna e che non voglio tornare  una parola  a smontare la gabbia di carne e umori e i panni stesi che non s’asciugano mai e stracciano l’immobile alternarsi della spinta dentro dico  non puoi vederla tu ( da lontano ) la spinta e a me non riesce nominarla quella parola conficcata nella zona buia della pancia eppure così chiara da poterla gridare mentre si fa precipizio l’angolo dalle scarpe in questo cielo che si apre e possente brucia nell’intimo crepuscolo della mano  una parola  ne basterebbe una di rame o lana o roba vecchia da cercare tra cianfrusaglie di ognicchè la mattina di piazza marina con l’albero dalla chioma grande e le calze sfilate acqua dopo acqua per contrastare e raschiare a sera quel livido annodato con forza dall’orco che non era di racconto capitato nel bosco ma è di qui il segno apostrofato a calci che non vedi perché non puoi vedere gli squarci strozzati nell’accesso a  una parola  che nuota di fame dietro il cancello quando mi domandi dove ho lasciato la tenerezza e rimane disordine muto alle caviglie

*

la donna  coi pantaloni
rossi  odora di paste di
mandorla si è  sciupata
il cuore ai lattarini una
domenica ferita di luce

I testi pubblicati in questa rubrica sono stati autorizzati dall’autrice che ringraziamo.

Daìta Martinez, palermitana, ha pubblicato con LietoColle (dietro l’una), 2011, segnalata alla V Edizione del Premio Nazionale di Poesia “Maria Marino”, e nel 2013 la bottega di via alloro.
Vincitrice – sezione dialetto – del 7° Concorso Nazionale di Poesia Città di Chiaramonte Gulfi, è stata finalista, per l’inedito in dialetto, della 44° edizione del Premio Internazionale di Poesia Città
di Marineo. Inserita nell’Almanacco di poesia italiana al femminile “Secolo Donna 2018”, edizioni Macabor, nel 2019 ha pubblicato la finestra dei mirtilli, suite poetica scritta a quattro mani con il poeta comisano Fernando Lena, Edizioni Salarchi Immagini, il rumore del latte, Spazio Cultura Edizioni, e nutrica, LietoColle, 2019. È vincitrice del Premio Macabor 2019 – sezione raccolta inedita di poesia – con pubblicazione, ‘a varca di zagara in dialetto siciliano. È presente in Anni di Poesia di Elio Grasso, puntoacapo Editrice, 2020. È stata finalista – sezione raccolta inedita – della 34° edizione del Premio Lorenzo Montano. Nel 2021 ha pubblicato Liturgia dell’acqua, Anterem Edizioni, e Le madri, raccolta di haiku accompagnati dalle acqueforti di Vincenzo Piazza, Edizioni dell’Angelo.
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia/PeriscopioPer leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Invito al flash mob di sabato 1 ottobre:
una mezz’ora insieme, un abbraccio condiviso

Gruppo SAVE THE PARK – FERRARA
Mancano dieci giorni al grande appuntamento del 1 ottobre. Iscriviamoci tutti al flashmob per il parco!

Sabato primo ottobre, una mezz’ora insieme, un abbraccio condiviso

Questa la lunga lista delle associazioni che finora ci sostengono, e alle quali chiediamo di condividere il link della nostra petizione online
Vuoi aggiungere anche la tua associazione?
La petizione popolare che chiede alla Amministrazione Comunale di Ferrara di spostare il mega-concerto di Bruce Springsteen dal Parco Urbano in  un’altra più idonea e meno impattante location ha raccolto fino ad oggi oltre 39.500 adesioni. Per ora, nessuna risposta da parte del Comune. La mobilitazione continua.  
IL TESTO DELLA PETIZIONE

Il parco urbano Giorgio Bassani di Ferrara è un ecosistema fragile. Non può essere sede di concerti rock da 60000 persone. Per questi eventi, molto belli e desiderabili per la nostra città, chiediamo sia trovata fin da ora un’altra cornice. 

Il 18 Maggio 2023 è previsto a Ferrara il concerto della star Internazionale Bruce Springsteen. Siamo favorevoli a che il concerto si tenga a Ferrara ma non condividiamo il luogo dove lo stesso concerto dovrebbe tenersi.

Il parco Urbano Giorgio Bassani è stato concepito e costruito, sin dalla sua progettazione, come un’opera di rinaturalizzazione di uno spazio cerniera tra l’area urbana, quella agricola e il fiume. In più di venti anni si è creato un equilibrio biologico unico e prezioso, un ecosistema complesso che ora, nel pieno della sua maturità, costituisce un unico grande organismo vivente.
Nel Parco, tra alberi, laghetti e canali, trovano rifugio e protezione uccelli migratori e stanziali, animali selvatici e pesci di acqua dolce.
Nelle immediate vicinanze insistono le sedi locali ed i rifugi della LIPU, della Lega del Cane, il Gattile comunale e il Canile Comunale.
Ad oggi è previsto l’arrivo di circa 50.000 spettatori, l’impatto negativo e di lunga durata che tutto ciò potrebbe avere sul Parco è quasi superfluo spiegarlo:
Costruzione del palco, arrivo dei TIR dell’organizzazione;
Viabilità cittadina e creazione di parcheggi per il pubblico;
Creazione servizi logistici ed igienici;
Impatto dei volumi sonori del concerto ;
Danneggiamento indotto dal calpestio di 55.000 persone sul manto erboso del Parco e dunque sulla biodiversità; Morte dell’avifauna;                            Costi per il ripristino della zona dopo l’evento; Rischio di creare un precedente per l’uso del Parco per grandi eventi.

Eventi simili tenutisi sul litorale, nonostante le promesse di “impatto ambientale zero” , hanno avuto effetti deleteri e non reversibili sui fragili eco sistemi delle nostre coste già abbastanza vituperate negli anni.
Abbiamo costituito un Comitato per aprire un confronto costruttivo con il Sindaco Alan Fabbri per poter valutare insieme un luogo alternativo dove tenere il concerto.
Essendo Ferrara in un territorio di pianura e già molto antropizzato, siamo sicuri che trovare una sede più idonea sia possibile, i tempi ci sono.
Vogliamo che la sostenibilità che tutti ultimamente si stanno appuntando sul petto questa volta sia effettiva, completa e dimostrabile, non solo una mossa di facciata.
Siamo convinti che Ferrara possa esprimere capacità e risorse per creare un evento di queste dimensioni che diventi un vero modello di sostenibilità anche per il futuro.

Faremo arrivare il nostro grido di allarme anche al diretto interessato Sig. Bruce Springsteeen, da sempre persona sensibile alle tematiche ambientali e sociali.
Chiediamo a tutti quanti hanno a cuore la grande musica e l’ambiente in cui viviamo di firmare il nostro appello, per questo vi ringraziamo di cuore e vi preghiamo di condividere il nostro appello con tutti i vostri contatti.

Il prossimo obbiettivo è arrivare e superare le 40.000 firme.
Se non l’hai ancora fatto puoi aggiungere la tua adesione [firma qui la petizione] 

Obblighi di salvataggio e stato di diritto

di (pubblicato da pressenza il 18.09.22)

Nelle ultime settimane si sono registrati diversi casi di abbandono in mare da parte degli Stati e delle autorità marittime competenti a svolgere attività di ricerca e salvataggio nelle acque del Mediterraneo centrale. In assenza di mezzi statali e con le navi delle ONG impegnate a raggiungere porti di destinazione molto lontani dai luoghi nei quali avevano effettuato i soccorsi, non si è riusciti ad intervenire in tempo per sottrarre alla morte per fame e per sete donne e bambini. Abbiamo così avuto diversi casi di soccorsi affidati dalle autorità marittime italiane e maltesi a navi commerciali, dopo giorni e giorni di attesa, e a seguito di questi soccorsi si sono contate altre vittime innocenti, persone che si sarebbero forse salvate se i soccorsi fossero stati più tempestivi. La lunga attesa in mare, dopo le prime richieste di aiuto, ha anche aggravato la condizione dei sopravvissuti, persone che si erano messe in navigazione sulla rotta orientale, partendo dalla Turchia e dal Libano, dopo essere fuggite dalla Siria e dall’Afghanistan, dimenticato da tutti. Persone perdute in mare, vittime del cinismo e della indifferenza, come tante altre annegate o respinte, che, dopo gli abusi sofferti in Libia, erano riuscite ad imbarcarsi sulla rotta del Mediterraneo centrale, portandosi addosso ferite profonde e gravi ustioni sul corpi. La Guardia costiera libica intercetta e deporta, non soccorre. I maltesi sostengono di non avere mezzi adeguati per andare ad operare nella loro porzione di zona Sar sovrapposta (overlapped) a quella italiana, 50-70 miglia a sud di Lampedusa. Non si può pensare di continuare a delegare alle navi commerciali di passaggio attività di ricerca e soccorso in acque internazionali, attività che costituiscono obblighi precisi per gli Stati costieri e richiedono interventi tempestivi e specializzati.

Come ha denunciato l’Unhcr, l’Alto Commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite, questa inaccettabile perdita di vite umane, e il fatto che le persone abbiano trascorso diversi giorni alla deriva prima di essere soccorse, evidenziano ancora una volta “l’urgente necessità di ripristinare un meccanismo di ricerca e soccorso tempestivo ed efficiente guidato dagli Stati nel Mediterraneo.” Perché gli Stati non si possono sottrarre al coordinamento delle attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali e hanno in proposito l’obbligo di coordinarsi tra loro per garantire la massima tempestività degli interventi SAR (di ricerca e salvataggio) al fine di evitare la perdita di vite umane in mare. La sistematica elusione dei doveri di coordinamento tra gli Stati per il soccorso nelle acque del Mediterraneo centrale, e gli accordi di cooperazione conclusi con il governo di Tripoli non solo dall’Italia, ma anche da Malta, hanno comportato la perdita di almeno 1500 vite umane lo scorso anno e oltre 1200 vite umane, tra morti e dispersi, sono il tributo pagato nel corso del 2022 alle politiche di esternalizzazione delle frontiere, praticate dagli Stati costieri e dall’Unione Europea. In diverse occasioni le autorità maltesi non hanno risposto a chiamate di soccorso provenienti da imbarcazioni che si trovavano nella loro area di responsabilità.

Come riferisce il giornale L’Avvenire, nei primi giorni di settembre, una bimba siriana di 4 anni è morta, dopo giorni in attesa dei soccorsi, sul barcone in zona SAR maltese. Era stata evacuata dall’imbarcazione con a bordo 60 migranti che da diversi giorni chiedeva soccorso dalla zona Sar di Malta, in cui si trovava. La bambina, ha spiegato Alarm Phone, era stata presa a bordo di un elicottero dal mercantile che aveva soccorso i migranti ma è spirata prima di arrivare in ospedale. Le rotte dal Mediterraneo orientale sono più lunghe di quelle dalla Libia, i mezzi utilizzati sono generalmente più grandi, ma il numero delle vittime continua ad aumentare, come si sta verificando anche sulle rotte dalla Libia e dalla Tunisia. Tutte queste rotte attraversano infatti una zona SAR, quella maltese, che non è presidiata con mezzi di soccorso adeguati rispetto all’estensione della zona di mare che vi corrisponde, ed i barconi carichi di migranti si trovano spesso abbandonati anche dalle centrali di coordinamento dei singoli Stati (MRCC), che al di fuori delle rispettive acque territoriali ( 12 miglia dalla costa) si rimbalzano la competenza degli eventi SAR o negano che ricorrano situazioni di distress, tali da imporre interventi immediati in acque internazionali a salvaguardia della vita umana.

Anche quest’anno decine di migliaia di persone sono state bloccate in acque internazionali della sedicente Guardia Costiera Libica, supportata dalle unità aeree di Frontex, agenzia dell’Unione Europea, e riportate in Libia dove sono state esposte ad altri abusi e ad altre estorsioni da parte dei trafficanti e da parte delle milizie che controllano i centri di detenzione in quel paese. Per questa ragione non si può sostenere che una maggiore collaborazione con i libici diminuirebbe il numero delle vittime, perché è incontrollabile il numero delle persone che, dopo essere state intercettate in mare, vengono riportate nei campi di detenzione in Libia dove perdono la vita o subiscono lesioni permanenti che ne compromettono le residue possibilità di vita. L’unica soluzione possibile oggi è l’apertura di canali legali di evacuazione dalla Libia, anche attraverso la concessione di visti di ingresso per motivi umanitari, e la chiusura dei centri di detenzione gestiti dalle milizie. Le morti in mare non sono tragedie, ma crimini, come ha recentemente affermato padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli,

Purtroppo tanto la politica nazionale, al pari dell’opinione pubblica, quanto l’Unione Europea, ormai condizionata da paesi a guida sovranista e nazionalista, si dimostrano indifferenti rispetto a queste stragi di innocenti, stragi annunciate, di persone che fuggono da guerre, persecuzioni e miseria, e che cercano salvezza affidandosi a trafficanti, in mancanza di qualsiasi alternativa legale di attraversamento delle frontiere. Gli Stati europei si propongono piuttosto di intensificare gli accordi con i paesi terzi, come si vorrebbe fare con il governo di Tripoli per instaurare un vero e proprio “blocco navale”.

L’Unione Europea continua a finanziare l’agenzia Frontex, da tempo al centro di documentate denunce per la sua gestione opaca e talora violenta dei respingimenti nei confronti dei migranti che vengono intercettati in mare. Si deve ancora ricordare come siano proprio mezzi aerei di Frontex, dopo il ritiro di tutte le unità navali europee, a collaborare attivamente con la sedicente guardia costiera “libica” per segnalare le imbarcazioni in fuga dalla Libia e facilitare quindi, anche in acque internazionali, le attività di intercettazione e di respingimento “su delega” che le motovedette libiche, in gran parte fornite dall’Italia e oggi sotto controllo della Turchia, svolgono sulle rotte del Mediterraneo centrale.

Gli obblighi di ricerca e salvataggio non sono soltanto imposti dal diritto internazionale ma costituiscono anche precisi doveri a carico degli Stati in base alla normativa interna che questi si danno in materia di assistenza delle persone in pericolo in mare. Per effetto degli articoli 10, 11 e 117 della Costituzione Italiana tanto il legislatore interno quanto le autorità marittime sono tenute al rigoroso rispetto delle prescrizioni derivanti dalle Convenzioni internazionali di diritto del mare, come la Convenzione delle Nazioni Unite del 1982 UNCLOS definita come convenzione di Montego Bay, la Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare (SOLAS) e la Convenzione ricerca e salvataggio( Sar) di Amburgo del 1979 che è alla base del Piano Sar Nazionale secondo le regole guida del Manuale internazionale IAMSAR.

Nell’ applicazione delle norme cogenti derivanti da queste Convenzioni occorre anche considerare la Convenzione di Ginevra del 1951 a tutela dei rifugiati perché da questa Convenzione si ricava il fondamentale principio di non respingimento (articolo 33) secondo il quale nessuna persona può essere respinta verso un paese nel quale rischia la vita o la integrità fisica. Questa norma, se incrociata con le prescrizioni di diritto internazionale del mare, assume particolare rilievo quando si pensa che nel Mediterraneo centrale la maggior parte delle attività di respingimento, adesso delegate alla sedicente Guardia Costiera Libica e in parte promosse anche dalle autorità di Malta, che hanno stipulato appositi accordi con il governo di Tripoli, sono attività che hanno come target persone in fuga dalla Libia dove hanno subito abusi di ogni genere e dove questi abusi ritroveranno se saranno riportate indietro, magari con la collaborazione delle autorità italiane, maltesi o europee. Ma anche chi fugge dalla Tunisia ha diritto di essere soccorso in mare e non può essere costretto a pagare con la vita il tentativo di sopravvivenza ad una crisi economica devastante che attanaglia quel paese. Gli obblighi di soccorso in mare non vengono meno a seconda delle persone da salvare o degli accordi tra Stati.

 

1992-2022 Memorie di Tangentopoli (2):
La capitale morale, l’omertà meneghina, etica e impresa

 

MILANO  “CAPITALE MORALE”  DEL PAESE: LA FINE DI UN MITO

Un’altra verità tocca un luogo diventato comune: la Milano “capitale morale” del Paese. Si vantava di questo ruolo, Milano. Polo di riferimento di ogni virtù. Le virtù della Milano produttiva, che lavora, che ha un’etica del lavoro e non solo, che risentiva della cultura calvinista nord e mitteleuropea. Quindi una classe dirigente integra e di qualità. E questo al confronto con una classe politica inconcludente e parassitaria, come parassitario era il sud del Paese rispetto al nord, marcava la sua superiorità morale. Tangentopoli ha rivelato che era una bufala, una gigantesca ipocrisia. Milano aveva le virtù e soprattutto i vizi del Paese e poiché del Paese era la più ricca perché effettivamente la più produttiva, era anche del tutto immaginabile che fosse pure quella più viziosa.

L’altra verità tocca la corruzione. Secondo i luoghi comuni, veniva generalmente focalizzata su Roma, la capitale politica. Sentina di traffici di ogni genere. Di commerci fra politica, amministrazione, business e pure mafia, come abbiamo visto anche dopo. Invece no. La corruzione parte sì da una capitale, ma dalla “capitale morale”, per irradiarsi in tutto il paese. “Capitale corrotta nazione infetta” apriva il primo numero dell’Espresso nel 1955. Allora era Roma. Ma dopo oltre 40 anni, nel 1993, Tangentopoli dice che è Milano. E ancora adesso nulla fa supporre che sia diverso, se non addirittura peggio.

PRIMA E DOPO TANGENTOPOLI. DA UNA TRAGEDIA ALL’ALTRA. L’ARRIVO DI BERLUSCONI

Infatti un’altra verità scomoda, per molti indigesta, è quella che Tangentopoli ha partorito il berlusconismo. E il paradosso è che con l’arrivo del milanesissimo Berlusconi, la corruzione si moltiplica. Con l’istinto del vampiro e l’avidità dello sciacallo, Berlusconi si butta sulle macerie di questa tragedia nazionale, per moltiplicare le sue fortune personali. E così ad una tragedia nazionale ne seguirà un’altra. Non si capisce davvero come si possa passare, in pochi giorni, dalle manifestazioni di piazza con la folla urlante che insulta e lancia monetine a Craxi e, subito dopo, dare una valanga di voti a Berlusconi che, del leader socialista, è sempre stato un sodale organico degli interessi comuni. E’ un mistero antropologico. Non basta, a spiegarlo, il noto anatema di Trilussa sul “popolo coglione risparmiato dal cannone”. Quel popolo che finisce per credere sempre, ingenuamente, alle sirene del potere. E così la clamorosa vittoria dell’onestà e della pulizia di Tangentopoli, si tramuta in una ancora più clamorosa sconfitta.

E dire che dovremmo avere imparato come la corruzione sia elemento costitutivo del potere, e ci voglia una forte statura e tempra morale per resistere alle sue lusinghe, e ad una concezione malandrina del compromesso.

Era già ben noto invece che Berlusconi non era proprio un uomo di quella tempra. Come del resto ha ampiamente confermato nel lungo inverno del suo potere.

LA MAFIOSITA’ “NORDICA”: L’OMERTA’ DELL’ALTA BORGHESIA MENEGHINA

Ma un’altra sconfortante verità discende dalla corruzione ed emerge come un fiume carsico: l’omertà. Anche su questo, i luoghi comuni si sprecano.

Il primo è l’idea che l’omertà sia un marchio di infamia proprio ed esclusivo della sicilianità. Invece, anche su questo, Tangentopoli spazza la coltre di ipocrisia che copriva il perbenismo borghese meneghino, di tutti quegli stimatissimi professionisti dei circoli esclusivi, del Caffè Cova e del Savini, quello della mondanità scaligera, ed oltre. Un mondo che io stesso ho frequentato, spesso per obblighi istituzionali, mai sentendomi però di quella “razza”, ma guardandoli con un certo disgusto per quanto se la tiravano, ostentando un falso perbenismo. Stavo anch’io “in quel mondo”, ma sinceramente non mi sono mai sentito “di quel mondo” che, invece, osservavo con curiosità antropologica. Ebbene tutta questa gente, accademici, architetti, ingegneri, avvocati, commercialisti, manager, consulenti di grido e perfino portaborse, erano perfettamente a conoscenza delle tangenti. Non solo. Ne erano, spesso, i protagonisti, “gli architetti” e organizzatori del sistema criminale. Conoscevano quindi come e quanto ci si spartiva fra imprese, gruppi di interessi, lobbisti e, soprattutto, partiti e correnti di partito. Mai però una denuncia. Mai un rifiuto che si conosca, ma una sorta di vasta mafiosità diffusa.

Negli anni 80 la Camera di commercio è stata il maggiore operatore edilizio di Milano, avendo rimesso in ordine tutto il suo cospicuo patrimonio immobiliare di pregio, lasciato deperire troppo a lungo, oltre a fare acquisti di nuove sedi periferiche. Però, quando nel ristrutturare il Palazzo della Borsa, per vie traverse mi venne offerta una tangente, con Bassetti andammo dal Procuratore generale Beria d’Argentine a fare un esposto denuncia. Si sparse la voce e non accadde più.

Non mi risultano episodi analoghi, anche se non li escludo. Di certo però né i singoli professionisti, nè le loro potenti corporazioni, hanno mai fiatato su questi spinosi argomenti. Era, oltrechè l’interesse e il rischio, l’ipocrita virtù professionale della discrezione e della riservatezza…. Sta di fatto che la vantata superiorità morale dei milanesi ha subito un duro colpo e una clamorosa smentita. Un’altra opera di verità grazie a Tangentopoli era così compiuta.

ETICA E IMPRESA, UN DIBATTITO SURREALE

C’è un capitolo che mi sta particolarmente a cuore, a proposito di verità. Negli anni subito prima di tangentopoli, si era sviluppato un largo e intenso dibattito su etica e impresa, montato soprattutto dalla stampa asservita al potere economico che la possedeva. Un dibattito fatto di continui convegni con i massimi esponenti della cultura, dell’impresa e anche della Chiesa. Il messaggio di sottofondo, che a me ha suonato sempre fasullo, era quello di dire che, sì, la politica era corrotta, ma che in compenso l’impresa era sana. E meno male! Alla faccia delle “cupole” ristrette di imprese che, con la complicità dei politici e dei burocrati corrotti, si spartivano gare e appalti.

Che fosse una sorta di excusatio non petita…? Forse. Io stesso, però, intrigato da questo dibattito, ho cercato di inserirmi con una iniziativa istituzionale originale: creare un comitato etico internazionale e interculturale di alta autorevolezza, presieduto dal cardinale Martini, che dettasse alcune regole rigorose e trasparenti di etica dell’operare economico, e costituisse innanzitutto un vincolo morale, ma anche una tavola di principi su cui valutare il tasso di eticità del concreto operare delle imprese. Io avevo scritto anche una prima bozza di questi principi.  Convinsi Bassetti di andare insieme a proporlo a Martini. E andammo quindi a trovare il Cardinale che si mostrò molto interessato alla cosa. Subito dopo però scoppiò tangentopoli e tutto andò evidentemente a monte.

Era chiaro che etica e impresa, se non erano proprio antinomici, mostravano però una non facile compatibilità a convivere.

I MEDIA E GLI ABUSI

Non si può chiudere questo excursus sulle verità rivelate del fenomeno di Tangentopoli, senza parlare anche di un’ultima verità. Quella che riguarda i media. Abbiamo già accennato al rimbombo mediatico che il fenomeno di Tangentopoli ha avuto.

Che per certi aspetti questo fosse inevitabile, è certamente vero. Per altri versi, però, soprattutto con le forzature morbose e scandalistiche, non è assolutamente vero che non si potesse avere più moderazione e rispetto delle persone.

E’ evidente che i fatti e la rilevanza dei protagonisti costituivano un boccone ghiotto per tutti i media. In questa occasione si ripetè, però, esasperato per la raffica continua dei provvedimenti giudiziari, il cattivo costume, che pure si denuncia spesso, della disinvolta gestione mediatica di questi  provvedimenti. La semplice apertura di una indagine, o addirittura un semplice avviso di garanzia, che dovrebbe essere sempre a garanzia dell’indagato, venivano lanciati da subito come notitia criminis, e quindi motivo di scandalistiche inchieste, o di un morboso scandaglio nei più riservati anfratti della privacy. Quanto questo fosse anche funzionale al lavoro dei magistrati è difficile dirlo. Di sicuro la fuoriuscita o anticipazione di notizie, anche minori per le inchieste, ma rilevanti per i media, venivano normalmente dal palazzo di giustizia, e contribuirono ad allestire uno spettacolo incivile: una crudele mattanza per nulla rispettosa della dignità delle persone. Il massacro mediatico che ne derivò non fu causa secondaria di tante tragedie, che in quel contesto si consumarono.

Ma anche questo, vista la storia successiva, soprattutto con l’arrivo dei Cinquestelle, non sembra aver insegnato nulla per fare del nostro Paese un Paese migliore. Come vorrebbe chi davvero lo ama.

[per leggere la prima puntata della Memoria di Tangentopoli clicca Qui]

INTERNO VERDE
Dal giardiniere reale al botanico-investigatore, una guida ai parchi ferraresi

È la piacevole sensazione di incontro quella che resta dopo uno o due giorni di tour tra i giardini aperti a Ferrara dalla manifestazione Interno Verde 2022. Dietro a cancelli e porte che si aprono, mi è capitato di trovare parchi immensi così come fazzoletti di terra pieni di piante, fiori e cura. Piccolo o grande che sia, ogni volta ho scoperto un mondo. Può essere espresso da vegetali, oggetti, composizione architettonica. Ma sono la personalità, l’estro, le passioni dei padroni di casa che arrivano al visitatore. Invitata a condividere le visite, un’amica mi ha detto che preferiva non partecipare a questa manifestazione perché le sembrava di ficcare il naso in casa d’altri. E in effetti è proprio questa la chiave, ma da vivere in positivo. Le persone aprono le porte per accogliere visite, mettono in ordine gli spazi esterni, talvolta anche interni, e magari li abbelliscono con nuove essenze. A volte lasciano piccoli omaggi per gli ospiti-spettatori, raccontano qualcosa di loro attraverso opere esposte, libri, piante e, in qualche caso, con la loro stessa testimonianza e accoglienza.

Opere di Sergio Zanni in via XX Settembre a Ferrara (foto GioM)

Tanti gli incontri artistici fatti in questa edizione 2022.

STATUE TOTEMICHE – Nel giardino di casa Tubi, in via XX Settembre, svettano tre sculture storiche in terracotta di Sergio Zanni, ferrarese noto anche all’estero.  Fino a marzo scorso i suoi lavori più recenti, di grandissime dimensioni, erano esposti nella Palazzina d’arte moderna di Ferrara, in corso Porta Mare. Ed è ancora possibile ammirare il suo imponente complesso scultoreo composto da sei figure: sei kamikaze giapponesi, alti tre metri, sono esposti nel salone d’onore del Palazzo comune (piazza Municipio 2, Ferrara), con ingresso libero negli orario di apertura degli uffici pubblici.

VOLTI PLASMATI – In via Carlo Mayr, tra le varie pezzature di verde in cui è stato suddiviso il giardino che era di Villa Carla, c’è l’angolo verde della pittrice e scultrice Pinuccia Boschi, che dissemina di calchi di volti anche le aiuole e che sulle pareti d’ingresso espone numerose tele di talentuosi amici artisti.

L’artista Pinuccia Boschi
Una sua opera in plexigass

STATUE NARRANTI – A seconda delle edizioni, anche spazi verdi già visti possono rivelare aspetti inediti o curiosità che erano sfuggiti. Così il giardino della scultrice Mirella Guidetti Giacomelli quest’anno è apparso in modo nuovo. Non solo perché questa volta l’accesso era dal retro, in via Cantarana anziché in via XX Settembre, conferendogli il fascino di un’entrata segreta.

Il biologo Leonardo Frezza nel giardino di Mirella Guidetti (foto GioM)

Un’altra novità è stata affidata al caso. In questo occasione la contingenza dipendeva dal fatto che a fare da cicerone, con la maglietta rossa dell’organizzazione, ci fosse un neo laureato in biologia, Leonardo Frezza. Era lui a spiegare che le statuette in creta appoggiate al muro di confine sono i primi esperimenti scultorei della padrona di casa, mentre sue opere più mature sono le due figure femminili in terracotta appoggiate sul muretto davanti all’abitazione [vedi foto in apertura e sotto].
Leonardo ha ricordato, inoltre, che Mirella è l’autrice del busto dantesco che si può vedere nel viale laterale d’ingresso di Parco Massari, di un ritratto di Pertini donato al Quirinale e di quello di papa Wojtyla, che le valse un incontro con Giovanni Paolo II in Vaticano.

Vasi decorati da Mirella Guidetti accanto alla fatidica pianta di oleandro (foto GioM)

Quando si è inoltrato nella sua materia per illustrare le piante, il giovane è diventato poi un narratore avvincente dal piglio thriller. Del bell’oleandro dai fiori rossi ha fatto presente che è tossico, al punto che bastano tre sue foglie in un infuso per distruggere un uomo di 85 chili e ha ricordato come dei soldati romani morirono dopo avere mangiato spiedini di carne cotti sopra ai suoi rami. “Le piante sviluppano veleno per difendersi dai predatori – raccontava – e tanti principi inebrianti in realtà sono mortali per animali o organismi più piccoli. Come i frutti del baobab, che hanno un altissimo contenuto alcolico. Gli elefanti li mangiano e si inebriano, mentre altri animali di dimensioni ridotte ci restano secchi”.

Terracotta di Mirella Guidetti e, dietro, l’albero del tabacco (foto GioM)

Un’ebbrezza di risulta, invece, quella che deriverebbe dalle foglie grandi e cuoriformi dell’albero che svetta di fronte all’abitazione e che viene detto del tabacco, perché – dice la guida – venivano seccate e fumate in tempi di guerra per sopperire alla mancanza di fumo.

Il giardiniere professionista Giulio Veronese (foto GioM)

CORTILE REGALE – Un altro incontro super professionale in tema botanico è quello con Giulio Veronese, giovane giardiniere ferrarese rientrato da poco dall’Inghilterra, dove ha lavorato diversi anni anche al servizio della monarchia Windsor. È lui che illustra la disposizione vegetale davanti all’abitazione di via Boccaleone, contraddistinta però soprattutto da alberi e arbusti piantati dalla nonna e dal nonno architetto, che gli hanno evidentemente trasmesso tanta di questa passione per il mestiere.

Giardino di via Boccaleone
via Carlo Mayr
via XX Settembre

Per un anno Giulio ha lavorato a Highgrove House, nel Glouceshire, residenza prediletta dell’attuale re Carlo III. Il figlio ed erede della regina Elisabetta è infatti un appassionato ed esperto di giardinaggio, che lì ha riplasmato il parco adibendolo in parte anche ad azienda agricola produttrice di prodotti biologici, dove Giulio ha messo a punto un’esperienza di staff professionale, che coniuga l’estetica e l’etica degli orti.

Melagrana viola nel giardino di via Mellone (foto GioM 2022)

GUIDA IN ERBA – Passione verde espressa con competenza e divertimento dalla più giovane delle guide incontrate, la piccola Ginevra. Nel giardino di via Mellone la ragazzina ha accompagnato gli ospiti tra i vialetti e gli spiazzi d’erba insieme al più maturo amico giardiniere. Era lei a illustrare le essenze con ammirevole competenza (l’acero giapponese e quello nostrano, le magnolie, le piante di alloro svettanti come alberelli) e a sopperire con fantasia per descrivere i frutti viola-blu di un melograno e il viburno a foglie rugose, da lei ribattezzato ‘il salvione’.
I giardini sono questo: scienza naturale umanizzata, che diventa racconto personale e familiare incastonato dentro una città.

TERZO TEMPO
“Taci e palleggia”

“More than an athlete”. Basterebbero queste quattro parole per sintetizzare l’immagine pubblica del più forte cestista della sua generazione, nonché uno dei più iconici di sempre. LeBron James è più di un atleta, e la sua storia personale, prima ancora del suo slogan, lo dimostra ampiamente.

Negli ultimi anni l’attualità socio-politica degli Stati Uniti è diventata fin troppo divisiva per poter essere ignorata, e il nativo di Akron ha più volte preso posizione, violando quella regola non scritta – e pure un po’ riduttiva – dello “stick to sports”, secondo la quale l’atleta professionista dovrebbe occuparsi soltanto di sport. L’impegno di LeBron James è stato innanzitutto sociale, e poi anche, e soprattutto, politico: dall’endorsement per Hillary Clinton nel 2016 al recente impegno a far sì che il maggior numero di cittadini afroamericani eserciti il proprio diritto di voto alle prossime elezioni. Insomma, colui che ha detto al New York Times di voler essere ricordato anche per il modo in cui ha vissuto la sua vita da afroamericano non può soltanto tacere e palleggiare, così come suggeritogli dalla giornalista di Fox News Laura Ingraham nel febbraio del 2018 [Qui].

La risposta di LeBron James a quel suggerimento fu decisamente creativa: il giocatore dei Los Angeles Lakers prese spunto da quelle parole per intitolare, e in parte modificare, un documentario sulla NBA a cui stava già lavorando in veste di co-produttore. Così, l’espressione “Shut Up And Dribble” divenne una miniserie sull’influenza che i giocatori della NBA possono esercitare sulla vita e sulle scelte di intere comunità. Un ascendente che in un modo o nell’altro porta con sé qualche responsabilità, poiché le parole di un’icona sportiva come LeBron James – il quale ha circa 140 milioni di follower sparsi per i vari social media – pesano ben più di quanto possiamo immaginare, specialmente in un’epoca in cui l’assenza di leadership politica sembra essere una costante. Quel documentario [Qui] rappresenta quindi una chiara dichiarazione d’intenti: non si tratta soltanto di un gioco, e gli atleti afroamericani, spalleggiati da una lega progressista come la NBA, continueranno a prendere posizione contro qualsiasi forma di razzismo, violenza o ingiustizia. David Nevins, CEO dell’emittente televisiva che ha trasmesso Shut Up and Dribble, ha sintetizzato così l’essenza della stessa miniserie.

“Se essere un atleta di punta è un’esperienza intrinsecamente politica, Shut Up and Dribble racconta questa complessa e drammatica storia dal passato fino ai giorni nostri, e anche dall’interno. LeBron James è uno degli sportivi che, in virtù della sua posizione sotto i riflettori, ha portato non al silenzio, ma a una visione di prospettiva. Lui, Mavericks Carter e Gotham Chopra ci hanno fornito una docuserie profonda che dovrebbe condurre gli spettatori e i loro concittadini a un livello più alto di dibattito, in direzione contraria rispetto all’approccio del quale si fa satira nel titolo.”

Insomma, in un paese sempre più diviso dal linguaggio e dalle scelte della presidenza Trump, gli atleti, gli allenatori e gli addetti ai lavori della NBA si sono opposti a loro modo all’atteggiamento dello stesso presidente, a partire dalla cancellazione dell’annuale visita alla Casa Bianca dei campioni in carica. In questa e in altre circostanze, il ruolo svolto da LeBron James è stato, e continua a essere, piuttosto rilevante. Sembra inevitabile, quindi, che la figura del giocatore più decisivo e influente degli ultimi vent’anni verrà sempre di più associata al suo impegno politico, e ciò rappresenterà un unicum nella storia dello sport professionistico.

VITE DI CARTA /
Dopo il Festivaletteratura di Mantova (prima parte)

 

Ho riassaporato l’atmosfera del Festivaletteratura a Mantova dopo le due edizioni ridotte a causa del Covid, prestando servizio dodici ore al giorno nella mia postazione presso Palazzo San Sebastiano: dunque gli autori ospiti del Festival sono venuti da me, e non io da loro come è accaduto lo scorso anno.

Ho riassaporato la buona cucina alla mensa del Festival e la stanchezza dopo tante ore di servizio, la stanchezza tenuta a bada con poche ore di sonno ogni notte nella cameratesca location della palestra Bertazzolo.

Ora che sono tornata ho anche incontrato Alessandro Carlini; è successo ieri alla Biblioteca di Poggio Renatico. Ho presentato il suo romanzo più recente, Il nome del male, e l’ho riallacciato in più momenti al precedente Gli sciacalli: due avvincenti gialli storici di cui ho parlato l’ultima volta.

Sono trascorsi dieci giorni, non di più, eppure si sono accumulate altre conoscenze, sono nati nuovi stimoli alla lettura, ho visto il mondo da angolature diverse. Insieme a una folla di persone.

Comincio da Alessandro Carlini, che ha portato ieri agli intervenuti in biblioteca la sua presenza generosa, la voglia di dialogo che fa il paio con la voglia di racconto che ha messo nei suoi libri.

La novità di questi giorni è che Gli sciacalli è entrato tra gli otto migliori libri di narrativa del 2021 di Robinson grazie al voto dei lettori, cosa che ha dato l’inizio alla nostra intensa conversazione e alle tante osservazioni del pubblico.

E ora Mantova. Quando ancora insegnavo dicevo che era il miglior corso di aggiornamento sulla letteratura, non solo italiana, che potessi seguire ogni anno a settembre. Ora cosa posso dire? Che è parte della mia identità di lettrice e di cittadina.

Ho rivisto Francesca Mannocchi [Qui] e John Freeman [Qui] e con loro tanti altri che hanno dato voce alla catena delle idee.

Mannocchi è venuta sabato a san Sebastiano e ha parlato delle guerre in atto, prima fra tutte quella in Ucraina, a fianco del fumettista Igort [Qui], mentre scorrevano sugli schermi alle loro spalle i disegni di lui, tratti dal volume Quaderni ucraini.

Titolo dell’evento n.172, E’ nostro dovere guardare. Poetica comune alla giornalista e al fumettista: avvicinare la gente, guardare i volti e ascoltare le storie.

Riconoscere le costanti che fanno di ogni guerra una guerra, pur volendo studiare a fondo il contesto storico che caratterizza ognuna. Contro  “la assuefazione alla cronaca della sofferenza altrui” approfondire lo sguardo e al tempo stesso mantenere la capacità di dubitare, di evitare le soluzioni facili.

John Freeman ha lasciato in me il segno. A parte l’aspetto prestante da giocatore di baseball e l’aria sorniona ma sorridente, con cui si è presentato per l’incontro delle dieci del mattino, ha colpito la dimensione del suo lavoro, l’impegno con cui negli USA fa il critico letterario e lo scrittore. E fa anche scouting di altri narratori e poeti.

Sul programma del festival si legge di questo evento n.199: “Il lettore che vuole capire che cosa stia accadendo sulla Terra e cosa significhi essere vivi, che è poi la ragione per cui leggiamo, ha bisogno di una persona che eserciti una curatela; nessuno meglio di John Freeman sa decifrare la realtà, le necessità e le urgenze del mondo odierno, raccogliendo le più disparate voci autoriali, senza distinzione di provenienza e di età”.

Nel 2019 mi ha fatto conoscere Valeria Luiselli e il suo straordinario Archivio dei bambini perduti, il libro sui minori che scavalcano il confine tra Messico e USA e sulle loro storie drammatiche.

Luiselli è una delle autrici lanciate da Freeman, è sua la postfazione al recente Dizionario della dissoluzione, in cui Freeman ha compilato le voci di un manuale del dissenso informato, un vocabolario di impegno in difesa del linguaggio e della nostra capacità di immaginare, di sentire ottimismo per migliorare il mondo esercitando il pensiero critico, l’attenzione alle cose, la confutazione.

La lettura di libri validi, dice al pubblico che ha davanti, è l’antidoto contro la mediocrità della politica, che ha visto girando il mondo e contro il suo linguaggio opacizzato dagli slogan, dalla superficialità nella comunicazione che avviene sui media.

“Commedia e satira – aggiunge – possono essere strumenti ulteriori di lotta contro la piccolezza della politica. Il fine ultimo è tramutare la complessità, che oggi produce troppa disuguaglianza e povertà, in una fonte di bellezza. Di piacere.”

Un sognatore? Sì, ma un sognatore che diffonde idee, raggiungendo numeri enormi di persone. Il gruppo di lettura da lui fondato in California ha presto contato 10.000 iscritti; la sua rivista, Freeman’s, è diffusa in molti paesi.

Ne fotografo una che è esposta nel banchetto dei libri in vendita a San Sebastiano: scelgo quella che in copertina porta i nomi degli “scrittori dal futuro” scoperti da Freeman in ogni continente. Invio la foto alle amiche ex colleghe del Liceo Ariosto, che subito rispondono; tra i nomi in elenco non poteva mancare Valeria Luiselli.

Venerdì Freeman ha partecipato, insieme a Daniele Aristarco [Qui], a un altro importantissimo evento presso il Chiostro del Museo Diocesano: titolo dell’evento n.85, Per una legge sulla lettura.

Ragazze e ragazzi di tanti gruppi di lettura di Mantova, Bologna, Rimini e altre località si sono posti la seguente domanda: “la Repubblica Italiana oltre che sul lavoro potrebbe essere fondata sulla … lettura?

E si stanno dando da fare: come comitato promotore portano al Festival una bozza da sottoporre ai lettori di tutta Italia. La bozza di un testo di legge di iniziativa popolare per la lettura.

Anche se ho potuto seguire solo un pezzetto dell’evento, so che Freeman e Aristarco hanno dato consigli ed espresso grande apprezzamento. Hanno ascoltato una volta di più i giovani, suggerito parole più esatte, richiamati i valori buoni del nostro tempo. Uno slogan uscito da questo incontro? “Valorizzare le biblioteche”.

Note bibliografiche:

  • John Freeman, Dizionario della dissoluzione, Black Coffee Edizioni, 2020 (traduzione di Leonardo Taiuti)
  • Igort, Quaderni ucraini. Le radici del conflitto, Oblomov Edizioni, 2021
  • Francesca Mannocchi, Bianco è il colore del danno, Einaudi, 2021
  • Valeria Luiselli, Archivio dei bambini perduti, La Nuova Frontiera, 2019

La Seconda Parte del reportage sul Festivaletteratura di Mantova puoi leggerla [Qui] 

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

1992-2022 Memorie di Tangentopoli (1):
Il pool, le macerie e il tangentista esteta

 

LA PREMESSA DEI NUMERI

Tra il 1992 e il 1994 furono emanati 25.400 avvisi di garanzia, eseguiti 4.525 arresti, con 1.069 politici coinvolti soltanto dal pool di Milano, per un totale di 1.300 condanne o patteggiamenti definitivi, 430 assoluzioni e 31 suicidi” (da Italica di Giacomo Papi).

Queste, in estrema sintesi, le dimensioni giudiziarie di Tangentopoli. Facile comprendere subito le dimensioni, la complessità e pervasività della vicenda. Su di essa, all’epoca, è stato scritto di tutto e di più. Una montagna di documenti, di ricerche, di analisi, di pubblicazioni. La prima fu un instant book che promossi, nel 1992, io stesso con Giulio Sapelli che ne fu l’autore, e che titolammo “Cleptocrazia”.

Eviterò quindi di tornare sulle note di cronaca di allora, per limitarmi ad una testimonianza interpretativa, con qualche inevitabile riferimento di costume e personale, di cui mi scuso. Una libera interpretazione su ciò che accadde trent’ anni fa. Una vicenda di grande impatto razionale ed emotivo, che ho vissuto come osservatore dal vertice di una importante istituzione, rimasta completamente fuori dal trambusto generale, dal quale in pochi si sono realmente salvati. Un tentativo, questo, che, rispondendo ad una sollecitazione di amici, ho pensato valesse la pena di fare, se non altro a beneficio di qualcuno di quei ragazzi che se, oggi, sentono parlare di “mani pulite” pensa ….all’amuchina.

Dirigevo allora, da dieci anni, con Piero Bassetti, la Camera di Commercio di Milano, diventata in quegli anni un primario punto di riferimento politico, culturale e istituzionale, non solo milanese, ma nazionale e internazionale. E come “pubblica amministrazione delle imprese” si trovava, in effetti, all’incrocio fra le due dimensioni reali più colpite da quello tsunami: la pubblica amministrazione (dalla politica alla burocrazia), e il sistema delle imprese. Era quindi un osservatorio privilegiato, anche perché avendo realizzato un processo di modernizzazione politica, organizzativa, tecnologica, che le valse il premio nazionale per l’innovazione nella PA, su forte sollecitazione del prefetto Caruso, la Camera prestava aiuto ed assistenza ad altre amministrazioni in difficoltà. In particolare gli uffici giudiziari, ma anche il provveditorato agli studi, l’Inps ed altri, generando anche la legge sui comitati metropolitani, che rendevano organica e permanente la collaborazione fra le amministrazioni locali. Una visibilità vasta, quindi, nel mondo della pubblica amministrazione, e un rapporto organico con la business community, erano le due peculiarità che caratterizzavano la mia realtà operativa e permettevano uno sguardo speciale su quanto stava accadendo. Mi limiterò quindi a formulare qualche giudizio personale, che mi sono formato dall’ esperienza vissuta  nel clangore di quella triste storia, che osservavo da vicino con preoccupazione morale e civica.

IL CLIMA IN ITALIA, IL POOL E UNA CLASSE DIRIGENTE ASSEDIATA

Per dare un’idea del clima che si viveva nell’establishment politico, burocratico ed economico, devo ricordare che, in quei giorni, io ho dormito sempre nel mio letto. Anche nei momenti più drammatici della vicenda, quando sembrava che nessuno, ma proprio nessuno, si sarebbe salvato. Un ricordo banale, ma non tanto. Lo dico infatti non per vanto, ma perché in realtà quasi tutti i vertici di aziende, pubbliche amministrazioni e politici di ogni livello, preferivano dileguarsi di giorno e soprattutto di notte, piuttosto che rischiare un brutto incontro con le forze dell’ordine, su mandato dei magistrati del pool. E così quasi nessuno dormiva nel suo letto. Va detto che i magistrati del pool amavano gestire quella vicenda con una strategia che prevedeva anche il terrorismo psicologico e l’intimidazione. Erano forti. Si sentivano forti. Non solo per i poteri che avevano per legge. Ma perché sentivano il grande sostegno popolare del Paese. Forti anche delle prove di reato che andavano scoprendo sempre di più. Si sentivano forti, infine, per la loro intelligenza. Non c’è dubbio che possedessero un tasso di intelligenza collettiva e di capacità in misura assolutamente rilevante. Avevano la forza, e il piglio, dei giustizieri entrati in un mondo di criminali impuniti. Osannati come supereroi, loro che già come magistrati si sentono una casta sacerdotale. Sanno infatti, è la mia teoria, di essere i soli ad avere, come il Padreterno, il potere di vita e di morte sulle persone. Un potere che non ha eguali, almeno in democrazia.

Li ho conosciuti tutti, i magistrati del pool. Li ho frequentati in varia misura e per vari motivi. Con uno in particolare, ho continuato un rapporto di amicizia e frequentazione. Ma va detto subito che anche questi cavalieri dell’apocalisse non erano senza macchia. C’era chi era spinto da un fanatismo ideologico e chi, a questo, associava anche una disinvoltura che faceva strame di fondamentali e intangibili diritti. Soprattutto l’ex “zanza”, come chiamavano Di Pietro quando era in polizia, ci andava giù pesante. Interrogatori al limite della tortura psicologica, con minacce per estorcere confessioni che andavano dal mettere a rischio gli interessi patrimoniali, alla restrizione “in cella con un marocchino…”.

Ho conosciuto personalmente un medio imprenditore che, sotto gli effetti di queste minacce, ha finito per accusarsi di fatti non commessi, e per i quali ha perfino patteggiato pur di uscirne.

Si può raccontare molto di più sul clima di quei giorni, durante i quali non ci fu solo eroismo da una parte e delinquenti dall’altra. Le 430 assoluzioni raccontano anch’esse storie drammatiche.

Già le prime revisioni critiche hanno portato a valutazioni più equilibrate, ma è ancora presto per arrivare ad una compiuta verità storica.

Ho detto delle mie conoscenze e frequentazioni dei magistrati del pool. Ma ho conosciuto e frequentato anche imputati eccellenti come Cusani, il più eccellente di tutti per importanza processuale. Con lui, qualche anno dopo, ho collaborato in un progetto alla Caritas di don Colmegna. E’ una intelligenza geniale, come non pochi altri protagonisti di questa storia erano persone di alto livello intellettuale e manageriale. C’erano sì anche, e tanti, miserabili, in questo sottobosco criminale, ma anche gente non priva di genialità.


LE MACERIE DEL CROLLO

Ho voluto parlare innanzitutto del clima, anche con qualche piccolo riferimento fattuale, perché è quel clima che ci fa subito entrare nel contesto della drammaturgia di quella vicenda. Le macerie sono state enormi. Quelle umane intanto. Basti pensare ai morti e ai tanti guasti familiari. Quelle economiche. Con aziende finite in grandi difficoltà ed enormi danni. E quelle reputazionali, per un paese che non si è mai liberato dallo stigma della mafia e della mafiosità. Poi abbiamo visto che le tangenti pagate dalle grandi aziende italiane, nel business internazionale, non erano altro che un costume consolidato per tutti i paesi che coltivavano gli stessi interessi con gli stessi interlocutori. Ma intanto un tourbillon come Tangentopoli accadeva solo in Italia. E dall’estero si guardava a questa vicenda con grande interesse e curiosità.

Io, che svolgevo allora una intensa attività internazionale e avevo amicizie consolidate ovunque, a cominciare da tutta Europa, non solo posso confermarlo, ma aggiungo che c’era molta curiosità di vedere come sarebbe andata a finire. All’italiana, per esempio? Si sussurrava ironicamente…

E invece crollò davvero un sistema di potere che accomunava politica ed economia, e su cui campavano milioni di persone a danno dello Stato, se pensiamo che la Fondazione Einaudi aveva stimato che le opere pubbliche in Italia costavano quattro volte di più della media europea, e che la corruzione valeva diecimila miliardi, pari al 15% del deficit complessivo in carico al Paese.

Piercamillo Davigo sostiene la tesi che il sistema era destinato comunque a crollare per insostenibilità economica. La crescente avida cupidigia dei concussori, infatti, aveva raggiunto livelli che il sistema economico non poteva più sopportare e quindi il crollo di tutto questo castello era comunque inevitabile. Ma il crollo fu violento, giorno dopo giorno, per due lunghi anni. Venne decimata un’intera classe dirigente. Caddero teste di importanti uomini di potere della politica e dell’economia. Il Savini, il ristorante di maggior prestigio di Milano, dove ogni giorno, a colazione, c’era il pieno per i vip che vi si ritrovavano, d’un colpo si vuotò. Io e Bassetti che, lì, ci portavamo spesso i nostri ospiti istituzionali, improvvisamente ci trovammo tra i pochi avventori rimasti. Erano spariti quasi tutti.

 

UNA LETTURA NON CONVENZIONALE. I NUMERI, IL DELIRIO DEL POTERE, L’IMPUNITA’ – IL TANGENTISTA ESTETA

La chiave che, a mio parere, ci consente di capire subito, e a fondo, il cuore del fenomeno di cui parliamo è quella di ricordare qualche verità.

La prima è quella che viene fuori dai numeri, già citati, i quali ci dicono che fu veramente una santabarbara! Che segnò uno spartiacque fra il prima e il dopo.

Avremmo potuto dire, anche ai nostri amici stranieri alla luce di quella “spazzolata”, che il paese aveva, sì, una corruzione diffusa, ma che la vicenda stava dimostrando che aveva anche gli anticorpi. E ciò che stava vivendo era una vera e propria tragica, e violenta, rivoluzione catartica, necessaria per diventare un paese migliore. Avremmo potuto dirlo, ma, come vedremo, non sarebbe stato vero. Purtroppo.

Abbiamo visto così che la prima verità è data dalle dimensioni impressionanti dei numeri.  Ma dietro il dato stupefacente di ogni numero c’è un mondo di persone, di famiglie, di relazioni umane e di potere, imperi economici, partiti storici. Non a caso con Tangentopoli crolla e finisce la prima repubblica e si chiude un periodo storico. Non si sa, in quel momento, cosa verrà dopo. Ma proprio le dimensioni criminali della vicenda ci inducono a rilevare una ulteriore importante verità. Perché un così largo e profondo fenomeno corruttivo nel Paese? La risposta ce la dà un alto dirigente socialista capo di un ente locale milanese. Questo imputato eccellente confessa candidamente che tutti loro vivevano in una sorta di bolla psicologica, nella quale al delirio di onnipotenza si associava anche una granitica convinzione di impunità. Io aggiungerei che c’era anche una speciale attitudine a delinquere…Insomma potevano fare tutto quello che volevano, senza rischio alcuno. Del resto negli atti giudiziari c’è la testimonianza di un concusso, capo di una grande azienda pubblica, nella quale si riferisce che, lamentandosi con Craxi per dover pagare le tangenti, ebbe come tutta risposta un duro rimprovero nel quale si diceva che, invece, lui “doveva sentire il privilegio di essere ammesso a dare soldi al Psi. Privilegio che doveva essere pagato anche adeguatamente”. Mica spiccioli eh? D’altro canto non è con gli spiccioli che si possono comprare costosissime opere d’arte. Vale così riferire una curiosità intorno al nostro imputato eccellente milanese, un tangentista esteta, dai gusti particolarmente raffinati. Teneva infatti appeso in camera un autentico Raffaello, acquistato appunto con le tangenti. Vuoi mettere poter dormire con a fianco una Madonna di Raffaello invece che con una crosta di Padre Pio? L’emozione vale anche il rischio di qualche anno di galera.

Ebbene con il casino che è scoppiato, questi privilegiati truffatori dei beni pubblici, vera razza padrona, si risvegliano improvvisamente in un altro mondo. E finalmente capiscono che il privilegio dell’impunità è finito. Questo episodio ci dice però anche un’altra cosa interessante. Che le tangenti andavano sì ai partiti, ma in molti casi soprattutto nelle tasche dei singoli. Quando Benvenuto, dopo lo sconquasso di Tangentopoli, assunse la segreteria del PSI, trovò le casse vuote nonostante il fiume di tangenti che lo avevano preceduto: “i frati sono ricchi ma il convento è povero” fu l’amara constatazione.

Abbiamo visto come ragionava e si comportava questa razza padrona. Fino a quando Di Pietro, che aveva una passione per l’informatica, trafficando su qualche caso sospetto nella pubblica amministrazione, scoprì, con un appropriato software, che i casi su cui indagava non erano casi singoli, ma erano legati ad un vero e proprio sistema che rispondeva a criteri, regole e soggetti vari (enti, partiti, politici, dirigenti..) sistematicamente ricorrenti. Ricordate il giallo intorno alla lista dei 500 scoperta dai magistrati nel pc di Di Meco? Ho visto coi miei occhi il panico quando la notizia cadde nel pieno di una cena a cui partecipavo con un gruppo di questi personaggi, molti dei quali temevano ci fosse anche il proprio nome. Da qui le mostruose dimensioni assunte dall’indagine e la nascita di un nuovo reato: la corruzione ambientale.

[per leggere la seconda parte della Memoria di Tangentopoli clicca Qui]

Un modulo di Amazon Ring permette alla polizia di ottenere i miei dati senza mandato

di Sean Hollister – The Verge
Fonte: The Verge 14 luglio 2022
Tradotto da Veronica Cartolano per PeaceLink

 

Ecco qualcosa che non sapevo quando ho acquistato le fotocamere Amazon Ring e Amazon Echo Dots:
c’è una pagina web in cui le forze dell’ordine possono compilare un modulo, dire che c’è una grave emergenza e ottenere l’accesso ai tuoi dati senza il tuo consenso, un’ingiunzione del tribunale o qualsiasi tipo di mandato.
Non c’è scritto nulla nei Termini di servizio al riguardo e la società ha sostenuto per anni di aiutare prima la polizia a ottenere il consenso, ma la situazione non è cambiata.

Solo negli ultimi sette mesi, Amazon ha fornito video privati ​​di Ring alle forze dell’ordine 11 volte, ha detto la società al senatore Edward Markey (Partito Democratico del Massachusetts) in una lettera datata primo luglio e spedita alla stampa questa settimana.

Ring ha dichiarato che non condividerà le “informazioni sui clienti” con le forze dell’ordine senza il consenso, un mandato o una circostanza “urgente o di emergenza”.

Di seguito le domande di Markey e le risposte di Amazon su questo in particolare:

Ed Markey: Si prega di spiegare in dettaglio le specifiche politiche interne di Ring in merito a ciò che costituisce una circostanza “urgente o di emergenza”.
Amazon: Come indicato nelle linee guida di Ring per l’applicazione della legge, Ring si riserva il diritto di rispondere immediatamente alle richieste urgenti di informazioni da parte delle forze dell’ordine in casi che comportano un pericolo imminente di morte o di gravi lesioni fisiche per qualsiasi persona. Le richieste di divulgazione di emergenza devono essere accompagnate da un modulo di richiesta di emergenza compilato. Sulla base delle informazioni fornite nel modulo di richiesta d’emergenza e delle circostanze descritte dall’agente, Ring determina in buona fede se la richiesta soddisfa il noto standard, basato sulla legge federale, che prevede l’imminente pericolo di morte o di gravi lesioni fisiche per qualsiasi persona che richiede la divulgazione di informazioni senza indugio.Ed Markey: Quante volte Ring ha condiviso le registrazioni di un utente con le forze dell’ordine a causa di una circostanza “urgente o di emergenza”?
Amazon:
 Finora quest’anno, Ring ha fornito video alle forze dell’ordine in risposta a una richiesta di emergenza solo 11 volte. In ogni caso, Ring ha stabilito in buona fede che c’era un pericolo imminente di morte o di gravi lesioni fisiche a una persona che richiedeva la divulgazione delle informazioni senza indugio.

Markey si concentra su Ring, che ha il suo modulo specifico (pdf) che le forze dell’ordine possono compilare, ma abbiamo scoperto che la società madre Amazon ha la stessa politica e un sito di richiesta proprio. Mentre i prodotti più noti di Ring sono fotocamere rivolte verso l’esterno delle abitazioni, sia Ring che Amazon vendono gadget che si possono vedere e ascoltare all’interno di casa.

Le risposte di Amazon ti sembrano ragionevoli? È possibile che ognuna di queste 11 volte nel 2022 (e comunque molte volte nel 2021 o prima) fosse una legittima emergenza pericolosa per la vita, la polizia lo sapeva, Amazon lo sapeva e forse l’azienda potrebbe persino aver salvato delle vite così facendo. Ma ciò richiede che tu ti fida del fatto che sia la polizia che alcuni dipartimenti sconosciuti all’interno di Amazon abbiano a cuore gli interessi di tutti. 

[Negli Stati Uniti, Ndr.] la fiducia nella polizia e nei loro strumenti di sorveglianza non è alta in questi giorni per ovvi motivi – e il senatore Markey suggerisce che anche Amazon ha perso il beneficio del dubbio. “Questa rivelazione è particolarmente preoccupante dato che la società ha precedentemente ammesso di non avere politiche che limitino il modo in cui le forze dell’ordine possano utilizzare i filmati degli utenti di Ring, nessun requisito di sicurezza dei dati per quest’ultimi che dispongono dei filmati degli utenti e nessuna politica che gli vieti di conservare a tempo indeterminato i filmati degli utenti di Ring”, ha detto Markey a The Intercept.

Sembra che la legge federale consenta ad Amazon di fornire questo tipo di informazioni a un’agenzia governativa “se il fornitore, in buona fede, ritiene che un’emergenza che comporti pericolo di morte o gravi lesioni fisiche per qualsiasi persona richieda la divulgazione senza indugio.” Questa è una citazione diretta da 18 US § 2702 (b) (8). Ma dice che i fornitori “possono” farlo, non che debbano farlo, e non è chiaro se qualcosa impedirebbe ai cattivi attori di Amazon o delle forze dell’ordine di abusare di un sistema che non ha una supervisione evidente.

A oggi, non è chiaro se i proprietari sapranno mai che il filmato della telecamera Ring, per esempio, è stato consultato dalla polizia e potenzialmente salvato per mesi o anni dopo.
Verranno informati in seguito? Non sappiamo chi, all’interno di Amazon, possa prendere queste decisioni in buona fede, né se i dipendenti Amazon guardino il filmato o si fidino semplicemente delle forze dell’ordine.

Abbiamo posto queste domande, ma la portavoce di Amazon Mai Nguyen ha detto che non potevano rispondere, scrivendo invece che “Non è affatto vero che Ring offra a chiunque un accesso illimitato ai dati o ai video dei clienti” – qualcosa che non abbiamo detto – mentre ribadiamo la convinzione dell’azienda di essere autorizzata a fornire queste informazioni se ritiene che ci sia un’emergenza potenzialmente mortale o la minaccia di lesioni gravi.

Amazon si è sempre più avvicinata alle forze dell’ordine degli Stati Uniti con i suoi videocitofoni Ring, un tempo utilizzando le forze dell’ordine come strumento di marketing per venderne di più. Ad oggi Amazon ha collaborato con 2.161 forze dell’ordine, oltre ai vigili del fuoco. Non è affatto chiaro se l’ottenimento di filmati di Ring abbia effettivamente aiutato le forze dell’ordine: nel 2020, un’indagine di NBC News ha suggerito che in gran parte non l’avessero fatto.

Se disponi di una videocamera Ring cablata, puoi attivare la crittografia end-to-end dell’azienda per i tuoi flussi video, ma Amazon non offre questa funzione sui suoi modelli alimentati a batteria e si rifiuta anche di rendere la crittografia end-to-end predefinita per le sue telecamere Ring. “Ci impegniamo a offrire ai clienti opzioni in modo che possano scegliere l’esperienza Ring più adatta a loro” – scrive Brian Huseman, vicepresidente delle politiche pubbliche di Amazon – come se l’esclusione dalla crittografia anziché l’attivazione offrisse in qualche modo alle persone meno opzioni.

Per quanto riguarda Echo / Alexa, se vorrai essere prudente, dovrai scegliere di eliminare le tue registrazioni. Apple, nel frattempo, si è impegnata nel 2019 a non conservare più le registrazioni di Siri per impostazione predefinita.

Tradotto da Veronica Cartolano, revisione di Giacomo Alessandroni per PeaceLink. Il testo è liberamente utilizzabile a scopi non commerciali citando la fonte (PeaceLink) e l’autore della traduzione.
Cover: Photo by Dan Seifert / The Verge

Per certi versi/ Deneb

 

DENEB

Mia Deneb
La più lontana
la più lucente
La più viva
Profonda
Custode
Del mio tempo
Perso
Io
Paggio
Della tua coda
Che spiazza l’universo
Quando la alzo
il tuo buio
Immenso
Mi calza

Ogni domenica periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

FANTASMI /
L’esiliato

 

sistono tanti tipi di scrittori. Tra questi ci sono gli scrittori russi, una specie in genere molto amata anche perché, si dice, in via di estinzione. Esistono poi diversi tipi di scrittori russi e tra questi, frugando a lungo nel mazzo, si trovano prima quelli rimasti in Russia e subito dopo gli emigrati all’estero.

Esiste poi una sottospecie di scrittore russo in esilio che non sappiamo quanto sia corretto definire scrittore. Ci riferiamo a persone dedite a scrivere racconti, capaci di avventurarsi a volte nel genere del romanzo e spesso autori di articoletti e ricerche su argomenti di attualità politica o di letteratura. Credetemi, dopo una lunga esperienza di lavoro con i profughi dall’Unione Sovietica e poi dalla ‘Nuova Russia’, so di cosa parlo.

Misha Dobruvolskij faceva parte di quest’ultima categoria di esuli i quali, per il semplice fatto di essere esuli, acquisiscono la patente di scrittori e come tali vengono accolti a prescindere da ciò che scrivono.

Questo accade soprattutto in Francia, specialmente a Parigi, e spesso anche in Italia. Sei hai la patente di scrittore naturalmente è più facile pubblicare i tuoi lavori su riviste specialistiche, italiane o francesi.

Molti di questi esuli vantano un’origine aristocratica, provengono cioè da famiglie titolate di cui è impossibile provare l’autenticità a causa della distruzione degli uffici anagrafici seguita alla tanto deprecata rivoluzione di ottobre e alla successiva guerra civile.

In ogni caso Misha era un principe titolato, vicino pare alla famiglia Yussupov, a cui apparteneva l’assassino di Rasputin. Altissima nobiltà, dunque, imparentata con la famiglia dello Zar. Così almeno risultava da certe carte scolorite vecchie di quasi un secolo vergate in cirillico ed esibite a richiesta, e noi non abbiamo ragione di dubitarne.

Perciò qualcuno potrebbe chiedersi come mai il nipote di tanta stirpe fosse finito a vivere relegato in una soffitta, rinominata mansarda, di un rione popolare di Sorrento. “E’ stato il meraviglioso clima a conquistarmi” raccontava lui.

In realtà si trovava lì perché aveva a suo tempo concupito una fanciulla napoletana di buona famiglia, l’aveva lasciata incinta e i suoi genitori, ricchi ma sprovvisti di quarti di nobiltà, avevano trovato per la giovane coppia romantica quella sistemazione di fortuna nel lontano 1986.

Per un uomo nato negli ultimi anni dello stalinismo, sopravvissuto al lungo travaglio della vita sovietica e al caos della perestrojka, ‘vivere alla napoletana’ negli anni ottanta dello scorso secolo era facile come bere un bicchierino di vodka. Nasce però spontanea un’altra domanda: come riusciva Misha a mantenersi? Semplice: la fortuna era dalla sua parte.

Non si offese quando la fanciulla napoletana lo abbandonò, stanca dell’inconcludenza e soprattutto della miseria e della sporcizia in cui lui, scrittore per vocazione ma costretto a rinunciare alla servitù per mancanza di mezzi, la costringeva a vivere.

Lei si era trovata in poco tempo un lavoro e un marito napoletano molto più promettente e soprattutto, con gran sollievo del padre naturale, si era portata via la neonata facendola adottare dal nuovo marito.

Nonostante il comportamento da gran cialtrone di Misha, i suoceri, chissà perché, si erano affezionati a quello strano profugo di lusso che sembrava così bisognoso di protezione, e attraverso traffici, clientele e relazioni politiche riuscirono a fargli ottenere una pensione speciale dal governo socialista italiano di allora, una pensione di cui Sasha godette fino alla fine.

Anche se godere è una parola esagerata per un assegno mensile che consentiva a malapena di pagare affitto e bollette, a patto di non mangiare più di due volte al giorno. Ma a Sorrento è possibile, come del resto in Russia, vivere decentemente con pochi mezzi, praticando con astuzia l’arte dell’espediente.

E così Misha, dopo essersi trovato una seconda moglie, la dolce Margherita, una fiorentina innamorata della letteratura russa più che di lui, scoprì tutti i vantaggi di un’esistenza sulla costiera amalfitana nei mesi invernali interrotta da una lunga vacanza in una grande tenuta in Toscana da marzo fino a tutto ottobre: tenuta di proprietà della famiglia di Margherita.

Era diventato un pensionato/scrittore mantenuto dal governo italiano senza aver mai lavorato un solo giorno in tutta la sua vita, come si addice a un vero aristocratico.

Con il suo simpatico, dolce italiano, dall’inflessione russo/napoletana e il sorriso educatamente ironico sapeva intrattenere per ore i suoi ascoltatori e commensali, i quali gareggiavano per invitare a pranzo e a cena l’illustre ospite ed esibirlo a amici e parenti.

Da parte sua Misha raramente si sottraeva a quegli inviti, se non per rendersi ogni tanto più ricercato. Grazie alla buona alimentazione, al buonumore costante e alla mancanza di qualsiasi tipo di stress lavorativo si ritrovò all’età di settantatre anni con l’aspetto e la leggerezza di un sessantenne in buona forma.

Risolto il mistero di come sopravviveva rimane però un altro mistero: che cosa aveva scritto? E soprattutto che cosa stava scrivendo? Durante un pranzo in un ristorante della costiera amalfitana aveva risposto a un commerciante di vini, un uomo scettico e molesto come alcuni napoletani sanno essere: – Al momento sono impegnato da molti anni in un romanzo dal titolo Ol’ga Karamazova, la sorella nascosta.

Di fronte all’inevitabile ilarità dei commensali, aveva spiegato, sorseggiando da un calice di rosso Aglianico: – Vedete, ho scoperto negli archivi della biblioteca di San Pietroburgo degli appunti autentici di Dostoevskij, appunti rimasti a lungo sconosciuti, nei quali il grande scrittore racconta il tormento di una sorella minore dei Karamazov. Pensate, una bambina nata da una relazione del vecchio Fiodor con una prostituta.

– ’Sto piezz’ e puorco – commentò il commerciante di vini.

– La quale sorella, ho scoperto dopo un po’ – proseguì Misha con sguardo radioso  – si era resa complice del disgustoso Smerdjakov per fare fuori il detestato padre naturale il quale, risultava dagli appunti, l’aveva stuprata quando era ancora una bambina di otto anni. Lei, sconvolta, si era rifugiata nel convento di Aliosha, il fratello buono, per confessare la sua partecipazione al turpe delitto ed espiare una doppia pena. Doppia perché all’epoca, sapete, le bambine vittime di stupro erano sempre più colpevoli degli stupratori.

Lo aveva raccontato come fosse un fatto di cronaca, con una voce bassa e patetica da attore di teatro, ma i napoletani, si sa, hanno una speciale predilezione per battute e insulti di bassa lega a scapito delle sorelle altrui e in quell’occasione tirarono fuori il peggio del repertorio.

Lui, curiosamente, anziché offendersi come sarebbe stato logico aspettarsi, pare che si divertisse più di loro a coprire di insulti la povera Ol’ga Karamazova a colpi di ‘’N gulo a soreta’ e via dicendo.

In questa maniera, tra le risate generali, affondando in un mare di volgarità tra le quali scontati giochi di parole su Smerdjakov, nessuno riusciva a capire se Misha si fosse inventato tutto o se davvero stesse scrivendo un romanzo incentrato sulla tragica figura di Ol’ga Karamazova.

Ridevano e bevevano. Circondare di dubbi, misteri e leggende la propria esistenza e soprattutto le sue opere letterarie era un’arte nella quale primeggiava.

Altrettanto abile si era dimostrato fino a quel momento nell’arte di vivere galleggiando sui guai e i drammi della vita, danzando sull’orlo dell’abisso come spesso si dice, senza mai guardare giù in basso e salvando solo le buone maniere.

Tanto è vero che la dolce Margherita, quando litigavano e lei minacciava il divorzio, lo accusava spesso di essere ‘inconsistente’. Lui alzava le spalle, la baciava sulla fronte e tirava dritto.

Ma a ridosso del settantaquattresimo compleanno accadde l’impensabile. Durante un pranzo nel parco della tenuta in Toscana conobbe una collega universitaria di Margherita, una quarantenne ricercatrice di letteratura russa. Veniva spesso a trovarla per ragioni di lavoro.

Mai gli era apparso un simile volto incorniciato da capelli castani lunghi e ondulati e il labbro superiore che lasciava intravedere, da una minuscola fessura, un piccolo spazio vuoto a forma di ‘o’.

All’inizio provò delle sensazioni di stordimento, come se avesse bevuto un bicchierino di troppo e un venticello tiepido gli accarezzasse le cosce fino alle parti intime, poi si accorse di certe ondate di brividi che gli salivano dalla pianta dei piedi su per le vertebre e al tempo stesso sviluppò una predilezione per certi film strappalacrime che fino ad allora aveva disdegnato.

Diventò facile al pianto, dormiva male, mangiava in modo disordinato, dimagrì a causa della cattiva digestione e rimase sconvolto dalla potenza di certe fantasie erotiche del tutto nuove che lo assalivano la notte.

Ma la quarantenne aveva tutt’altro per la testa, era sposata con un affettuoso promotore finanziario, impegnata ad accudire due figli ancora piccoli e terribilmente occupata a difendersi e ad  attaccare in quella feroce partita a scacchi che si chiama carriera universitaria.

Lei aveva da subito provato simpatia per quel garbato principe russo che quando camminava sembrava veleggiare, ma appena si accorse di certi sguardi languidi iniziò una gentile quanto veloce presa di distanza. Cominciò a frequentare il meno possibile la tenuta in Lucchesia, anche a costo di vedere danneggiati suoi rapporti di lavoro con Margherita.

Quando Misha capì di essere finito nel vortice di un amore disperato, la voluttà della sofferenza crebbe fino a diventare il sentimento prevalente. Se prima era considerato inconsistente, adesso si aggirava come un fantasma tra la casa in Toscana, il parco e la costiera amalfitana.

Margherita osservava incredula la fenomenale trasformazione di quell’uomo del quale, chissà perché, non riusciva a fare a meno anche se lo avrebbe molto desiderato.

Lui la ignorava, ogni tanto le lanciava un’occhiata e sembrava si dicesse: “Chi è questa gentile signora che vive nella mia casa?”, dimenticando che tutte le case, compresa quella di Sorrento, erano proprietà ormai della moglie.

In quella fatale primavera, quando si dirigeva giù verso il mare, alla vista del cielo di notte veniva rapito da uno stato di eccitazione romantica, che si mescolava con un desiderio struggente di morire gettandosi dall’alto della scogliera tra il baluginio delle onde, come se il mare e il cielo fossero una sola entità pronta ad accoglierlo e a cullarlo.

Una di quelle notti fece anche un paio di passi verso il vuoto per vedere se trovava il coraggio di lanciarsi nell’abisso. Ma prima di cedere al fascino di un destino tragico preferì godersi ancora per un po’ l’ebbrezza dell’amore infelice.

Un giorno la moglie, sorseggiando il cappuccino, gli chiese: – Dimmi Misha, hai mai letto Lolita del tuo tanto amato Nabokov? – Era l’unico romanzo di Nabokov che non aveva letto. Il semplice fatto che negli anni sessanta ne avessero tratto un film americano di successo lo aveva degradato ai suoi occhi di aristocratico.

Lo lesse. Ne indovinò il senso, e capì ancora meglio perché la moglie glielo avesse suggerito. La sua ammirazione per il principe Vladimir Nabokov, che lui chiamava Volod’ja come fossero amici, era sterminata, rappresentava il suo modello di uomo e di scrittore, l’ideale irraggiungibile che non osava confessare nemmeno a se stesso.

Poi rilesse Lolita una seconda volta. Sapeva di non essere come Humbert Humbert  malato di ‘pedofollia’ – per l’occasione coniò questo neologismo – ma volle guardarsi allo specchio con occhio freddo e oggettivo: si accorse della sua carne raggrinzita, delle pieghe cascanti della faccia e di altri dettagli dal significato inequivocabile.

La scivolata dal romantico al patetico era affare di un attimo, un passaggio perfettamente rappresentato su quello specchio. Decise di salvarsi la pelle e rinunciare al tragico tuffo, a costo di apparire un vigliacco ai suoi stessi occhi.

Del resto, era mai stato un eroe? Per qualche mese aveva smesso di danzare sul bordo della vita, un periodo sufficiente per capire che esplorare l’abisso era un compito al di là della sua portata.

Così, grazie a Nabokov e alla complicità della moglie, evitò il suicidio. Ma ormai era un altro uomo: erano svanite la sua cordialità e la sua piacevolezza da commensale, si ridusse presto al ruolo di ospite tollerato e ben poco ricercato.

Due mesi dopo venne punto da una vespa durante una passeggiata nel bosco in Toscana e morì nello spazio di pochi minuti per shock anafilattico. Aveva da pochi mesi compiuto settantaquattro anni. Ma la fine della sua vita non coincide con la fine della sua storia.

Quando alla figlia della prima moglie di Misha, la napoletana, fu rivelato di essere una figlia adottiva, lei, appena superato lo spaesamento, si mise a frugare nella biografia del suo padre naturale, questo principe russo. Voleva sapere tutto di quell’uomo, anche perché si sentiva legittimata a definirsi ‘principessa’, sia pure con la dovuta nonchalance.

Ma dopo accurate ricerche tra le carte del defunto venne fuori che non solo il famoso romanzo su Ol’ga Karamazova era una semplice barzelletta – questo lo avevano già intuito in molti – ma che in tutta la sua vita Misha aveva pubblicato solo due articoli per una sconosciuta rivista accademica online di Minsk, in Bielorussia: uno su Gorkij a Capri e un altro su Gogol a Roma.

Tutti i racconti e il romanzo politico pubblicato clandestinamente in Unione Sovietica di cui spesso aveva vagheggiato con aria misteriosa erano solo annunci senza alcun riscontro, pure invenzioni.

Quanto ai documenti stampati in cirillico che avrebbero dovuto comprovare le sue pubblicazioni se li era scritti da solo e li aveva autenticati creando intestazioni fasulle con la procedura del copia e incolla da documenti autentici.

Se in vita aveva galleggiato, possiamo dire che, dopo la morte, Misha Dobruvolskij evaporò insieme alla sua immagine. Come se non fosse dotato di un sufficiente peso specifico per affondare.

La figlia, dopo un primo momento di disillusione, si consolò, scoprendo che se non altro quel documento in cirillico con albero genealogico e stemma araldico principesco era autentico. Almeno il titolo era salvo. E ancora oggi se ne vanta pubblicamente, seppure con discrezione, ad ogni occasione propizia.

Racconto inedito, proprietà dell’autore.

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