“La poesia è l’arte di far entrare il mare in un bicchiere.” (Italo Calvino)
e ballavamo
in mezzo alla strada
un’assemblea di sole donne
volevano
le femministe
eravamo usciti
increduli e disciplinati
impegni finiti
inizia la festa
e i sessantottini
sempre un po’ pessimisti
sempre un po’ ottusi
aprivano
discussioni infinite
non può essere considerato
rivoluzionario
rinunciare ad affrontare
contraddizioni movimento
insieme
da compagni
ed era vera gioia
nel sole già tiepido
del mattino
sentire
in leggera lontananza
risposta
scandita in coro
col dito col dito
orgasmo garantito
e in 10 o 12
ci si incamminava
verso la piazza
sempre aperta
la porta della sede
lavorare
al piano del giorno
colletta per il collettivo
stecca di fumo
bottiglia di vodka o grappa
continuare nel tentativo
di forzare porta sgabuzzino
per celebrare in anticipo
festa unione donne italiane
rincorrere
sventurato o sventurata
fuori e dentro sede
varie ed eventuali
e ormai liquefatti
raggiunto eventuali
esprimevamo
nostre migliori virtù
colorare
con dedizione e amore
testa di peltro
lenin reliquia
solidarizzare
con militari
caserma dietro l’angolo
fette di salame
bicchieri di vino
finalmente sottratti dal magazzino
e poi tornavano le ragazze
calze di lana
zoccoli meravigliosi
qualcuno era svenuto sul divano
un altro dormiva per terra
ma le parole
si disperdevano
nelle stanze
per cadere
misteriosamente
negli angoli più appartati
proprio dove
sarebbero letteralmente esplosi
improvvisi e irrinunciabili
amori
Alberto Ronchi è nato a Ferrara l’1 ottobre del 1961. E’laureato in filosofia. Ha svolto diversi mestieri: operaio, operatore culturale, amministratore pubblico. Attualmente è un insegnante (precario). Ha pubblicato due piccoli libri di poesia, entrambi nella collana fotocopie, editi da Modo Infoshop di Bologna.
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]
Vite di carta. Libri o persone? Tutti e due: persone & libri
Nella foto in bianco e nero c’è un bambino sulla giostra insieme a me; occupa la moto alla mia sinistra e guarda l’obiettivo a occhi sgranati. Io invece sono concentrata a guidare una macchinina, con le mani ben strette sul volante. Di Marco si notano il giubbino fatto a mano con la lana piuttosto grossa e i capelli corti e ispidi, da monello. Oggi è il giorno di San Michele Arcangelo, patrono del mio paese, e la mia pettinatura è quella delle grandi occasioni: il concio o come si dovrebbe dire lo chignon che mia madre abbina ai vestiti eleganti, come questo che è di velluto. Il colore non si può vedere nella foto, ma la memoria mi soccorre e lo ricordo color bordeaux.
Stamattina al mercato del mio paese il giro tra le bancarelle è durato poco: mi hanno assorbita altre commissioni attorno alla piazza, tra cui quella in banca. Lunghissima. Meno male che, nell’attesa di conferire con il cassiere, Marco e io ci siamo ritrovati dopo tutti questi anni e abbiamo rimesso in piedi alcuni ricordi della nostra infanzia. La foto sulla giostra è venuta in mente quasi subito a tutti e due. Con le nostre facce di oltre mezzo secolo fa, ma almeno sono facce complete e non questi ovali coperti dalle maschere anti Covid, che portiamo come segno dei tempi.
Penso che abbia fatto bene a entrambi incontrarci. Certo, la sensazione che lascia il calore umano scambiato dal vivo porta una piccola beatitudine, perché ci fa sentire parte di una tribù a cui abbiamo preso parte fin da piccoli, con i suoi riti identitari; ci fa ricordare insieme e credo sia già una forma di dialogo. Combatte la solitudine della caverna nella quale abbiamo trascorso gli ultimi mesi. Come è accaduto a molti di noi, nell’ultimo anno ho esercitato più che mai la mia capacità ricettiva. Sento e leggo a lungo ogni giorno le news di politica interna ed estera; come avrebbe detto Galileo conosco estensive le cose che accadono nel mondo, molto più di quando insegnavo e lavoravo tutto il giorno per fare lezione da casa e tentavo in qualche modo di salvare la qualità della relazione con i ragazzi. Ora però rielaboro di meno, soprattutto per la carenza di interlocutori. I mass media consentono assai poco la reciprocità del dialogo: ascolto e basta. E mi manca il dialogo quotidiano con le amiche colleghe, compagne di avventure didattiche e dello spirito.
Diciamo che frequento libri e rifletto sulle sollecitazioni che mi dànno con una grande sete di parole. Chissà se in Italia è aumentata la lettura durante il lockdown e di quanto. Libri o persone? Ho bisogno di tutt’e due. E allora eccomi a comprare appena è stato possibile l’ultimo libro di Marco Balzano, Quando tornerò, e ad aspettare di sentirlo parlare di questa nuova storia durante il collegamento con la sede ferrarese di Libraccio il 15 aprile scorso. Ho conosciuto Balzano un paio d’anni fa quando è venuto a incontrare i ragazzi dei Licei cittadini al Museo di Spina nel salone delle Carte Geografiche. Che bel momento. Lui generoso e attento ai ragazzi come un docente, che è anche scrittore, sa fare, il suo libro, Resto qui, bellissimo.
Volevo riascoltare la persona Balzano, lo scrittore in carne e ossa. In un gioco chiarissimo di complementarità tra autore e narratori, Balzano dice “Io” per tre volte nel nuovo romanzo: parla nelle vesti di Daniela, la madre di famiglia che lascia la Romania per venire a Milano a fare la caregiver (da evitare la parola riduttiva badante, meglio curante o il termine equivalente inglese), poi assume il punto di vista dei due figli, che Daniela ha lasciato soli, con un padre evanescente che riesce solo a fuggire le responsabilità e ad andarsene a sua volta senza lasciare traccia. Lei per prima, poi Manuel e infine Angelica danno la loro versione degli anni in cui da Daniela ha lavorato a Milano, con l’unico scopo di mandare loro i soldi necessari a farli studiare.
E’ la storia dello spaesamento da cui sono stati travolti: lei che come tante donne dell’Est si è trasferita in Italia a prendersi cura di una persona anziana, i figli che per questo sono stati lasciati senza cura. È una storia contemporanea e internazionale: sul tema della partenza e poi del ritornoalla famiglia, dopo un’ intensa esperienza di lavoro e di emancipazione femminile vissuta in un altro paese; sul senso di colpa che divora chi è andato lontano. Lo sa bene Daniela, anche se è stata spinta a venire in Italia dalle necessità economiche e dall’immenso amore per i figli. Ogni sacrificio è stato fatto per loro, che però non possono capire e sentono la ferita dell’abbandono.
Come nel precedente romanzo, mi sembra di nuovo straordinaria la capacità di immedesimazione dell’autore nei suoi personaggi: là era protagonista e io narrante, la maestra di un paese in Alto Adige, Trina; ora lo sono una donna matura e i due figli adolescenti. Ognuno racconta la propria versione della storia con le caratteristiche espressive che gli sono peculiari e con il proprio grado di comprensione della scelta che Daniela ha compiuto. In particolare Manuel, che, a differenza della sorella maggiore avrebbe voluto andare via con la madre, sbanda sotto il peso dell’abbandono.
Nella mia vita ho conosciuto alcune curanti occupate in famiglie del mio paese, poi ho conosciuto da vicino Sofia quando ho avuto bisogno che si prendesse cura di mio padre. E’ stata una guida imprescindibile per me, lungo un cammino senza tracciato in cui rischiavo di sbandare. Ho avuto lei come bussola: la sua laurea in medicina e la sua dedizione l’hanno resa indispensabile a mio padre e al resto della famiglia. Dopo nove anni, anche ora che è tornata a vivere in Polonia, non passa giorno che non ci scambiamo una parola tramite whatsapp. Di lei mi ricordo quotidianamente e dunque il libro che parla di Daniela e dei suoi figli mi suona familiare.
Sofia è venuta in Italia per cercare lavoro, ma soprattutto per lasciarsi alle spalle una storia famigliare dolorosa; ha lasciato in Polonia i due figli maggiori e ha portato con sé il più piccolo, di soli otto anni. Mi viene in mente la sua parabola di vita, nella fase che ho conosciuto, perché ricorda da vicino i sacrifici e le privazioni di Daniela. Nel caso di Sofia, però, l’attaccamento dei suoi figli non è mai stato scalfito dalla lontananza. Il maggior segno di amore le è stato dato dal più piccolo, che ormai trentenne l’ha seguita nel suo ritorno in patria. Lui, più italiano che polacco per il modo di vivere e di pensare, ha ripreso la via di casa insieme a lei, complici anche la precarietà del lavoro qui in Italia e qualche problema di salute.
Mi domando di nuovo: persone o libri? La risposta è la stessa: persone e libri. Perché, come ha detto Balzano a chi gli chiedeva come avesse scelto il tema del badantato per questo romanzo, la letteratura ha la forza di guardare il mondo dall’interno e con efficacia, di trovare empatia nel rapporto con gli altri. Sa andare oltre gli stereotipi. Sa procurare avvicinamento.
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È l’ultima volta che François si trova davanti a questo specchio, tre parti di vetro e una d’argento. I bordi consumati dalle dita che lo hanno sollevato, smontato, riposto, poi montato di nuovo. Le luci oramai fioche a contorno riescono a fatica ad illuminare il suo volto. Osserva il riflesso, ciò che vede è ancora se stesso, nonostante tutto. Cinquanta anni di finzione non hanno dissipato la coltre di ansia che lo assale prima dell’apertura del sipario, riesce quasi a toccarla.
Ma perché dovrebbe avere paura? Lui è un attore, uno dei migliori.
– Sì avanti.
– Il drink signore.
– Mettilo qui, grazie.
La bottiglia di porcellana bianca di Edmundo Dantes Gran Reserva sul vassoio d’acciaio, irrinunciabile abitudine. Sarà vuota a fine serata, François ne è consapevole.
L’aroma di vaniglia, sgomitando, rincorre il tappo, lo sorpassa. Per venticinque anni ha atteso questo momento, ora improvvisamente la libertà di espandersi, di dare sapore ai sensi.
Il naso corre ad abbracciarlo dimenticando il tanfo della muffa, mesto compagno di una vita. L’alone di invisibile paura che lo circonda assume il colore ambrato del liquido versato nel bicchiere di cristallo, il colore del piacere che diventa dolore, della libertà che diventa solitudine.
L’ultimo spettacolo sta per iniziare, la bottiglia già a metà.
François incontrerà per l’ultima volta il suo fantasma, la quarta parete che lo fisserà immobile, senza farsi vedere, nascosto dietro i riflettori, giudice spietato che alzerà il pollice verso, o le mani per applaudirlo.
Apre la porta del camerino e di nuovo si scontra col puzzo di acqua stantia che pervade il corridoio di velluto rubino.
Facce sconosciute lo aspettano, lo toccano, lo acclamano, ultimi fotogrammi di diapositive che nessuno vedrà mai più, cellulosa disciolta negli acidi del tempo che non torna. Il sipario blu notte emette il suo sibilo minaccioso, mentre un brivido gli percorre la schiena fin sotto la folta parrucca corvina.
L’unico proiettore acceso lo punta diretto mentre il mare di parole si placa ed il brusio in sala cessa.
Il fantasma è lì, immobile.
François contrae i muscoli del viso fino a serrare le palpebre; vuole vedere cosa c’è dall’altra parte, è l’ultima occasione che ha. Chi c’è dietro quel lenzuolo bianco? Perché non si fa vedere?
Gli occhi vermigli rinunciano a frugare nella nebbia, è troppo tardi ormai, le pupille d’improvviso si dilatano. Si spengono i riflettori sull’artista, l’ultimo atto è terminato.
Rimane solo l’inchino, il fantasma è sconfitto.
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“La situazione italiana è grave ma non seria”
(Ennio Flaiano)
… ma viene da aggiungere pure un … boh?
Avrei voluto commentare la caduta del governo Conte due e l’arrivo dell’illustrissimo, esimio professor Draghi. Ma, nonostante stia scrivendo – parole che forse cancellerò prima di cliccare un invio – sono decisamente spiaggiato. Non credo sia grave non avere opinioni, per uno come me intendo. Cioè non sono un commentatore di professione, non sono un ‘proto influencer’ o ‘semi giornalista’, sono solo un cazzone di sinistra, sbandato, senza guida politica, che non risponde a nessun politburo.
Dice: ma al mondo cosa può interessare l’opinione di uno che manco ce l’ha una opinione?
Esatto, saggia domanda.
Ma imperterrito, almeno fino a quando non spingerò il tasto canc, provo a spiegarmi una condizione inspiegabile. Perché ritengo il Conte due un governo che ha avuto più positività che negatività? Forse perché siamo da oltre un anno all’interno di una crisi mondiale che ha stracciato le certezze di un ‘sistema mondo’ sul ciglio della sua autodistruzione? Forse perché una persona distinta, in doppio petto, con la riga da una parte, che non mi rappresenta, alla fine mi rappresenta pure? Al netto dei tanti errori e dei molti ministri molto sotto la soglia della sufficienza, la lotta di alcune persone per bene hanno permesso di tenerci a galla nel marasma, dei Gallera, Fontana, Salvini, Melloni e compagnia cantante. Dovessi dare un voto al governo darei un appena sufficiente, ma in un compito di una difficoltà estrema, con domande che non c’erano sul libro, e neppure si poteva attingere da vecchi appunti, perché la storia arriva a mala pena alla seconda guerra mondiale, manca tutto il secondo novecento, figuriamoci il XXI° secolo, per non parlare della fine del mondo. Non lo so se i miei ragionamenti sono di sinistra, forse sono solo scombinati e senza senso.
Dice: ma uno come te non avrebbe voluto un governo diverso?
Certo che si, avrei molti nomi, che vanno dalla sinistra moderata, all’estrema sinistra, con qualche spruzzata di liberi intellettuali anarchici, operaisti, economisti ecologisti, che poi, per cercare davvero dei nomi che mi piacciono dovrei usare Wikipedia. Peccato che in Italia le forze politiche che io voto, sommate insieme, nei mille simboli che li compongono, forse, arrivano al cinque per cento. Percentuale da estinzione che però non sarà mai agglutinata, perché noi compagni (moderni), non quelli veri di un tempo, non sappiamo aggregarci. Non abbiamo attrattiva, discutiamo nei collettivi in rete, dove abbiamo la capacità di scannarci tra leninisti e trozkisti, tra comunisti e comunisti, tra anti euro e anti Nato. Siamo morti compagni. Non so se qualcuno leggendo, e magari conoscendomi, si preoccupa della mia sanità mentale o della mia ottusa coerenza. Non fatelo, non sono una fake, sono io e per me non c’è speranza e né scelta. Continuerò a votare un qualunque partitino dell’ 1%, non ho alternativa, non ho scampo, quello sono e quello rimarrò.
Tornando a Conte, il sicario ha eseguito il suo intervento alla luce del sole, ha consegnato l’Italia nelle mani dell’unico banchiere in grado di coagulare intorno a lui un ampia rappresentanza, creando un governo d’ammucchiata che Boccaccio scansati proprio. Voleva la destra? E la destra ha avuto.
E quindi, quale era l’alternativa? Alle urne compagni, mobilitiamoci nelle piazze. A no, non si può. Attacchiamo le locandine, consultiamoci nelle sezioni. Le sezioni non esistono più e poi non si può fare neppure quello.
Dittatura! Grida il popolo.
No, un virus di merda, che non riusciamo a debellare perché prima, da sconosciuto ha fatto centinaia di migliaia di morti ed ora, perché le case farmaceutiche hanno bisogno di lucro, continua a farli.
Le elezioni sono un diritto! Guardate che lo so.
Quindi ricapitolando, meglio un banchiere, sicuramente ricco di capacità, amico di Silvio, dei Mattei, l’uno diventato europeista, l’altro spalmato a pelle di leone davanti a Montecitorio, per permettere al Migliore di pulirsi i piedi, con un governo ‘all’altezza’, dove spiccano alcuni personaggi da brivido, o meglio le elezioni? Consultazioni da fare nel pieno di una possibile terza ondata, con centinaia di morti al giorno (in Italia), senza comizi, con una campagna elettorale di una violenza immane, al netto di almeno tre mesi di immobilismo, (mentre stanno arrivando i soldi dell’Europa), con un risultato elettorale già scritto. Destra destra, più centro destra, più centro e più né destra e né sinistra.
Ma la sinistra?
Non c’è compagni, noi non esistiamo, finche rimaniamo fuori, arroccati dentro al mausoleo di Lenin non incideremo mai, ora proprio ora, dove c’è bisogno di noi, perché il sistema capitalistico si sta sgretolando, noi non riusciamo a proporre nulla che non sia litigiosità sulle sfumature da dare alla bandiera rossa. Perché? Perché non riusciamo ad aggregarci, mano aperta che si stringe a pugno, fratellanza che ci portava a dividere il pane, corpi tenuti per mano in un nuovo quarto stato, dove tutti invece di guardare al sol dell’avvenire, si guardano le mani che tengono strette un telefono dallo schermo luminoso. Perché non siamo capaci di unirci, di essere il sogno di milioni di persone come nel ‘900, perché non sogniamo più?
Federico Leonardo Lucia, in arte Fedez, studente del liceo artistico mai arrivato, pare, alla maturità, potrebbe essere la prova vivente del fatto che, oggigiorno, stare sui libri non serve a niente: è molto più importante diventare un “manico” nella comunicazione social, magari mettendosi assieme alla numero uno assoluta nel campo, Chiara Ferragni da Cremona, maturità classica e studentessa in legge (mai terminata, nemmeno quella), ma decine di milioni di seguaci (followers), definita nel 2017 da Forbes: “l’influencer di moda più importante al mondo”. Un esempio tratto dal suo blog: “Dopo aver allestito le perfette postazioni smartworking, la voglia di arredare la casa con oggetti inusuali e, soprattutto, di cui non sapevamo di avere bisogno è sempre più forte! Le tendenze in fatto di design parlano chiaro: ad essere predilette sono le linee minimal e i colori neutri, azzardando con forme anti-convenzionali su piccoli oggetti di design come lampade da tavolo, candele o specchi. Beige, colori pastello, vetro e plastica sono i protagonisti degli oggetti che tutti vogliono, per dare al proprio spazio un tocco chic, …Ammiccate (e basta) allo stile bohémienne nelle texture, ma non tentate di strafare, innanzitutto perché non è più così di tendenza come lo era fino a un paio di anni fa e soprattutto rischia di farvi cadere nel kitsch. (A meno che non sia voluto, è ovvio). Il tocco che non può mancare? Pampas e fiori secchi in vasi in vetro soffiato o minimalisti“.
Eviterei di fare della facile ironia. Prima abbiate 23 milioni di seguaci e poi ne riparliamo. Organizzate in pieno Covid una raccolta fondi che mette insieme 17 milioni per l’Ospedale San Raffaele, e poi ne riparliamo. Qui gli intellettuali sarcastici non hanno diritto di parola, a meno che non prendano sul serio questa roba (come la Harvard Business School). Che è una cosa seria: è una storia di rilevanza mondiale (visti i numeri) di raccolta del consenso, e del denaro.
Ma torniamo a Fedez, che diffonde (pare tagliandone una parte) la telefonata intercorsa con la dirigenza Rai, per dimostrarne la volontà di censurare il suo pensiero.
La registrazione di conversazioni telefoniche tra privati non è riconducibile al concetto di intercettazione, né lede l’altrui privacy o integra gli estremi del reato ex art 615 bis c.p., ma, anzi, èlecita purché effettuata da chi ad essa non sia estraneo, da chi vi partecipi attivamente e continuativamente o sia comunque ammesso ad assistervi.
Tuttavia, un conto è la registrazione, un altro è la divulgazione.Ladivulgazione di una registrazione di conversazioni telefoniche tra privati, pur lecitamente avvenuta, necessita dell’assenso di tutti gli interlocutori, sempre che non sia finalizzata a “ far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria”. Quindi il privato potrà servirsi della registrazione fonografica davanti ad un giudice o all’autorità di pubblica sicurezza per tutelarsi in giudizio o esporre denuncia o querela, con l’unico limite che “i dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento”, ma non potrà, ad esempio, pubblicarla su Internet o su un social network, divulgarla ad una platea o ad un solo uditore. Anzi, in tal caso si incorrerebbe nella violazione dell’art. 617 septies c.p., ovvero della disposizione recentemente introdotta dal legislatore volta a sanzionare, ancora più duramente che in passato, la condotta di chi pubblica o diffonde una registrazione telefonica. Chi diffonde file audio di dialoghi cui partecipi attivamente, ma senza il consenso degli altri conversanti e per perseguire finalità diverse rispetto all’esercizio del diritto di difesa o del diritto di cronaca rischia fino a 4 anni di carcere.
Questo pistolotto giuridico non serve a puntare il dito contro Fedez, affinché lo stesso venga punito con la galera (figuriamoci), e nemmeno ad affermare con certezza che lo stesso Fedez sia scriminato (ovvero non punibile) in quanto ha esercitato un ‘diritto di cronaca’ o un ‘diritto di difesa’. Sia l’una che l’altra tesi avrebbero bisogno di essere argomentate in ben altre sedi che un modesto articolo di giornale.
Serve semplicemente a inquadrare il fatto accaduto (la divulgazione ad opera di Fedez della telefonata intercorsa coi vertici Rai, che tentano di fargli edulcorare dichiarazioni al vetriolo contro esponenti politici omofobi) sotto un profilo che nessuno, al momento, sembra evidenziare: cioè il fatto che chiunque, da semplice cittadino, avesse fatto una cosa del genere non essendo Fedez adesso rischierebbe grosso, e a difenderlo sarebbe al massimo il suo avvocato. Invece a prendere le parti di Fedez è più di mezza Italia, anche se l’esercizio del diritto di difesa di cui la legge parla non è stragiudiziale, ma si riferisce ad uno che si deve difendere da un’accusa in giudizio (e non siamo in questo caso, almeno per adesso); e anche se l’esercizio del diritto di cronaca di cui parla la legge si riferisce a chi esercita per mestiere questo diritto, mentre Fedez non è un giornalista.
Però non intendo dare un colpo al cerchio e uno alla botte. Per quanto mi riguarda Fedez ha fatto bene, e se avrà infranto la legge ne pagherà le conseguenze; altro non credo voglia dire la frase “mi assumo la responsabilità di quello che dico e faccio”, a meno che non la si voglia intendere come una espressione stentorea ma priva di qualunque significato reale. Se Federico Lucia comprende realmente il senso di questa frase, vuol dire che si è assunto consapevolmente il rischio di pagare penalmente in nome di una causa che ritiene giusta. Questo gli farebbe onore, anche se occorre aggiungere che il suo rischio è ben calcolato e, a mio avviso, decisamente ‘coperto’ dalla sua celebrità e dal fatto che una denuncia nei suoi confronti lo ergerebbe immediatamente a martire e simbolo della persecuzione censoria. Quindi, se dovessi scommettere, scommetterei che non passerà alcun guaio.
Nel merito, la parte più interessante della sua dichiarazione sul palco del Primo Maggio è quella di quando ha rammentato l’ipocrisia del Vaticano, che ha investito denaro per anni nella Novartis, azienda farmaceutica che produce anche la cosiddetta ‘pillola abortiva’ o ‘pillola del giorno dopo’.
Si tratta di una bella botta, oltre che al Vaticano stesso, a tutti i difensori della morale cattolica condita, oltre che di omofobia, di antiabortismo. Per il resto ha detto cose di buon senso ma ha anche sparato sulla Croce Rossa, nel senso che citare le frasi ingiuriose e cariche di odio di qualche leghista non necessita di una particolare finezza di elaborazione. Tuttavia ha detto pane al pane e vino al vino, e questo lo ha distinto dalla comunicazione ingessata e pallida di chi per mestiere dovrebbe comunicare cercando il consenso.
Quindi, ai nostri politici, soprattutto a quelli di sinistra, un corso di tecniche di comunicazione contemporanea tenuto dai Ferragnez glielo farei fare. Tuttavia mi sento di dover esprimere una sensazione non solo su come comunicano, ma anche su cosa comunicano.
Comunicano, con le parole, messaggi politically correct sui diritti civili. Bene. Tuttavia il pezzo forte della loro comunicazione non sono le parole, ma le immagini, e l’immaginario che proiettano con enorme seguito trabocca di ricchezza, di ostentazione: scarpe da mille euro, orologi da diecimila, accessori griffati che costano quanto uno stipendio medio, automobili di lusso.
Intuisco che la rappresentazione della loro alter – vita su Instagram sia studiata con scrupolosa attenzione ai dettagli, un vero e proprio mestiere, faticoso e totalizzante, non una passeggiata. Ma qual è il messaggio che trasmettono? I followers dei Ferragnez non sono attratti dal do it yourself del punk, o dalla voglia di emulazione che spinge un individuo a sviluppare il proprio personale talento, o dall’intento di accrescere la propria capacità critica. Non sarebbero così tanti se fosse questa la molla. Il concerto dei Sex Pistols a Manchester, il 4 giugno 1976, avvenne davanti a 42 persone. Molte di loro in seguito avrebbero formato band popolari come i Joy Division, gli Smiths, Adam Ant. Quello fu un evento per l’influenza che ebbe nel muovere le persone, nel farle agire criticamente.
In questo caso temo sia esattamente il contrario: una adesione acritica ad un modello di consumo irraggiungibile, un desiderio di imitazione (non di emulazione), la costruzione della propria identità attraverso oggetti o simboli che non sono nostri, ma di qualcun altro. Uno spossessamento della personalità che rende le persone, più che degli ammiratori, più che dei followers, degli aspiranti sosia.
L’apparente anticonformismo dipinto sulla pelle di questo ragazzo finisce allora per diventare un rifugio perfetto per il conformismo dei suoi seguaci.
Meno di un mese fa, il 6 aprile, è morto all’età di 93 anni Hans Küng. Nato in Svizzera (1928), teologo, prete, perito conciliare, docente universitario, con la sua scomparsa, scrive Antonio Ballarò (Il Mulino online, 8 aprile 2021), se ne va “un largo frammento di storia della Chiesa e del secolo che ereditiamo”. Franco Valenti (settimananews.it, 11 aprile 2021) lo descrive come “probabilmente uno dei teologi più letti dalla ‘gente’ – laici e credenti – negli ultimi 50 anni”. Per la sua ricerca teologica, ricorda Sergio Ventura (Vinonuovo.it, 11 aprile 2021), si è guadagnato gli appellativi di progressista, scomodo, controcorrente, critico, ribelle e addirittura di eretico.
È bene sgomberare il campo dall’ultimo termine: gli fu tolta nel 1979 la cattedra di teologia dogmatica, ma non venne mai sospeso a divinis, né scomunicato. Di conseguenza, in base al Codice di Diritto Canonico, non è possibile giudicarlo eretico.
Anche l’appellativo di “critico della Chiesa o del papa”, puntualizza Thomas Jansen (settimananews.it, 20 marzo 2018), era motivo di “suo grande dispiacere”.
Più appropriata sembra la definizione di chi si è sempre mosso sulla linea di confine, dove si incontrano, mescolano, confrontano e scontrano il dentro e fuori, l’identità e l’alterità. Quella linea sottile lungo la quale cercare di riannodare legami spezzati. “Un cammino di ricerca – prosegue Ventura – che si può riconoscere e bene-dire senza necessariamente approvarne tutti i tornanti e tutti i traguardi”.
Ma perché il suo nome è ancora noto come ‘il caso Küng’?
Non è per niente facile condensare in poche righe il succo di un dibattito teologico durato una vita intera. A titolo di esempio, scrive ancora Valenti, la sola editrice Herder Verlag: “lo ha onorato con la pubblicazione di 24 volumi della sua produzione teologica: un tributo riservato a pochissimi testimoni chiave del ‘900”.
Già la sua tesi di dottorato (1957) gli valse una prima attenzione del Sant’Uffizio (poi Congregazione per la dottrina della fede): scheda protocollata col numero 399/57/i. Con quella dissertazione Küng sosteneva, con Karl Barth, che la dottrina della giustificazione in campo riformato non era da ritenere in contrasto con quella cattolica, “non c’è separazione nella fede”, scrive Rosino Gibellini (La teologia del XX secolo, 1992).
Di fatto, 42 anni dopo, nel 1999 fu firmata ad Augusta la Dichiarazione congiunta cattolico-luterana sulla dottrina della giustificazione, lo storico documento siglato dal capo del dicastero vaticano per l’Unità dei cristiani, cardinal Kasper, e dal segretario della Federazione luterana mondiale, pastore Noko, fortemente voluto da papa Giovanni Paolo II con il consenso del card. Ratzinger. Dichiarazione confermata a inizio 2021, con l’aggiunta di metodisti, anglicani e riformati.
Per farsi un’idea dell’importanza teologica del tema, basti pensare che ha impegnato per due millenni intelligenza e genio di personaggi del calibro di San Paolo (Lettera ai Romani), Sant’Agostino, San Tommaso, Lutero, fino al grande teologo protestante Karl Barth.
A costo di rischiare la banalità, si può dire che giustificazione è l’azione con cui Dio rimette i peccati, riammettendo gli uomini in uno stato d’innocenza causata da Dio. Azione confermata e rinnovata da Cristo, per il quale essere giustificati significa diventare partecipi della sua morte e risurrezione, nell’itinerario sacramentale del battesimo. Due aspetti caratterizzano, dunque, la giustificazione: quello negativo della remissione dei peccati e positivo della creazione dell’uomo nuovo.
Per lungo tempo si è disquisito, specie sulla scorta di Lutero, se la giustizia di Dio, per la quale si diventa giusti per grazia, sia una giustificazione dell’uomo pienamente nuovo, oppure se sia un’azione di carattere forense che ripulisce dai peccati ma permanendo la condizione di peccatori.
Il punto di Barth (protestante) e di Küng (cattolico), è di considerare le due posizioni dottrinali – riformata che pone l’accento sulla condizione umana di peccator e cattolica dell’intima trasformazione dell’uomo iustus – non come inconciliabilmente distanti, ma due approcci teologici – dal basso e dall’alto – in un certo senso riconciliati dall’azione unificante della grazia come pieno ed esclusivo dono, fonte divina che trasforma.
Gli anni ’60 vedono Hans Küng partecipare al Concilio Vaticano II (1962-1965) in veste di perito, cioè esperto, conciliare. Dell’assise convocata da papa Giovanni XXIII – ricorda Ballarò – ”confesserà la sua parziale delusione per i risultati ottenuti”, resistendo anche all’invito di far parte della Commissione teologica.
Anni che coincidono con un’intensa ricerca ecclesiologica, che – scrive Gibellini – “ha il suo punto più espressivo in La Chiesa (1967) e il suo momento più polemico in Infallibile? Una domanda (1970)”. Ricerche che lo videro entrare di nuovo nel mirino vaticano sui punti caldi della collegialità e democrazia nella chiesa.
Ma è con il libro del 1970 che la temperatura si alza. Küng affronta il tema elettrico dell’infallibilità del papa (definita al concilio Vaticano I, cent’anni prima). Lo affronta con il suo stile pungente, affermando, come scrive Jensen, “che non poteva essere dedotta né dalla Bibbia né dalla Tradizione” e rincarando la dose sul fatto che “alcune decisioni del papa nella storia della Chiesa, a suo parere, erano degli evidenti errori”.
Con un’analisi sul Nuovo Testamento, Küng aveva già prospettato in La Chiesa una soluzione ecumenica dello spinoso problema del primato: se di servizio, e non di potere, non è contrario alla Scrittura. La proposta è quindi per una rinuncia del potere di Pietro per un servizio di Pietro.
Ora, sull’infallibilità, su cui torna nel 1973 con Fallibile? Un bilancio, la proposta è per una chiesa complessivamente indefettibile, che non cade in difetto. In altri termini, una chiesa che, al netto degli errori, non viene meno, ma non a motivo di proposizioni a priori infallibili. Alla stregua della Bibbia, per la quale non si può parlare di un’inerranza proposizionale.
Inevitabile fu il dibattito in ambito teologico. Ad esempio, per Yves Congar, altro gigante della teologia del Novecento, pur apprezzando l’indagine sulle fonti bibliche, l’indefettibilità era un concetto poco convincente. Figurarsi dentro le mura vaticane. La Congregazione per la dottrina della fede, infatti, aprì una procedura che arrivò a un richiamo pubblico nel 1975. Nonostante l’opera di mediazione attribuita al card. Julius Döpfner (fra i più attivi in concilio e al quale era legato personalmente), con il libro Essere cristiano (1974) la misura fu colma, con alcuni passaggi – dalla divinità di Cristo, alla nascita verginale, fino all’eucaristia – finiti sotto la lente d’ingrandimento della Santa Sede. Il risultato fu ilritiro vaticano nel 1979 della licenza d’insegnamento nell’università di Tubinga, in cui insegnò Ratzinger, dalla quale Küng, però, ottenne in seguito una cattedra di teologia ecumenica indipendente.
In questo nuovo ruolo si dedicò al dialogo tra le religioni, passando dal dialogo interconfessionale a quello interreligioso. Suo fu il progetto Weltethos, ossia per un’etica globale, con la creazione dell’omonima Fondazione da lui presieduta.
Significativo è stato il suo rapporto con alcuni pontefici.
Con Giovanni Paolo II, scrive Francesco Strazzari (settimananews.it, 7 aprile 2021), i rapporti partirono subito in salita a causa di un articolo che Küng scrisse un anno dopo l’elezione di Wojtyla (avvenuta nel 1978), patito dal pontefice come un colpo basso e che pare all’origine del precipitare degli eventi fino al ritiro della cattedra di Tubinga. Nel 1989, infatti, disse in proposito il card. Karl Lehmann, presidente della Conferenza episcopale tedesca: “ho seguito mese dopo mese l’evoluzione del caso Küng. Nel 1975 veniva ammonito e lo si invitava a rivedere le sue posizioni. Non capisco perché abbia ripreso quelle stesse posizioni riaffermandole, anzi, enfatizzandole, con una sfida imprudente”.
Di Benedetto XVI, suo ex collega a Tubinga, va detto che nel 2005 volle riceverlo a Castel Gandolfo. Un colloquio durato quattro ore, sintetizzato in un comunicato che, sostenne Küng, fu redatto dallo stesso pontefice. Di riconciliazione si può parlare con il pontificato di Bergoglio. Più di tutto, forse, vale il gesto di papa Francesco durante il suo viaggio apostolico in Kenya nel 2015, quando ai rappresentanti musulmani disse: “Nessuna pace tra le religioni è possibile senza un dialogo tra le religioni”. Le stesse parole di Hans Küng nel suo programma ecumenico per un’Etica Globale: “Non vi può essere convivenza umana senza un ethos mondiale delle nazioni; non vi può essere pace tra le nazioni senza la pace tra le religioni; non vi può essere pace tra le religioni senza un dialogo tra le religioni”.
Nel 1946 Hailè Selassiè, per conto del Governo etiopico, presentò alla Conferenza di Pace di Parigi un memorandum che segnalava le seguenti sconcertanti perdite umane, ma nessun italiano venne mai punito per questi massacri, favorendo la rimozione collettiva e la mancanza di presa di coscienza, tuttora persistente, dei crimini compiuti durante le guerre coloniali fasciste in Etiopia: Totale esseri umani assassinati: 760.300. Persone morte a causa della distruzione dei loro villaggi: 300.000 Massacri di civili e religiosi del Yakitit 12-19 febbraio 1937: 30.000 Patrioti morti nei campi di lavoro a causa di privazioni e maltrattamenti: 35.000 Patrioti uccisi dalle corti marziali: 24.000 Donne, bambini e infermi uccisi dalle bombe: 17.800 Patrioti uccisi in battaglia: 76.000 Uccisi in azione: 275.000
“Fai attenzione a non rovinare il buon nome dell’Etiopia con atti degni del nemico. Vedremo che i nostri nemici sono disarmati e se ne andranno nello stesso modo con cui sono venuti.” Hailè Selassiè
Il decreto di San Michele, pubblicato il 20 gennaio 1941, contestualmente all’imminente ritorno in territorio etiopico dell’imperatore, concesse l’amnistia a tutti coloro che avevano collaborato con gli italiani e fece appello alla popolazione affinché, malgrado i lutti subiti, agisse con cavalleria e rispetto verso i prigionieri italiani: “Io (Hailè Sallassiè) vi raccomando di accogliere in maniera conveniente e di prendere in custodia tutti gli italiani che si arrenderanno, con o senza armi. Non rinfacciate loro le atrocità che hanno fatto subire al nostro popolo. Mostrate loro che siete dei soldati che possiedono il senso dell’onore e un cuore umano. Vi raccomando particolarmente di rispettare la vita dei bambini, delle donne e dei vecchi. Non saccheggiate i beni altrui anche se appartengono al nemico. Non incendiate le case.” Quando Hailè Selassiè entrò trionfalmente ad Addis Abeba il 5 maggio 1941, a cinque anni esatti dall’inizio dell’occupazione italiana, riassumendo ufficialmente il titolo di imperatore, anche in questa occasione si comportò in modo cavalleresco verso i civili italiani (circa 35.000) concentrati nella capitale: furono impedite rappresaglie e vendette e fu emanato un editto di perdono in cui tra l’altro si diceva: “Poiché oggi è un giorno di felicità per tutti noi, dal momento che abbiamo battuto il nemico, rallegriamoci dello spirito di Cristo. Non ripagate dunque il male col male. (…) Prenderemo le armi al nemico e lo lasceremo andare a casa per la stessa via dalla quale è venuto.”
Solo a ogni mente abbruttita dall’arroganza colonialista può risultare impossibile, nel considerarne la figura umana, la dimensione politico-religiosa e la statura morale, non comprendere e apprezzare la grandezza e la dignità del Negus Neghest, il Re dei Re, emersa e consacrata a livello mondiale in due memorabili discorsi, il primo precedente e il secondo successivo al suo legittimo re-insediamento.
Il 12 maggio 1936, davanti all’Assemblea della Società delle Nazioniriunita al completo a Ginevra, ma con la sola assenza della delegazione del governo italiano volutamente autoritiratasi, l’Imperatore pronunciò in lingua aramaica un discorso di condanna dell’aggressione militare italiana, dei metodi di sterminio adottati e sui diritti alla pace, libertà e giustizia di ogni popolo oppresso: «[…] È mio dovere informare i governi riuniti a Ginevra, in quanto responsabili della vita di milioni di uomini, donne e bambini, del mortale pericolo che li minaccia descrivendo il destino che ha colpito l’Etiopia. Il governo italiano non ha fatto la guerra soltanto contro i combattenti: esso ha attaccato soprattutto popolazioni molto lontane dal fronte, al fine di sterminarle e di terrorizzarle. […] Sugli aeroplani vennero installati degli irroratori, che potessero spargere su vasti territori una fine e mortale pioggia. Stormi di nove, quindici, diciotto aeroplani si susseguivano in modo che la nebbia che usciva da essi formasse un lenzuolo continuo. Fu così che, dalla fine di gennaio del 1936, soldati, donne, bambini, armenti, fiumi, laghi e campi furono irrorati di questa mortale pioggia. Al fine di sterminare sistematicamente tutte le creature viventi, per avere la completa sicurezza di avvelenare le acque e i pascoli, il Comando italiano fece passare i suoi aerei più e più volte. Questo fu il principale metodo di guerra. […] A parte il Regno di Dio, non c’è sulla terra nazione che sia superiore alle altre. Se un governo forte acquista consapevolezza che esso può distruggere impunemente un popolo debole, quest’ultimo ha il diritto in quel momento di appellarsi alla Lega delle Nazioni per ottenere il giudizio in piena libertà. Dio e la storia ricorderanno il vostro giudizio. […]»
La sintesi dell’insegnamento di Hailé Selassiè è contenuta in alcuni passaggi del discorso rivolto di fronte all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1963: “Dobbiamo diventare qualcosa che non siamo mai stati, e per cui la nostra istruzione e la nostra esperienza e il nostro ambiente non ci hanno adeguatamente preparato. Dobbiamo diventare più grandi di quel che siamo stati sinora: più coraggiosi, di spirito più elevato e di più larghe vedute. Dobbiamo diventare membri di una nuova razza, superando ogni meschino pregiudizio, offrendo il nostro appoggio finale non alle nazioni, ma ai nostri simili all’interno della comunità umana”.
Oltre a questo invito rivolto alla capacità naturale dell’umanità di trascendere e rivoluzionare i condizionamenti della propria cultura, del proprio status sociale e della propria appartenenza etnica e quindi di progredire evolvendosi, Hailè Selassiè riuscì ad anticipare il concetto di “cittadinanza mondiale” e di “emancipazione dalla schiavitù mentale” con la forza e l’efficacia di parole che non hanno mai più smesso di essere ripetute, riscritte o ricantate ovunque nel mondo. Il movimento Rastafari,da molti abbreviato in “Rasta”, dal nome di Hailè Selassiè , prima della sua ascesa al trono – una combinazione del suo nome “Tafari” e del titolo nobiliare “Ras”, che si traduce in “principe”- è da allora universalmente associato a valori di liberazione, pace, eguaglianza, in contrasto con ogni sistema di oppressione fascista, coloniale, imperialista e militarista.
«Riguardo alla questione della discriminazione razziale, la Conferenza di Addis Abeba ha insegnato questa ulteriore lezione, a coloro che la vogliono imparare: finché la filosofia che considera una razza superiore e un’altra inferiore non sarà finalmente screditata e riprovata; finché in nessuna nazione non vi saranno più cittadini di prima e di seconda classe; finché il colore della pelle di un uomo non avrà più valore del colore dei suoi occhi; finché i diritti umani fondamentali non saranno ugualmente garantiti a tutti, senza distinzione di razza; fino a quel giorno, il sogno di una pace duratura, la cittadinanza del mondo e le regole della morale internazionale resteranno solo una fuggevole illusione, perseguita e mai conseguita …
… finché l’ignobile e drammatico regime che oggi opprime i nostri fratelli in Angola, in Mozambico, in Sudafrica, con le sue disumane catene, non sarà rovesciato e totalmente spazzato via; finché il bigottismo, il pregiudizio e l’interesse personale inumano e malevolo, non saranno sostituiti dalla tolleranza, la comprensione e i buoni propositi; finché gli africani non si alzeranno e parleranno come esseri liberi, uguali agli occhi di tutti gli uomini, come sono uguali davanti agli occhi del cielo; fino a quel giorno il continente africano non conoscerà pace. Noi africani, combatteremo, se necessario, e sappiamo che vinceremo, poiché confidiamo nella vittoria del Bene sul Male». Dopo quasi sessant’anni, mai come in quest’ultimo periodo storico e in concomitanza con la Festa di Liberazione dal Fascismo del 25 Aprile, non è più possibile non constatare la portata e il valore profetico delle illuminanti parole di Hailé Selassiè.
Franco Ferioli, l’inviato di Ferraraitalia nel tempo e nello spazio, è autore e curatore di Controinformazione, una nuova rubrica. C’è un’altra storia e un’altra geografia, i fatti e misfatti dell’Occidente che i media preferiscono tacere, che non conosciamo o che preferiamo dimenticare. CONTROINFORMAZIONE ci racconta senza censure l’altra faccia della luna: per leggere tutti gli articoli della rubrica clicca[Qui]
Tornare a immaginare: questa la sfida della fede oggi. Essa è come il cieco nato Bartimeo, a cui Gesù chiedeva: “che cosa vuoi io faccia per te?” “Che io veda” fu la risposta. E quella della fede dovrebbe essere: “Che io torni ad immaginare una cosa nuova, mai pensata prima, una nuova luce capace di far ritrovare la strada nell’oscurità”. Proprio quanto accadde pure nell’esperienza profetica di Isaia, il quale accolse la parola di Dio rivelata in un germogliare di immagini alimentate dall’immaginazione: «Per amore vostro, ecco io faccio una cosa nuova: aprirò una via nel mare, una strada tra le acque profonde e anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa per dissetare la vostra solitudine. Il deserto e la terra arida si rallegreranno, la solitudine gioirà e come fiore di narciso fiorirà; si coprirà di fiori, festeggerà con gioia e canti d’esultanza», (43, 19-20 e 35, 1-2).
Ma ancor più con Gesù è stato un germogliare di parabole, un racconto incessante di immagini e gesti. Un ‘teatro dell’improvviso’ sono i suoi miracoli, le storie del venire inaspettato di un Padre nella vita degli uomini tramite il figlio. Parole e segni generativi di un immaginario capace di trasformare il cuore, di far passare la vita dall’inganno alla verità, dall’illusione alla realtà; del profilarsi di nuovi scenari, di cambiamenti di rotta per dare forma alla fiducia, far rifiorire la speranza mettendo il Padre suo, la sua presenza, nel cuore di ogni immaginazione umana.
Nel vangelo Gesù rivela il Padre, oltre che con la parola, attraverso il suo volto, ma anche riconoscendone i tratti nei volti delle persone che incontra. Egli lo scorge in essi: vede il Padre nei piccoli, nei malati, nei peccatori negli esclusi e ridona forma nuova, umana, filiale e fraterna alle immagini distorte, deformi dell’umano che grida davanti a lui. Come in uno specchio il suo sguardo converte l’immaginazione religiosa stravolta, come le immagini riflesse su specchi deformanti, restituendo dignità a Dio, liberandolo dalle sue caricature idolatriche, e con ciò liberando le persone dai giochi e dai pesi ideologici, moralistici con cui le convenzioni religiose li mortificavano, sino a oscurare l’immagine di figli di Dio presente in loro. Lo stile di Gesù, il suo modo di porsi in relazione, di manifestarsi, l’immagine di sé che dava e che si rifletteva sui volti di coloro che lo contornavano era quella della stessa santità di Dio, la sua santità ospitale, smisurata, che Gesù sperimentava stando nell’intimità con il Padre suo e che si irradiava sul suo volto imprimendosi nei suoi gesti, nelle parole e nel modo di vivere in questo mondo con la gente.
Vedendo il suo abbassarsi sulle persone e il suo rialzarle, la fede che incontra il suo sguardo e vede i suoi gesti, ascoltandone le parole impara così dal maestro a discendere con lui nel cuore di ogni immaginazione umana, anche la più contorta, falsata, sfigurata ed a prendere su di sé le immagini di deformità, di rifiuto, di sopraffazione, di fallimento per trasfigurarle. Non senza conseguenze. A forza di rispecchiarsi nei volti sfigurati portandone il peso, il suo volto diventa quello del servo di Yhwh ‒ come ci ricorda Isaia ‒ deturpato, torna a riflendere. Gesù sfigurato per trasfigurare. La volontà del Padre, diceva infatti Gesù ai suoi amici, è che nulla vada perduto della bellezza/bontà della creazione, dello splendore di grazia che si cela in ogni volto umano: «[Egli] Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima, eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori… Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce», (Is 53,2-4; 11).
Ha ricordato Carlo Maria Martini che «Il caso serio della fede si gioca soprattutto sulla domanda: credi a un Dio che si presenta umile, benevolo, pieno di tenerezza, a un Dio crocifisso? Rispetto all’incredulità crescente attorno a noi la risposta non può essere: miglioriamo la catechesi, organizziamoci meglio, preghiamo di più. Bisogna puntare sul caso serio, aiutare la gente a riconoscere e accogliere [l’immagine di] un Dio che si esprime nella fragilità e nell’umiltà della carne, nel suo avvicinarsi cortese e delicato alle persone, nella potenza di fronte alle tenebre e nella compassione di fronte alla debolezza umana, un Dio che risplende nell’estrema inermità del Crocifisso», (Imparare a credere, Milano 2019, 175).
La fede deve lasciarsi allora infiammare dall’immaginazione e coinvolgersi pure con l’immaginazione dei nostri contemporanei. Una sorta di ‘gioco’, ma serio e profondo, a scambiarsi immagini, come fanno i bambini con le figurine dei calciatori; a mettere insieme tessere di puzzle per ritrovare i volti, le persone, gli ambienti, i paesaggi, i sentieri. È nell’immaginare e nell’essere immaginato che l’uomo aderisce alla realtà e comunica con essa, la trasforma: è fondamentale che nella nostra fede si lasci entrare in gioco l’immaginazione! Essa sta in strettissimo rapporto con il racconto: è la sua trama, e con la storia, ne è sua sequenza. Raccontare non è cadere nell’immaginario; questo legame non toglie nulla al racconto come luogo rivelativo della verità.
Non è un caso dunque che il Vangelo di Tommaso, conosciuto nell’antichità e riscoperto dal romanzo di Dan Brown, non sia stato inserito tra i vangeli che sono normativi per la fede. Il motivo è molto semplice: esso consisteva in una serie di detti attribuiti a Gesù e verosimilmente attinti alla fonte Q, la maggior parte dei quali erano pertanto presenti anche nei quattro vangeli, ma era privo della forma del racconto. Che non è un ‘contorno’, ma il riflesso vivo del logos che agisce nel mondo e fa storia con noi.
Per questo motivo anche il Concilio vaticano II ci parla della comunicazione che Dio fa di se stesso nella storia, presentando la sua rivelazione sotto forma di un dialogo, con immagini di amicizia, di comunione; e in riferimento alla giustizia con immagini di liberazione, di squarciamento delle tenebre del male; di guarigione, di riscatto e di risurrezione di fronte alla malattia, al perdersi nel male e alla morte. Così pure quando parla della realtà della chiesa usa altrettante immagini bibliche: il campo, il podere, l’edificio di Dio, l’ovile, la porta, la madre e la sposa, la vigna di cui Cristo è la vite e noi i tralci, l’immagine del corpo e delle membra di cui Cristo è il capo. Immagini indispensabili per dire il suo mistero, la sua realtà «visibile e spirituale», (LG 6; 7; 8). La chiesa per essere immaginata e compresa, va messa in relazione ‒ paragonata dice il concilio ‒ al mistero di mediazione del Verbo incarnato; è segno e strumento, germe e primizia di colui che porta in sé l’immagine dell’invisibile Dio e rende visibile nella sua umanità l’immagine dell’uomo nuovo «secondo Dio nella giustizia e nella santità vera» (Ef 4,24).
L’immaginazione è il luogo in cui si manifestano le strutture del mondo; quella parte di noi che dà forma in noi alle cose; generativa di universi simbolici differenziati, in cui trovare e mostrare corrispondenze tra gli uni e gli altri. È un ambiente che fa incontrare gli opposti, permette il passaggio dall’uno all’altro. Ha dunque una imprescindibile funzione mediatrice, perché è soglia e frontiera al tempo stesso, pensata non solo per dividere, ma soprattutto come diaframma che tiene unito. È uno strumento indispensabile della fede proprio perché ne condivide l’esperienza della soglia, del passaggio, dell’incontro con la diversità e la libertà dell’altro.
L’immersione nel mondo simbolico dell’immaginazione chiede di essere incarnato nel reale, ma non in modo confuso, mischiando, sostituendo l’uno all’altro, alterando ciò che è proprio di ciascuno; scambiamo il piano delle immagini con quello della realtà.
Compito dell’immaginazione e suo dono è quello di rigenerare la creatività, accumulare esperienze da riversare nella realtà e interpretarla e condividerla e accrescerla in una forma pienamente compiuta, similmente al modo delle note e dello spartito musicale che si realizza, suonandole in un concerto sinfonico.
L’uso sregolato e invasivo dell’immaginario come avviene oggi, inflazionato da stereotipi a finalità commerciali e ideologiche, allontana dalla bellezza; si ferma agli strati scintillanti, superficiali, incantatori di essa, manipolando e mortificando la sua forza generatrice sino a renderla sterile, priva di creatività nel profondo.
Accendere l’immaginazione è il titolo dell’ultimo libro del teologo domenicano Timothy Radcliffe. Egli ci ricorda che se si vuole che il cristianesimo torni a far ardere il cuore va presentato come un’avventura radicale: «Il cristianesimo in Occidente potrà rifiorire solo se riusciremo a coinvolgere l’immaginazione dei nostri contemporanei. Credo che l’ateismo rappresenti non tanto una sfida per la nostra intelligenza, quanto piuttosto per la nostra immaginazione».
C’è un ambito dell’immaginazione che si concentra sull’orizzonte del finito, quello terreste come fosse unico ed esclusivo, scartando, a volte, quello dell’immaginazione aperta all’infinito, l’ambito spirituale, trascendente. La fede ‒ che si fa discepola di colui che nell’incarnazione è mediatore di nuova alleanza, vissuta e comunicata attraverso questi due immaginari terrestre e celeste, uniti nel suo spirito, nella sua carne, e narrati nei suoi vangeli, in lui congiunti senza confusione e distinti senza separazione ‒ può allora interfacciarsi all’immaginazione dei nostri contemporanei, per ritrarre nuovamente con loro l’icona del Volto santo in cui si incontrano l’orizzonte e l’immaginario del finito e quello dell’infinito, dell’immanenza e della trascendenza per ritrovare ed annunciare ancora quella bellezza primigenia e futura, Alfa e Omega, che salverà il mondo (Fëdor Dostoevskij).
Così ho provato a immaginare con John Lennon: «Immaginate che non ci sia alcun paradiso/ Se ci provate è facile/ Nessun inferno sotto di noi/ Sopra di noi solo il cielo/ Immaginate tutta le gente/Che vive solo per l’oggi … Si potrebbe dire che io sia un sognatore/ Ma io non sono l’unico/ Spero che un giorno vi unirete a noi/ Ed il mondo sarà come un’unica entità». Lennon stesso ne spiegò il senso affermando che il contesto del brano aveva una valenza “anti-religiosa, anti-nazionalista, anti-convenzionale e anti-capitalista”, e se veniva accettato così universalmente era solo perché era “coperto di zucchero”. Ad ispirare Lennon fu un testo poetico di Yoko Ono: Cloud Piece: “Imagine the clouds dripping/ Immagina le nuvole gocciolanti, scava un buco nel tuo giardino per raccoglierle”. Non si tratta qui di cambiare interpretazione ma di scorgere, come una ferita, un varco possibile tra due universi proprio grazie alle parole poetiche che hanno generato il brano: un passaggio attraverso un “frammento di nuvola”.
Vi ho intravisto la figura di una piccola soglia, sul liminare di un confine che sembra ormai invalicabile. Su quel confine ho immaginato il tendersi e distendersi e il venirsi incontro di due immagini: una gocciolante dall’alto, da nubi di un cielo irraggiungibile; l’altra, figura di mani che scavano uno sprofondo nel giardino dell’umano perché «non ci siano patrie/ Nulla per cui uccidere o morire». E poi quasi subito ho immaginato quelle gocce mutarsi in lacrime e bagnare il giardino dei salmi andando a raccogliersi tutte nella cavità del salmo 56 (55); dove il salmista immagina Dio come un viandante, un nomade che attraversa con lui il deserto del suo dolore e si accorge che al posto della preziosissima acqua tiene raccolte le ancor più preziose, preziosissime, sue lacrime: «I passi del mio vagare tu li hai contati, nel tuo otre raccogli le mie lacrime: non sono forse scritte nel tuo libro? Nell’ora della paura io in te confido».
Credo che anche dall’immagine di una gocciolante nuvola che si perde nel terreno, dissetandolo, si possa scoprire il reale, immaginandolo di nuovo con umiltà e pazienza.
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Più di un anno di pandemia ci consegna un Paese con meno lavoro, più diseguale e più povero, con un forte decremento del PIL e una grande crescita del debito. I numeri sono impietosi in proposito: nel 2020 sono stati persi circa un milione di posti di lavoro, per lo più di lavoratori precari, indipendenti, giovani e donne.
Per quanto riguarda le disuguaglianze, già un anno fa il governatore della Banca d’Italia Visco avvertiva che “per le famiglie che prima dell’emergenza sanitaria erano nel quinto più basso della distribuzione (del reddito), la riduzione del reddito sarebbe stata due volte più ampia di quella subita dalle famiglie appartenente al quinto più elevato”. Ancora: nel 2019, il numero dipersone sotto la soglia di povertàassoluta era al 7,7 % della popolazione, mentre nel 2020 esso è arrivato a toccare il 9,4 %. Il 2020 si è chiuso con una caduta del PIL pari all’8,9% in termini reali rispetto al 2019, mentre il rapporto tra debito pubblico e PIL ha subito un’impennata al 155,8 per cento dal 134,6 per cento del 2019. Il debito aggiuntivo cumulato già oggi autorizzato da qui al 2026 raggiungerà la cifra astronomica di 496,8 miliardi (confrontate questa cifra con le risorse provenienti dal Recovery Plan).
Insomma: siamo dentro la più grande crisi ecologica, economica e sociale dal dopoguerra del secolo scorso ad oggi. A cui si aggiungela crisi democratica provocata dal governo Draghi, ben testimoniata dal totale esautoramento del Parlamento, che è stato convocato per discutere del Recovery Plan alle 16 di lunedì pomeriggio scorso, dopo aver ricevuto la sua ultima versione alle 14, due ore prima, un documento di più di 300 pagine, che, come ha sottolineato lo stesso Presidente Draghi, segnerà il destino dell’Italia per i prossimi anni.
in realtà, questo documento non aveva bisogno di essere discusso, essendo già stato concordato nei giorni precedenti tra il Presidente del Consiglio e la Presidente della Commissione EuropeaUrsula von der Leyen. Un esempio perfetto di tecnocrazia al lavoro, del resto confezionato da esperti di questa tecnica di governo, come Draghi, che già nella precedente crisi economica-sociale del 2011-2012 si proclamava non preoccupato, perché tanto c’era una sorta di ‘pilota automatico’ al comando, ben rappresentato dai vincoli prodotti dall’Unione Europea in tema di politiche di austerità.
Comunque, oggi arriva la ‘risoluzione dei nostri problemi’, con l’approvazione del Piano di Ripresa e Resilienza Nazionale (PNRR). Vale la pena approfondirne i contenuti, gli assi di riferimento di fondo, la sua utilità ed efficacia.
Come sufficientemente noto, esso prevede uno stanziamento complessivo di circa 235 miliardi, suddivisi nelle sei missioni fondamentali: Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura (50 mld), Rivoluzione verde e transizione ecologica (70 mld circa), Infrastrutture per una mobilità sostenibile (31,4 mld), Istruzione e ricerca (33.8 mld), Inclusione e coesione (29,6 mld), Salute (19,6 mld), non discostandosi di molto, sia per i capitoli che per le risorse assegnate, da quanto a suo tempo elaborato dal governo Conte.
Su ciascuna di queste scelte ci sarebbe molto da dire, e in termini sostanzialmente molto negativi.
Mi limito ad alcune considerazioni parziali ed esemplificative: su digitalizzazione e innovazione, si assume questa priorità in modo acritico, senza alcuna riflessione sul modello sociale e produttivo che la diffusione dell’utilizzo delle tecnologie informatiche e dei Big Data comporta, in termini di controllo sociale e limitata creazione di occupazione. A quest’ultimo proposito, mi pare particolarmente suggestiva e passibile di utili riflessioni la notizia uscita recentemente per cui Apple ha varato il suo piano industriale da qui al 2026, prevedendo investimenti giganteschi, per ben 430 miliardi $, quasi il doppio del PNRR, per potenziare il proprio impegno nella ricerca hi-tech e nell’intelligenza artificiale, che, però, sono destinati a generare in tutti gli Stati Uniti solo 40.000 posti di lavoro, confermando la tendenza al disaccoppiamento tra investimenti e occupazione nei settori ad alta tecnologia.
In questa missione è inserita anche la voce “Cultura e turismo”, scelta che potrebbe apparire curiosa, ma che viene chiarita dallo stesso testo quando si scrive che ci si prefigge “l’obiettivo di rilanciare i settori economici della cultura e del turismo, che all’interno del sistema produttivo giocano un ruolo particolare, sia in quanto espressione dell’immagine e brand del Paese, sia per il peso che hanno nell’economia nazionale (il solo turismo rappresenta circa il 12% del PIL)”, vale a dire considerandoli sostanzialmente come fattori produttivi.
Per quanto riguarda la transizione ecologica, le risorse a favore delle energie rinnovabili sono decisamente insufficienti, con l’obiettivo di installare impianti per circa 5 GW da qui al 2026, mentre ne servirebbero almeno 25, supportando le politiche di ENI e SNAMche continuano anche per per il futuro a puntare sulle energie fossili, in primis il gas, e a progettare impianti come il CCS di Ravenna per ‘catturare’ e sotterrare la CO2 emessa, anziché evitare di produrla.
Sempre in questo capitolo, non è previsto un intervento efficace per contrastare il dissesto idrogeologico, mentre in tema di acqua e servizio idrico non si ragiona per risparmiare seriamente la risorsa, per esempio costruendo un vero Piano per la riduzione delle perdite delle reti, e si prospetta un nuovo intervento di ulteriori privatizzazioni, consegnando il Mezzogiorno alle grandi multiutilities di natura privatistica Hera, Iren, A2a e ACEA, cancellando così totalmente l’esito referendario di dieci anni fa.
Ancora: si stanziano risorse notevoli per l’Alta velocità, circa 28 mld, più di quanto va al tema della Salute, finanziato con un po’ meno di 20 mld, che non recuperano neanche i tagli effettuati negli ultimi 15 anni e che, soprattutto, dimostrano quanto poco si sia imparato dalla vicenda della pandemia.
Infine, vengono delineate una serie di cosiddette “riforme”, il vero oggetto del contendere con l’Unione Europea, ben più stringenti rispetto al documento del governo Conte: Riforma della Pubblica Amministrazione, riforma della Giustizia, Semplificazione e promozione della concorrenza, Riforma Fiscale e altre ancora, tutte ispirate ad una logica di apertura al mercato e di “liberazione” dai vincoli che lo ostacolano. Qui, in fondo, stal’anima del Recovery Plan: un’idea di modernizzazione, trainata da una spinta all’innovazione e legittimata da una presunta conversione ecologica, che, però, ancora una volta assume come parametri e obiettivi l’idea della crescita quantitativa, della competitività e della concorrenza, della centralità dell’impresa e del mercato come regolatore fondamentale, peraltro da sostenere con il debito “buono” quando la crisi diventa troppo grave.
Il punto di fondo è che, però, non si vuole vedere – e tanto meno ammettere – che questo meccanismo non funziona più. Ce lo dicono gli stessi numeri del PNRR e del Documento di Economia e Finanza 2021: al di là della propaganda e della grancassa suonata in questi giorni, le stesse pagine del Recovery Plan stimano, nello scenario più ottimistico, una crescita aggiuntiva cumulata proveniente dallo stesso da qui al 2026 del 3,6%, che vuol dire circa una media dello 0,6% in più ogni anno, mentre l’occupazione, sempre in termini cumulati, dovrebbe aumentare del 3,2%, il che, però, significa che solo nel 2024 si dovrebbe ritornare ai livelli occupazionali del 2019.
Non una grande prospettiva, che poi viene decisamente aggravata se consideriamo l’andamento deldebito pubblico: i dati – contenuti nel DEF ma non nel PNRR – dicono che nel 2024 saremo ancora agli stessi livelli registrati alla fine del 2020, attorno al 152% del PIL, e si ritornerebbe alla situazione pre-Covid, vicino al 135% del PIL, solo nel 2032.
Qui sta un punto decisivo, quello che, passata la sbornia delle “più grandi risorse a nostra disposizione”, nel giro di qualche anno, potrebbe improvvisamente far diventare ‘cattivo’ il debito che oggi viene chiamato buono, riproponendo nuovi scenari di lacrime e sangue. Soprattutto se non verrà cambiato radicalmente il paradigma del Patto di Stabilità europeo in vigore fino all’inizio della pandemia e oggi sospeso probabilmente fino alla fine del 2022, che però comporta la revisione dei Trattati, la modifica profonda dell’ortodossia economica, che appare anch’essa solo sospesa e non abbandonata, la messa in campo di un’altra idea di Europa e del suo modello produttivo e sociale.
Questo, sia detto per inciso, sarà probabilmente il vero terreno di scontro nei prossimi anni, utile a verificare una possibile svolta, che non c’è stata, a differenza dei tanti che l’hanno esaltata, con la creazione del Next Generation UE, fatto più per necessità che per virtù, come del resto è successo nella gran parte delle economie capitalistiche, a partire dagli Stati Uniti.
All’inizio del suo discorso alla Camera, il Presidente del Consiglio Draghi ha invitato a giudicare il Recovery Plancon gli occhi deigiovani, delle donne, delle persone sofferenti durante la pandemia. Sono d’accordo nel seguirlo lungo questa strada ma, proprio per questo, non posso che essere, nel contempo, preoccupato e distante da chi, come questo governo, non riesce a usare lenti diverse, se non un po’ riverniciate, rispetto al passato per pensare al futuro. Che reclama, invece, un cambiamento radicale e la messa in discussione delle scelte di fondo che ci hanno condotto sino a qui e che si ritrovano, sia pure aggiornate, in questo Recovery Plan. E che per questo va respinto, anche con la mobilitazione sociale e politica, e riscritto.
Stanno provando a farlo un insieme di soggetti e movimenti che si sono aggregati ne La società della cura[Vedi qui]. Ne va, appunto, del nostro destino futuro.
Il 2020 sarà un anno da ricordare, su questo non ci sono dubbi. Dal punto di vista finanziario è successo tanto, i governi sono scesi in campo per combattere la pandemia incrementando i deficit pubblici, eguagliando e superando addirittura i livelli della Seconda Guerra mondiale.
Ovviamente le misure, sotto forma di politiche fiscali, sono state diverse a seconda dei paesi e hanno riflettuto, in genere, il portafoglio di ognuno.
Di conseguenza, a fronte di un deficit contenuto della ricca e potente Germania che ha registrato un 4,2 per cento, c’è il Giappone che pur essendo stato meno colpito ha aumentato il deficit del 9.2 per cento, fino agli Stati Uniti che sono arrivati al 15,8 per cento. Biden, per il 2021, ha proposto complessivamente uno stimolo fiscale di 1.600 miliardi di dollari.
L’Italia è arrivata ad un deficit del 10,8 per cento e ha speso poco più di 178 miliardi di euro per sopperire ai danni causati dalla pandemia.
È interessante notare che, secondo i dati dell’Abi, i depositi bancari degli italiani sono aumentati da gennaio 2020 a gennaio 2021 di 181 miliardi di euro, questo farebbe pensare che la spesa dello Stato sia diventato il corrispettivo credito per i suoi cittadini, il che non sarebbe da considerare un male.
Da considerare poi che la spesa dello Stato (quindi il debito pubblico) del 2020 è praticamente gratis in quanto acquistato interamente dalla Banca d’Italia e dalla Bce. A fine 2020 la Banca d’Italia deteneva oltre 556 miliardi di Titoli mentre la Bce circa 170 miliardi e la notizia, in un mondo meno capovolto del nostro, dovrebbe rendere più sereno il sonno degli italiani.
A questo dato se ne affianca un altro relativo all’andamento della Borsa che a Marzo 2020 aveva toccato 13.000 punti e che ad Aprile ritroviamo a 25.000. Non siamo ai massimi, considerando che nel 2007 e prima della grande crisi, eravamo a oltre 40.000 punti ma è chiaro che la pandemia, almeno in questo settore, è stata superata.
Cosa significano questi numeri. C’è una spesa dello stato, un debito, sostenuta dalle banche centrali e quindi indolore per tutti ma che non si trasforma in guadagno in maniera altrettanto uniforme. L’aumento della liquidità, in sostanza, viene tenuto fermo sui depositi bancari oppure trasformato in speculazione finanziaria. La società viene divisa tra chi è costretto a dare fondo al proprio salvadanaio e quelli che hanno aumentato a dismisura i propri guadagni, si pensi ad Amazon o alle case farmaceutiche. Tra l’altro l’aumento della disoccupazione permette salari più contenuti per cui la forbice sociale continua ad allargarsi.
Potremmo dire, per concludere, che i numeri dimostrano la possibilità di avere le risorse finanziarie per risollevarsi dalla crisi ma che queste servono a poco, se non ad aumentare la disuguaglianza, quando sono indirizzate male o non indirizzate per niente. La moneta senza politica aiuta il grande business e la rendita finanziaria mentre la gente ha individuato come nuovo nemico il dipendente, meglio se pubblico, segnando il passaggio dal conflitto generazionale (gioventù versus anziani pensionati), attualmente di cattivo gusto, al conflitto tra categorie.
L’importante, ovviamente, è che non si parli di classi.
“Mi sarei fatta altissima come i soffitti scavalcati di cieli.”
(Claudia Ruggeri)
Niente resta uguale
Niente resta uguale e tutto si ripete.
Confidarsi è una precisazione di quello che precede,
una semplicità che fa durare le cose.
La casa bianca si racconta, cerca orecchie complici.
Ma la casa è stare fuori, è perdonare chi è partito
con il velo dell’allarme addosso.
Tu insegni alla bambina che la luce è un destino
anche quando gli alberi sono spogli e chiedono una tregua.
La bambina corre e correndo toglie l’aria ai gelsomini.
Ha la forza dei ricordi sottili, solo una mosca trema
e pretende la sua parte di veleno.
Dietro il cancello pesci dorati partoriscono piccoli ami dalla bocca.
Ci sono fantasmi in ogni angolo. Chiedono di essere messi da parte, di essere lasciati andare, di essere presi per mano un’ultima volta
La tua è una resistenza coerente
La tua è una resistenza coerente.
Finalmente riposi e non c’è sguardo che possa farti male.
Il tuo corpo è un altare, un luogo di scomparsa
dove la luce entra piano e non ha fretta di arrivare.
Che inutile pudore la riservatezza di una vita.
Si vive di frammenti e tu dovevi morire
per capire di voler essere vivo.
Qui il giorno chiama ancora i suoi delitti ma io oggi
ti perdono e tu mi restituisci una speranza nuova.
Passeggi solo come un fantasma, arrivi piano,
perso nel bianco di una lingua dimenticata e c’è nell’aria
un sentimento antico, una miseria semplice.
Le tue gambe non torneranno più in nessuna casa
e tutte le mie intuizioni avranno subito grandi danni.
Ti cerco sulla spiaggia. Cerco quello che non sarà,
quello che non potrà più essere. La vita è una stagione a tempo,
una nuda terra dove tutto si riduce a una consapevolezza distaccata.
Oggi ti restituisco al mare, oggi ti perdono. Ti ho perso prima che la terra imparasse la lingua dei vivi
Il muso degli animali sulla neve
Tenere insieme i pezzi
per come occorre, per come è possibile.
Le mani nella fessura del legno offrono protezione,
le tele dei ragni disegnano una musica bassa
e luminosa, è lì il teatro.
La legge del fuoco non ammette ignoranza
e se qualcosa rimane è solo un’impronta di realtà.
Il muso degli animali sulla neve è la traccia
di una prima direzione. Tu segui il bianco
anche quello delle parole che non so dire,
il silenzio è la nostra forma di obbedienza.
Verrà il tempo in cui gli spettri schiuderanno
le braccia senza sforzo e senza compassione
e noi non ricorderemo neanche un nome.
Saranno gli alberi il nostro aiuto alla memoria
e scorrerà di nuovo l’acqua e scorrerà di nuovo il sale,
dalla mia alla tua schiena, tra le case rosse,
tra le ossa rotte, oltre quel confine senza più il rischio di un naufragio
Siamo pelle e ossa nude
Siamo pelle e ossa nude davanti alle incognite del mondo.
Siamo latte e sangue.
Un filo trasparente nella bocca dei bambini.
Due gambe nel punto più prossimo dell’acqua
e i cespugli a dire i primi segni dell’abbandono.
Qualcosa cambia prima di cambiare, gli animali hanno
luci gialle dentro gli occhi, quel giallo è un singhiozzo.
Passa il tempo ma la tua bellezza resta intatta
e tu senza sforzo ti avvicini. Entro nella tua saliva. Io sono la tua malattia,Tu sei il mio contagio. Ci diciamo cose oscure quando è buio.
Nessuno sa quanto sei grande. Nessuno sa che mi contieni.
(Le spine sono quello che resta quando il mare mangia la terra e riscrive i confini e le frontiere. La pace è nel legno inumidito dal sudore delle fronti: un’eco della terra da cui sono partiti tutti i padri. Il mondo che abita i tuoi sogni è una manciata di pezzi in ricostruzione, parla una lingua rara: è quella del perdono nella bocca).
Francesca Marica (Torino,1981). Vive a Milano dove esercita la professione di avvocato, occupandosi prevalentemente di minori problematici e donne vittime di abusi e violenze.
Poeta lineare e visiva, ha vissuto e lavorato anche in Francia e Spagna arricchendo il suo percorso di diverse contaminazioni. Traduce dall’inglese, dal francese e dallo spagnolo. Da anni approfondisce il tema delle avanguardie. Collabora e ha collaborato con riviste e siti di poesia italiani (tra gli ultimi, Argo, Poesia del Nostro Tempo, Anterem, Carte nel Vento, imperfetta Ellisse, Carteggi Letterari) e fa parte della giuria del premio letterario Internazionale Franco Fortini e di quello Nazionale Gianmario Lucini.
Dopo la recente pubblicazione di Concordanze e approssimazioni (Il Leggio, 2019, segnalato Premio Montano, XXXIII edizione) ha in cantiere un libro di prose poetiche e un libro d’artista a quattro mani con una scultrice contemporanea.
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]
La contessaMaria Lucrezia Cenaroli, detta Malù, cadde dalle scale.
Inciampò nell’ultimo gradino della scalinata che da Villa Canaroli scende al parco privato che costeggia il Lungono. Un parco molto curato, pieno di piante bellissime, alcune molto vecchie e con tronchi rugosi, altre più giovani, piene di vita. Oltre agli alberi nel parco vivevano diverse specie di animali: cerbiatti, tartarughe, cigni, aironi, anatre e oche. C’era anche un laghetto, con tanto di ponticello per le passeggiate primaverili dei conti.
– Aiuto, aiuto – urlò la contessa dal fondo delle scale, afflosciata sull’ultimo gradino come un gelato alla crema.
Serafina, lacameriera personale della contessa, uscì dalla grande porta a vetri che separava la villa dal poggiolo e dalla scala che portava al parco, e si avviò di corsa verso i gradini per scendere più in fretta possibile. Con la divisa nera svolazzante e gli zoccoli di legno che ticchettavano veloci, sembrava un bel corvo pronto a spiccare il volo. Cominciò a scendere a precipizio, saltando i gradini due a due per arrivare in fretta da Malù. Così correndo scivolò sul terzultimo gradino, fece uno strepitoso balzo e atterrò sulla contessa, spiaccicandola definitivamente a terra.
– Aiuto, aiuto – urlò per la seconda volta la contessa.
Indissolubilmente Malù e Serafina si mescolarono con la terra soffice e l’erba selvatica del giardino che iniziava appena finita la scala e là restarono confuse e capovolte.
Uno dei giardinieri vide da lontano un mucchio di terra che si muoveva e si spaventò. Cosa poteva mai essere quel mucchio vicino alle scale? Un animale selvatico? Ma che animale era? Visto da dove si trovava lui, il mucchio sembrava molto grosso e aveva una strana forma. Si muoveva in maniera scomposta, ondeggiando un po’ di qua e un po’ di là. Ma cos’era? Il giardiniere abbandonò gli attrezzi che stava usando per rastrellare le foglie e corse verso il mucchio.
Mentre si avvicinava vide che si trattava di Malù e Serafina e pensò: “Ma come hanno fatto quelle due a cadere a quel modo e a finire una sopra all’altra?”. Così pensando si distrasse dai suoi piedi, scivolò su un tratto dove l’erba era appena stata innaffiata, le sue gambe si alzarono verso l’alto mentre il sedere rimaneva più o meno dov’era e le braccia iniziavano un inutile turbinio.
Spiccò per un attimo un volo imprevisto e poi atterrò direttamente col sedere su Serafina e Malù. – – Aiuto, aiuto – urlò per la terza volta la contessa.
Ma che mai facevano quelle tre persone mescolate al fango e all’erba?. Un grande pasticcio era appena successo. In quel mucchio si vedevano degli zoccoli, una camicia a quadri, una vestaglia nera, del pantaloni di velluto, una gonna di lana, una sottoveste di seta. Mani, braccia, gambe, sei o sette occhi, non si capiva bene. Una gran confusione.
Il maggiordomo e il secondo giardiniere erano nel frattempo usciti sul poggiolo e guardavano la scena esterrefatti. Si vedeva, mescolate all’erba e al fango, un gran mucchio di persone appena giù dalle scale. Erano una sopra all’altra come un grosso sandwich umano multicolore e dalla forma semovente.
Il maggiordomo disse al secondo giardiniere:
– Ma cosa sta succedendo laggiù?
– Non so. Si sono seduti uno sopra all’altro.
Il secondo giardiniere temeva il maggiordomo che era colui che gli pagava lo stipendio tutti i mesi e pensò che doveva trovare una giustificazione plausibile alla scena che stavano vedendo. Disse:
– È passato un deltaplano, tutti stavano con la faccia in su a guardarlo e sono scivolati uno sopra all’altro.
– Sono scivolati?
– Si – continuò il secondo giardiniere – se si cammina guardando per aria e non dove si mettono i piedi, si può finire su un’altra persona senza accorgersene. Quando te ne accorgi è troppo tardi e la travolgi, rischi perfino di toglierle il respiro.
“Ma cosa sta dicendo questo?” pensò il maggiordomo. “Deve avere visto un po’ troppi film alla Tv.
E poi ora perché i malcapitati stanno lì, seduti uno sopra all’altro senza rialzarsi subito?”.
Il maggiordomo era infastidito dalla scena. Era una scena scomposta, niente era al suo posto, l’ordine gerarchico sovvertito, la distanza tra i sessi e tra i ruoli distrutta dal quel mucchio di gente. Più guardava la scena e più sentiva aumentare l’ansia.
C’era qualcosa di rivoluzionario in quel miscuglio. Come era possibile che si fosse confuso l’ordine che regnava indiscusso a villa Canaroli? Come ripristinarlo subito e far sparire le tracce del brutto accadimento mattutino? Forse si poteva chiedere all’associazione dei deltaplanisti di scegliere traiettorie alternative, che escludevano la villa e anche il parco. Perché un uomo volante era passato sopra la testa della contessa Malù, di Serafina e del primo giardiniere causando quell’ammasso riprovevole e scandaloso?
In fondo alle scale c’era un groviglio umano di due donne e un uomo. Si vedeva che era così, anche se l’uomo aveva del fango sui vestiti e le due donne la gonna attorcigliate intorno alle gambe. Una delle due aveva anche la gonna alzata fino al ginocchio e si vedevano le calze. Poi c’erano degli zoccoli. Uno a terra e uno rovesciato sul terzultimo gradino con il tacco verso l’alto. Una situazione inaudita e imbarazzante.
– Ma cosa ci fanno là degli zoccoli? – chiese il maggiordomo al secondo giardiniere, sempre più agitato.
Anche il giardiniere si agitò. Per quale motivo il maggiordomo voleva sapere cosa facessero là gli zoccoli di Serafina? Era chiaro cosa ci facevano là, erano attaccati ai piedi della cameriera prima che cadesse e ora erano finiti a terra. “Devo pensare a una risposta intelligente” pensò.
E poi disse:
– Gli zoccoli sono la versione femminile delle pantofole, mentre le femmine usano gli zoccoli, i maschi preferiscono le pantofole.
– Le pantofole? Cosa c’entrano adesso le pantofole? Appartengono a un altro ceto sociale, sono tutt’altro! – urlò il maggiordomo.
– Le pantofole c’entrano perché, se di buon pellame, sono morbide, calde e accoglienti e i maschi, che amano le comodità, le preferiscono. – Rispose quell’impertinente del secondo giardiniere.
Il maggiordomo pensò che non aveva mai visto il giardiniere sotto la sua vera luce. Un uomo dalle dubbie doti morali, che usava dei brutti esempi per spiegare gli strani e inspiegabili accadimenti della vita. Lo doveva interrogare meglio.
– Ma non ti sembra una brutta cosa paragonare le pantofole agli zoccoli? Cosa c’entrano?
Il secondo giardiniere capì che c’era qualcosa che non andava nella conversazione e che il maggiordomo era diventato sempre più agitato e nervoso. Cercò allora di rimediare, senza sapere da che parte dirigere il discorso, perché non sapeva cosa l’avesse fatto deragliare. Forse c’era qualcosa di sconveniente nell’attribuire alle femmine la preferenza delle zoccoli e ai maschi quella delle pantofole. Doveva rimediare alla gaffe.
– Io le pantofole le consiglierei a tutti, anzi proprio a tutti! E non ne farei una questione di maschi o femmine! Per quel che mi riguarda i maschi possono benissimo usare gli zoccoli e le femmine possono benissimo usare le pantofole. Anzi possono fare entrambe le cose. Sia i maschi che le femmine possono usare sia gli zoccoli che le pantofole. – disse preoccupato.
Nel cervello del maggiordomo si fece luce l’idea che doveva licenziare quel rivoluzionario irrispettoso e volgare del secondo giardiniere. Decise quindi di interrogarlo meglio.
– Ma tu che sei un giardiniere e che ami i fiori ti sembra una bella cosa che tutti i fiori vengano considerati belli allo stesso modo?
– Certo! – disse il giardiniere… e con quella affermazione firmò il suo licenziamento.
Roma, Primavera 2005 – Ragazzo, stiamo chiudendo. Non ce l’hai una casa? – disse bonariamente il bibliotecario, sorridendo.
– Veramente ce l’ho, ma purtroppo non c’è gente simpatica come te! – ribattei, contraccambiando il sorriso.
In effetti sono solito trattenermi fino all’orario di chiusura, se non oltre, quando faccio le mie ricerche serali dopo l’università. Ormai mi conoscono, e sono tollerato.
Quello che faccio, invece, non lo divulgo molto volentieri, anche perché molti non capirebbero. È difficile mettersi nei panni di mio padre. È difficile mettersi nei panni di un poliziotto degli anni Settanta.
Roma, Autunno 1979 – Ispetto’, che dobbiamo fa’? Lo chiude lei il verbale dell’arresto?
– Sì Proietti, vai pure. So che è il compleanno di tua figlia. Anzi, falle gli auguri da parte mia.
– Grazie Ispetto’, a domani.
– A domani Proietti. E se vi avanza una pastarella, ricordati di portarmela. Lo sai che adoro quelle che fa tua moglie.
– Comandi!
– Finiamo di scrivere ‘sto verbale. Ma possibile che questo qua lo abbiamo arrestato ieri e oggi stava di nuovo in giro a rubare? Sinceramente a quest’ora meglio non farsi troppe domande. Un bel timbro e il verbale è chiuso. Domani è un altro giorno, e lo inizierò con una bella pasta alla crema! – pensò l’Ispettore.
Scese dalle scale della questura con fare sicuro, si sistemò la fondina ascellare e salutò gli agenti nella guardiola. Una volta fuori dall’edificio tirò su il bavero del giaccone per proteggersi dal freddo, incamminandosi verso la sua macchina, parcheggiata poco distante. Arrivato alla portiera si pulì gli occhiali e nel farlo notò il riflesso di un luccichìo alle sue spalle. Il luccichìo di una pistola.
Roma, Autunno 1979. Il giorno seguente – Ispetto’, poi non dica che non la penso – disse Proietti, entrando con un vassoio di paste appena fatte nell’ufficio dell’Ispettore Grazioli.
– Proietti ma che stai facendo? – rispose il vicequestore Annibaldi, visibilmente turbato.
– Buongiorno Dottore, cercavo l’Ispettore, gli ho portato le paste…
– Non hai sentito il TG stamattina?
– No – disse l’agente Proietti.
– Allora è meglio se ti siedi – disse il vicequestore Annibaldi. A quelle parole seguì una sguardo, uno solo, e fu sufficiente per capire cos’era accaduto. Il vassoio si rovesciò, riversando il suo contenuto tra la disperazione dei due colleghi.
Roma, Estate 2005. Dieci giorni alla partenza – Nicaragua? Hai capito Alfredo! Se ne va in Centro America! – disse Filippo con una certa sorpresa.
Ecco spiegato perché non mi piace dire ai quattro venti che cosa cerco affannosamente, quando passo i pomeriggi in biblioteca. La maggior parte delle persone capisce subito male, e io perdo la pazienza. A me non importa un accidente del Centro America, anzi, non avrei mai voluto fare quel biglietto. O forse sì, per andarci con una bella ragazza, non da solo. Il problema è che se lo dicessi a qualcuno, quello che vorrei andare a fare, mi bloccherebbero subito. E farebbero bene. Perché andare in un Paese che non conosci, dove si parla una lingua che non conosci, dove non hai nessun contatto, al solo scopo di cercare qualcuno che ventisei anni fa ha sparato a tuo padre, uccidendolo, non è una cosa normale. Ma d’altra parte cos’è la normalità? Non conoscere mai chi ti ha amato prima ancora che nascessi, mentre altri se ne vanno al mare con le mani sporche di sangue? Oppure, come è capitato al suo compare, uscire di galera dopo solo quattordici anni, nonostante gli ergastoli che hai alle spalle?
Non c’è un solo filo logico in tutto questo, ma non me ne importa. Ormai è deciso.
Roma, Estate 2005. Quattro giorni alla partenza Mi piace fare i dolci alla crema. Mi piace farli ma non li assaggio mai: non importa quanto zucchero ci metta, mi lasciano sempre un retrogusto amaro. Ai miei amici piacciono molto, e in fondo va bene così. Gliene ho appena portato uno, ci siamo visti per un saluto: tra poco ci dividiamo per le vacanze. Sempre che così possano chiamarsi le mie. Ora comunque non voglio pensarci, sta arrivando l’autobus e ho fretta di tornare a casa.
Salgo sul bus affollato e, con un po’ di fortuna, trovo un posto a sedere. Mi metto comodo, ho ancora diverse fermate davanti a me.
A un certo punto, mentre ripercorro mentalmente le varie tappe che mi sono prefissato per il Nicaragua, un voce flebile cattura la mia attenzione.
– Giovanotto, mi farebbe sedere per cortesia?
Alzo lo sguardo e vedo un signore attempato con un’aria spenta e gli occhi malinconici. Abbozzo un sorriso e mi alzo per fargli spazio.
L’autobus è pieno, nel corridoio si passa male. Mentre mi scanso per agevolarlo, struscio leggermente sulla sua manica sinistra, scoprendogli il tatuaggio che ha sul polso. Al primo colpo d’occhio lo riconosco subito: è il simbolo del gruppo terroristico che ha ucciso mio padre. Alzo lo sguardo e sento un brivido lungo la schiena: ma certo, come ho fatto a non riconoscerlo? È mister “quattordici anni di galera”, quello che non ha scontato neanche la metà della pena per i disastri che ha combinato.
Devo aver fatto una faccia strana, il vecchietto non ha più quell’aria docile che aveva prima. Sento la tensione montare, sparisce tutto intorno a me: siamo solo io e lui. Il suo sguardo adesso è più vigoroso, mi pare che abbia i muscoli della mascella contratti, anche se non ne sono sicuro. Potrebbe avermi riconosciuto a sua volta? Lo escludo, non ero nemmeno nato all’epoca. Sono sempre stato molto riservato, e poi alla stampa i familiari delle vittime interessano poco. Loro vogliono vedere i cadaveri a terra, quelli sì che fanno notizia. Il vecchio fissa continuamente la mia tasca, e in quel momento mi accorgo che sto stringendo con la mano destra il coltello ancora sporco di crema con cui ho tagliato il dolce. Sento i battiti che aumentano rapidamente, mentre dalla fronte del vecchio scende una goccia di sudore.
Tiro fuori una mano dalla tasca, ma è la sinistra: prenoto la fermata, e anche se non sono ancora arrivato a casa scendo appena possibile, con l’autobus ancora in movimento.
Faccio qualche passo e lo vedo ripartire: il vecchio mi guarda dal finestrino. Non so se ha capito. Gli è comunque ritornato lo sguardo buono.
Continuo a camminare e appena trovo un cestino getto via sia il biglietto dell’autobus che il biglietto aereo per il Nicaragua, allontanandomi a passo veloce dalla parte peggiore del mio passato.
A quel punto rimetto le mani in tasca e sento nuovamente il coltello. Lo tiro fuori e lecco un po’ della crema che è rimasta attaccata. Stavolta ha un sapore buono. È dolce.
In questi frangenti pandemici si accavallano, si esigono, si compiono a ritmo serrato, presenze in streaming per tener dietro alla fame di cultura attuata in lontananza; purtroppo devo rinunciare anche ad impegni presi molto tempo fa, come il simposio su Parini filosofo dell’educazione tenuto a Brera il 15 aprile e per il quale rimando agli atti.
Stringente ma necessaria invece era la mia presenza alla Giornata di studi organizzata da Italiques LECEMO-Sorbonne Nouvelle Paris 3 Historia Magistra il 16 aprile 2021: Pavese settant’anni dopoUn bilancio critico. Questo convegno aveva lo scopo, come sottolinea il titolo, di tracciare un bilancio dell’attività critica nel giro dei settant’anni trascorsi dalla morte dello scrittore. Organizzatrice dell’incontro una studiosa resasi meritevole per i suoi studi nicciani e per l’encomiabile commento all’ormai celebre Taccuino segreto, pubblicato per la prima volta dal suo ritrovamento tra le carte pavesiane da parte di Lorenzo Mondo in edizione critica dalla casa editrice Aragno nel 2020:
Cesare Pavese, Il Taccuino segreto a cura di Francesca Belviso. Con una testimonianza di Lorenzo Mondo. Introduzione di Angelo d’Orsi, Nino Aragno Editore, Torino 2020.
A tre giorni dal Convegno la BUR pubblica una riedizione del diario pavesiano dal titolo ormai ufficializzato de Il mestiere di vivere con l’aggiunta del Taccuino:
Cesare Pavese, Il Mestiere di vivere. Diario1935-1950 con Il Taccuino segreto. Prefazione di Nadia Terranova. A cura di Salvatore Renna. Introduzione di Enrico Mattioda. Con una testimonianza di Lorenzo Mondo, Bur contemporanea/Rizzoli, Milano, aprile 2021.
E qui scoppia e deflagra un caso che diverrà la ragione principale del Convegno parigino. Leggendo l’introduzione, la bibliografia generale, le note al Taccuino nel volume edito dalla BUR, mi rendo conto dell’improprietà dell’edizione. Ad esempio nella stesura della Bibliografia generale il mio nome è totalmente assente e anche rilevo la trascuratezza con cui vengono usate le note della Belviso al Taccuino senza darne conto critico. Così il tema della mia relazione, che si titolava «L’eterno ritorno». Pavese e il mito in una dimensione europea, si trasforma in un’analisi precisa delle gravi responsabilità dei curatori del volume BUR. A darmi man forte la coordinatrice del pomeriggio, l’amica e collega Anna Dolfi e gran parte dei relatori, tra cui spiccava per acume e comprensione del tema Giuditta Isotti Rosowsky relatrice di Tra i testamenti traditi, il caso Pavese. In conclusione, la giornata pavesiana nello streaming si è protratta dalle 10 di mattina alle 19, con un’ora di intervallo per un frettoloso pasto.
Oggi 25 aprile mi fa piacere trovare sul canale televisivo della Effe riproposto un documentario sul mio autore curato da Paolo Di Paolo, valente studioso che assume particolare importanza nell’essere trasmesso in una data importante come quella in cui si ricorda l’anniversario della Liberazione. Alla sera del Convegno francese mi abbatto sull’accogliente poltrona che nulla ha a che vedere con la tremenda opera di Pesce esposta alla Fiera di Ferrara. Essa mi ha accolto e consolato mentre accarezzavo un libro meraviglioso, la cui importanza è paragonabile per la conoscenza dell’autore ai proustiani Le soixante –quinze feuillets, che l’attivissima amica Dolfi mi aveva spedito con il corriere dalla Biblioteca francese di Firenze il giorno stesso dell’uscita.
Nel caso del volume che accarezzo si tratta di un inedito di Thomas Mann, che è l’autore in assoluto a me più vicino. Il libretto Resoconto parigino, traduzione di Marco Federici Solari, L’Orma editore, Roma 2021, racconta di un viaggio a Parigi fatto nel 1922 dallo scrittore in compagnia della moglie per una serie di conferenze che avrebbero avuto il compito di collegare la cultura francese allo spirito germanico. I nomi che vi compaiono sono quelli che hanno nutrito i miei giovani anni di studioso. C’è perfino citato in positivo Benedetto Croce!
Nel libro si riscontrano alcune scelte linguistiche operate dal traduttore-commentatore assai interessanti, come l’uso reiterato di “suntuoso” in luogo del più comune “sontuoso”. E’ una rievocazione superba della cultura entre deux guerres che rimanda – e non è un caso – alla straordinaria rievocazione di Oxford in quegli stessi anni, mai uscita in Italia se non in questo 2021 scritta da Evelyn WaughA Little Learning (1964), reso in italiano con Autobiografia di un perdigiorno nella ottima traduzione e cura di Mario Fortunato.
Continuo a seguire con evidente interesse trasmissioni assai popolari sulla tv, sia che si chiamino Forum,dove le vicende quasi incredibili dei contendenti dimostrano, se ce ne fosse bisogno, il grado quasi infimo delle relazioni sociali e parentali, quasi tutte legati all’uso del danè, o la serale dose de L’eredità, che mi appassiona per il gioco mnemonico, dove la mia preparazione accademica svanisce nel nulla allorché il soggetto dell’interrogativo da risolvere diventa lo sport o le notizie da social.
Imperdibile invece uno spettacolo che seguo con fedeltà e apprezzamento, il Che tempo che fa condotto da Fabio Fazio, il quale purtroppo è caduto in una imbarazzantissima gaffe allorché, nel presentare il romanzo della mia amatissima amica Edith Bruck, Il pane perduto, la chiama Cruck; forse misteriosamente attratto dal rumore del pane spezzato! Il suo evidentissimo imbarazzo e le sue scuse ne hanno poi dimostrato l’intelligenza e la sensibilità.
Nei miei sempre più brevi spostamenti per raggiungere la libreria e al venerdì la bancarella dei fiori noto tristezza e rassegnazione. Non mi piace nulla questo atteggiamento rinunciatario. Aspetto con ansia dunque le aperture, che avverranno da domani 26 aprile, riponendo ancora una volta la fiducia e la volontà del ritorno in due importanti colonne della vita sociale: l’amicizia e la lettura di ogni forma artistica.
Per leggere gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubricaDiario in pubblicoclicca[Qui]
E mentre il furbetto scavalca i diritti degli altri, i turni, le disposizioni per accedere più in fretta, prepotentemente e senza remore, ai servizi vaccinali, all’inserimento in quella o l’altra lista, ai posti disponibili nell’assistenza, o anche solo davanti a un supermercato, scavalcando e sgomitando, c’è anche chi mantiene dignità e compostezza in un clima di esagitazione.
Mi piacciono gli anziani, quelli che non spintonano per avanzare nella coda e attendono pazientemente il loro momento, in silenzio, o magari un po’ borbottando, ma saldamente attaccati al loro concetto di ‘dovere’ nei confronti della comunità e a un’integrità morale costruita nel tempo, alla quale non rinunciano nemmeno nel pieno di una pandemia.
Sono sopravvissuti al laido gioco dei posti letto, della precedenza a categorie ‘più indispensabili’ alla società, all’indifferenza contenuta nelle parole di qualcuno che li voleva ‘morti’ ancor prima che succedesse, in una corsa forsennata a scegliere chi più conviene.
Parlano con voce stanca, a volte sommessa, ai microfoni di qualche giornalista che chiede opinioni e pareri sulla sanità tra i passanti. Qualche nonna stringe al petto con forza la borsetta, qualcuno regola istintivamente la mascherina sul volto, qualcun altro allarga le braccia sconsolatamente, altri raccontano orgogliosamente di aver avuto la fortuna di essere aiutati a farcela e ce l’hanno messa tutta anche loro.
Hanno uno sguardo diverso dagli altri, che contiene una profonda sapienza e tanta commozione. Non è insolito vederli aggirarsi – coloro che possono godere di autonomia di movimento – per le vie o i parchi pubblici con cautela, lentamente, passo dopo passo, misurando forze e spazi secondo le proprie risorse fisiche, reggendo una borsa della spesa non troppo pesante e fermandosi a fare due parole se appena trovano disponibilità.
I nostri anziani ne hanno passate tante e molti ricordano ancora echi ed esiti di una guerra che ha travolto nazioni intere e le loro giovani vite di allora; raccontano qualche episodio, quello più significativo ed emotivamente impattante e per un attimo ritornano i protagonisti di quella loro parentesi di storia, esclamando a volte ‘si stava meglio quando si stava peggio’ oppure ‘era la misera più nera, meglio adesso’ o ‘non avrei mai detto che succedesse questo’.
Forse non si abitueranno mai a quel nuovo linguaggio che sentono in TV e nei discorsi dei figli e dei nipoti, fatto di lockdown, smartworking, dad, cluster,spillover, il salto di specie che li ha fatti scoprire anche l’esistenza del pangolino (ma quest’ultima scoperta è trasversale ad ogni età). Il nuovo linguaggio della pandemia li disorienta, anche se va meglio con i colori delle regioni, almeno quelli sono facilmente riconoscibili e associabili e con i termini di vecchia memoria che suonano tanto familiari, come fronte, trincea, prima linea, eroe che andavano per la maggiore nella prima ondata e ora caduti un po’ in disuso.
Non parliamo di ‘resilienza’ e ’paucisintomatico’: sembrano perfino un insulto davanti a chi ha trascorso gli anni della resistenza vera, del rischio, della precarietà, della totale insicurezza in eventi incontrollabili. Io amo questi anziani che stanno assistendo al declino di un’epoca che stentano a riconoscere perché destabilizzante, eppure non rinunciano alla loro dignità e fermezza nei valori che hanno coltivato.
Apologia dell’anziano? No, soltanto una grande riconoscenza per ciò che rappresentano, i volti saggi della nostra storia che ci hanno preceduto, lasciandoci tracce di inestimabile valore, costruite anche attraverso errori, tentativi a volte non riusciti, sogni infranti e imperfezione, come chiunque, come tutti.
Il 19 febbraio 1937, durante una cerimonia pubblica in onore della nascita di Vittorio Emanuele di Savoia tenutasi ad Addis Abeba nel giorno YEKATIT 12 – Festa della Purificazione della Vergine, secondo il calendario copto e da allora Giornata di Lutto Nazionale Etiope in memoria delle vittime dei massacri – un commando di guerriglieri eritrei lanciò contro il palco otto bombe a mano uccidendo quattro carabinieri italiani, tre zaptiè (carabinieri reclutati tra le popolazioni indigene) e ferendo una cinquantina di presenti, tra cui lo stesso Viceré d’Etiopia Maresciallo Rodolfo Graziani. Il fallito attentato diventò l’occasione per quello che Mussolinidefinisce, nei telegrammi inviati nei giorni seguenti a Graziani come “l’inizio di quel radicale repulisti assolutamente necessario”; e ordina: “Tutti i civili e religiosi comunque sospetti devono essere passati per le armi e senza indugi”.
Il massacro
Sentendosi il vero obiettivo dell’attentato, dall’ospedale della Consolata dove rimase ricoverato per 68 giorni, il Maresciallo Graziani ordinò rastrellamenti e pogrom e il federale di Addis Abeba, Guido Cortese, scatenò una terrificane caccia ai neri. Harold J. Marcus, professore di Storia e di Studi Africani alla New York State University, parla del clima post-attentato in questi termini: ”Poco dopo l’incidente, il comando italiano ordinò la chiusura di tutti i negozi, ai cittadini di tornare a casa e sospese le comunicazioni postali e telegrafiche. In un’ora, la capitale fu isolata dal mondo e le strade erano vuote. Nel pomeriggio il partito fascista di Addis Abeba votò un pogrom contro la popolazione cittadina. Il massacro iniziò quella notte e continuò il giorno dopo. Gli etiopi furono uccisi indiscriminatamente, bruciati vivi nelle capanne o abbattuti dai fucili mentre cercavano di uscire. Gli autisti italiani rincorrevano le persone per investirle col camion o le legarono coi piedi al rimorchio trascinandole a morte. Donne vennero frustate e uomini evirati e bambini schiacciati sotto i piedi; gole vennero tagliate, alcuni vennero squartati e lasciati morire o appesi o bastonati a morte. Esercito e camicie nere si riversarono in strada, non tanto per stanare e arrestare i responsabili, quanto per terrorizzare e colpire in maniera indiscriminata i nuovi sudditi dell’Italia imperiale, colpevoli di essersi ribellati agli invasori. Oltre ai militi e ai fascisti organizzati, si lanciarono entusiasti nella caccia al nero anche operai, burocrati e impiegati coloniali. Prigionieri e semplici passanti – colpevoli soltanto di essere africani – vennero uccisi a bastonate, a badilate, oppure pugnalati, fucilati, impiccati, investiti con automezzi, bruciati vivi nelle loro case. Centinaia di persone furono sequestrate, deportate e rinchiuse nei campi di detenzione di Danane, in Somalia, e Nocra, in Eritrea, dove Graziani ordinò che avessero minime quantità d’acqua e di cibo”.
Il primo convoglio per Danane partì il 22 marzo, arrivando a destinazione solo il 7 aprile. Comprendeva 545 uomini, 273 donne e 155 bambini, moltissimi dei quali morirono di stenti per strada. Seguirono poi altri cinque convogli per un totale, secondo fonti italiane di 1.800 persone, secondo fonti etiopi il numero sarebbe stato quattro volte maggiore. In base alla testimonianza di Micael Tesemma, che trascorse nel campo tre anni e mezzo, riportata da Angelo del Boca, su 6.500 internati ben 3.175 persero la vita per scarsa alimentazione, acqua inquinata e malattie quali vaiolo e dissenteria. Lo stesso direttore sanitario di Danane, riferì il testimone, avrebbe accellerato la fine di alcuni internati con iniezioni di arsenico e stricnina.
Il medico ungherese Ladislav Shaska così ricorda l’azione delFederale Guido Cortese:“Il maggior massacro si è verificato dopo le sei di sera… In quella notte terribile, gli etiopi vennero ammucchiati nei camion, strettamente sorvegliati dalle camicie nere armate. Pistole, manganelli, fucili e pugnali furono usati per massacrare gli etiopi disarmati, di tutti i sessi, di tutte le età. Ogni nero incontrato era arrestato e fatto salire a bordo di un camion e ucciso o sul camion o presso il piccolo Ghebi. Le case o le capanne degli etiopi erano saccheggiate e quindi bruciate con i loro abitanti. Per accelerare gli incendi vennero usate in grandi quantità benzina e petrolio. I massacri non si fermarono durante la notte e la maggior parte degli omicidi furono commessi con armi bianche e colpendo le vittime con manganelli. Intere strade erano bruciate e se gli occupanti delle case in fiamme uscivano in strada erano pugnalati o mitragliati al grido “Duce! Duce Duce!”. Dai camion, in cui gruppi di prigionieri erano stati portati per essere massacrati vicino al Ghebi, il sangue colava letteralmente per le strade, e da questi camion si sentiva gridare “Duce! Duce! Duce!. Non dimenticherò mai quello che ho visto fare quella notte dagli ufficiali italiani che passavano con le loro auto lussuose per le strade piene di cadaveri e sangue, fermandosi nei luoghi dove avrebbero avuto una migliore visione delle stragi e degli incendi, accompagnati dalle loro mogli, che mi rifiuto di definire donne!”
Il 22 febbraio 1937, Rodolfo Graziani spedì a Benito Mussolini un telegramma eloquente: “In questi tre giorni ho fatto compiere nella città perquisizioni con l’ordine di far passare per le armi chiunque fosse trovato in possesso di strumenti bellici, che le case relative fossero incendiate. Sono state di conseguenza passate per le armi un migliaio di persone e bruciati quasi altrettanti tucul”.
Dopo che venne data alle fiamme, davanti agli occhi di Cortese anche la chiesa di San Giorgio, il 28 febbraio Graziani arrivò addirittura a proporre di “radere al suolo” la parte vecchia della città di Addis Abeba “e accampare tutta la popolazione in un campo di concentramento”, ma Mussolini si oppose per paura delle reazioni internazionali, pur riconfermando l’ordine di passare per le armi tutti i sospetti, ordine che venne esteso a tutti i governatori dell’impero.
Circa 700 persone, rifugiatesi nell’Ambasciata Inglese, vennero fucilate appena uscite da questa e subirono la stessa sorte anche tutti i griot, cantastorie, indovini e sciamani di Addis Abeba e dintorni, in quanto responsabili di annunciare, nei mercati e nelle strade, la fine prossima della dominazione italiana.
Dalle carte di Graziani risulta l’elenco ufficiale dettagliato delle fucilazioni eseguite ad Addis Abeba e nelle regioni circostanti dal 27 marzo al 25 luglio 1937per un totale di 1.877 esecuzioni. Il 7 aprile il Vicerè telefonò al generale Pietro Maletti per ordinare che il territorio dovesse ”essere assolutamente domato e messo a ferro e fuoco” precisando: ”Più Vostra Signoria distruggerà nello Scioà e più acquisterà benemerenze”. Fonti etiopiche hanno contato 30mila persone uccise; fonti britanniche parlano di almeno 3mila vittime. Ma a prescindere dal numero effettivo di caduti (non fu mai condotta una ricerca internazionale e indipendente che potesse verificarne la precisione), la vendetta italiana continuò implacabile anche a distanza di mesi dall’attentato estendendosi ai villaggi e alle case sparse dell’entroterra.
Non potendo contenere l’ardore di chi lottava per la propria libertà – con buona pace della propaganda ‘liberatrice’ fascista – il contingente imperiale in terra d’Abissinia dovette trovare un responsabile morale di tali ondate di guerriglia e la rappresaglia divenne anche di matrice religiosa.
Percorrendo il sentiero del ‘ripulisti’ tracciato mesi prima da Mussolini in persona, il Vicerè ordinò una spedizione punitiva verso Debrà Libanòs – centro del potere spirituale e cuore secolare della chiesa cristiana ortodossa copta fondato nel XIII secolo a 150 km da Addis Abeba, nei pressi del canyon del Nilo Azzurro, nel cuore della regione dello Shoa– città santa i cui residenti erano ritenuti colpevoli di fomentare le ribellioni e di proteggere gli insorti. Nel tragitto, le truppe italiane e somale comandate da Pietro Maletti operarono una cieca rappresaglia in cui furono incendiati 115.422 tucul e tre chiese, mentre furono ben 2.523 i partigiani etiopi giustiziati.
Non sazia del sangue versato, la colonna imperiale proseguì il suo viaggio e dopo aver incendiato il convento di Gulteniè Ghedem Micael ed averne fucilato tutti i monaci, il 19 maggio i soldati raggiunsero ed occuparono il grande monastero diDebrà Libanòs. Raggiunta la destinazione, le truppe ricevettero un telegramma di Graziani in cui ordinò di “passare per le armi tutti i monaci indistintamente, compreso il vicepriore”.
Debrà Libanòs, fondato dal santo cristiano Tecle Haymanot, era formato da due grandi chiese e da tremila modeste abitazioni dove vivevano monaci, preti, diaconi, studenti di teologia e suore. I residenti furono trucidati in circa una settimana; l’ultimo giorno del massacro vennero fucilati anche i 126 giovani diaconi che erano stati inizialmente risparmiati. Graziani fece sapere a Mussolini che furono 449 le vittime del massacro di Debrà Libanòs, ma ricerche portate avanti dall’inglese Ian L. Campbell e dall’etiope Defige Gabre-Tsadik (ricercatori dell’Università di Nairobi e di Addis Abeba) sostengono che il numero delle vittime del massacro si aggirerebbe tra le 1.423 e le 2.033. Le vittime, trasportate sul luogo dell’eccidio da una quarantina di camion, vennero incapucciate e fatte accucciare sul bordo della gola di Zega Weden, erosa dal torrente Finka Wenz, uno a fianco dell’altro. Le mitragliatrici spararono in continuazione per cinque ore, interrotte solo per buttare i cadaveri nel crepaccio.
Graziani, forte dell’approvazione di Mussolini, rivendicò “la completa responsabilità” di quella che definì trionfante la “tremenda lezione data al clero intero dell’Etiopia” come ”romano esempio di pronto, inflessibile rigore sicuramente opportuno e salutare”, compiacendosi di “aver avuto la forza d’animo di applicare un provvedimento che fece tremare le viscere di tutto il clero, dall’abuna all’ultimo prete o monaco, che da quel momento capirono la necessità di desistere dal loro atteggiamento di ostilità a nostro riguardo, se non volevano essere radicalmente distrutti”. (continua)
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Franco Ferioli, l’inviato di Ferraraitalia nel tempo e nello spazio, è autore e curatore di Controinformazione, una nuova rubrica. C’è un’altra storia e un’altra geografia, i fatti e misfatti dell’Occidente che i media preferiscono tacere, che non conosciamo o che preferiamo dimenticare. CONTROINFORMAZIONE ci racconta senza censure l’altra faccia della luna: per leggere tutti gli articoli della rubrica clicca[Qui]
Nel testo e In copertina: immagini inedite del reportage di Franco Ferioli realizzato nei santuari della Chiesa Copta di Addis Abeba e dintorni
Nello scarno dibattito che il 25 Aprile dedica alla ‘Liberazione dal colonialismo’ si affrontano due convinzioni stereotipate e contrapposte. Numero uno: gli italiani erano brava gente che hanno portato la civiltà e le strade in Africa ma non hanno potuto compiere l’opera perché hanno perso la seconda mondiale. Numero due: gli italiani hanno compiuto solo crimini di guerra trucidando e seviziando i civili senza pietà durante tutto il loro dominio.
Forse non ha senso rispondere alla domanda se gli italiani siano stati ‘brava gente’ o se abbiano compiuto solo nefandezze. Sarebbe più opportuno chiedersi cosa sia rimasto nella memoria delle popolazioni africane colonizzate dagli italiani o se, dove e come, l’atteggiamento coloniale e razzista si presenti e manifesti ancora e tutt’ora nella nostra società.
“La Francia si è spaccata intorno all’Algeria, nel Regno Unito c’è stato un enorme dibattito intorno all’indipendenza dell’India nel 1947”, sostiene Nicola Labanca, autore del libro Oltremare: Storia dell’espansione coloniale italiana (Il Mulino, 2007):”Non si può paragonare il colonialismo francese e britannico con quello italiano. Il nostro è stato una piccola cosa rispetto anche ai grandi imperi spagnoli e portoghesi. Una piccola cosa che produceva piccoli guadagni che interessava una piccola parte del Paese e quindi come una piccola cosa è anche ragionevole che se ne parli meno”.
L’aspetto quantitativo del problema che ridurrebbe l’Italia a sotto-potenza coloniale se posta a confronto con le grandi potenze coloniali europee, non collima con l’aspetto qualitativo, dal momento che la forma di colonialismo interpretata dall’ideologia fascista può vantare primati assoluti e metodologie criminali di eccellenza che hanno tristemente fatto scuola e che continuano ad essere tragicamente attuali.
Proprio per queste ragioni, il colonialismo italiano dovrebbe essere studiato e analizzato come una vera e propria sindrome da porre all’origine di una serie di fatti difficili da giudicare mancando informazioni e approfondimenti sia nel dibattito pubblico, che in quello politico, che in quello scolastico-universitario dove si è iniziato a parlarne solo negli ultimi anni grazie a una giovane generazione di scrittori che hanno affrontato il tema come Gabriella Ghermandi, Francesca Melandri, Antar Marincola, il collettivo Wu Ming 2 e Igiaba Scego, una delle più importanti scrittrici italiane di origine somala, che nella presentazione del suo romanzo La linea del colore: Il gran tour di Lafanu Brown (Bompiani, 2020) ha ricordato : “Da piccola e adolescente ero molto consapevole di cosa fosse il colonialismo. Me lo raccontava mio padre, che oggi non c’è più. Sognava di fare l’astronomo e a scuola in Somalia, vestito da Balilla, cantava le canzoni coloniali, ma dopo la quarta elementare gli è stato impedito di studiare. Ostacolare l’apprendimento di intere generazioni è stato uno dei crimini peggiori del colonialismo”.
Delle quattro colonie, quella che gli italiani conoscono di più è l’Etiopia, anche solo per il fatto che la sua conquista, che si svolse tra il 3 ottobre 1935 e il 5 maggio 1936 – che fu incompleta e che durò solamente cinque anni- rappresenta l’apogeo del fascismo ed è solo così che viene presentata, in un’unica paginetta, nei manuali scolastici. Nonostante il ruolo minore dell’Italia come potenza coloniale, fu un’impresa gigantesca dal punto di vista umano, ideologico e logistico e fu una guerra tragicamente all’avanguardia per essere il 1935, perché il regime fascista usò tutta la tecnologia bellica, oltre che mediatica, più avanzata dell’epoca: carri armati, aviazione militare, bombardamenti congas nervini. Scrive Nicola Labanca “Nessuna invasione britannica, francese o portoghese in Africa ha mai visto mezzo milione di soldati impiegati contemporaneamente come nel caso dell’invasione dell’Etiopia, dove c’erano 500.000 italiani al fronte”.
Per poter dispiegare una tale potenza di fuoco era necessario anche costruire infrastrutture, strade, ponti, cioè quell’insieme di grandi opere proclamate pubbliche e civili che in realtà servirono per far marciare le truppe e mantenere il dominio militare.
Per questo il regime fece trasferire in Africa Orientale Italiana (Eritrea-Etiopia-Somalia) tra il 1935 e il 1941 circa 200.000 operai italiani.
In gran parte erano braccianti disoccupati delle regioni del Meridione e del Nord Est o borghesi arruolatisi spontaneamente nella Milizia Volontaria che decisero di far fortuna nel nuovo impero. Tutti però si tennero ben lontano dal pericoloso entroterra. Si stanziarono nei centri urbani principali, dove si trovava il 90% della comunità italiana svolgendo mestieri tipici al servizio degli altri italiani: negozianti, albergatori, ristoratori, locandieri, meccanici, camionisti.
Anche la repressione della resistenza in Abissinia condotta dal Maresciallo Rodolfo Graziani, dopo aver ottenuto fama e onore in seguito alle gesta di ‘pacificazione’ della Libia, presenta aspetti di avanguardia che culminarono nel maggior eccidio di religiosi cristiani mai avvenuto in terra africana e ricordato come “l’olocausto nero”.
E’ da rispettare nei ricordi altrui e da iscrivere nella nostra memoria, il significato che continua ad assumere la data del calendario etiope Yekatit 12 corrispondente al 19 Febbraio, Giornata di Lutto Nazionale celebrata nella Repubblica Federale Democratica di Etiopia in memoria delle vittime dei massari compiuti dal colonialismo italiano nel 1936, come altra metà e faccia oscura del 25 Aprile 1945 italiano. (continua)
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Franco Ferioli, l’inviato di Ferraraitalia nel tempo e nello spazio, è autore e curatore di Controinformazione, una nuova rubrica. C’è un’altra storia e un’altra geografia, i fatti e misfatti dell’Occidente che i media preferiscono tacere, che non conosciamo o che preferiamo dimenticare. CONTROINFORMAZIONE ci racconta senza censure l’altra faccia della luna: per leggere tutti gli articoli della rubrica clicca[Qui]
Oltre confine, in Africa, in Etiopia, la data italiana del 25 Aprile 1945 e la celebrazione della giornata di Festa Nazionale per la democrazia, la libertà e l’indipendenza contro il fascismo, la dittatura e la guerra, ha un sinonimo nel 5 Maggio 1941 e un contrario nel 19 Febbraio 1937.
Ciò che emerge dalla corrispondenza tra le giornate di Festa per la Liberazione Nazionale – sia della Repubblica Italiana che della Repubblica Federale Democratica d’Etiopia e dalla discordante Giornata di Lutto Nazionale in memoria delle vittime dei massacri compiuti dal colonialismo italiano -, è che i cittadini della Repubblica Italiana e della città di Ferrara non hanno ancora fatto i conti con il proprio passato coloniale.
La nascita, l’affermazione, la sconfitta e le conseguenze politico-sociali imposte dal regime dittatoriale fascista continuano ad essere giustamente ricordate ma solo a metà con il risultato che le dominazioni in Libia, Etiopia, Eritrea e Somalia non sono mai entrate nel dibattito pubblico nazionale e il popolo italiano è rimasto l’unico a non fare i conti con il proprio passato coloniale, razzista e militarista.
Sarebbe come dire che il colonialismo e il razzismo italiano non si sono mai seduti sul lettino dello psicanalista autoconsiderandosi malati immaginari o tuttalpiù alunni indisciplinati volutamente assenti da ogni lezione di storia.
Un’accettazione più ampia nella nostra coscienza di un passato scomodo da digerire come invasori, colonizzatori e imperialisti, oltre che di fascisti, forse ci darebbe la volontà di guardare al presente e al futuro del nostro paese con occhi diversi e ci consentirebbe di comprendere che l’oppressione è un meccanismo perverso, biunivoco e onnivoro che non finisce quando la vittima se la scuote di dosso, ma quando la ripudia anche il carnefice.
I cittadini della Repubblica Italiana e di Ferrara non hanno mai fatto i conti con il proprio passato coloniale e non intendono farlo nemmeno ora che il resto dell’Occidente lo sta facendo per capire l’origine dei fatti che hanno scatenato le proteste del movimento Black Lives Matter, nemmeno ora che il Mare Mediterraneo si è trasformato in un mare di morte per migliaia di profughi civili e neanche adesso che Ferrara rischia di tornare ad essere una città-ghetto intollerante e razzista.
Tutti sembriamo esserci dimenticati che per 75 anni, dal 1885 al 1960, il nostro Paese ha dominato militarmente gli abitanti di quattro Stati africani: Eritrea, Somalia, Libia, Etiopia oltre che Albania, Dodecaneso, Seseno e Anatolia.
Quella stagione, iniziata 115 anni, fa non è mai entrata davvero nella nostra conoscenza e nella nostra coscienza.
Il 23 ottobre 2006 un piccolo gruppo di deputati ha presentato alla camera una proposta di legge, non approvata, per istituire un “Giorno della memoria in ricordo delle vittime africane durante l’occupazione coloniale italiana”, in riferimento alle oltre 500mila vittime della dominazione.
Nel luglio del 2019 il Sottosegretario di Stato al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale del Movimento Cinque Stelle, Manlio Di Stefano, ha scritto su Facebookche “non abbiamo scheletri nell’armadio, non abbiamo una tradizione coloniale, non abbiamo sganciato bombe su nessuno e non abbiamo messo il cappio al collo di nessuna economia”. Forse nega che l’Italia sia stato un Paese coloniale perché non ha subìto un processo di Norimberga, nonostante sia stata accusata dall’ONU di aver commesso crimini di guerra su popolazioni civili.
Forse perché non ha letto le opere di Jean Paul Sarte o di Frantz Fanon. Forse perché il suo movimento politico e gli altri partiti politici italiani non hanno mai avuto come oppositori e antagonisti un Nelson Mandela o un Ghandi o non sono stati in grado di comprendere la statura morale di un Haile Selassiè o la dignità di un Omar el Mukhtar. O forse perché l’Italia ha invece avuto Indro Montanelli e Ferrara Nello e Folco Quilici.
Indro Montanelli, volontario nella guerra di Etiopia, così si esprimeva nel 1936: ”Non si sarà mai dei dominatori, se non avremo la coscienza esatta di una nostra fatale superiorità. Coi negri non si fraternizza. Non si può, non si deve. Almeno finché non si sia data loro una civiltà”.
Successivamente, Montanelli divenne antifascista prima che la seconda guerra mondiale finisse e ciò gli costò la prigione e il rischio di essere fucilato. Ma questo non gli impedì, quasi alla fine della sua lunga vita, quando era diventato un’icona del giornalismo italiano e persino un martire dell’anti-berlusconismo, prima di negare poi di ricredersi in merito all’impiego dei gas nella guerra d’Etiopia.
Non soltanto per un vezzo autobiografico (era stato comandante del 20°battaglione eritreo nel 1935), quanto probabilmente in nome di quel fondo razzista da cui molti intellettuali italiani non sono mai stati immuni.
Montanelli parlava di un esercito italiano mite e cavalleresco, perché lui, avendo partecipato alla guerra in Etiopia, “se lo ricordava così” e di fronte alle inconfutabilità delle prove sull’impiego di gas nervini, persecuzioni, rappresaglie, massacri di civili e religiosi, Montanelli se la cavava sostenendo che, al solito, gli ordini di Mussolini non erano rispettati, e che quindi in Etiopia, in merito a una forma di salvifica negligenza o di ammirevole insubordinazione, non ci fu nessun sterminio.
Folco Quilici, nel sostenere pubblicamente il buonismo dei colonizzatori fascisti, non contava solo su di un vezzo ma anche su di una discendenza autobiografica, essendo figlio di Nello Quilici, giornalista e direttore del quotidiano ferrarese Corriere Padano che, poco prima di rimanere anche lui vittima dell’abbattimento dell’aereo pilotato da Italo Balbo in qualità di Governatore Generale della Libia sui cieli della Cirenaica nei pressi di Tobruk, nel suo saggio La difesa della razza, uscito nel settembre 1938 su Nuova Antologia, manifestò il suo sostegno alle leggi razziali.
Il primo a chiarire perfettamente come l’Italia non abbia mai fatto i conti fino in fondo con il colonialismo e il razzismo della sua storia recente è stato Angelo del Boca, cioè colui che in maniera sistematica ha condotto un’indagine storica dalla quale sono emersi i due poli entro cui circoscrivere un’analisi esaustiva: da un lato la mancata assunzione di responsabilità e non ammissione di colpevolezza; dall’altro l’affermazione di un concetto di razzismo innocuo mosso da esotismo esteriore. Marie-France Courriol, in Più turista che fascista. Mémoire coloniale et figure du soldat dans le cinéma italien contemporain, (Martine Bovo Romoeuf/ Franco Manai), sostiene che la persistenza e il radicamento, a tutti i livelli della società italiana, del mito degli italiani brava gente, colonizzatori sì, ma non cattivi, vittime loro stessi più che aguzzini e carnefici, trova una patente dimostrazione in due film di successo, che a distanza di anni sono stati comunque tra i pochi – oltre a Tempo di Uccidere di Giuliano Montaldo (1989) tratto dall’omonimo romanzo di Ennio Flaiano (premio Strega nel 1947) – ad affrontare il tema del passato coloniale italiano: Mediterraneo, (1992) di Gabriele Salvatores e Le rose del deserto (2006) di Mario Monicelli.
In realtà esiste un film che parla del colonialismo italiano, ma non è stato prodotto nel nostro Paese.
Si tratta de Il leone del deserto (1981) che racconta la storia di Omar al-Mukhtar il guerrigliero libico che guidò la resistenza anticoloniale contro gli italiani negli anni Venti ed è considerato in Libia, nel Magreb e in gran parte del mondo arabo, un partigiano e un eroe nazionale.
In Italia il cult-film libico/statunitense è stato censurato per decenni, grazie anche al giudizio di Giulio Andreotti. in quanto “lesivo dell’onore dell’esercito italiano”. Solo nel 2009 è stato trasmesso dall’emittente satellitare Sky in occasione della prima visita ufficiale del leader libico Muammar Gheddafi in Italia, che si presentò all’aeroporto di Ciampino accompagnato dall’anziano figlio di al Mukhtar con appuntata al petto la fotografia storica che ne ritraeva l’arresto pochi giorni prima di essere condannato a morte e impiccato.
“La foto di Al Muktar è come la croce che alcuni di voi portano: il simbolo di una tragedia”: così Gheddafi rispose ai giornalisti che lo interpellavano in merito alla foto. Forse per questo qualcuno si è ricordato che tra il 1929 e il 1930 il Maresciallo Pietro Badoglio e il generale Rodolfo Graziani ebbero l’incarico da Benito Mussolini di ‘pacificare’ le due zone della colonia ancora non dominate: il Fezzan e la Cirenaica.
Tradotto: i due militari ebbero il via libera per sterminare brutalmente la resistenza armata libica spopolando intere regioni.
Come riporta Del Boca, per togliere sostegno alla ribellione anti italiana, centomila abitanti che abitavano nelle oasi dell’altopiano di Gebel el-Achdar furono deportati in massa dalla Cirenaica in tredici campi di concentramento allestiti nella zona sabbiosa e inospitale della Sirtica. In gran parte erano donne, anziani e bambini.
Le esecuzioni sommarie per chi si attardava lungo il tragitto forzato di mille chilometri, la mancanza di cibo e di acqua ne portò alla morte la metà e le vittime civili furono cinquantamila.
Questa non è stata la prima deportazione di massa attuata dal governo italiano in Libia. La prima avvenne nel 1912 quando migliaia di ribelli libici considerati pericolosi furono trasferiti in modo coatto in esilio in vari centri di detenzionenelle isole del nostro Paese: le Tremiti, Ustica, Ponza, Ventotene. Lì morirono in molti ammassati in luoghi malsani inadatti a ospitare grandi quantità di persone, un sovraffollamento simile ai centri di identificazione ed espulsione dei migranti di oggi.
Sulla realtà coloniale italiana esiste anche un film mai fatto, in seguito alla censura, denuncia, condanna e all’arresto dei suoi sceneggiatori. Nel febbraio 1953 il numero 04 della rivista Cinema Nuovo, diretta da Guido Aristarco, pubblicò una proposta di film del critico cinematografico Renzo Renzi sulla guerra in Grecia, alla quale prese parte.
Saccheggi, fucilazioni, ma soprattutto vita nei bordelli e conquiste di donne costrette a cedere per fame, ecco, per l’autore, la visione più vera di un conflitto assurdo, condotto con passaggi da operetta, nel quale alcuni soldati, mal guidati, diedero sfogo al tipico istinto maschile italiano: il gallismo, che portò ad indicare le nostre truppe come l’Armata s’agapò che in greco significa Armatati amo. Una sceneggiatura pacifista, autocritica, che aprì un dibattito intellettuale su come trasferire sugli schermi la guerra, fuori dalla retorica, ma che sette mesi dopo provocò arresti per vilipendio alle Forze Armate e la traduzione degli inquisiti al Carcere Militare della Fortezza di Peschiera, nell’ambito di un procedimento condotto nei confronti di due cittadini in borghese sulla base della lettura del codice militare del 1941.
Renzi, già sottotenente, e Aristarco, già sergente, entrambi in congedo non definitivo, appartenevano giuridicamente alle Forze Armate e pertanto potevano essere processati dalla giurisdizione militare per un reato previsto non solo dal codice penale ma anche da quello marziale. E nulla cambiava che l’Esercito vilipeso fosse quello di Mussolini e non quello della repubblica democratica perché, per la Procura Militare, la caduta del fascismo non aveva travolto la Patria, che “c’è ora e c’era allora, indipendentemente dalla forma di governo”.
Dopo un mese di detenzione, il processo durò dal 5 all’8 ottobre e la Corte inflisse a Renzi una pena di 7 mesi e 3 giorni di carcere e la rimozione dal grado, ad Aristarco di 6 mesi.
Trentanove anni dopo, nel 1992, Mediterraneo di Gabriele Salvatores, vinse il Premio Oscar quale miglior film straniero, ispirandosi alla sceneggiatura dell’Armata s’agapò di Renzo Renzi.
Da allora non sono pochi gli italiani che ricordano l’avventura della Campagna di Grecia, ma molti di meno sono quelli che hanno idea di cosa fecero gli italiani in Africa Orientale dopo la conquista del 1936 in termini di ‘emergenza erotica’, così definita dal momento che arrivarono decine di migliaia di uomini italiani, soli o liberi dalle spose o compagne rimaste in Italia, che occuparono stabilmente i bordelli locali, frequentando le prostitute indigene e rendendo il fenomeno di gravità tale da essere considerati inappropriati per un regime che intendeva creare una società coloniale ‘razzialmente pura’.
Il tipo di unione mista più frequente era il cosiddetto madamato cioè la convivenza con una concubina africana in more uxorio. La separazione razziale auspicata dal regime era inoltre solo virtuale poiché la costruzione degli ipotetici quartieri per soli bianchi progettati dal piano regolatore fascista fu lentissima e soprattutto incapace di sostenere la crescente domanda. Non c’erano case per tutti e per questo moltissimi italiani, soprattutto i lavoratori, andarono a vivere nelle capanne pagando affitti agli indigeni e vivendo a stretto contatto.
Non a caso l’inno dei coloni italiani dell’epoca diventò Faccetta Nera, una canzone che rappresenta la sessualizzazione dell’impresa coloniale. “Allo sguardo europeo la donna colonizzata appariva come poco più che un animale e una donna dai costumi facili disponibile e sottomessa, molto diversa dalla donna europea”, spiega Emanuele Ertola in In terra d’Africa. Gli italiani che colonizzarono l’impero (Laterza). E continua: “(…) ma a un certo punto, dopo il 1935 il regime iniziò a guardare con sospetto Faccetta Nera perché considerava inaccettabile l’aumento considerevole dei figli italo-africani che a lungo andare avrebbero alterato l’ordine sociale e razziale che richiedeva netta separazione e tra dominatori e dominati”.
Ecco quindi che il regime fece circolare una nuova versione della canzone, con la stessa metrica e musica, ma parole diverse. Il titolo era ‘Faccetta bianca’ e il testo leggermente modificato faceva: «Non voglio più cantar faccetta nera / non voglio più sentir bella abissina / perché la donna nostra è più carina / e piena d’ogni pregio e qualità». E proseguiva con versi quali: «Faccetta nera per carità! / solo la bianca è la regina di beltà».
La canzone fu pubblicata la prima volta su un opuscolo per operai italiani in partenza per l’Africa Orientale Italiana a cura della confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, intitolato Orgoglio di popolo nel clima dell’Impero, in cui si catechizzavano gli operai sui danni degli ‘incroci umani’ sia a livello sociale che biologico, per poi arrivare al punto: “le donne bisogna lasciarle stare”. E come? “Innanzi tutto, soffocare gli istinti bruti […] ascoltando la voce gagliarda della propria anima italiana, lasciandone libero il senso di superiorità e di orgoglio che duemila anni di storia e i fatti recentissimi alimentano”.
L’opuscolo cercava di fare ipocritamente appello al rispetto della moralità e della dignità delle donne nere spaventando i bianchi con lo spauracchio delle malattie veneree.
Nel 1937, un anno prima delle leggi contro gli ebrei, il governo italiano promulgò le leggi contro gli uomini e le donne africane per evitare il madamismo e gli incontri promiscui nelle colonie. Scrive Emanuele Ertola: “Il regime cercò anche di importare in Etiopia delle prostitute bianche italiane, oppure convincendo in maniera più o meno spontanea, moltissime impiegate del Ministero delle Colonie ad andare a vivere a lavorare nelle colonie in modo che si popolassero di giovani italiane nubili”.
Negli ultimi tempi i media, quando hanno parlato di colonialismo, lo hanno fatto per riportare la notizia della statua di Indro Montanelli a Milano che viene regolarmente imbrattata, perché il giornalista raccontò più volte senza pudore di aver comprato come moglie una 12enne durante la campagna d’invasione fascista in Etiopia nel 1936 e di aver consumato con lei numerosi rapporti sessuali.
In un’intervista rilasciata a Enzo Biagi per la Rai nel 1982 Montanelli racconta: “Aveva dodici anni… a dodici anni quelle lì [le africane, ndr.] erano già donne. L’avevo comprata dal padre a Saganeiti assieme a un cavallo e a un fucile, tutto a 500 lire. Era un animaletto docile, io gli misi su un tucul con dei polli. E poi ogni quindici giorni mi raggiungeva dovunque fossi assieme alle mogli degli altri ascari…arrivava anche questa mia moglie, con la cesta in testa, che mi portava la biancheria pulita”.
Una volta spente le polemiche, il colonialismo ritorna nel dimenticatoio e di quel periodo rimane solo qua e là qualche lontana eco nel nome dato alle nostre vie o alle nostre piazze, senza che nessuno sia in grado di ricordare a chi siano riferite e cosa rappresentino: è il caso, ad esempio, di Piazza dei Cinquecento a Roma dedicata ai soldati italiani caduti nella battaglia del 1887 a Dogali, in Eritrea. O lascia traccia in qualche modo di dire: “E’ stato un Ambaradan”, e non sappiamo che il riferimento è alla carneficina della cruenta battaglia del 1936 per la conquista dell’altopiano dell’Amba Aradam in Etiopia dove le forze italiane composte da soldati e camicie nere usarono proiettili e granate all’arsina e al fosgene ed effettuarono bombardamenti aerei con gas di iprite anche sulle popolazioni civili.
Qualche eco lontana giunge talvolta da Affile, dove sopravvive alla rabbia di molti l’ignobile mausoleo dedicato a Graziani, e qualche lontano ricordo potrebbe far riaffiorare le prese di posizione ostili alla restituzione dell’obelisco di Axum. (continua)
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Franco Ferioli, l’inviato di Ferraraitalia nel tempo e nello spazio, è autore e curatore di Controinformazione, una nuova rubrica. C’è un’altra storia e un’altra geografia, i fatti e misfatti dell’Occidente che i media preferiscono tacere, che non conosciamo o che preferiamo dimenticare. CONTROINFORMAZIONE ci racconta senza censure l’altra faccia della luna: per leggere tutti gli articoli della rubrica clicca[Qui]
In copertina: mappa della “Grande Italia”, i territori in rosso dovevano far parte del territorio italiano, in giallo i territori dell’Impero e le conquiste territoriali italiane nel 1942 (Wikimedia Commons)
La bugia e l’ipocrisia sono due cose diverse. La bugia, nel bambino, è considerata parte del suo processo evolutivo. Attraverso la bugia il bambino costruisce un proprio spazio segreto, che si riempie di sentimenti o emozioni che ha paura di mostrare. La manifestazione della malizia nel bambino che mente genera una specie di benevola meraviglia, di quando si scopre il mondo immaginario che è riuscito a creare dietro la bugia.
L’ipocrisia è l’atteggiamento di una persona che volontariamente finge di possedere ideali, principi, sentimenti che in realtà non possiede. Essa si manifesta quando la persona tenta di ingannare altre persone con tali affermazioni. In questo caso l’inganno è adulto, perchè ha perduto ogni innocenza.
Nella vicenda del fallito golpe del calcio europeo siamo al cospetto di attori che non sono semplicemente bugiardi, ma ipocriti. Gente che dichiara di difendere principi e ideali di purezza e sportività, quando in realtà sta difendendo i propri lauti guadagni. Tale Alexander Ceferin, presidente dell’Uefa, nel 2020, in piena epidemia mondiale da Covid, si è aumentato lo stipendio di 450.000 euro. Adesso si mette in saccoccia 2,2 milioni di euro l’anno, senza premi perchè, in pandemia, è immorale percepire premi (prima gigantesca manifestazione di ipocrisia: trasformo un compenso variabile in fisso facendo finta di seguire un principio morale). Ceferin infama l’ex amico Andrea Agnelli, presidente della Juventus e coautore del tentato “colpo di stato” della Superlega Europea, dicendo cose enormi: tipo che siccome Agnelli spegne il telefono per non farsi trovare mentre prepara la dichiarazione secessionista dei 12 club fondatori del golpe, il suo comportamento è peggiore di quello dei criminali di guerra che Ceferin si è trovato a difendere nella sua carriera di avvocato (complimenti). Ceferin è a capo di un organismo che introduce la regola del fair play finanziario, e poi permette a Manchester City, Paris Saint Germain ed altri di spendere l’inimmaginabile per creare squadre invincibili (che comunque non vincono sempre, perchè l’imponderabile nel calcio continua ad esistere, malgrado tutto e malgrado l’Uefa). Sempre Uefa è precisamente l’organismo che ha, di fatto, creato una Superlega di ricchi e potenti che detengono il monopolio del calcio professionistico, pagando cifre indecenti per ingaggiare i migliori allenatori e giocatori (non crederete mica che i migliori calciatori del mondo vengano a giocare in Europa perchè ha i migliori monumenti, vero?).
Poi succede l’imponderabile, stavolta un imprevisto planetario, non sportivo: il mondo è costretto a fermarsi a causa di una moderna peste chiamata Covid-19. Fine degli incassi da pubblico allo stadio, perchè gli spalti devono rimanere vuoti, per ragioni sanitarie. Fine di buona parte dell’indotto da merchandising, perchè la battaglia sportiva è meno attraente senza un’arena di tifosi urlanti. Riduzione dell’appeal televisivo, che inevitabilmente porta ad una contrazione dei guadagni da incasso dei diritti televisivi, della pubblicità e delle sponsorizzazioni. Le 12 società secessioniste non fanno altro che cercare di massimizzare i profitti di un circo che spende tanto, ma non incassa, secondo loro, abbastanza per quelle che sarebbero le sue potenzialità (e soprattutto non incassa abbastanza per ripianare i soldi già spesi). La NFL (lega nordamericana di football, quella del Superbowl) ha firmato nuovi accordi sui diritti tv con Cbs, Nbc, Fox, Espn e Amazon per un valore complessivo di 110 miliardi di dollari. La NBA (basket statunitense) fattura 8 miliardi l’anno.
La Champions League nel triennio 2018-2021 ha fatto entrare nelle casse dell’Uefa 1,5 miliardi di euro, pari a 1,8 miliardi di dollari. Il calcio in termini di spettatori ha il triplo dei numeri dell’NFL e il doppio dell’NBA. Ma i diritti tv e gli introiti da pubblicità rendono molto meno. Inoltre l’UEFA retrocede ai club una quota dei ricavi ben lontana dal totale. Non capisco cosa ci sia di strano, dentro questa logica drogata, se le società che producono lo spettacolo più visto al mondo decidono di mettersi in proprio. La stranezza casomai è che non ci abbiano pensato prima. Adesso è diventato inevitabile non solo pensarlo, ma farlo, dal loro punto di vista, perchè la pandemia ha distrutto i bilanci dal lato delle entrate, e i prossimi introiti servirebbero anzitutto a ripianare debiti destinati altrimenti a diventare inesigibili. In questa situazione, l’appoggio finanziario di JP Morgan al progetto Superlega rivela più di tante chiacchiere.
La spettacolarizzazione spinta all’eccesso che sta dietro a questa idea persegue lo scopo di perpetuare la folle macchina degli ingaggi faraonici. Lo scopo, candidamente dichiarato (e qui Florentino Perez è molto meno ipocrita di Ceferin), è anche quello di poter continuare a dare 12 milioni di euro a Pep Guardiola, 16 milioni a Jurgen Klopp, 31 milioni a Cristiano Ronaldo. Quando sento Klopp dichiarare che non si fa una cosa del genere “contro i tifosi”, o Guardiola affermare: “lo sport non è sport quando non c’è un rapporto fra sforzo e ricompensa: tutti pensano a loro stessi”, francamente mi viene la nausea. Tutti pensano a loro stessi? Certo, e i primi sono loro. Fossero intellettualmente onesti, dovrebbero avere la decenza di tacere, perché questo putsch mira a tutelare anche le loro tasche, dalle quali tracimano milioni di sterline, euro, o franchi svizzeri. Invece si ergono a paladini del “calcio pulito”, competitivo, nel quale conta solo il merito sportivo.
La fiera mondiale dell’ipocrisia. Ce ne fosse uno, di questi paladini del calcio pulito, che dichiari di essere disposto a diminuire il proprio ingaggio, come sta succedendo a qualunque persona normale con uno stipendio normale in tempi di Covid. La scelta di una maggiore sobrietà sarebbe l’unico modo per conferire un briciolo di credibilità a certi discorsi ammantati di purezza. Invece, col piffero: molto meglio tuonare contro gli ammutinati e salvarsi coscienza e portafoglio.
Non vi bastano gli esempi citati? Sapete cosa guadagna Diego Simeone per allenare l’Atletico Madrid? 22 milioni netti. Sapete cosa ha dichiarato? “Considero il dietro-front e le scuse dell’Atletico Madrid dei grandi gesti. Il presidente ci ha spiegato i propri dubbi, credo che alla fine abbia fatto bene, sia nei nostri confronti che davanti ai tifosi”. Peccato che Florentino Perez, presidente del Real Madrid, abbia appena ricordato che tutte le 12 società non si sono accordate al bar dopo una sangria di troppo, ma hanno firmato un regolare contratto per aderire alla Superlega. Peccato che Joan Laporta, presidente del Barcellona, abbia appena dichiarato che “la Superlega esiste ancora”, e che “è assolutamente una necessità”. Sono i presidenti delle due società che fatturano più ricavi al mondo, e hanno assoluto bisogno di rientrare per non fallire. Come la mettiamo?
La cosa più maleodorante è il continuo richiamo al “rispetto per i tifosi”. Se i tifosi, così innamorati della tradizione (la gloriosa Coppa dei Campioni cui accedeva solo la vincitrice del campionato) e del merito da gettarsi a capofitto su una Champions League che imbarca la seconda, la terza e la quarta classificata del campionato nazionale, volessero davvero farsi rispettare, dovrebbero smettere di spendere fortune per il calcio. Smettere di abbonarsi, smettere di sottoscrivere pacchetti satellitari o streaming, smettere di pagare cifre scellerate per un biglietto.
Ma i tifosi non lo faranno, esattamente come è successo per il passaggio dalla Coppa alla Champions. Perchè i tifosi si sono trasformati in clienti, consumatori, e la loro è una dipendenza, esattamente come il tossico dipende dal suo spacciatore. E quando sei dipendente da una cosa, sei disposto a tutto per averla. Florentino Perez, Joan Laporta, Andrea Agnelli e gli altri secessionisti (ora pentiti per finta), lo sanno benissimo. Quello che vogliono fare è sostituire il loro cartello a quello di Ceferin, che non rende abbastanza. Prendere direttamente in mano la gestione dello spaccio, e controllare il territorio senza intermediari.
Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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25 APRILE
Nonno mio
A chi hanno lasciato
Il loro testamento
I partigiani?
Soprattutto l’hanno fatto?
Non si trova
Non è scritto da nessuna parte
Tutti assetati della eredità
A litigare chi è più erede dell’altro
Ma non si trova
Nessuno studio notarile
Freddo come la necessità
La conserva
Nessuna banca ignara
Come le catene di montaggio
La custodisce
Non si trova
No nemmeno nel vento
Niente
Nessun libro parla
Racconta
Tramanda
Accanto al fuoco
Immagini tante
Tante immagini
Parole valanghe
Visi senza oblio
Che combatterono
Con ogni mezzo
Persino la pace
Anche per chi era contro
E continua a essere contro
Ma non si trova
Non si trovano
Ne’ l’eredità
Né il testamento
Poi in questo giorno
D’aprile
Di festa
E di tempesta
Nei suoi pressi
Un attimo
E li ritrovi
Dove sono
E saranno sempre
Nonno
Pare che le mura di Ferrara fossero assai costose, come quelle di Strasburgo e di Orleans, insomma non alla portata delle tasche di tutte le città e dei loro governanti. Osservazione questa che François Rabelais mette in bocca a Pantagruele nel libro secondo, capitolo quindicesimo del suo Gargantua e Pantagruele. Oggi fortunatamente se le Mura costano è per la loro manutenzione, per preservarne il valore storico e non per altro.
Come racconta Agesilao, che ne fu re, a Sparta la muraglia vera era costituita dalla potenza dei suoi abitanti. Ora anche da noi le mura sono di carne ed ossa, con Naomo Lodi, assessore alla Sicurezza e recentemente anche all’Urbanistica, con spiriti fieri e arditi come l’onorevole Sgarbi, che ci ha procurato la Maestà sofferente, la quale, trafitta d’aghi, pare collocata apposta nel piazzale della Fiera, come icona dell’hub d’eccellenza per la vaccinazione di massa dei nostri concittadini.
Questo è il racconto che della città offre l’attuale amministrazione. La fisicità al posto delle idee: le politiche urbane sono Naomo Lodi, le politiche culturali Vittorio Sgarbi con i suoi replicanti.
Scrivendo della nostra città denunciavamo l’assenza di sinergie tra politiche culturali e politiche urbane. Ora che a Naomo Lodi il sindaco ha conferito la delega all’urbanistica sta a noi sciogliere il rebus della sinergia che intercorre tra la ruspa e la Maestà sofferente.
Intanto, a cercare per il web di racconti di città, incontro sorprese che mi piacerebbe appartenessero alla mia città, a quella che abito, a quella che vivo.
Scopro, ad esempio, che la rete mondiale Unesco delle Learning City si è arricchita delle prime adesioni italiane. È difficile essere autenticamente città di cultura se contemporaneamente non si favorisce l’eccellenza nell’apprendimento e non si coltiva una cultura dell’apprendimento per tutta la vita.
Alla rete delle learning cities aderiscono 230 città sparse in 64 paesi del mondo, tra queste Torino nel 2016, poi Fermo nel 2018, Palermo nel 2019, ora anche Trieste e Lucca. Potrebbe esserci anche Ferrara, se solo il mondo politico ferrarese avesse voluto accogliere l’invito che da anni da queste pagine rivolgiamo a chi è chiamato ad amministrare la nostra città, se solo si fosse stati disposti a leggere e comprendere il Manifesto di Ferrara Città della Conoscenza, che da anni fa bella mostra di sé sulle pagine di questo giornale.
La città che apprende in tutte le sue articolazioni vitali, capace di stendere una rete diffusa di offerte di apprendimento continuo, è un modo di pensare la città anche dal punto di vista urbanistico degli spazi e della loro fruizione. Richiede una disponibilità intelligente, capace di andare oltre la Città d’arte, prodotto da vendere sul mercato del turismo. Prodotto di consumo, ma non di investimento sulle vite di chi abita la città. Occorre una attenzione e una cura per i suoi abitanti, il loro futuro, il destino delle nuove generazioni, che non è stato mai in cima al pensiero dei nostri amministratori.
“Ci vuole una città per educare un bambino”, afferma l’Unesco. Significa che nessuna città si può sottrarre alla responsabilità della cura delle persone, dai piccoli ai grandi, alla cura della loro formazione, alla cura della loro crescita, alla cura nell’attrezzarsi di saperi. Ma tutto ciò non è possibile senza l’apprendimento permanente, senza la capacità di riconoscere il bisogno e il desiderio di apprendere. L’epidemia ha dimostrato quanto fossimo scoperti su questo fianco.
Città che apprende significa elevato tasso di istruzione, presenza diffusa di musei e biblioteche, enti scientifici di alta formazione, università di alto livello, densità di teatri e di eventi culturali, urban center, luogo di imprese innovative, scambio di conoscenze di settori diversi, città che include i giovani come stakeholder attivi e significativi nella creazione dei suoi progetti. Chiamare tutte le anime del territorio ad aderire al Patto per l’apprendimento, apprestare un tavolo di coordinamento per progettare nuove iniziative.
Nel frattempo, lo scorso 26 marzo, Torino, Fermo, Palermo, Lucca e Trieste hanno dato vita al coordinamento nazionale delle Città Unesco dell’Apprendimento, impegnandosi alla realizzazione degli obiettivi dell’Agenda 2030per lo sviluppo sostenibile. Il coordinamento nazionale ha inoltre proposto il “patto cittadino per l’apprendimento permanente”, che si rivolge a tutti gli attori del territorio in modo da far incontrare istruzione formale, non formale e istruzione informale. Molto di più dei patti educativi e delle comunità educanti vanamente invocati dal ministro dell’istruzione per far fronte all’emergenza scolastica.
Di grande interesse è la proposta del coordinamento di sperimentare l‘approccio STEAM (Science, Technology, Engineering, Art, Mathematics), un modello innovativo di apprendimento che sta riscuotendo un crescente successo internazionale e che può essere esemplificato nello slogan ‘La Scienza spiegata con l’Arte’.
A quel tavolo di coordinamento avrebbe potuto sedere anche la nostra città, se ci fosse stato ascolto, se politiche culturali e urbane non fossero state svuotate della loro essenza, dell’attenzione ai bisogni delle persone, della cura per le generazioni che crescono. Se solo si abbandonasse l’idea che le politiche culturali ed urbane servono solo ad esibire la città, quando invece è sempre più necessario un approccio incentrato sulle persone, orientato all’apprendimento permanente per consentire di lavorare insieme, attrezzati dal punto di vista delle conoscenze per affrontare in un quadro collaborativo le sfide legate allo sviluppo sostenibile della città.
Per leggere gli altri articoli di La città della conoscenza, la rubrica di Giovanni Fioravanti, clicca[Qui]
Dal punto di vista figurativo, un ‘ponte’ è un periodo di più giorni di vacanza ottenuto inserendo tra due festività, vicine ma non consecutive, un giorno feriale intermedio. A Ferrara oggi è giorno di ponte fra il 23 aprile (festa di San Giorgio, patrono della città) e il 25 aprile (Festa della Liberazione).
Dal punto di vista letterale, un ponte è un’opera umana che serve per superare un corso d’acqua.
A Ferrara di ponti ce ne sono diversi; quello nel tratto di via Ippolito d’Este che attraversa il Po di Volano si chiama “Ponte della pace” e dal 29 marzo 2019 quel ponte è intitolato ad Altiero Spinelli.
A Ferrara, stamattina presto 24 aprile, giorno di ponte, ho camminato sul “Ponte della Pace”.
Lì ci sono due targhe di marmo dedicate ad Altiero Spinelli: una è ben conservata, l’altra invece è stata brutalizzata da qualche sedicente artista. Avrei ben altre definizioni per l’autore di questa bestialità, ma non so chi sia, anche se immagino che durante questi suoi gesti senta dentro di sé una sorta di forza nuova che gli fa scegliere di usare soprattutto il colore nero per manganellare la memoria di un uomo importante.
Per opportuna conoscenza, ricordo che Altiero Spinellifu carcerato a 19 anni e rimase in galera quasi 10 anni perché antifascista.
Fu poi confinato e costretto a rimanere a Ponza e a Ventotene per circa 6 anni; in quest’ultima isola, insieme ad altri, elaborò il “Manifesto per un’Europa Libera e Unita”, conosciuto come “Manifesto di Ventotene”.
Liberato nel 1943, dopo l’arresto di Mussolini, Altiero Spinelli fondò il Movimento Federalista Europeo e prese parte alla Resistenza.
Dal punto di vista storico, l’autore delle scritte non può non sapere che, in un periodo nero della nostra storia, quel ponte si chiamava “Ponte dell’impero”.
Dal punto di vista simbolico, l’autore è ben consapevole di aver recato offesa alla città.
Dal punto di vista artistico, l’autore può considerarsi uno sporco che sporca.
Dal punto di vista fiscale, l’autore dovrebbe risarcire il Comune di Ferrara per le spese che, voglio sperare, impegnerà presto per la pulizia di questo scempio.
Confido davvero che questa amministrazione si impegni a ripulire quella targa, perché dal punto di vista metaforico, un ponte mette in comunicazione mondi diversi; dal punto di vista poetico, un ponte rappresenta la fiducia nell’altro; dal punto di vista politico, a Ferrara il ponte della Pace dedicato ad Altiero Spinelli ha un valore molteplice per tutta la nostra comunità: di pace, di antifascismo e di unione dei popoli europei.
“Donna eccezionale”: così Papa Montini definì Teresa d’Avila in occasione della sua proclamazione a Dottore della Chiesa. Un’espressione ripresa e rilanciata oggi nel 50° anniversario di quell’evento da papa Francesco nel messaggio al Congresso internazionale dell’Università cattolica della città castigliana. In esso risuona l’invito a evidenziare alcuni tratti di un’eredità spirituale e di uno stile ecclesiale tutto al femminile, decisivo anche per la chiesa di oggi nel suo processo di riforma e ripresa delle istanze ancora incompiute avviate dal Concilio Vaticano II come la sinodalità e la ministerialità delle donne.
Riformatrice della spiritualità carmelitana, fondatrice di nuove comunità, Teresa scrisse la storia della sua vita (Libro de mi vida) e del suo itinerario spirituale e mistico (Cammino di perfezione e Il Castello interiore) tra censure, sospetti, contrasti e difficoltà. Tutto ciò non le impedì però di testimoniare la sua esperienza di fede e lo stile innovativo della sua preghiera fondata e vissuta sulla scoperta dell’umanità di Cristo nella propria vita come viatico, pane del cammino, per raggiungere lui e «trasformarsi in lui», pane vivo, pane spezzato, pane eucaristico, pane dei poveri.
Tale lo ebbe a sperimentare nella forma dell’ “orazione mentale” di cui ne indicò le tappe come dimore, attraversando le quali raggiungere una graduale e vieppiù profonda intimità unitiva, sponsale e mistica al Cristo: «Per me l’orazione mentale non è altro se non un rapporto d’amicizia, un trovarsi frequentemente da soli a soli con chi sappiamo che ci ama», (Vida, 8,5). Ma non meno tenace fu l’azione di Teresa nel far valere la sua dignità femminile nella società e nella chiesa del suo tempo, in cui alle donne veniva persino proibito la lettura di libri spirituali e ogni genere di formazione culturale: «Pensino a filare, girando la ruota… e si contentino dell’Ave Maria e del Pater noster»: “Que hilen” e “tomen su rueca” erano infatti gli stereotipi per definire la posizione culturale e sociale della donna nella Spagna conservatrice del XVI secolo.
L’orazione resta dunque il fondamento e la chiave della sua vita, del suo magistero e della sua lotta come donna. Se lei si è battuta era proprio perché le sue figlie potessero avere il diritto di pregare “mentalmente”, liberamente cioè, senza formule, colloquiando con Dio, come lo Spirito suggerisce poiché ciò che veniva messo in questione era proprio la capacità di questa attitudine al pensare spirituale.
Non meraviglia allora che Teresa sia stata una «lettrice autodidatta» che «non apparteneva al gruppo selezionato di puellae doctae, bensì alla massa popolare di donne avide di cultura. Non scrive in latino e nemmeno in uno spagnolo elitario per colti. È in relazione con la letteratura spirituale “romanza”. Lei stessa scrive in “spagnolo popolare abulense” e promuove, all’interno del Carmelo, un movimento di cultura femminile», (T. Alvarez, Gli orizzonti di Teresa di Gesù, Roma 2012).
Ma non fu per questa ragione che negli anni venti dello scorso secolo, in piena rivalutazione dei mistici e teologi spirituali, il titolo di ‘dottore della chiesa’ concesso a Giovanni della Croce venne negato a Teresa: «Obstat sexus», fu semmai il motivo del rifiuto opposto da Pio XI. Un’autentica discriminazione, dunque, che lo spirito del Concilio vaticano II, mettendo a tema l’universale vocazione alla santità nella chiesa (LG 40) e il riconoscimento di un ‘magistero della santità’ presente in tutto il popolo di Dio, senza distinzioni di sesso, consentì di superare: «la totalità dei fedeli ‒ infatti ‒ avendo l’unzione che viene dal Santo, non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo, dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici» (LG 12).
Grazie a questa nuova coscienza di chiesa, che riconosceva in tutti i battezzati il triplice munus di Cristo, il dono/carisma sacerdotale, regale e profetico, fu quindi possibile ritenere accanto a un ‘magistero dei pastori’ anche un ‘magistero carismatico’, frutto delle grazie, delle ispirazioni e dei carismi suscitati dallo Spirito nel popolo di Dio per edificare la chiesa nella sua missione di evangelizzazione. Ogni ostacolo era rimosso affinché Teresa ‒ già proclamata beata nel 1614 e poi santa da papa Gregorio XV nel 1622 ‒ potesse essere annoverata tra i dottori della Chiesa nel 1970 da Paolo VI, insieme a Caterina da Siena.
La Vida, quella della mistica di Ávila, narra di come una donna, Teresa Sanchez de Cepeda y Ahumada, (1515-1682), nata in una famiglia benestante (il padre era figlio di un ebreo convertito), che diceva di essere «senza cultura», e soffrendo molto di non essere «letrada» (fu scrittrice tardiva, tanto che gli scritti appartengono all’ultimo periodo della sua vita) divenne “donna eccezionale”. «Eccezionale come religiosa ‒ scrisse papa Paolo VI ‒ che, tutta velata di umiltà, di penitenza e di semplicità, irradia intorno a sé la fiamma della sua vitalità umana e della sua vivacità spirituale, e poi come riformatrice e fondatrice d’uno storico e insigne Ordine religioso, e scrittrice genialissima e feconda, maestra di vita spirituale, contemplativa incomparabile e indefessamente attiva; com’è grande! com’è unica! com’è umana! com’è attraente questa figura!» (Omelia, 27 settembre 1970).
Ai piedi del Maestro, in ascolto come Maria della sua Parola, lì acquisì la docenza evangelica. Quella apostolica l’ottenne invece per amore della chiesa vissuta nella forma di una itineranza di discepola per tutta la Spagna ad infiammare di nuova profezia una chiesa paga della sua dottrina, del suo sapere e del suo potere. Instancabile come Marta nel servire al processo di rinnovamento e riforma della chiesa, non tanto nelle strutture, ma nel tessuto più profondo della sua coscienza, della sua spiritualità e umanità: “sentire cum Christo per sentire cum e in ecclesia”.
«Quando si proibì la lettura di molti libri in lingua volgare, io ne soffrii molto, perché la lettura di alcuni mi procurava gioia, e non potendo ormai più leggere perché quelli permessi erano in latino, il Signore mi disse: “Non darti pena, perché io ti darò un libro vivente”. Io non riuscivo a capire che cosa quelle parole potessero significare, non avendo ancora avuto visioni», (Vida 26,5). Quel libro era il Cristo stesso che le parlava. Così proprio lei, cui tutti volevano imporre obbedienze, censure, divieti, divenne un “Dottore” per tutta la Chiesa e, diversamente dai molti teologi ed ecclesiastici suoi contemporanei, lei salì sulla mistica cattedra, ai piedi del suo Maestro, mentre gli altri rimasero dimenticati, seduti nei banchi per essere citati, di tanto in tanto, solo da qualche storico. Questi si illusero di rinchiudere lo Spirito del risorto nuovamente dentro il Cenacolo, sprangando porte e finestre alla sua chiesa, senza rendersi conto dell’inutilità e della sofferenza provocata da quei diktat non negoziabili pronunciati in nome di Dio, mentre il suo spirito spirava altrove.
A lei, rinata dallo spirito e completamente trasformata dall’umanità del Cristo, inviata a una chiesa da riformare accadde allora ‒ come anche oggi non di rado accade con i piccoli, i poveri, gli umili, gli illetterati ‒ di essere visitata da quello spirito che Gesù descrisse come «il vento che soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito» (Gv 3,8).
La sua esperienza spirituale storicamente si colloca nella Spagna del XVI secolo nel contesto di una cristianità in riconquista e di una chiesa in controriforma. Il che non impedì ma anzi favorì il fiorire di molti movimenti spirituali che contribuirono al nascere della ‘devotio moderna’: una spiritualità che attingeva alle fonti bibliche e patristiche, fondata, non già sulle devozioni comandate, ma sul colloquio personale con Dio pervaso di affettività e incentrata sull’imitazione di Cristo.
“Nelle sue mani”: ricorre spesso questo invito nei suoi scritti a testimoniare la fiducia che lega coloro che si amano. «In me cerca te e in te cerca me», proprio ad imitazione del Figlio unigenito che si consegna con pieno abbandono nelle mani del Padre. Le mani di Gesù sono così luogo simbolico dell’incontro, dello scambio, mistico e insieme profondamente umano, il luogo in cui il Padre consegna l’umanità e l’intera creazione al Figlio e questi fa risplendere in essa l’immagine e la somiglianza infinitamente risplendente sul suo volto: «Un giorno, mentre stavo in orazione, egli volle mostrarmi solo le mani: erano di così straordinaria bellezza che non potrei descriverla. A tale vista rimasi molto sconvolta, come avviene sempre in principio, di fronte a qualsiasi nuova grazia soprannaturale concessami dal Signore. Dopo pochi giorni vidi anche quel suo divino volto e credo di esserne rimasta completamente rapita» (Vida, 28,1).
Nel vangelo di Giovanni, 3, 36 Gesù dice: «Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa», e in 13,3 è detto: «sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita». Ma che cosa, il Padre, gli ha veramente consegnato nelle mani? La riposta segue subito dopo: «Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto». Il Padre ha messo nelle mani del Figlio i nostri piedi, ciò che caratterizza l’essenziale dell’umano, dell’homo viator, il suo essere in ricerca, in cammino, pellegrino dell’assoluto, errante in questa vita come Abramo e come anche Teresa. Nel gesto della lavanda dei piedi si rivela il gesto di una comunione e fraternità da attuarsi nel servizio vicendevole, profezia di umanità e comunità nuove.
Nel Cammino di perfezione Teresa dice alle sorelle: «Cercate sempre il più perfetto. Vi scongiuro per amor di Dio di pregare il Signore affinché ci esaudisca. Da parte mia, non ho mai cessato di farlo, nonostante la mia grande miseria: si tratta della sua gloria e del bene della sua Chiesa, ed è qui che convergono tutti i miei desideri». Il desiderio di Teresa era che si testimoniasse la pienezza di vita sperimentata nel suo cammino di fede e che venisse riconosciuta la dignità delle sue sorelle e del loro servizio nella chiesa: «No, o Creator mio, Voi non siete ingrato, e sono sicura che esaudirete le loro domande. Quando eravate su questa terra, lungi d’aver le donne in dispregio, avete anzi cercato di favorirle con grande benevolenza». (Cammino di perfezione, 3,7).
Anche oggi Tersa d’Avila avrebbe scelto la clausura come forma di vita? Posso supporre di sì, anelando essa ad una esistenza tanto intensamente fraterna e allo stesso tempo tutta centrata su un’intima amicizia con Gesù, quale difficilmente si potrebbe pensare in altri contesti. E, anche se nascosta, con una sua efficacia apostolica che non ha bisogno di essere legata alle parole per essere lievito evangelico e vivissimo fermento per la Chiesa del nostro tempo.
Il nostro Carmelo, di via Borgovado 23, e le sorelle che l’abitano è lì a testimoniare che è ancora e proprio così. Fray Luis de Leon nel 1588 scriveva: «Io non conobbi né vidi la santa Madre Teresa di Gesù mentre viveva, ma ora che vive in cielo la conosco e vedo, quasi sempre, nelle due immagini vive che ci lasciò di sé e che sono le sue figlie e i suoi libri, che a mio giudizio sono i maggiori testimoni fedeli e di singolare rarità della sua grande virtù».
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Muzio Chiarini ricorda un episodio del passato ovvero la morte di un operaio, coetaneo dell’autore, avvenuta in una fabbrica del suo paese: il grido indicibile, il corpo inerte, la desolazione intorno. I versi serrati del poeta emozionano ancora. Quasi un monito: come allora morti bianche, incidenti sul lavoro e norme di sicurezza disattese sono tutt’oggi troppo spesso frequenti.
Poesia 1° classificata al XIII Concorso Letterario MARIO ROFFI in vernacoli provinciali 2009 – Ferrara. (Ciarìn)
Al caminóη
Al jéra meźdì iη punt
d’un dì d’agost caldìsim,
quand uη vèrs straziànt
l’à rimbumbà int l’intèran
dal caminón dla fabrica
con l’impàt a tera
dal corp rastà iηmobil
d’Imerio De Maria.
Al jéra meźdì iη punt
d’un dì d’agost caldìsim.
L’avéva sol sedģ àn
Imerio De Maria,
al frut d’una miseria
ad fam, ch’la gh’à impedì
ad cuntinuàr la scola
e dand mod a l’impresa
d’asùmral tut iη négar.
Al jéra meźdì iη punt
d’un dì d’agost caldìsim
quand al dirìt ad vita
d’Imerio De Maria
al l’à dal mónd scaηzlà.
Agh è rastà, dla fabrica,
uη pèz ad caminóη.
D’atóran agh crés l’erba,
l’è sol desolazióη
sota a j’òć d’na via
intitulàda, in dedica,
“a Imerio De Maria”.
La ciminiera Era mezzogiorno in punto / di un giorno d’agosto caldissimo, / quando un urlo straziante / è rimbombato nell’interno / della ciminiera della fabbrica / con l’impatto a terra / del corpo rimasto immobile / di Imerio De Maria. / Era mezzogiorno in punto / di un giorno d’agosto caldissimo. / Aveva solo sedici anni / Imerio De Maria, / il frutto di miseria / e di fame, che gli ha impedito / di continuare la scuola, / dando modo all’impresa / di assumerlo tutto in nero. / Era mezzogiorno in punto / di un giorno d’agosto caldissimo / quando il diritto di vita / di Imerio De Maria / è stato cancellato dal mondo. / È rimasto, della fabbrica, / un pezzo di ciminiera. / Intorno ci cresce l’erba, / è solo desolazione / sotto gli occhi di una via / intitolata, in dedica, / “a Imerio De Maria”.
Tratto da: Marco Chiarini e Luciano Montanari (a cura di), Al nòstar bel dialèt: antologia degli autori de Al Tréb dal Tridèl, Ferrara, 2G Editrice, 2012.
Muzio Chiarini (Consandolo 1919 – 2010) Impegnato nel dopoguerra coi giovani socialisti e gli amici della nonviolenza. Personaggio discreto e di “innata eleganza” (come lo descriveva Iosè Peverati), appassionato di disegno e fotografia. Ha condotto per anni il negozio di famiglia Edicola e tabacchi. Scrivendo in lingua e in dialetto ha partecipato a concorsi locali e nazionali, ottenendo riconoscimenti, segnalazioni, premi.
Oltre a pubblicare in antologie e periodici sono uscite le raccolte poetiche Più non canta la cicala (1987) Par star un póch insiém (1999), e postumo Nel nostro cuore (2010).
Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui]
In copertina:Ciminiera a Pontelagoscuro – foto di Marco Chiarini, 2021
Da un po’ di tempo mi sveglio presto, fa ancora buio, pensando al paradiso. Ai paradisi impossibili, o a quelli immaginabili: quindi possibili.
Nella nostra testa il paradiso è il principio e la fine. Prima, quando ancora non c’eravamo, e abitavamo Eden, il giardino delle delizie. E dopo tutto, dopo il pianto dirotto di venire al mondo, dopo gli accidenti della vita, quando immaginiamo la pace di un qualche paradiso.
La religione c’entra relativamente. Non sposta nulla che ci crediamo o meno. Tutti veniamo da un paradiso terrestre – e ci nuotiamo in quel mare dentro una pancia di donna. E tutti sogniamo la quiete dopo il casino, un tranquillo oblio: un paradiso in terra o in cielo.
Resta da vedere cosa troveremo – cosa vorremmo trovare – dall’Altraparte.
Vinicio Capossela, non un cantautore qualsiasi, ha messo dentro a una canzone, Il paradiso dei calzini, tutto quanto nella vita si perde per strada, le cose che dimentichiamo, le persone che abbiamo amato e che non abbiamo più visto. Tutti i calzini – e i calzini siamo anche noi – quelli che rimangono orfani, mutilati, feriti. Miracolosamente, in quel paradiso, tutti ritroveranno il bandolo del gomitolo, il calzino spaiato, la parte mancante per tornare interi. Canta Vinicio Capossela: Dove vanno a finire i calzini
Quando perdono i loro vicini?
Quelli a righe mischiati con quelli a pois
Dove vanno nessuno lo sa
Dove va chi rimane smarrito?
In un’alba d’albergo scordato
Chi è restato impigliato in un letto
Chi ha trovato richiuso il cassetto
Chi non ha mai trovato il compagno
Fabbricato soltanto nel sogno
Chi si è lasciato cadere sul fondo
Chi non ha mai trovato il ritorno
Nel paradiso dei calzini
Si ritrovano tutti vicini
Nel paradiso dei calzini
Non so se anche voi, almeno qualche volta, abbiate gridato (al vento): “Fermate il treno, voglio scendere”. Voglio fermare questo momento. O almeno voglio ricordarmelo. Magari me lo scrivo, faccio una foto. Beh, non funziona. E se è svanito nel blu, uscito senza nemmeno salutare da una fessura della memoria, è davvero perduto per sempre?
Il Paradiso dei calzini, sarà solo un’ipotesi, mi sembra una risposta perfetta.
Il paradiso dei calzini (Vinicio Capossela, 2008)
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