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DA PAVIA A VENEZIA SUL FIUME PO
reportage della gara motonautica più lunga al mondo

 

Quest’anno, dopo 10 anni di assenza, abbiamo potuto assistere al passaggio sul Po della prestigiosa gara di motonautica, Raid Pavia Venezia.
Dalle prime edizioni degli anni ’20, è la gara di motonautica più lunga al mondo per quanto riguarda le acque interne400 chilometri sul Fiume Po da Pavia a Venezia. Personalmente la definirei la mille miglia fluviale, per le bellissime e storiche barche che partecipano in questa rinata edizione.
Organizzata dall’Associazione Motonautica Pavia e Associazione Motonautica Venezia, la Pavia Venezia nella sua 69° edizione ha raggruppato diversi settori e categorie di imbarcazioni comprese le imbarcazioni storiche, moto d’acqua e da diporto, offshore e tante altre categorie di barche.

Le imbarcazioni si sono confrontate da Pavia a Brondolo di Chioggia e arrivo a Venezia in un percorso di oltre 400 km. Abbiamo visto sfrecciare a velocità anche superiori ai 200 km orari, oltre 60 equipaggi. tra cui nomi noti e campioni di fama internazionale della motonautica Italiana come Maurizio Bullieri, 8 volte campione Italiano, campione Europeo endurance, e Campione mondiale Powerboat P1 nel 2005, e ancora, il campione Guido Cappellini con alle spalle diverse vittorie e 10 titoli mondiali in F1 da Pilota. Il Campione mondiale Endurance in carica, Tullio Abbate Jr con diversi titoli e vittorie ottenute in gara. Lo abbiamo visto in questa edizione, in coppia con  con il Conte Marco Massazza D’Aresi  a bordo della Sea Star uno tra i primi scafi in vetroresina costruiti dal padre Tullio Abbate, una barca che fu costruita nel 1969 per Sir Jackie Stuard.
Nella categoria moto d’acqua, Michele Cadei 6 volte campione Italiano. E ancora il Pilota Inglese Drew Langdon, tra i molteplici titoli e vittorie lo ricordiamo in 5 volte campione del mondo.
E da non dimenticare un veterano ferrarese della Pavia-Venezia Alessandro Andreotti e da quest’anno al suo fianco l’argentano David Maiani, della Società Canottieri Ferrara.
La premiazione è avvenuta all’Arsenale di Venezia
Per i dati tecnici riportati, ringrazio gli amministratori del gruppo FB Raid Pavia Venezia [Vedi qui] 


La foto in copertina e quelle del reportage che illustrano il testo, sono state scattate durante la manifestazione da Valerio Pazzi e ritraggono alcuni momenti del passaggio delle imbarcazione sul Po in località tra Stellata di Ferrara e Ficarolo di Rovigo.
(clicca su ogni foto per ingrandirla)

strage etiopia

25 APRILE A METÀ
Radici del razzismo e scheletri negli armadi:
I Fantasmi del passato (VIII Parte)

Etiopia Debra Berhan – Egitto el Alamein: a volte ritornano, per singolo o doppio caso fortuito, i fantasmi del passato coloniale italiano.

Nel maggio 2006, il quotidiano La Repubblica ha pubblicato le foto e un’inchiesta del proprio inviato Paolo Rumiz Etiopia quella strage fascista (poi riproposto online nell’aprile 2018 da The Magazine Italia), che confermerebbero “le prove di un efferato crimine italiano in Etiopia, 70 anni dopo la proclamazione dell’Impero” e che rigetterebbero “luce sinistra su un conflitto che la nostra memoria ancora rimuove o traveste da scampagnata coloniale”.

Tutto comincia con un primo caso, grazie il ritrovamento da parte di un dottorando dell’università di Torino di un pacco di telegrammi dimenticati in un faldone dal titolo “Varie” presso l’archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito di Roma. Dentro, un manoscritto senza firma, una mappa, altri documenti di conferma e un contenuto agghiacciante. A riemergere dall’oblio del passato e dalla profondità delle grotte naturali presenti nell’area montuosa di Debra Berhan – 100km a nord di Addis Abeba, nell’alto Scioà – sarebbe la conferma di una strage avvenuta tra il 9 e l’11 aprile 1939.
In base a quanto scoperto dal ricercatore, nel luogo indicato dalla mappa e in quei giorni vennero fucilate dopo la resa o avvelenate con i gas più di mille uomini, donne, vecchi e bambini, componenti una carovana del reparto ‘salmerie’ dei partigiani di Abebè Aregai, leader del movimento di liberazione etiope, rifugiatisi nella grotta dopo essere stati individuati dall’aviazione e circondati da un numero soverchiante di militari italiani.

Il gruppo è in realtà composto in larga misura da fuggitivi, feriti, anziani, donne e bambini, parenti degli uomini in armi, che garantiscono la cura dei feriti e l’appoggio dei partigiani alla macchia e da alcuni combattenti guidati da Tesciommè Sciancut.
L’ordine del Duce è perentorio: stroncare la ribellione. Ma stavolta stanare i ribelli è impossibile, così il 9 aprile la grotta viene attaccata con bombe a gas d’ arsina e con la micidiale iprite nonostante l’Italia abbia firmato la messa al bando internazionale di queste armi letali sancita dalla Convenzione di Ginevra del 1928.

Dalle carte emergono dati incredibili.
Nella grotta il ‘bombardamento speciale’ sarebbe stato portato a termine dal ‘plotone chimico’ della divisione Granatieri di Savoia, da sempre ritenuta una delle più ’nobili’ delle nostre Forze Armate e si sarebbe svolta secondo strategie, procedure e fatti inenarrabili.

Il mio compito – scrisse nel suo diario il sergente maggiore Boaglio – era far scendere e scoppiare i bidoncini…nel punto di entrata della caverna, in modo da ypritare tutto il terreno, impedendo così a eventuali fuggitivi di cavarsela impunemente….”.

La notte successiva, una quindicina di ribelli armati avrebbe tentato una sortita riuscendo a scappare. Molti cadaveri vennero gettati fuori dalla grotta. Moltissimi si arresero all’alba del giorno 11. Ottocento persone, si legge nel documento, in quel mattino stesso vennero fucilate su preciso ordine dato dal Governo Generale, cioè o dal generale Ugo Cavallero o dallo stesso Amedeo di Savoia.

Ma non è finita. Dentro c’è chi resiste ancora – uomini, donne e animali – e i nostri chiedono i lanciafiamme per ‘bonificare’ l’antro, ramificatissimo.

I dettagliati telegrammi degli alti comandi sono istantanee dall’inferno. “Si prevede che fetore cadaveri et carogne impediscano portare at termine esplorazione caverna che in questo sarà ostruita facendo brillare mine. Accertati finora 800 cadaveri, uccisi altri sei ribelli. Risparmiate altre 12 donne et 9 bambini. Rinvenuti 16 fucili, munizioni et varie armi bianche”.

Le prove, schiaccianti, entrano nella tesi di dottorato ma mancano ancora i riscontri sul campo, così il ricercatore organizza una missione col supporto dell’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia e viene accompagnato dal giovane studioso etiope Johnatan Sahle.

La mappa trovata allo Stato maggiore consente di individuare facilmente la zona, a un giorno di macchina dalla Capitale, in un altipiano di grotte e punteggiato di chiese copte, attorno alla cittadina di Ankober, 2600 metri di quota, sulle valli dei fiumi Uancit e Beressà. E’ dai preti dei villaggi che arrivano le prime conferme (“non ottocento, ma migliaia di morti”) e l’indicazione delle strada giusta, fino al paesino di Zemerò, e poi – per altri 30 chilometri fuori pista – fino al villaggio di Zeret, una ventina di tukul in pietra e paglia, 180 metri a picco sopra la bocca dell’inferno.

Il nome della grotta dice già tutto: Amezegna Washa, antro dei ribelli. Sotto, il fiume Ambagenen, che vuol dire Fiume del Tiranno. All’imboccatura, lo stesso muretto protettivo descritto nei rapporti dell’esercito italiano.

armi chimcheDentro la grotta non c’ è più andato nessuno, da allora. Dentro, un labirinto, in parte impercorribile. Ma bastano i primi cento metri alla luce delle torce per dare conferme. “Ossa dappertutto – racconta il ricercatore – quattro teschi, di cui uno con addosso la pelle della schiena; proiettili, vestiti abbandonati, ceste per il trasporto delle granaglie”. E poi rocce annerite, forse dai bivacchi (ma era difficile che i ribelli accendessero fuochi il cui fumo li segnalasse all’aviazione italiana) o forse dai lanciafiamme. Gli italiani, raccontano i figli e i nipoti di chi vide, calarono verso l’imboccatura della grotta dei pesanti bidoni che poi furono fatti esplodere con i mortai. E ancora: chi non fu fucilato, fu buttato nel burrone sotto la grotta. “Fu colpa degli Ascari”, le truppe indigene inquadrate nell’esercito italiano, “è l’obiezione ricorrente di fronte ai massacri in Abissinia. Ma gli ascari non si muovevano mai senza l’ordine di un ufficiale bianco. La ferocia di queste repressioni era anche il segno dell’esasperazione dei fascisti di fronte alla resistenza degli etiopi. La rabbia per un controllo incompleto del territorio”.

Oltre all’autore della scoperta anche l’autore del reoprtage Paolo Rumiz pare non avere più dubbi sia sui fatti che sulle conclusioni da trarre e aggiunge: “No, il camerata Kappler non fu peggio di noi. Il governatore della regione di Gondar, Alessandro Pirzio Biroli, di rinomata famiglia di esploratori, fece buttare i capitribù nelle acque del Lago Tana con un masso legato al collo. Achille Starace ammazzava i prigionieri di persona in un sadico tiro al bersaglio, e poiché non soffrivano abbastanza, prima li feriva con un colpo ai testicoli. Fu quella la nostra ‘missione civilizzatrice’? L’ Africa per noi non fu solo strade e ferrovie. Fu anche il collaudo del razzismo finito poi nei forni di Birkenau. Negli stessi anni, un altro personaggio con la fama di ‘buono’ – Italo Balbo governatore della Libia – fece frustare in piazza gli ebrei che si rifiutavano di tenere aperta la bottega di sabato. Quanti perfidi depistaggi della coscienza”.

impero italianoC’ è bisogno di parlarne” – conclude Matteo Dominioni, l’autore della tragica scoperta in Etiopia – “il vuoto storico e morale da riempire è enorme”.
Tutto è cominciato così e così tutto continua per un secondo puro caso consecutivo, dal momento che lo stesso cognome, Dominioni, appartiene anche ad un altro ricercatore sul campo, Paolo Caccia Dominioni, conte di Sillavengo, il Sandgraf -Conte della Sabbia- come lo avevano soprannominato i generali tedeschi o il ‘samaritano del deserto’, cioè colui che percorse 30.000 chilometri nel corso di 355 ricognizioni che lo portarono a recuperare, riconoscere e raccogliere, ad uno ad uno, i resti dei suoi commilitoni caduti in Libia e in Egitto dopo oltre quattro mesi ininterrotti di attacchi e contrattacchi, offensive e controffensive, nel corso della più grande battaglia della seconda guerra mondiale combattuta in Africa, e che si concluse il 23 ottobre 1942 ad El Alamein, stabilendo la tragica fine dell’avventura coloniale italiana.

 

 

Leggi la Prima Parte [Qui], la II [Qui],la III [Qui], la IV [Qui], la V [Qui], la VI [Qui]

Franco Ferioli, l’inviato di Ferraraitalia nel tempo e nello spazio, è il curatore della rubrica Controinformazione. C’è un’altra storia e un’altra geografia, i fatti e misfatti dell’Occidente che i media preferiscono tacere, che non conosciamo o che preferiamo dimenticare. CONTROINFORMAZIONE ci racconta senza censure l’altra faccia della luna,

PER CERTI VERSI
A te amica unica

A TE AMICA UNICA

Essere amico tuo
È un privilegio
E un miracolo laico
Avere te come amica
Non è come avere
Un amico
Sarebbe una frase banale
Se non ci fosse
Una differenza
Incolmabile
Abissale
Tu mi fai pensare
Che mai soli…
Meglio essere accompagnati
Dalle tue mani
Ma soprattutto
Dal tuo cuore
Lo sai che il mio
All’ombra del tuo
Della tua cura
Sbatte meno sulla scogliera della paura
Guarda la strada
Bianca
Dei ciliegi
E aspetta i tigli
Per respirare insieme a te
Quel profumo
Che mescola
Gentilezza
Calma
Oriente
Occidente
La gioia
Sensuale
Di trovarti sempre
Ovunque
Mezzala di vita
Carnevale

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
[Qui]

PRESTO DI MATTINA
La Parola che si fa corpo vivente

 

«Entrando nel mondo, Cristo dice: “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato“. Allora ho detto: “Ecco, io vengo- poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà”» (Eb 10,5-7). È un frammento della Lettera agli Ebrei ispirato dal salmo 40: “Gli orecchi e tutti i miei sensi hai aperto all’ascolto, il desiderio hai acceso: la tua parola nel mio intimo, così non ho nascosto la tua giustizia dentro il mio cuore, né il tuo amore e la tua fedeltà, neppure ho tenuto le labbra chiuse ho proclamato invece tra la gente la tua cura per la vita”. L’autore della Lettera agli Ebrei intende così esprimere la sua fede nella Parola che si fa carne, nel Verbo che era da principio e che ora, nella umiltà dell’esistenza umana, prende come sua dimora un corpo a lui preparato.

Accadde che la smisuratezza della parola di Dio si fece così piccola e angusta da assumere la natura di un corpo concepito e generato in umanità. Ma fu solo breve momento, per quanto fondamentale, della storia umana. Il Verbo che dapprima si rapprese in un uomo, nel volgere di poco si dispiegò al mondo, come un libro srotolato, allungandosi, distendendo gambe e braccia, operando con le mani, muovendo i piedi e, passo dopo passo, facendo strada sui sentieri della nostra umanità, crescendo in sapienza, statura, età e grazia per dire e fare le parole e i gesti di Dio, quelli della sua compagnia tra noi. Corpo preparato alla Parola perché divenga dono udibile, afferrabile, visibile attraverso le molteplici scritture e riscritture di una persona viva, che ascolta e risponde, imprime ed è impressa, inspira ed espira, piange e ride al modo in cui un corpo vive.

“Corpo/vivente”: non sono due, spirito e corpo; neppure il verbo da un lato, prioritario, assorbente, e il sentire del corpo dall’altro, secondario, scorporato. L’endiadi, una realtà per mezzo di due, esprime un unico e indissolubile corpo esistente e senziente: vivo. Corpo/vivente, “viatico di presenza”, un intreccio di vicinanza e lontananza, che tiene uniti estraneità e prossimità, familiare e straniero ad un tempo; vero pane di viaggio, che nutre la vita e si lascia nutrire da essa. Il corpo, pertanto, non solo oggetto ma soggetto, realtà non solo plasmata, modellata, ma ad un tempo forgiante, educante, perché a sua volta forma e sapere viventi, materia che è accolta ma pure ospitale, in quanto ospitante lo spirito. In breve: il corpo/vivente, reale, simbolo di ospitalità promessa.

Nell’antichità con il termine ‘simbolo’ (dal verbo symballo/gettare, riconoscere, mettere insieme) si indicava anche la ‘tessera hospitalis’, o hospitalitatis, un anello o altro contrassegno che si rompeva in due pezzi, da conservare come documento di riconoscimento, di garanzia, perché servivano a comprovare, una volta riuniti, l’ospitalità data e ricevuta, l’autenticità della relazione e del riscontro. La valenza simbolica del “vivente corpo” porta alla luce la necessità di darsi agli altri e di dirsi a se stessi, nella forma propria del simbolo che è quella dell’ambivalenza, vale a dire un’unica realtà che si presenta sotto due aspetti e valori differenti: una presenza simultanea di valori anche estranei, opposti o conflittuali, ma indissociabili, indivisibili.

Il ‘corpo/vivente’ esprime l’uomo nel suo essere al mondo: così il mondo, secondo l’espressione di Maurice Merleau-Ponty [Qui], viene ad essere «il corpo allargato dell’uomo», mentre il corpo da parte sua è «il cardine del mondo», il mondo addomesticato. In quanto simbolo, il corpo è allora anche linguaggio e sacramento; è atto ed esperienza comunicativa, relazione che unisce. La vocazione di ciò che è spirituale nell’uomo non è quella di tacitare, diluire o far evaporare ciò che è corporeo. Al contrario questi non deve soffocare lo spirito schiacciandolo sotto il suo peso: entrambi sono chiamati a custodirsi reciprocamente, a corrispondersi nella pratica dell’ospitare, del prendersi cura della diversità ed estraneità dell’altro. «Egli infatti non si prende cura degli angeli [incorporei], ma della stirpe di Abramo si prende cura», (Eb 2,16).

«Luogo di trasbordo» è così il corpo/vivente, un valico tra il mondo di dentro e il mondo di fuori, tra natura e cultura, tra individuo e società. La riflessione e la ricerca portate avanti dal pensiero fenomenologico hanno aperto un varco oltre il dualismo platonico, che ha influenzato in positivo e in negativo anche il pensiero delle origini cristiane e quello cartesiano, che separava la realtà psichica, cogitante, libera, consapevole, illimitata, dalla realtà fisica, limitata estesa, inanimata. Si è sviluppata così una riflessione sul sensibile, a partire dal corpo come unità vivente della persona umana, un’unità insieme attiva e passiva, di soggetto e oggetto, di percezione ed intuizione, di sensibilità e intellezione.

L’affiorare in questa unità nella differenziazione, sia dell’alterità ed estraneità degli altri, come dell’estraneità sentita in se stessi, sollecita e invoca un’etica della responsabilità, “responsiva” direbbe Bernhard Waldenfels, che invoca il dono e il compito di una risposta proprio a ciò che accade imprevisto e non dipendente da me: l’incontro con l’altro, lo straniero non appena fuori, ma con lo straniero che io sono a me stesso.

Nella fede si entra certamente per la via intellettiva e per quella etica; e tuttavia esse sono vie seconde, non secondarie però rispetto a quella principale che è quella relazionale, vivente dell’incontro dialogico dei corpi. Di qui un primato della relazione rispetto ad ogni tentativo di razionalizzazione o moralizzazione dell’esperienza della fede. «Il corpo è un anelito e un peso; un richiamo e una distanza da percorrere. Il corpo esprime gioia e debolezza, incanto e aridità, peso e levità. [Il corpo d’amore] è fatto di gocce di balsamo e di immensità assetate di deserto, di rari fotogrammi di assoluta chiarità e di lunghe pellicole di buio. Il corpo sarà nutrito di giorni e giorni di fame, notti e notti di lacrime e di assenza», (R. Virgili, Servitium, 1-2, 2005, 40).

Distanza da percorrere è il “corpo/vivente”: quella orientata verso la promessa di trasformarsi, trasfigurato, in un corpo/glorioso. L’incarnazione del Verbo e il mistero pasquale, di morte e risurrezione, hanno ispirato di senso e di speranza la nostra forma carnale. Hanno seminato nel corpo un credito ignoto e un futuro imprevedibile. Si dà allora una buona novella anche per il corpo: un vangelo è nascosto in esso, ben più che straniero, ospite e pellegrino in mezzo a noi che chiede di essere ospitato per ospitarci e renderci familiari suoi e a noi stessi.

Il poeta Carlo Betocchi [Qui] dedica a questa “distanza da percorrere” a questo destino glorioso che attende il “corpo/vivente” una sorta di inno liturgico: «Tu concedesti di vedere il tuo corpo che s’avanza!… Lui che mi dette con la vita il corpo,/ questo campo robusto che assicura/ l’anima, in cui alligna e matura la grazia,/ Lui non ha avuto paura che mi guastassi,/ che perdessi la fede: ed ha lasciato/ che il nemico infierisse. Che cos’è/ che voleva, allora, se non che alla fine/ mi ricordassi che non si vive di solo/ pane, e nemmeno soltanto di grazia,/ ma anche di buio coraggio di quando/ Lui può mancarci: e occorre rifarlo in noi,/ e riconoscersi vivi nei gemiti/ delle montagne squassate dai terremoti,/ perché l’evenienze del mondo sono/ infinite, le catastrofi miserevoli/ e senza alcuna spiegazione plausibile/ alla nostra esigenza d’amore. Lèvati/ allora, e datti da fare col tuo/ coraggio. Dio ti riconoscerà per suo», (Tutte le poesie, 517; 571).

Il corpo/glorioso è così ferito da una fiamma di amor vivo. È l’amore che glorifica il corpo errante dell’homo viator. Quell’amore resosi straniero ai viandanti verso Emmaus. La sua gloria è l’amore del corpo crocifisso e risorto; il Corpus Domini che rincuora, apre gli occhi, rimette in cammino, pone sulle labbra l’annuncio pasquale che narra l’incrociarsi delle sorti, lo scambio dei destini: colui che ha scambiato il suo destino di vita con il nostro destino di morte, il suo corpo di gloria con il nostro di carne ha pure condiviso il pegno della sua risurrezione, il suo corpo/glorioso in un pane spezzato come cibo dato a tutti perché diventi un solo corpo. «Come questo pane spezzato era sparso sui colli e raccolto è diventato una cosa sola, così si raccolga la tua Chiesa e l’umanità dai confini della terra nel tuo regno», (Didaché, IX, 4) e ci ricorda Paolo: «Il nostro corpo è per il Signore e il Signore è per il corpo» (1Cor 6,13).

Scrive il poeta inglese John Donne: «I misteri d’amore crescono nelle anime, ma il nostro corpo è il libro dell’amore», (nella traduzione poetica di Cristina Campo).

La fede cristiana ha conosciuto la tentazione gnostica come fuga dal corpo e esaltazione di una conoscenza, di un sapere e pensiero disincarnati, rimandando indietro Dio nel suo empireo celeste ‒ una torre senza porte e finestre ‒ privandolo così del suo luogo più proprio: la relazione con il mondo e con la libertà dell’uomo. L’esperienza cristiana è vita secondo lo spirito ‒ ci ha ricordato Karl Rahner [Qui] ‒ che si realizza nel corpo e attraverso il corpo. Questi è l’esistenza concreta dello spirito nello spazio e nel tempo, la corporeità umana è il suo luogo rivelatore, tanto che facendosi ospitale dello Spirito, ogni uomo entra a far parte del corpo vivente di Cristo, e in lui viene seminato il suo corpo glorificato, caparra e primizia di umanità nuova.

La svalutazione del corpo, originata dall’influenza di correnti di pensiero estranee al mondo ebraico-cristiano, si è fatta a lungo sentire anche nell’esperienza cristiana e nella sua spiritualità. Fin dai primi secoli una rigida ascesi penitenziale, manifestava un disprezzo evidente della carnalità, considerata come la sorgente del male.

LA STORIA DI ANASTASIO

Si narra di un monaco nel deserto egiziano che, volendo raggiungere la perfezione spirituale con una durissima ascesi corporale, cominciò a sentire sempre più il peso del suo corpo e a disprezzarlo, perché sembrava trattenerlo e rallentare le sua ascesa; così, volendo significare il desiderio di separarsi da esso come da una zavorra, si amputò una falange del dito e lo seppellì accanto alla sua cella, come a ricordagli che al cielo e non alla terra, allo spirito e non al corpo era volto ogni suo desiderio.

Alla sera, rientrato nella cella e raccolto in preghiera, aprì a caso il libro delle Scritture e iniziò a leggere. Vi si narrava della visione del profeta Ezechiele che, condotto dallo Spirito in alto sopra i cieli, fu poi deposto in mezzo a una valle piena d’ossa. Profetizza su queste ossa – disse lo Spirito: “Ossa inaridite Ecco, io faccio entrare in voi lo spirito e rivivrete. Metterò su di voi i nervi e farò crescere su di voi la carne, su di voi stenderò la pelle e infonderò in voi lo spirito e rivivrete”. A quelle parole Ezechiele senti un rumore, vide movimento fra le ossa, che si accostavano e si corrispondevano l’una all’altra. Poi vide ancora sopra di esse i nervi, la carne che cresceva e la pelle che le ricopriva, ma non c’era spirito in loro. Così Ezechiele profetizzò di nuovo e annunziò su quei cadaveri lo Spirito: “Spirito, vieni dai quattro venti e soffia su questi morti, perché rivivano”. In quel momento lo spirito entrò in essi e ritornarono in vita e si alzarono in piedi.

Anastasio, questo era il nome del monaco ‒ che significa risurrezione ‒ non poco turbato da quella lettura si addormentò pensieroso. Il mattino uscendo dalla cella si accorse che qualcosa era cambiato. Nel luogo del seppellimento di quel frammento del suo corpo era cresciuto un gelsomino bianchissimo e un profumo soave si era diffuso tutt’intorno e una siepe cingeva tutta la cella. Con la mano sfiorò appena il gelsomino e non poté proprio non sentirne il profumo, ne rimase inebriato. Respirò allora profondamente come non aveva mai fatto prima; sentì il suo corpo rivivere, anzi rifiorire nonostante fosse vecchio e, toccando il fiore con le dita, udì affiorare dentro di sè le parole: Corpus Domini e allora capì tutto, gli si aprì il cuore e l’intelligenza e gli occhi si sciolsero in lacrime non penitenti, ma di pacificante e umile gioia.

Fu così che gli ultimi anni li visse errando alla ricerca di quella compassione di Dio per il Suo corpo umiliato, mutilato e disprezzato nei corpi di tutte le sue creature. E ogni volta che vedeva una pietra, un albero, una pozza d’acqua, le stelle, un gregge con il suo pastore, una famiglia in viaggio, un lebbroso, un funerale, bambini che giocavano, sposi che andavano a nozze e cristiani raccolti nella chiesa la domenica attorno alla mensa eucaristica, si fermava, faceva una metania, una prostrazione profonda e sentiva salire dal cuore fino a divenire pensiero e voce interiore il nome del corpo/glorioso: Corpus Domini.

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

Torna la saga delle piratesse di Stefania Magnano: Iris’ Faith e il diamante in libreria dal 12 giugno

da: BookTribu

Con un’ambientazione all’epoca dei corsari, ma tutta al femminile, esce il 12 giugno Iris’ Faith e il diamante, edizioni BookTribu, di Stefania Magnano.

Nel mar dei Caraibi, un equipaggio di piratesse sfida pericoli, ma anche difende diritti. Nelle pieghe del romanzo ambientato nel 1717, si trovano temi di stretta attualità come l’uguaglianza di diritti fra uomo e donna e la tenace ostinazione nel proteggerli. Con Iris’ Faith e il diamante continua la storia della ciurma di piratesse che aveva già conquistato il pubblico di lettori con il loro sogno di liberare le donne oppresse dagli uomini e punire quegli stessi uomini. In questa nuova avventura, vengono illuminati alcuni retroscena della vita dei personaggi e della missione dell’equipaggio, attraverso gli occhi, che ancora non riescono a spiegarsi fino in fondo la violenza del mondo pirata, del mite protagonista, il dottor Blake. Libertà e violenza, luci e ombre, dolore e piacere si alterneranno per tutta la lettura, non priva di colpi di scena.

Stefania Magnano ha l’abilità di concepire una trama avvincente e originale, portando alla luce le sofferenze e il desiderio di riscatto di donne che scelgono la pirateria come via di affermazione, vittime divenute carnefici, per poi rischiare di non trovare via di uscita dalla violenza che hanno subito e che ora, per scelta, alimentano. Stefania Magnano, tuttavia, non perde mai i punti di riferimento della giustizia per cui il lettore si immerge in una storia sapendo che l’autrice veglia su di lui e sulle proprie protagoniste: in alcun modo si corre il pericolo che venga confusa la netta distinzione tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato e sul tema universale del rispetto dell’altro. E sarà proprio il rispetto a riportare l’amore anche nel cuore più duro che mai avrebbe scommesso sul suo ritorno.

“A tutti piacciono le storie di pirati – chiosa l’autrice – non c’è niente di meglio che evadere dalla realtà per stare un po’ sul ‘mondo di legno’, andare all’avventura e vivere seguendo soltanto le proprie regole e i propri desideri, ma se nella storia i pirati fossero tutte donne, sarebbe altrettanto bella?”

Stefania Magnano, avvocato per professione e scrittrice per passione, vive e lavora a Siracusa. Iris’ Faith e il diamante fa seguito al romanzo Una donna a bordo porta male vincitore del premio romanzo d’avventura nell’ambito del quarto concorso letterario nazionale per opere inedite di BookTribu.

Presentazioni di libri e visite guidate, il calendario di giugno del Microfestival

da: organizzazione Microfestival

Il candidato al premio Flaiano Giosuè Calaciura sarà tra gli ospiti del Microfestival delle storie. La programmazione di giugno, ancora con appuntamenti online, comprende autori come, appunto, Calaciura e altri due libri di autrici di fama nazionale come Sarah Savioli e Paola Peretti, quest’ultima in uscita a fine mese per Rizzoli. Il primo libro in calendario sarà Il testimone chiave, Feltrinelli, di Sarah Savioli in libreria dal 27 maggio, intervistata da Consuelo Pavani lunedì 14 giugno alle 21; seguirà il 18 giugno, alle 21, Io sono Gesù, Sellerio, di Giosuè Calaciura, intervistato da Riccarda Dalbuoni. Il 24 giugno, sempre alle 21, Paola Peretti, dopo il caso editoriale La distanza tra me e il ciliegio, presenterà il suo ultimo romanzo in uscita a fine mese per Rizzoli La brigata delle cinque sorelle. Paola Peretti dialogherà con Riccarda Dalbuoni.

Nel calendario del Microfestival anche un appuntamento a cura dell’associazione Teradamar: domenica 20 giugno alle 9.30 visita guidata ‘verde tesoro’ fra le essenze botaniche del territorio, con Fabrizio Barbieri che ha raccolto i saperi sulle erbe autoctone nel libro Andare per erbe nel Polesine e nel Delta del Po, che sarà presentato in sala Agostiniani in occasione della visita.

Le presentazioni dei libri saranno trasmesse in diretta sulle pagine facebook del Microfestival delle storie e di Ferraraitalia.

CONTRO VERSO
Per la giustizia “minore”

 

Per la giustizia “minore”

Ogni tanto mi capitava di distaccarmi da questa o quella storia per concentrarmi sull’insieme, o proprio sulla cornice, sul funzionamento della giustizia minorile. Immagino sia simile a ciò che si vive in un servizio territoriale, e non solo quelli rivolti all’infanzia. Sporgersi oltre il bordo è uno sport estremo che mette a confronto con se stessi attraverso le vite degli altri.

Benvenuto in tribunale:
qui inizia il tuo viaggio
che non si può fermare.
Procedi con coraggio.

Che tu abbia o no la toga
urge cintura di sicurezza.
Ti travolgerà la foga
e crudeltà e bellezza

della vita che t’inonda,
esce fuori dalle carte,
potente ti circonda
e non arriva e non parte

Ma poi dovrai difenderla
da innumerevoli agguati,
cercare di proteggerla
per tutti i nuovi nati.

Il giudice ha certezza
di tenere la briglia:
ci sia amore e sicurezza
con o senza famiglia.

A volte tutto rotola,
non ti ci raccapezzi
la vita scorre a rivoli
e ha mille ed altri mezzi

però ci sono i giorni
che qualcosa hai realizzato
e subito ritorni
al perché hai incominciato.

Il senso del cammino
è tessere la rete
che accoglie un bambino.
Milioni di comete

su case e grotte e ville
a destar la meraviglia
con milioni di scintille,
ed è la vita che brilla.

Ti dice l’esperienza
e il cervello e il cuore
che questa è un po’ l’essenza
della giustizia “minore”.

Si sa poco o niente della giustizia minorile italiana. Quando se ne parla in tv o sui giornali, quasi sempre si dicono strafalcioni, inesattezze più o meno dolose, generalizzazioni che hanno il solo effetto di approfondire il solco tra le aule giudiziarie e le famiglie. La giustizia minorile italiana non è esente da errori ma è molto diversa da come viene rappresentata di solito. Sarebbe bello che un giorno o l’altro si trovasse il modo per offrirne un’immagine aderente alla realtà.

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia  il venerdì. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

UN ALTRO INCONTRO
(un racconto)

 

Quasi tutti i posti a sedere della sala grande della libreria Nannini a Milano erano oramai occupati.
Mancava infatti molto poco alla presentazione dell’ultimo romanzo di Edoardo Casati , autore molto amato in città, affermatosi per quel suo raccontar storie ricche di emozioni intense, mai banali.
La conclusione dell’intervento di Edoardo fu accolto da un applauso caloroso da parte di un pubblico molto attento.

La firma delle copie del suo libro aspettava adesso l’autore.
Già si era formata una discreta fila di persone che si sviluppava per tutta la lunghezza della libreria
-A Elena e Daria. Grazie!-
A sentire queste parole Edoardo smise di scrivere la dedica,
alzò gli occhi quasi a volersi sincerare bene della provenienza di quella voce che gli suonava particolarmente familiare.
-Elena! – esclamò sorpreso- ma allora non mi sono sbagliato, sei proprio tu!-
Elena sorrise
– Dai scrivi i nomi che ti ho detto ma, dopo, non scappare!
Ti aspetto qui a pochi passi, mi trovi al Continental, ci prendiamo un caffè insieme-

Edoardo spinse la porta girevole del bar con una certa decisione mentre con uno sguardo veloce passava in rassegna tutte le persone sedute ai tavoli della distesa all’aperto del Continental , ma Elena non c ‘era . In quel momento si sentì chiamare:
– Edoardo, sono qui.. finalmente sei arrivato! Ho trovato due posti nella saletta rossa, di sopra…dai vieni con me-
Elena gli era venuta incontro e insieme si diressero verso la stretta scala a chiocciola di legno che portava ad una piccola sala tappezzata di velluto rosso da dove si godeva una splendida vista sulla piazza principale.
– Qui stiamo più tranquilli. Cosa aspetti a baciarmi?-
Edoardo la guardò sorridendo mentre il viso di Elena si avvicinava al suo.
-Ma come hai saputo?-
-Sei famoso adesso. Te lo avevo detto che le tue cose sarebbero piaciute molto qui.
Ho letto l’articolo sul Corriere di giovedì ed eccomi ,se aspettavo che mi chiamassi tu…-
– Ma sai quante volte ho fatto il tuo numero e poi …-
– Non cambierai mai!- disse Elena con un velo di tenerezza-.ma adesso non mi importa. Piuttosto dimmi: come stai ?-
In quel preciso istante entrò il cameriere
– I signori hanno deciso? Vogliono ordinare.- disse entrando nella saletta .
-Ma siete voi!Che piacere signor Edoardo e signora Elena! quanto tempo è passato…
allora so già cosa portarvi :il solito! Vero?
-No…per me solo un caffè , Mario, doppio però!-
-…per me invece il solito…grazie- disse con un sorriso Elena

– Ma cosa vuoi che ti dica…Sono sceso dal mio rifugio in collina per questa presentazione…sai oggi si fa così…-
– Lo so…questo lo so- lo interruppe Elena- ma intendevo tu come stai?-
– Non sono più abituato a questo genere di domande- rispose Edoardo
– Come sto? Non ci penso. da quando sono rimasto solo passo le giornate a lavorare e faccio anche un po’ di volontariato, ho aperto una specie di doposcuola .Abito adesso in un piccolo borgo e là non c’è nessuno , i ragazzi delle scuole medie cioè non hanno nessuno che li possa aiutare… nulla Do loro una mano coi compiti.
In cambio alcuni mi fanno da guida in montagna, ma ogni anno che passa il percorso diventa sempre più corto e non sono più un ragazzino…
Invece tu ? Fatti guardare…sei sempre molto bella Elena-
– Non vale, tu sei di parte!- disse Elena abbassando lo sguardo- Quindi insomma sei… un orso!
Quello che poi sei sempre stato solo che, almeno fino a quando sei rimasto in città con me, qualche cena, un cinema, il tuo pallosissimo teatro-
– Elena!-
– Oh sì… scusami.- disse con un sorrisetto Elena
– Ma raccontami di te! Perché quella volta non sei venuta? E poi non ti sei più fatta trovare-
disse Edoardo riponendo la tazzina che teneva ancora in mano sul tavolino.
Non fece in tempo ad aggiunger nulla che Elena gli prese la mano adesso libera stringendogliela forte quasi a volerlo rassicurare e disse:
– Lo so che avevamo deciso diversamente…ecco, come al solito adesso piango…uffa!-
Elena accettò con aria rassegnata il fazzoletto offertole da Edoardo
– Adesso ce la faccio….
Dicevo…sono andata a casa a prendere le mie cose, ma una volta là, ricordi? Ti ho telefonato…-
– Ma si… si…ti ho chiesto se potevo venire a prenderti ,ma tu…-
– Ti prego non mi interromper, è già difficile così, molto difficile
Insomma ho voluto sentire la tua voce quasi per trovare la forza .E ti ricordi cosa mi hai detto?-
– Si…anzi no!-
– Mi hai detto che mi amavi e che volevi sposarmi….”basta aspettare!”…solo queste parole-
-Allora ho cambiato idea, non ero più sicura, ero spaventata-
-Ma perché…-
– Non ce la fai proprio a stare zitto vero..
Non volevo il matrimonio, la famigliola felice .Siamo stati insieme tanto tempo e siamo stati bene…liberi…tu avevi i tuoi sogni …non volevo costringerti a cambiarli per me…tu troppo giovane e io avrei solo complicato la tua vita, il tuo avvenire-
-Potevi almeno chiedermelo…-
– Per sentirmi dire cosa? Che saresti stato un marito e un padre premuroso e attento? Che avresti abbandonato i tuoi progetti e cercato un lavoro qualunque subito, che avresti rinunciato a tutto per me? No grazie, non me la sono sentita-

Edoardo stette alcuni secondi in silenzio
-Hai trovato quello che cercavi?-
– Ho trovato Daria mia figlia…-
-Ti sei sposata?-
-Si…-
-Sei felice?-
-Si…-

Elena non aveva ancora staccato la sua mano da quella di Edoardo fino a quel momento.
Quasi istintivamente a quell’ultima domanda la lasciò.
Prese la sua borsetta e tirò fuori un pacchetto.
-Tieni questo è per te-
Edoardo ancora tutto concentrato sulle parole appena dette, senza dir nulla prese il regalo e aprì il pacchetto.
Era un album.
Un album di fotografie, immagini del tempo passato insieme.
Elena si alzò e si sedette in silenzio vicino a lui.

– Mi dispiace disturbarvi..- disse il cameriere entrando nella saletta – ma siamo proprio in chiusura…
– Ma certo Mario, adesso andiamo via subito-
Uscirono lasciando su quel tavolino non solo uno scontrino pagato.

-Deve aver piovuto…-
disse Elena allacciandosi anche gli ultimi bottoni del soprabito per tener lontana un’ aria fredda che adesso le pungeva il viso.
-Dai, cosa dici se facciamo ancora due passi…non è tardi-
-Volentieri…anche perché ti devo ancora chiedere un piacere-
-Cosa mi devi chiedere…dimmi tutto-
– Beh…non è semplice…-
– Se è una domanda di matrimonio me la hai già fatta quaranta anni fa!-disse Elena sorridendo
– E ti ho fatta scappare! No, ho bisogno di te qui adesso…di un accompagnatore per essere precisi-
-Un accompagnatore… un viaggio? Magnifico…e dove ? Montagna come al solito?-
Edoardo la guardò.
Il suo viso assunse una espressione che Elena non riconobbe come una delle solite di Edoardo
-Cosa c’è…non capisco-
– Non posso andarci da solo.È necessario che mi accompagni qualcuno…È tanto che ci penso e
adesso ho deciso. La vita non mi interessa più…da alcuni anni lotto con una malattia mi sta divorando…giorno dopo giorno.. mi sono rivolto ad una clinica oltre confine…-
Edoardo continuò ancora a parlare, ma la mente di Elena si rifiutava di accogliere le sue parole, le respingeva …la testa adesso le girava..
Purtroppo aveva capito bene.
Implacabili le parole di Edoardo continuarono a colpirla
– Devo essere là lunedì prossimo all’ora di pranzo…
Non ho neppure la macchina!-

Edoardo alla fine tacque.
Elena voleva chiedergli tutto e non disse nulla.

Per la strada non passava nessuno.
Elena cercava qualsiasi cosa che le permettesse di scappare, ma tutto intorno a loro era come se si fosse fermato.
Si sedettero lì vicino, su una panchina di legno ancora un po’ bagnata di fronte ad un parco .
– Se non fosse tutto così assurdo ci sarebbe da …-
-Cosa vuoi dire Elena?
-Voglio dire che io ero venuta per chiedere a te… io a te …-
-Cosa volevi chiedermi?
– Ma adesso non riesco…sono sconvolta…-
-Dimmi di cosa hai bisogno, ti serve del danaro…io non ho problemi…lo sai…adesso me lo posso permettere-
-Macche’ danaro…assurdo…non ci vediamo da una vita e tu la prima volta che ci incontriamo cosa mi chiedi? Di….-
Elena non trattenne più il suo pianto
– E io invece che vorrei vivere…che mi sveglio di notte angosciata con l ‘incubo di non vedere più mia figlia…che respiro ogni giorno questa aria come se fosse l’ultima…-
– Ma cosa hai? – chiese Edoardo prendendole una mano
– Tieni leggi tu stesso-
Elena prese dalla borsetta una lettera di dimissioni del San Camillo.
Edoardo la aprì nervosamente e lesse tutto di un fiato la descrizione dell’ evoluzione di un sospetto melanoma e la richiesta di una operazione chirurgica immediata.
– Ero venuta per averti vicino…ai miei non ho detto nulla…aspetto prima l’ esito dell’intervento e dell’esame istologico…inutile allarmarli prima, ma ho paura…tanta Edoardo…anzi sono decisamente terrorizzata…
Tu sei l’unico che può starmi accanto adesso, sei sempre stato con me anche quando eri lontano…poi però dall’anno scorso più nulla. Adesso ho capito…allora ti sono venuta a cercare
Ma io non sapevo …scusami.. però non riesco ad accompagnarti…e poi cosa mi fai dire! Non voglio farlo, non lo farei mai!-

Mentre Elena parlava Edoardo non era riuscito a guardarla negli occhi.La ascoltava facendo ben attenzione a non incrociarne lo sguardo.
La vita ancora una volta aveva rovesciato i suoi progetti.
Dall’addio di Elena era nato il suo successo come scrittore e adesso dalla sua richiesta, una domanda di aiuto di Elena
Mentre rifletteva sull’assurdità della situazione che si era venuta a creare si sentì come portato fuori da quel suo bisogno ossessivo di porre una fine a tutto ciò che lo aveva perseguitato negli ultimi tempi fino a fargli perdere ogni interesse per la vita.
– Non c ‘è tempo da perdere Elena…- alla fine disse Edoardo- lasciami due giorni…devo sistemare tutto ancora una volta…ancora una volta mi cambi la vita… mi servono due giorni ..solo questo-

Quindi si avvicinò ad Elena e, come aveva sempre fatto con lei, le passò dolcemente una mano aperta sulla fronte diverse volte come per mandarle via i pensieri e le preoccupazioni.

Elena a quel gesto dimenticato ma così familiare alzò il suo viso e gli sorrise.

– Non scappo più…rimango qui con te…come ho sempre fatto…faremo questa cosa insieme…non sei sola Elena e, anche se me lo ero dimenticato, non lo sono neppure io

Al cantón fraréś
Italo Verri: “Gli aventur ad Pinochio”

 

Nell’estate del 1881 Collodi iniziava a pubblicare a puntate “La storia di un burattino” diventata poi, in unico volume, Le avventure di Pinocchio. Da 140 anni tradotto, illustrato, adattato per il cinema e il teatro in tutto il mondo. Innumerevoli gli adattamenti dialettali nel nostro paese: triestino, milanese, bergamasco, veneziano, perugino, romanesco, napoletano, cosentino, siciliano, sardo e via discorrendo. Pure in occitano, latino, esperanto. Presentiamo il primo capitolo nella versione “tradotta” in ferrarese da Italo Verri, il quale rivolgendosi ai cultori del dialetto precisa:
“… Non me ne vogliano se il ‘mio’ ferrarese non corrisponde e non ubbidisce sempre ai canoni ortografici, lessicali e grammaticali ortodossi codificati… ho usato il dialetto della comunità che mi ha nutrito nei primi anni della mia vita e ciò ho fatto con umiltà e dedizione.”
(Ciarìn)

Gli aventur ad Pinochio – Storia d’un buratìn
Indóv ch’as conta come Màstar Zréśa, falegnam ad mastiér, al tróva un pèz ad légn ch’al pianźéva e al rideva com un putìn.

Agh jéra na volta…
– Un re! – i dirà sùbit i mié pìcul lètùr.
– Eh no, ragazìt, avì sbaglià. Agh jéra na volta un pèz ad légn.
Al n’jéra briśa un légn ad lusso, al jéra sól un zòch ad quéi che d’invèran is mét int la stua o su l’aròla pr’impizàr al fógh o scaldàr ill càmar.
An sò briśa com l’è andàda, al fat l’è che un bèl dì stal zòch al va a finir int la butéga d’un vèć falegnam che ad nóm al faśeva mastr’Antoni, sol che tuti j’al ciamàva màstar Zréśa par via ch’al gh’éva al naś sémpar lùstar e pavunàz come na zréśa madùra.
Non apéna che màstar Zréśa al véd cal pèz ad légn, al’s dà na sfargadìna al man da la cuntantéza, burbutànd a mèźa voś:
– Stal zòch l’è pròpia capità a faśòl: al vói dupràr par far na gamba ad taulìn.
Dit e fat, al tòl sùbit al manarìn guzà da frésch e al taca a scurtgàral e a sbuzàral, ma quand l’è dré mulàragh la prima smanarà, al vanza là còl braz suspéś a mez’aria, parché al sent na vuśìna sutìla sutìla ch’la s’arcmànda:
– Briśa piciàrm acsì fòrt!
Av las imaginàr la faza ‘d cal bón vèć ad màstar Zréśa.
Tut cunfùs, al źira j’òć in za e ‘n là par la càmara par védar d’indóv la putéva gnir cla vuśìna, ma an véd nisùn; al guarda sot’al banch, nisùn; al guarda int l’armàri, ch’al jéra sémpar sarà, nisùn; po’ al guarda int al zastìn di rizó e dla śgantìna, nisùn; al vèrź l’us dla butéga par dar n’ucià anch su la strada, ancora nisùn, e alóra?…
– A jo capì – al diś ridénd e gratàndas al paruchìn: – as véd che cla vuśìna am la són figuràda mi. Dài, métat mò a lauràr.
Al branca da nóv al manarìn e al dà na gran smanarà al pèz ad légn.
– Ahi, ta m’ha fat mal! – la ziga, lamentàndas, la solita vuśìna.
Stavolta al pòvar vèć al vanza ‘d stuch, con j’òcc fóra da la testa da la paura, la bóca avèrta e la léngua ch’l’agh rivàva fin sul barbùz, come chi mascarùn ch’i’ss tróva sul funtànn.
Dòp aver ritruvà la parola, tarmànd e bacuclànd tut spavantì, al taca a dir:
– Ma d’indù pòlla gnir fóra cla vuśìna ch’l’ha dit ahi!? … Epùr chi ‘n gh’è anima viva. Ch’al sia par caś stal zòch ch’l’ava imparà a piànźar e a lamentàras cóm un putìn? A mi l’am par impusìbil. Ècal chi cal pèz ad légn: l’è un zòch da fuglàr, come tut chi àltar: al bastarév par cuóśar na pgnata ‘d fasó. E alora? Ch’agh sia lugà déntar qualchdùn? S’al’gh duvés èsar, pèź par lu. Adès al sistèm mi!
Dit e fat, al branca con tuti dó ‘ll man cal pòvar pèz ad légn e zó pach senza remissión contra i mur dla butéga. Po’ al’s mét in urciùn par santìr s’agh fus incóra qualch vuśìna ch’l’as lamentàs. Al ‘spèta du minùt, gnént; zinch minùt, gnént; diéś minùt, gnént.
– A jò capì, – al diś, sfurzàndas ad rìdar e sparnaciàndas al paruchìn: – as véd che cla vuśìna ch’la zigàva am la són figuràda mi. Dài, mitémas a lauràr!
Sicóm ch’agh jéra saltà adòs un gran scagabórd, al’s mét a cantàr par fàras curàģ.
Intànt, mis da na part al manarìn, al tòl in man la piòla par piulìr e tiràr a pulimént al pèz ad légn, ma intànt ch’al la piulìva avanti e ‘ndré, al sént la solita vuśìna ch‘l’agh diś, ridénd:
– Ció, smétla bén che t’am fa ill gatùzal da par tut!
Stavolta al pòvar màstar Zréśa al casch’indré cópa come fulminà! Quand al vèrź j’ò ć, al’s tróva santà par téra.
Al gh’éva la faza stravolta e parfìn la punta dal naś, da pavunàza com la jéra quasi sémpar, la jéra dvantàda turchina dal gran spavént.

Le avventure di Pinocchio
Come andò che Maestro Ciliegia, falegname, trovò un pezzo di legno, che piangeva e rideva come un bambino.
– C’era una volta…
– Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori.
– No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno.
Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo da catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare le stanze.
Non so come andasse, ma il fatto gli è che un bel giorno questo pezzo di legno capitò nella bottega di un vecchio falegname, il quale aveva nome Mastr’Antonio, se non che tutti lo chiamavano maestro Ciliegia, per via della punta del suo naso, che era sempre lustra e paonazza, come una ciliegia matura.
Appena maestro Ciliegia ebbe visto quel pezzo di legno, si rallegrò tutto; e dandosi una fregatina di mani per la contentezza, borbottò a mezza voce:
– Questo legno è capitato a tempo; voglio servirmene per fare una gamba di tavolino.
Detto fatto, prese subito l’ascia arrotata per cominciare a levargli la scorza e a digrossarlo; ma quando fu lì per lasciare andare la prima asciata, rimase col braccio sospeso in aria, perché sentì una vocina sottile sottile, che disse raccomandandosi:
– Non mi picchiar tanto forte!
Figuratevi come rimase quel buon vecchio di maestro Ciliegia!
Girò gli occhi smarriti intorno alla stanza per vedere di dove mai poteva essere uscita quella vocina, e non vide nessuno! Guardò sotto il banco, e nessuno; guardò dentro un armadio che stava sempre chiuso, e nessuno; guardò nel corbello dei trucioli e della segatura, e nessuno; aprì l’uscio di bottega per dare un’occhiata anche sulla strada, e nessuno. O dunque?…
– Ho capito; – disse allora ridendo e grattandosi la parrucca – si vede che quella vocina me la sono figurata io. Rimettiamoci a lavorare.
E ripresa l’ascia in mano, tirò giù un solenissimo colpo sul pezzo di legno.
– Ohi! tu m’hai fatto male! – gridò rammaricandosi la solita vocina.
Questa volta maestro Ciliegia restò di stucco, cogli occhi fuori del capo per la paura, colla bocca spalancata e colla lingua giù ciondoloni fino al mento, come un mascherone da fontana.
Appena riebbe l’uso della parola, cominciò a dire tremando e balbettando dallo spavento:
– Ma di dove sarà uscita questa vocina che ha detto ohi?… Eppure qui non c’è anima viva. Che sia per caso questo pezzo di legno che abbia imparato a piangere e a lamentarsi come un bambino? Io non lo posso credere. Questo legno eccolo qui; è un pezzo di legno da caminetto, come tutti gli altri, e a buttarlo sul fuoco, c’è da far bollire una pentola di fagioli… O dunque? Che ci sia nascosto dentro qualcuno? Se c’è nascosto qualcuno, tanto peggio per lui. Ora l’accomodo io!
E così dicendo, agguantò con tutte e due le mani quel povero pezzo di legno, e si pose a sbatacchiarlo senza carità contro le pareti della stanza.
Poi si messe in ascolto, per sentire se c’era qualche vocina che si lamentasse. Aspettò due minuti, e nulla; cinque minuti, e nulla; dieci minuti, e nulla!
– Ho capito; – disse allora sforzandosi di ridere e arruffandosi la parrucca – si vede che quella vocina che ha detto ohi, me la son figurata io! Rimettiamoci a lavorare.
E perché gli era entrata addosso una gran paura, si provò a canterellare per farsi un po’ di coraggio.
Intanto, posata da una parte l’ascia, prese in mano la pialla, per piallare e tirare a pulimento il pezzo di legno; ma nel mentre che lo piallava in su e in giù, sentì la solita vocina che gli disse ridendo:
– Smetti! tu mi fai il pizzicorino sul corpo!
Questa volta il povero maestro Ciliegia cadde giù come fulminato. Quando riaprì gli occhi, si trovò seduto per terra.
Il suo viso pareva trasfugurito, e perfino la punta del naso, di paonazza come era quasi sempre, gli era diventata turchina dalla gran paura.

Pinochio VerriTratto da:
Gli aventur ad Pinochio, Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi, voltate in dialetto ferrarese da Italo Verri,
Ferrara, Comune di Ferrara, 2011.

Italo Verri (Pilastri-Fe 1933)
Professore di lingua e letteratura inglese, ha insegnato in varie scuole di ogni ordine e grado. Ha pubblicato Fin’amor : cinquanta sonetti amorosi (1997). Ha tradotto dall’inglese il radiodramma ambientato nella Ferrara rinascimentale Il miracolo del duca di Allen Curnow (stampa 1993). Ha scritto e musicato tre canzoni, di cui due nel suo dialetto. A tempo perso compone poesie ed epigrammi.

 Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca (Qui)

In copertina:  Avventure – foto di Marco Chiarini, 2021

Parole a capo
Paola Sarcià: “Quando l’agonia dei raggi” ed altre poesie

“La speranza è qualcosa con le ali, che dimora nell’anima e canta la melodia senza parole, e non si ferma mai”
(Emily Dickinson)

Camminiamo abbracciati

Camminiamo abbracciati
quando le ombre si allungano
profumate di timo e di salsedine
ammantano il profilo
di spazi conosciuti
annullano
la fragile frontiera
tra il qui e il quando

Guidano i miei passi miopi
i tuoi occhi
curva dell’orizzonte
cielo e mare
onde e nuvole in fuga

 

Saranno inverni

Saranno inverni
di ginestre in fiore
profumati di ginepro
e mirto selvatico
di sentieri  inesplorati
custodi  gelosi
dei nostri passi
intrappolati  fra terra e roccia
fin dove il vento darà  voce
al mare

 

Quando l’agonia dei raggi

Quando l’agonia dei raggi
insanguina il cielo
lento
l’imbrunire rapisce il giorno
affrettando il volo dell’airone
sui canneti
Sul limite estremo
dove la terra sfuma
là ti troverò
nell’istante che scardina il tempo
onda perduta in cerca del suo oceano
ancora una volta
accolta dal tuo abbraccio

 

Brindo a questa notte

Brindo a questa notte
di stelle confuse
di profondi respiri
spettinati dal vento
di speranze ingabbiate
attese tradite
di luna uncinata
arpionata alla pelle
Brindo a questa notte
mascherata di allegria
calici colmi di parole vane
ubriaca di vita
impigliata ad un cielo irriverente

(Poesie tratte da: “Echi dall’onda” ed. Il Foglio 2012 e “A fior di pelle” ed. Cicorivolta 2019)

Paola Sarcià (Bologna,1962), risiede a Ferrara dal 1986; è docente di lingua e letteratura inglese. Ha partecipato a diversi premi nazionali ed è stata inserita in diverse antologie; ha conseguito il Premio d’Onore alla IV edizione del Premio Letterario Internazionale Archè “Anguillara Sabazia Città d’Arte” 2006.  Con le Edizioni Il Foglio ha pubblicato “Occhi di Zagara” (2008), “Echi dall’Onda” (2012), “Trema anche la Luna” (2014) e con le Edizioni Cicorivolta  “A fior di Pelle” (2019).

La rubrica di poesia Parole a capo esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. 
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

 

 

FERRARA, IL TESORO DELLE BIBLIOTECHE:
rilanciare il servizio di Lettura e riprendere la Ricerca

 

Per vari impedimenti non ho potuto partecipare alla manifestazione che si è tenuta, nella mattinata del 22 scorso, per dare visivamente il senso e l’impegno di una parte dei cittadini per la difesa, lo sviluppo, il progetto e l’organizzazione di un rinnovato sistema bibliotecario, per il ruolo e il senso delle biblioteche decentrate.
Condivido le argomentazioni che il successivo documento ha raccolto e inviato alla Amministrazione Comunale. Non vi è bisogno che le ripeta.
Aggiungo un tema che non vorrei venisse sottovalutato e meno considerato; del quale poco si è parlato nel corso di questo dibattito. Non è apparso nemmeno fra gli oggetti della riunione della II commissione consigliare dell’11 maggio.
Credo non vada dimenticato che le biblioteche oltre ad essere luogo di incontro e occasione di socialità sono anche luoghi di studio e di ricerca. Questo vale non solo per la Biblioteca Ariostea ma anche per quelle decentrate. I due momenti non sono in contrapposizione ma debbono integrarsi e rendersi specifici a seconda del rapporto che le strutture hanno con la rete sociale di riferimento.
Le biblioteche decentrate dovranno saper essere anche momento di raccolta e conservazione degli avvenimenti, non solo del passato ma contemporanei, che avvengono nel territorio. Dovranno essere in grado di fornire gli strumenti di conoscenza per capire la contemporaneità e divenirne archivio.
Tutto questo non solo in collegamento con le istituzioni scolastiche ma con la realtà articolata e plurale del mondo associativo, con le varie comunità, con le espressioni della religiosità e le manifestazioni della vita quotidiana. Una occasione di integrazione nella società civile della quale la biblioteca può essere parte costruttrice, testimone e conservatrice per il futuro. Non ci si può limitare alla pure essenziale ‘pubblica lettura’.
Il ruolo della Biblioteca Ariostea non può essere solo quello di coordinamento e di indicazione. La Ariostea è anche una grande biblioteca di conservazione; raccoglie largamente testimonianze della vita passata della città, ne custodisce parte consistente della memoria: ha l’obbligo, complesso ed oneroso, della custodia e della tutela delle opere conservate ma ha anche quello di fornire strumenti per agevolare la ricerca, costruire progetti e realizzarli insieme con altri attori, in primo luogo con l’Università e l’associazionismo culturale: penso alla meritoria attività della associazione ‘Amici della Biblioteca Ariostea’ e della ‘Deputazione di Storia Patria’.

Faccio qualche esempio: guardando in SBN non si trova mai digitalizzato un volume della Ariostea; ancora molto modesto è il trasferimento delle schede Staderini; pochissime sono le scannerizzazioni. Tutto questo limita pesantemente la conoscenza del patrimonio librario conservato e l’accesso degli studiosi.
Fra i progetti credo molto interessante quello proposto da una funzionaria per il catalogo e la edizione dei Nuptialia: fornirebbe per il ‘600 e il ‘700 uno spaccato della società ferrarese che ancora manca. Importante sarebbe l’organizzazione di una collana per l’edizione di almeno parte dei manoscritti: penso ad esempio alle varie cronache, al catalogo degli Accademici Intrepidi, ai molti testi letterari e a quelli scientifici; al catalogo dei codici miniati; agli annali, libro in mano, degli editori ferraresi. E molto altro ancora si potrebbe indicare.

Egualmente si può per l’Archivio Storico Comunale principiando dalla Raccolta dei Bandi, dal Censimento del 1816 e dalle Carte Migliori.
Tutto questo in passato è avvenuto; basti ricordare la, ahimè troppo breve, presenza del Bollettino di notizie e ricerche da Archivi e Biblioteche, la pubblicazione del catalogo degli Statuti; i molti lavori che autonomamente i funzionari dell’istituto hanno fatto apparire e quelli di ricercatori che alla Ariostea fanno riferimento.
Bisogna augurarsi che la Amministrazione Comunale si renda conto del patrimonio, umano e di opere, che a lei fa riferimento, che lo riconosca con investimenti e impegno.
Questo intervento sarebbe manchevole se non ricordassi la competenza specifica e la professionalità dei funzionari della Biblioteca Ariostea; la cortesia e la pazienza di tutti gli addetti. Non posso non unirmi ai molti che auspicano l’integrazione dei ruoli attraverso una selezione che garantisca capacità e preparazione precisa: in biblioteconomia, come in ogni altra professione, non sono ammesse improvvisazioni.

FANTASMI
L’ACCIUFFASUONI

 

Ho sempre avuto una grande curiosità per i suoni.
La goccia che cade nel mezzo del lago di Braies ha una voce diversa se rimbalza sul tettuccio della mia roulotte bianco sporco. Addirittura la stessa goccia, che dal tettuccio scivolando lungo il vetro dell’oblò si tuffa al centro della corolla di quel tulipano, emette qui un piccolo gemito, breve, impercettibile. Ma io lo aspetto per ascoltarlo. E quando lo acciuffo sono brividi di gioia.
E il vento? Anche lui è affetto da disturbi della personalità. Quando soffia umido per i vicoli di Otranto bisbiglia all’orecchio, dolce, accompagnandoti nella tua passeggiata lenta, tenendoti sotto braccio, facendo le fusa frusciando i tuoi abiti leggeri. Poi prendendo la rincorsa si gonfia borioso entrando prepotente a Trieste con fiato secco e freddo. Ti ammonisce e fischia se provi ad aprire la porta. Non vuole che tu esca da casa.

“E l’allodola come fa?”
“Trilla” mi rispondeva nonno Giacomo.
“E il picchio verde come fa?”
“Ride”
E ridevo anche io da bambina fino alle lacrime scoprendo che il giaguaro brontola, le scimmie farfugliano, il furetto pot-potta, il gufo bubola, il cobra sibila e la zanzara zufola.

E poi iniziai a osservare lo zio Carlo quando veniva scarmigliato dai suoi lunghi giri all’estero a cena a casa nostra. Era pieno di penne nel taschino lo zio Carlo; le teneva lì al posto del fazzoletto. Ma le sue erano penne magiche che lo mantenevano in vita, mi diceva, poteva perdere tutto ma non le sue penne. Ci osservavamo in silenzio e incontrando i suoi occhi capii che avevamo una indole simile.
Fu con lui in segreto tra me e me che proseguii quel mio antico gioco.
“E lo zio Carlo come fa?” non lo rivelai mai a nessuno.

E così cominciai ad ascoltare ogni persona.
Ad esempio: perché a un certo punto tutti i giovani romani hanno iniziato a parlare con la zeppola in bocca?
Perché le ragazze orientali non camminano nel traffico metropolitano come tutti noi a singhiozzo sgraziati con momenti di arresto e ripresa, ma scivolano eleganti come se discendessero da una collina abbagliante di riso?

Il suono a seconda di come viene pronunciato modella i tuoi connotati, il tuo atteggiamento. E quel suono è territoriale. Quel suono, quegli accenti e quelle pause hanno bisogno di quel paesaggio, di quei colori, di quella temperatura per nutrirsi.

E fu così che non mi bastarono più i suoni della mia famiglia che avevo lungamente scandagliato, della mia città, della mia regione, della mia nazione. Iniziai a girovagare con la mia roulotte per acciuffarne di nuovi, per imitarli, immaginando come sarei stata ogni volta diversa indossandoli.

Mi trovai da grande a giocare proprio con una penna d’airone del Vecchio Mondo regalatami da mio zio. Provai a tradurre lingue lontane per renderle più familiari senza tradire lo spirito, il temperamento del personaggio creato dallo scrittore. Si trattava di compiere tripli salti mortali: individuare lo stile dell’autore, scoprire la voce di quel personaggio, immaginare la sua forma fisica, il suo modo di muovere le mani quando versa il vino per sé o per gli altri, insomma tutto quel che viene orchestrato dalla sua voce. Solo in questo modo puoi tradurlo in un’altra lingua. E’ un faticoso sondare solitario, affollata da tanti volti.

Più degli uomini i miei amici erano le creature galleggianti nei pensieri d’inchiostro di scrittrici e scrittori. E per ricambiar l’amicizia, a quei personaggi volevo restituir loro degne parole che non tradissero la loro anima.

“Si diverte tanto a tradurre signorina?”
Ingenuamente avevo detto di si; avevo risposto sinceramente a una persona reale in carne ed ossa che non si fece scrupoli, spazzandomi via, prosciugando la mia scintilla, derubando le mie impronte digitali, riducendomi ad ombra, impossessandosi dei miei pentagrammi di parole. Mi risucchiò fino a farmi scomparire. Imprimendo il suo nome a fuoco sui miei zampilli d’ingegno. Piantando la sua bandiera sulle mie proprietà, sul mio terreno dissodato dalla vanga del mio talento.

“E il negriero come fa?”

NOTE:
Questo racconto è stato liberamente ispirato alla grande traduttrice degli anni ’30 Lucia Morpurgo Rodocanachi. Un omaggio a Colei che definì Elio Vittorini “il negriero”. Indovinate perché.
In copertina:“Metamorphosis” di Tito Alacevich, 30 Maggio 2021

Racconto inedito, proprietà dell’autore.

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Vintage school:
gli intellettuali e “la nuova scuola”

Non conosco gli estensori del Manifesto per la nuova scuola [Qui] sottoscritto da uno stuolo di intellettuali che vanno da Alessandro Barbero a Chiara Frugoni, da Vito Mancuso a Massimo Recalcati, da Tomaso Montanari a Gustavo Zagrebelsky che, ovviamente, non potevano mancare.

‘Nuova scuola’ sta a significare che questa che abbiamo è la ‘vecchia scuola’, diversamente non si comprenderebbe la necessità di un manifesto. Le ‘buone scuole’, ‘le offerte formative’: tutto tempo sprecato, inquinamenti nell’esercizio principe della trasmissione del sapere, come nel lontano 1994 il Testo Unico aveva decretato consistere la funzione docente.

Nuova scuola e non ‘scuola nuova’, forse perché agli estensori risuonava un po’ come le ‘scuole nuove’, il movimento di rinnovamento scolastico dei primi del novecento sorto per rispondere ai bisogni di un mondo in rapida trasformazione.

Le trasformazioni del mondo non sono cura di cui prendersi per i promotori del nostro manifesto, perché la nuova scuola in esso disegnata è atemporale, fuori dallo spazio e dal tempo, un’entità dello spirito, un tabernacolo del sapere dispensato dai suoi sacerdoti. Un ritorno allo spirito di Hegel e di Croce tanto bistrattati dal materialismo dei tempi della scienza e della tecnica.

Una scuola senza storia, senza prima e senza dopo, senza ricerca, senza un propria cultura accumulata nel tempo, senza conflitti, anzi una scuola dall’identità violata, sfregiata dalle riforme e dagli interventi legislativi che si sono succeduti negli anni, che ne hanno deturpato la sua vera natura di otia studiorum.

Se qualcuno mai avesse pensato che fosse finalmente giunto il tempo di porre fine alla pratica dell’insegnamento ex cathedra, dell’insegnamento trasmissivo, di un sistema scolastico cattedracentrico, per gli estensori del manifesto è bene che si metta il cuore in pace.

Restituiamo centralità all’ora di lezione, alle discipline, ad ogni singola disciplina senza alcuna contaminazione, alla trasmissione del sapere. Le competenze sono nemiche del sapere e di ogni dimensione “integralmente umana” è scritto nel manifesto. Le competenze come lo sterco del diavolo, asservite al mercato.

Pensiero inquietante, perché suggerirebbe che neppure chi siede in cattedra è fornito di competenze, quelle necessarie a illuminare gli studenti della luce della sua disciplina. E cosa mai possederà al loro posto? L’ispirazione dello spirito santo? Avremo nella ‘nuova scuola’ i docenti pentecostali?

Nessuna contaminazione con il lavoro, più che mai con l’insensata alternanza scuola lavoro, via ogni orpello dalla scuola, dal digitale all’autonomia scolastica, niente offerte formative, ma centralità del docente in cattedra. Gli unici ammessi  all’aulica scuola i mediatori linguistici per gli studenti stranieri e gli psicologi dello sportello d’ascolto, per rimuovere eventuali interferenze prodotte dall’età evolutiva delle ragazze e dei ragazzi, che potrebbero ostacolare l’attenzione che è necessaria ai distributori del sapere in pillole, ai performer dell’ex cathedra.

Questo è il catechismo del manifesto, non avrai altro docente al di fuori di me, ma in questo manifesto gli studenti non ci sono, se ci sono sono schierati nei banchi, attoniti ad ascoltare la voce del maestro, affascinati dal suo eloquio e dalla sua padronanza della disciplina perché, come premette il manifesto, bontà sua: “..quello tra gli insegnanti e gli studenti è prima di tutto un “rapporto umano”. Grazie tante!

Ma quell’articolo ‘la’ determinativo della nuova scuola non offre alternative al mondo fermato nell’ipostasi del sapere, della cattedra, semmai con la predella come auspicava tempo fa Galli della Loggia, dell’aula e della classe, degli orari e dei programmi, unico universo della nuova scuola.

Preoccupa che questi signori scrivano di scuola, intanto perché è evidente che non di tutta la scuola si occupano, la loro enfasi cattedratica rimanda ad un grado di scuola prevalentemente secondario. Sarebbe da brividi per bimbette e bimbetti la scuola che prospettano, con maestri saputi che propinano pillole di nozioni già confezionate come quelle di Rodari, almeno per l’epoca che viviamo e per la cultura che sull’infanzia ci siamo anche a fatica conquistati, sarebbe davvero preoccupante. Forse agli estensori del manifesto sarebbe consigliabile prenotare qualche seduta presso uno degli epigoni del dottor Freud.

Restituire centralità allo studente che apprende, che in autonomia costruisce le sue conoscenze sarebbe lesa maestà.

La ‘nuova scuola’ è in realtà la scuola di ieri, come se il mondo si fosse fermato a quando sui banchi sedevano gli autori del manifesto. La scuola è tale solo se immobile, fotografata al tempo dello loro infanzia e adolescenza, dopo, solo la rovina, il degrado, l’imbarbarimento.

La ‘nuova scuola’ è esattamente quella già scritta da Gentile [Qui], essersene allontanati per adeguarsi ai tempi, a nuovi bisogni educativi è stato per gli autori del manifesto un’eresia che richiede oggi una pubblica abiura.

Ma viene da chiedersi se il manifesto è il manufatto di docenti che quotidianamente vivono il rumore d’aula, o il risultato piuttosto di pensieri subliminali frutto di frustrazioni che non si è più in grado di gestire e che la pandemia ha finito per esasperare.

Sconcerta che professionisti della cultura, come ogni insegnante dovrebbe essere, dimostrino di essere privi di una solida cultura scolastica, psicologica, pedagogica, didattica, ripiegati come sono nell’angustia della loro disciplina, senza considerare che ormai non esiste disciplina che non viva dell’apporto delle altre. Non si nasce insegnanti, e non è sufficiente essere esperti di una disciplina per essere dei bravi docenti. Essere docenti richiede quel molto di più di cui il manifesto non scrive, perché l’unica idea su cui regge tutto il manifesto è la nostalgia del carisma. Io, disciplina e carisma, si potrebbe dire. Una visione narcisistica dell’insegnante artigiano del sapere, ma non tutti sono dei poeti e se uno il carisma non ce l’ha, non se lo può inventare. Socrate e peripatetici restano confinati alle pagine dei manuali di storia della filosofia, bisogna farsene una ragione.

Di fronte alla restaurazione proposta da questa millantata ‘nuova scuola’ anche il pensiero del buon Dewey [Qui] agli albori del secolo scorso, quando nelle scuole del nostro paese prendeva corpo l’idealismo gentiliano, suona eretico nel suo pragmatismo, ma noi vogliamo concludere citandolo da Scuola e Società: “È la nostra un’educazione dominata quasi interamente dalla concezione medioevale del sapere. Essa si rivolge in gran parte soltanto al lato intellettuale della nostra natura […] non già ai nostri impulsi e alle nostre tendenze a fare, a costruire, a creare, a produrre sia per scopi utilitari sia per scopi artistici. […]  Ne consegue che noi scorgiamo dovunque intorno a noi la divisione fra persone ‘colte’ e ‘lavoratori’, la separazione della teoria dalla pratica”.

La ‘nuova scuola’ del manifesto non è certo la ‘scuola nuova’ di cui hanno necessità i nostri giovani per vivere in questo millennio, per affrontare le sfide che attendono loro e non certo chi oggi siede in cattedra, a cui competerebbe la responsabilità di attrezzarli per il futuro, un futuro che non consente di guardare indietro, di rifugiarsi nel passato, solo perché è l’unica coperta di Linus che si possiede di fronte alla propria impotenza intellettuale e culturale.

Per leggere gli altri articoli di Giovanni Fioravanti della sua rubrica La città della conoscenza clicca [Qui]

La riva del tempo di Roberto Dell’Oglio in libreria dal 5 giugno

da BookTribu

Un viaggio di ricerca, comprensione e accettazione. La riva del tempo di Roberto Dell’Oglio, edizioni BookTribu, in libreria dal 5 giugno, conclude la trilogia dell’autore Il fiume di mondi. Il viaggio di Edrik Akenah porta il lettore nel fluire di mondi fantastici che risponde al titolo della trilogia. Ma il viaggio non appartiene solo a vaste praterie azzurre e terre argentate, quanto al fluire di vite del suo protagonista che porta a riflettere su concetti atavici quali il bene e il suo opposto, il male. In questa saga fantasy, sorprendentemente, il bene e il male non sono altro da sé, bensì parte di chi legge, parte dello stesso Akenah. E così il viaggio, oltre alla ricerca, diviene superamento e infine scelta di chi vogliamo essere.

Roberto Dall’Oglio sottolinea come La riva del tempo sia “l’ultimo viaggio di un giovane eroe oltre i confini del tempo e dello spazio per restituire libero arbitrio là dove il destino è già stato scritto”.

Il primo romanzo della saga, La viola di Akenah, ha vinto il premio personaggi e ambientazione nel secondo concorso letterario nazionale di BookTribu, testimoniando la forza narrativa dell’autore, la sua capacità di concepire Il fiume di mondi e dargli corpo, voce, sentimenti e anima nei suoi protagonisti. E’ un fantasy che va oltre il suo genere, in quanto propone al pubblico un nuovo modo di concepire il fantastico e di renderlo presente in una lettura coinvolgente e mai uguale.

Roberto Dell’Oglio, nato a Trani nel 1995, è laureato in Informatica Umanistica all’università di Pisa, dove sta continuando gli studi per la laurea magistrale in Tecnologie del Linguaggio. La riva del tempo è il terzo e ultimo titolo della saga iniziata con La Viola di Akenah a cui ha fatto seguito La luna del deserto.

PER CERTI VERSI
Il pianto delle sirene

IL PIANTO DELLE SIRENE

Vorrei viaggiare
Laggiù
Con te
Poco importa
Se è difficile
O più ancora
Improbabile
Forse impossibile
Sono tutti dettami
della ragione
Poco importa
Per me vale
La tua bellezza
La gioia che esprimi
Dello spirito e della carne
La gioia che io avverto
Alla sola idea
Di sfiorarti
Mio fiore
Di donna
Immarcabile
E dolce
Con te
Vorrei ascoltare
La voce delle sirene
Piangere
Di fronte a te
Alla tua

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
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PRESTO DI MATTINA
Il nome a te dovuto

 

«Mi diranno: “Qual è il suo nome?” E io che cosa risponderò loro?», (Esodo 3,14)». Qual è il nome a te dovuto? Perché si creda che esisti, che sei vero, realtà e non pensiero, un sogno, un idea mia? Non desiderio mio di darti un nome, un mio vaneggiamento; al contrario: «al tuo nome e al tuo ricordo si volge tutto il mio desiderio» (Is 26,8).

Solo l’esperienza mistica e quella poetica riescono l’impossibile: nominare l’alto senza nominarlo e dire il nome segreto dell’amore fin dall’inizio e cantarlo senza enunciarlo, come è nel Cantico dei cantici: «Mi baci con i baci della sua bocca! Sì, migliore del vino è il tuo amore. Inebrianti sono i tuoi profumi per la fragranza, “aroma che si spande è il tuo nome”: per questo le ragazze di te si innamorano. Trascinami con te, corriamo!», (Ct 1, 2-4).
Solo quando si ama si sperimenta la voce a lui dovuta: «Una voce! L’amato mio! Eccolo, viene saltando per i monti, balzando per le colline», (Ct 2,8).

Proferire la voce ‘trinità’, come pure il lemma ‘amore’, senza il cuore, senza averlo incontrato, senza la paura di averlo perso e poi la gioia di averlo ritrovato e di nuovo di correre a cercalo, questo dire e confessare senza amore, è come l’eco di conchiglie vuote sulla spiaggia, labbra ruminanti dall’onda mosse, muovono il vuoto di una mortale afasia. O come “stroboli” aperti di pigna, dopo che il vento ne ha disperso le sementi, stanno come lingue rinsecchite tramutate in legno: fremono al vento parole prive di vocali, inservibili: «Quand’anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non ho amore, divento un bronzo risonante o uno squillante cembalo. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi l’amore, non sono nulla, a nulla gioverebbe», (1Cor 13,1-2).

Così è di chi prova a dire l’Altro nome ed ogni nome, senza l’arte “scombinatoria” dell’amore che lega e scioglie, costruttiva e creatrice di parole sempre nuove, e tuttavia ancora parole abbreviate, tronche nella loro finitezza, bisognose sempre di trascendersi, di protendersi al di là di sé stesse verso la loro intima sorgente, quella oltre ogni incontro: il volto dell’altro, sempre segreto e svelato ad un tempo, indecifrabile e detto, nascosto e ritrovato, circoscritto nella sua forma e cangiante e dispiegato all’infinito.

Così nome dopo nome, voce dopo voce, sguardo dopo sguardo, ancora oltre si ode nel silenzio il nome impronunciabile che è a lui dovuto: «Si, al di là della gente/ ti cerco./ Non nel tuo nome, se lo dicono,/ non nella tua immagine, se la dipingono./ Al di là, più in là, più oltre./ Al di là di te ti cerco./ Non nel tuo specchio/ e nella tua scrittura,/ nella tua anima nemmeno./ Di là, più oltre./ Al di là, ancora, più oltre/ di me ti cerco, Non sei/ ciò che io sento di te./ Non sei/ ciò che mi sta palpitando/ con sangue mio nelle vene,/ e non è me./ Al di là, più oltre ti cerco», (Pedro Salinas, La voce a te dovuta, Torino 1979, 11).

Anche i più solenni nomi e concetti della tradizione e teologia cristiane, distillati tra mille idiomi, come oro nel crogiolo nei primi concili, con l’intento di esprimere in sintesi la fede di tutti, decantati nel cuore di differenti culture di popoli per esprimere l’unico mistero della fede – come pure i misteri più insondabili della liturgia come quelli celebrati nella domenica della Santissima Trinità o del Corpus Dominirestano puro flatus vocis, semplici nomi, privi di consistenza per noi se non riescono a far udire l’altra voce: «Una voce! L’amato mio! Eccolo».

«La poesia è un’avventura verso l’assoluto. Si può arrivare più o meno vicino; si può fare più o meno strada, ecco tutto. Bisogna lasciar correre l’avventura, con tutta la bellezza del rischio, della probabilità, del gioco». Così Pedro Salinas descrive il suo itinerario poetico: un’erranza innamorata. Pertanto l’assolutezza della parola, come l’unicità del nome d’altri, sta oltre le parole e i nomi che nominiamo, voce che non può essere raccolta, se non continuando a desiderare, cercando e chiamando sempre di nuovo, attendendola anche quando giunge solo il suo silenzio e in quel silenzio gridi: “Trascinami con te, corriamo!”, tra un pieno e un vuoto, tra oscurità e chiarore, verso l’assoluto.

Lo stesso possiamo dirlo dell’esperienza mistica che è esperienza non di solitari e solitarie, neppure di pochi, ma di tutti coloro che osano la bellezza e il rischio dell’amore. Per Giovanni della Croce poesia e mistica furono abbracciate insieme come un’unica avventura, notte oscura, fiamma d’amor viva, salita al monte verso Kerem-El, il Carmelo, letteralmente ‘Vigna di Dio’.

Sabato scorso di mattina in libreria, sembrava aspettasse solo che gli passassi accanto per chiamarmi. La sua copertina non era nascosta tra i dorsi degli altri libri, ma esposta sullo scaffale in bella mostra. Proprio non si poteva non vederla, così familiare nel formato della collezione di poesia dell’Einaudi, nero su bianco: La voce a te dovuta. Poema, di Pedro Salinas, (Torino 1979). E lessi in fretta il breve testo per sentirne la voce e diceva: «E sto abbracciato a te/ senza chiederti nulla, per timore che non sia vero che tu vivi e mi ami». Trasalii! È questo un verbo che dice tutto e non esprime minimamente la dirompenza del sentimento che provai. Ma resistetti a quella voce seducente e non presi con me il libro; ne avevo già preso un altro: Scrivere per dire sì al mondo. Allontanandomi però stentii che era già segretamente entrato dentro di me a sparpagliarmi il cuore e i pensieri. Così andai all’Ariostea, certo che era là ad aspettarmi.

La raccolta poetica La voce a te dovuta appartiene alla piena maturità dell’autore, costituita da una settantina di brani. È tuttavia una raccolta unitaria, riunita come un poema d’amore per la continuità del tema che in essa si dispiega. L’ho sentita subito in alcuni tratti e versi così simile, oserei dire, così consonante al Cantico dei cantici, che è il luogo letterario, insieme ai testi profetici e alle beatitudini e parabole del Regno che meglio ci consente immaginare le cose future promesse nel Vangelo: promesse di giustizia, di pietà, di quell’amore più grande di tutti che sta nel dare la vita; un amore di cui non possiamo portarne il peso, se non a condizione che diventiamo familiari alla sua voce e la seguiamo come fosse una via, il nome a lui dovuto.

Immaginare la promessa: ecco il dono e il compito che lo Spirito chiede oggi ai cristiani per una conversione pastorale in stile sinodale. Occorre ridare volto, mani, piedi, cuore alle promesse e alle parole della fede di cui essi sono portatori, ascoltando, incontrando, accompagnando con il cuore. E non serve a nulla un semplice maquillage; non si cambia con i ritocchi di una cosmesi di superfice; non serve l’acido ialuronico per eliminare l’indurimento del cuore.

«Che cosa ci è stato promesso?»: si interroga Agostino nel suo Commento alla Prima lettera di Giovanni (IV, 6): «Saremo simili a lui, perché lo vedremo come egli è», ma aggiungeva con il sapere di chi ha amato e continua ad amare questo invito: «La lingua non è riuscita ad esprimersi meglio, ma il resto, le altre cose immaginatele, pensandole col cuore, (cetera corde cogitentur)». Ricreare il dirsi e il donarsi della fede, il suo credere e il suo sperare, a partire da un cuore pensante (Etty Illesum).

Le riflessioni di Maurice Merleau-Ponty (1908-1961) offrono alla teologia e al cristianesimo l’orizzonte di una fenomenologia della percezione e dello stile che consente di riscoprire uno “stil novo”, stile di abitare il mondo: «[Oggi] impariamo a veder nuovamente il mondo attorno a noi, da cui ci eravamo distolti nella convinzione che i nostri sensi non potessero insegnarci nulla di valido e che solo un sapere rigorosamente oggettivo meritasse di esser preso in considerazione … In un mondo così trasformato non siamo soli, e non siamo soltanto tra uomini. Questo mondo si offre anche agli animali, ai bambini, ai primitivi, ai pazzi, che lo abitano a modo loro e che coesistono con esso», (Conversazioni, Milano 2002, pp. 43-44).

Nel testo di Pedro Salinas c’è un passaggio per me significativo, illuminante, che mi ha ricordato il passare attraverso la notte oscura dei mistici spagnoli. Nella notte oscura, come insegna Giovanni della Croce, occorre restare abbracciati a colui che sembra averci abbandonato, lasciando solo il ricordo di una “pura voce d’ombra” e quella “solitudine immensa” di essere rimasti i soli ad amare l’altro che si è sottratto, come evaporato: «E sto abbracciato a te/ senza chiederti nulla, per timore/ che non sia vero/ che tu vivi e mi ami./ E sto abbracciato a te/ senza guardare e senza toccarti./ Non debba mai scoprire/ con domande, con carezze,/ quella solitudine immensa/ d’essere solo ad amarti».

Ma questa notte è per i mistici e i poeti e, per chi crede amando, la porta stretta che fa accedere ad un amore ancora sconosciuto; fa riudire una voce, una parola nuova oltre la parola, inimmaginabile e indicibile: un “incendio di amore” lo chiama Giovanni della Croce. Egli scrive: «se è vero che all’inizio della notte dello spirito non si avverte ancora quest’incendio d’amore, perché non ha ancora cominciato ad agire, tuttavia al suo posto il Signore dona subito un amore che verifica, permette di valutare, giudicare, un amore ‘estimativo’ di ciò che si sta vivendo». Una ferita d’amore sentita come un abbandono: «si tratta di un amore così elevato, che tutto ciò che l’anima soffre e sopporta di penoso nelle prove della notte oscura è il pensiero angosciante di aver perso Dio e di essere da lui abbandonata» (Notte oscura, 13,5). Oltre la porta della notte oscura si dice nel Cantico «trovai l’Amato del mio cuore, lo strinsi fortemente, e non lo lascerò» (Ct 3,4).

Nemmeno quel Dio, che ha ispirato il Cantico dei cantici per dare voce al suo nome impronunciabile Jhwh, è stato risparmiato da questa ferita d’amore, come di costato trafitto da lancia, “solitudine immensa” di essere il solo ad amare il suo popolo e sentire di non essere da lui riamato. «Perciò il Signore dice: “Poiché questo popolo si avvicina a me solo con la bocca e mi onora con le labbra, mentre il suo cuore è lontano da me, e il loro timore di me è solo un comandamento insegnato da uomini, perciò, ecco, io continuerò a fare meraviglie in mezzo a questo popolo, sì, meraviglie e prodigi; la sapienza dei suoi savi perirà e l’intelligenza dei suoi intelligenti scomparirà”», (Is 29, 13-14). «Essi hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne screpolate, che non tengono l’acqua», (Gr 2, 13). Ed ancora «Ad Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore. Come potrei abbandonarti. Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione» (Os 11, 3-4; 8).

Il modo tuo d’amare
è lasciare che io ti ami.
Il sì con cui ti abbandoni
è il silenzio. I tuoi baci
sono offrirmi le labbra
perché io le baci.
E sto abbracciato a te
senza chiederti nulla, per timore
che non sia vero
che tu vivi e mi ami.
E sto abbracciato a te
senza guardare e senza toccarti.
Non debba mai scoprire
con domande, con carezze,
quella solitudine immensa
d’essere solo ad amarti.
Se ancora non lo credo,
qualcosa già più denso,
più palpabile, la voce
con cui dici: «Ti amo»,
lotta per affermarti
contro il mio dubbio. Accanto
un corpo bacia, abbraccia,
frenetico, e cerca
qui la sua realtà,
in me che non ci credo;
bacia
per guadagnare la sua vita
ancora incerta,
puro miracolo, in me.
La notte è il grande dubbio
del mondo e del tuo amore.
Ho bisogno che il giorno
ogni giorno mi dica
che è il giorno, che è lui,
che è la luce: e li tu.
Ho bisogno del miracolo
insolito: un altro giorno
e la tua voce, a conferma
del prodigio di sempre.
Ed anche se tu taci,
nell’enorme distanza,
l’aurora, almeno,
l’aurora sì. La luce
che oggi lei mi porterà
sarà il gran sì del mondo
all’amore che ho per te.

Pedro Salinas, La voce a te dovuta. Poema, Torino, 1979

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

25 APRILE A METÀ
Radici del razzismo e scheletri negli armadi:
fortuna, violenze e morte di Italo Balbo (VII Parte)

“Un’immensa voragine di sabbia”: così all’inizio del XX secolo, Gaetano Salvemini definì la Libia, quando ebbe inizio l’avventura coloniale italiana.
Qualche anno più tardi furono molti contadini italiani a non credere ai miraggi di quella terra promessa, che la propaganda fascista descriveva fertile, rigogliosa, “liberata” e pronta per essere coltivata. Mussolini, volle che fosse il gerarca Italo Balbo ad occuparsi della colonizzazione agricola della Libia, dopo averlo sollevato dall’incarico di Ministro dell’Aeronautica del Regno d’Italia e inviato in qualità di Governatore nel 1934.
Balbo dichiarò che avrebbe seguito le gloriose orme dei suoi predecessori e avviò una campagna nazionale che voleva portare due milioni di emigranti sulla Quarta Sponda Italiana del Mediterraneo. Ne arrivarono soltanto 31mila, ma furono un numero sufficiente da trincerare dietro un muro militare, costruito nel 1931 in Cirenaica, per contrastare la resistenza delle tribù beduine degli indipendentisti libici Senussi.
Quel muro, il muro italiano di Giarabub, è tuttora presente, visibile e in funzione. Oggi viene indicato, mantenuto e utilizzato come efficace barriera anti-immigrazione. Si ritiene cioè che trattenga il flusso migratorio clandestino diretto verso l’Italia attraverso il Mar Mediterraneo, impedendo di raggiungere i luoghi di imbarco più facilmente accessibili che si trovano sulla costa del Golfo di Sirte.
muro italiano di Giarabub

muro italiano di Giarabub
Il muro italiano di Giarabub. 1931 (Libia)

Il muro italiano in Libia si presenta come una doppia linea di recinzione metallica lunga 270 chilometri, larga quattro metri, alta tre, visibilmente malandata ma resa insuperabile da chilometri di matasse di filo spinato che si srotolano dalle regioni a ridosso del porto di Bardia, lungo le sterpaglie desolate della Marmarica, fino a perdersi nel Grande Mare di Sabbia del Deserto Libico.
Questa grande opera venne commissionata alla Società Italiana Costruzioni e Lavori Pubblici di Roma, che la realizzò in sei mesi, dal 15 aprile al 5 settembre 1931, ad un costo complessivo di circa venti milioni di lire, impegnando nella costruzione 2.500 indigeni sorvegliati da 1.200 soldati e carabinieri, lungo un percorso totalmente privo di strade e di risorse idriche.
Il reticolato di filo spinato è sostenuto da paletti di ferro con base in calcestruzzo, vigilato dai ruderi fatiscenti di tre ridotte e sei ridottini. Lungo il suo percorso venero costruiti tre campi d’aviazione, una linea telefonica, vennero utilizzati 270 milioni di paletti di ferro e ventimila quintali di cemento.

Non potendo che apparire come ben piccola cosa di fronte all’immensità del paesaggio che la ospita, la presenza di questo muro colpisce perché oltre ad essere nel deserto, è deserto. Il compito di sorveglianza e controllo è sempre stato principalmente garantito dall’innesco di migliaia di mine antiuomo, cioè armi automatiche che esplodono e uccidono selettivamente, tutte le volte che vengono attivate da presenze umane.
Per un certo periodo, va però detto che fu oggetto di ricognizioni aeree sistematiche che venivano audacemente condotte, oltre che dai piloti dell’Aeronautica Militare, anche e direttamente dal loro capo supremo e Maresciallo dell’Aria Italo Balbo.
Oltre al muro, Balbo continuò a mantenere in vita quello che era stato fatto prima e qui negli anni precedenti: missioni e bombardamenti aerei.
E le derivazioni dei trimotori Savoia Marchetti usati da Balbo nelle transvolate atlantiche divennero caccia bombardieri siluranti chiamati Sparvieri, che continuarono ad essere utilizzati contro un’etnia composta da famiglie di pastori nomadi o seminomadi considerati ribelli, in bombardamenti incendiari e tossici.
Nei sei anni che Balbo visse e volò in Libia lo Sparviero abbatté tutti i record e tutti i primati di volo civile, velocità, trasporto, durata, distanza.
Poi il salto di qualità e da civile divenne un aereo militare: nella versione militare S.79K, il primo impiego operativo di 99 veivoli di questo tipo avvenne con l’intervento italiano nella guerra civile spagnola come “Aviazione Legionaria” e il 26 aprile 1937, tre S.M.79 dell’Aviazione Legionaria presero parte al bombardamento della cittadina basca di Guernica, un’incursione aerea compiuta (sotto il nome in codice di Operazione Rügen) in cooperazione con la Legione Condor nazista, che colpì nottetempo la popolazione civile inerme e ispirò il celeberrimo dipinto di Pablo Picasso.

L’allontanamento dal Ministero aveva eliminato Balbo dal centro del sistema di sviluppo industriale dell’Aeronautica, per cui lui, dopo esserne stato il motore e l’immagine, si ritrovò ad occuparne il ruolo di fantasma dell’opera in corso.
Sette anni prima era alla guida di imprese di voli transatlantici: il primo nel 1930 da Orbetello a Rio de Janeiro; il secondo tre anni dopo, da Orbetello a Chicago. Questa seconda crociera atlantica, organizzata per celebrare il decennale della Regia Aeronautica Militare Italiana nell’ambito dell’Esposizione Universale Century of Progress che si tenne a Chicago tra il 1933 e il 1934, lo aveva coperto di gloria.
Il governatore dell’Illinois e il sindaco della città di Chicago riservarono ai trasvolatori un’accoglienza trionfale: a Balbo venne intitolata una strada, tutt’oggi esistente, e i Sioux presenti all’Esposizione lo nominarono capo indiano, con il nome di Capo Aquila Volante. Il volo di ritorno proseguì per New York, dove il presidente Roosevelt organizzò, in onore agli equipaggi della flotta di 25 idrotransvolanti italiani, una grande street parade. Italo Balbo fu così il secondo italiano, dopo Diaz, ad essere pubblicamente acclamato per le strade di New York.
Gli esaltatori delle trasvolate atlantiche non mancano di citare ogni tipo di manifestazione organizzata a Chicago in onore del grande pilota: chissà perché omettono sempre di citare lo striscione che recitava “Balbo, don Minzoni ti saluta” e che commemorava il suo precedente onore acquisito come pioniere omicida dello squadrismo fascista.

Italo Balbo diario 1922Là, in Italia, partendo dalle valli del delta padano, aveva visto portare a compimento grandi opere di bonifiche che strapparono alle acque nuove terre da coltivare e nuove forme di diritti sindacali da reprimere grazie alla ”esaltazione della violenza come il metodo più rapido e definitivo per raggiungere il fine rivoluzionario”(Italo Balbo, Diario 1922, Mondadori).
Sempre là, nella bassa provincia Ferrarese, aveva inaugurato la strategia criminale delle esecuzioni mirate come responsabile diretto, morale e politico dei due omicidi premeditati, da lui considerati ’bastonate di stile’, che significavano frattura del cranio, somministrate al sindacalista Natale Gaiba e al sacerdote don Giovanni Minzoni.
Natale Gaiba venne assassinato per vendicare l’offesa, compiuta quando il sindacalista argentano era assessore del Comune di Argenta, di aver fatto sequestrare l’ammasso di grano del Molino Moretti, imboscato illegalmente per farne salire il prezzo, venisse strappato ai latifondisti agrari e restituito al popolo che lo aveva prodotto coltivando la terra, ridotto alla fame.
don minzoniDon Minzoni, parroco di Argenta, venne assassinato dai fascisti locali: Balbo non volle ammettere che fossero stati individuati e arrestati coloro che organizzarono l’assassinio e intervenne in molti modi, anche con la costante presenza in aula, per condizionare lo svolgimento e il risultato sia delle indagini che del processo penale, garantendo l’impunità del crimine.
Più infame ancora dell’appoggio politico e morale agli assassini, la diceria che don Minzoni fosse rimasto vittima di una ‘questione di donne’ e avesse un’amante, ignobile falsità costruita a partire da una colletta fatta dal parroco per consentire a una contadina di andare a nozze con un vestito degno: calunnia propagata anche dalle pagine del Corriere Padano, il quotidiano fondato da Balbo che chiamò Nello Quilici a dirigere immediatamente dopo che quest’ultimo, in qualità di caporedattore del Corriere Italiano, venne coinvolto a Roma nell’ambito delle indagini sul rapimento e omicidio dell’on. Giacomo Matteotti, segretario del Partito Socialista Unitario.

Qui, in Libia, Italo Balbo trovò condizioni esattamente contrarie e non riuscì a trovare, nemmeno con la forza, l’acqua sufficiente da donare alla terra di quei pochi coloni veneti e della bassa ferrarese, disperati e poverissimi, che, sotto l’enfasi propagandistica del regime, lo avevano raggiunto, si erano rimboccati le maniche e si erano illusi di rendere verde il deserto.
Fu sempre qui, in Libia, che Balbo, per tragica ironia della sorte o per fatale coincidenza, precipitò realmente in una voragine di sabbia e trovò la morte, colpito dal fuoco amico della artiglieria contraerea italiana.
Non fu peraltro l’unico ferrarese a rimanere vittima e protagonista di questo oscuro episodio avvenuto il 28 giugno 1940 nei cieli e sul suolo di Tobruk agli inizi della Seconda Guerra Mondiale. Con un ennesimo tributo di sangue vanamente versato qui, sulla sconfinata superficie libica, dove un muro difensivo alto pochi metri, è il beffardo simbolo di una torre di Babele che avrebbe dovuto innalzarsi fino in cielo, assieme a lui persero la vita anche i suoi più cari parenti e fidati collaboratori.

Evidentemente, mentre lui seguiva le orme dei grandi colonizzatori italiani, qualcos’altro stava seguendo le sue tracce, poiché la responsabilità storica di quanto avvenuto per sbaglio, come tragico errore e incidente di guerra, venne assunta in prima persona da un capo pezzo del 202 Reggimento di Artiglieria, che ammise di aver sparato raffiche di artiglieria contraerea all’indirizzo del trimotore Savoia Marchetti 79 pilotato dal suo comandante supremo nonché concittadino Italo Balbo, essendo significativamente pure lui, Claudio Marzola, 20enne, un ferrarese purosangue.
I colpi letali partirono da una delle tre mitragliatrici da 20 mm in dotazione a un Incrociatore Corazzato della Marina Regia che permaneva in rada semiaffondato e a scopo difensivo antiaereo, varato con lo stesso nome del santo patrono della città di Ferrara: San Giorgio.
Al momento del varo, avvenuto a Genova nel 1911, il motto dell’Incrociatore San Giorgio fu “Tutor et ultor” e a partire dal suo impiego nel primo e nel secondo conflitto mondiale venne cambiato in “Protector et vindicator” (Difensore e vendicatore).

Leggi la Prima Parte [Qui], la II [Qui],la III [Qui], la IV [Qui], la V [Qui], la VI [Qui]

Franco Ferioli, l’inviato di Ferraraitalia nel tempo e nello spazio, è il curatore della rubrica Controinformazione. C’è un’altra storia e un’altra geografia, i fatti e misfatti dell’Occidente che i media preferiscono tacere, che non conosciamo o che preferiamo dimenticare. CONTROINFORMAZIONE ci racconta senza censure l’altra faccia della luna,

Le storie di Costanza /
Carla Fracci, una Cenerentola intramontabile

 

Oggi è il 27 maggio 2021 ed è morta Carla Fracci, la più grande Prima Ballerina Etoile che il Teatro Alla Scala di Milano abbia mai avuto. Aveva ottantaquattro anni. Addio a un mito assoluto della mia infanzia. A una ballerina straordinaria.
Carlina, come la chiamava suo padre, aveva i nonni a Volongo, un piccolo paese della pianura Padana, non lontanissimo da Pontalba.

Arriva Valeria di corsa e irrompe nello studio dove sto lavorando.
“Zia Costanza! È morta Carla Fracci” dice. Sa che questa è per me una notizia significativa. Nutro per questa grande artista un’ammirazione che è durata una vita e che non si prosciugherà mai, continuerà ad alimentarsi grazie alle riprese dei suoi straordinari balletti.
E’ stata la più grande danzatrice di questo secolo. Sono sue alcune dei più conosciute e famose interpretazioni di ruoli romantici e drammatici, come Giselle, La Sylphide, Giulietta, Swanilda, Francesca da Rimini, Medea. Ha danzato con i più bravi ballerini del mondo: Rudolf Nureyev, Vladimir Vasiliev, Henning Kronstam, Mikhail Baryshnikov, Marinel Stefanescu, Alexander Godunov, Erik Bruhn, Gheorghe Iancu, Roberto Bolle.

La danza classica è molto impegnativa presuppone carattere, tenacia, allenamento costante, una dedizione assoluta, il controllo continuo del peso e della mobilità articolare.
Uno dei banchi di prova delle ballerine professioniste è costituito dai “fouettés en tournant”.
Si tratta di giri in punta su una gamba di perno mentre quella di lato funziona da frusta (45° alla seconda e passé con rond).
“ Zia mi senti, a cosa stai pensando?” chiede Valeria.
“Stavo pensando a quando Carla Fracci era giovane  e ballava Cenerentola”.
“Doveva essere molto brava”.
“Non solo era molto brava, era straordinaria.” le dico e lei piega la testa in segno d’assenso.

“Ma le hai ancora le scarpe di raso rosa con la punta di legno?”
“Non è legno, è gesso!” dico.
“Va beh, non fa molta differenza. Mi sono chiesta spesso perché le ballerine si rovinano i piedi con quelle scarpe tremende. Fanno male ai piedi solo a guardarle”.
“Per essere leggiadre e leggere come tante farfalle in primavera”.
“Ok ok” dice Valeria anche se continua a chiedersi come mai quelle punte di gesso possano davvero fare la differenza.
Recentemente è stato brevettato un nuovo tipo di punte. I componenti di supporto sono costruiti con materiali elastomerici infrangibili. Le punte da ballo sono rivestite una schiuma cellulare di uretano, lo stesso tipo di materiali che si trova nelle migliori calzature sportive. A differenza delle altre, le scarpe con questo particolare tipo di punta non si deformano né si deteriorano, durano cinque  volte in più delle tradizionali e possono essere lavate in lavatrice. Bel passo avanti davvero.

Ripenso a Carla Fracci e provo a visualizzare mentalmente alcune sue performance. Ma cosa era che la rendeva davvero così unica? Sicuramente una tecnica perfetta, ma anche una grande espressività, una capacità importante di “entrare nella parte”, di immedesimarsi nei sentimenti della protagonista dell’opera. Se uno guarda Cenerentola ballata dalla Fracci, non si vede Carla Fracci che balla, ma si vede Cenerentola. Una Cenerentola in carne ed ossa che ti trascina nel suo mondo fatto di sofferenza, di sorprese inaspettate e di un lieto fine così travolgente da far sognare tutte le bambine/adolescenti/donne che la guardano. Una eleganza intramontabile, una gestualità morbida e armoniosa che non lascia assolutamente niente al caso.  Una Cenerentola che si muove leggerissima ed elegante e che sfiora la terra volteggiando con il suo  principe in una favola che sa d’eternità. Carla Fracci è riuscita a fare questo, è riuscita a trasportarci in favole e storie  eterne dove il tempo si è fermato per assaporare una attimo di poesia, di eleganza, d’amore. Una danza espressiva piena di lacrime e sorrisi, un viso delicato e raffinato su cui spiccavano occhi scuri, intelligenti e profondi. La fatica nella danza di Carla Fracci non si vede, le lunghe ore alla sbarra, le prove infinite, i piedi pieni di vesciche. Non lo si vede affatto, non lo si ricorda perché non appartiene alla rappresentazione.

Forse è proprio questo ciò che di straordinario  quella ballerina è riuscita a fare. E’ riuscita a staccare la rappresentazione dalla realtà. Ci ha fatto entrare talmente dentro le storie che il suo corpo raccontava, che ci siamo dimenticati che quel corpo stava facendo fatica, stava soffrendo e forse anche sentendo male. Nei balletti di Carla Fracci, come in tutto ciò che sembra quasi eterno, non c’è dolore, c’è una sospensione del tempo ordinario che sa portare lontano, in mondo diverso dove leggere danzano le ore, senza ancoraggio a nessuna quotidianità. Quella donna leggiadra ha spiccato più volte un volo verso il cielo. In una specie di sfida alla gravità, annullando il tempo, contro la caducità di tutti  i sentimenti terreni verso il recupero di una spiritualità che sa d’eterno.
Credo ci sia una relazione tra l’arte vissuta a questi livelli e la spiritualità. C’è anche una relazione tra l’arte e l’uso appropriato del corpo. Un corpo che si piega con i suoi movimenti al volere dell’artista, plasma una storia e la rende vera, veritiera, auspicabile e realista.

Oggi Carla Fracci è morta ma la sua arte è eterna e insieme alla sua arte è diventata eterna lei.
Quella bambina che aveva i nonni che abitavano a Volongo e d’estate passava sempre le vacanze nei campi della pianura padana, ha saputo allungare una briciola di vita fino a farla diventare infinita, ha saputo coprire con un manto stellato un po’ del suo tempo e farlo diventare un sogno.
L’arte è così, la liberazione della creatività a servizio della rappresentazione è così, la danza è così e lo è nella misura in cui sa fondere gestualità, corporeità, musica e pathos. Nella danza di Carla c’è molto Pathos.

“ Ogni tempo ha i suoi grandi artisti” dice Valeria.
“Si” le rispondo. “Carla Fracci, lo è sicuramente stata”.
“Anche Virna Toppi lo è” dice Valeria.
“Si” le rispondo. “Anche Virna Toppi è bravissima. Una grande ballerina”.

Ma Virna Toppi è giovane, sulla cresta dell’onda adesso, proprio adesso mentre io e Valeria siamo qui nel mio studio a ricordare una grandissima ballerina che ci ha appena lasciato.  Proprio in quest’attimo in cui la morte ha interferito in quell’incredibile mondo che Carla Fracci ha saputo creare e rendere eterno. E proprio in questo tremendo attimo, il dolore è riuscito a perforare l’eternità poetica che lei stessa ha saputo creare.  Come se lei fosse l’unica in grado di riportarci al mondo, dopo averci trascinato via. Pochi a questo mondo hanno saputo fare tutto ciò, renderlo vero almeno per un po’.

Quando un corpo si muove con eleganza affascina, l’armonia del gesto è una delle premesse di quasi tutte le forme d’arte.

Prendee anca questa questa, la ghà un bel faccin” disse nel 1946 la direttrice della scuola di danza della Scala, rendendo felice oltre alla bambina, suo padre Luigi Fracci, il manovratore che col suo tram Linea Uno passava tutti i giorni davanti al Piermarini.

A ME BATTIATO…
Memorie di un giovane catanese

 

A me Battiato ha fatto chiedere cosa fosse la Patria, anni ’90, periodo delle autobombe, io bambino siciliano, di famiglia militante antimafia.
Fisiognomica e altri album mi hanno fatto domandare e sentire quanto fossi vicino a popoli del sud e dell’est del mediterraneo. Una Sicilia che è sempre stata terra di molti popoli, la stessa che in queste decadi istupidite (e non da sola) dagli schermi, dal tutto fatto e pronto, forse va perdendo questi suoi millenari attributi. Battiato faceva concerti ballando su tappeti persiani, danzava danze di quelli che oggi crediamo barbari del sud, meditava nei deserti (non riducendo il mondo a un idiota scontro di civiltà).
Battiato dava suono ai suoni e agli ambienti della terra nostra, di altre terre vicine, oltre che del sintetizzatore e della propria mente.
A 16 anni, investito da un motorino, investivo l’obolo dell’assicurazione così: una bicicletta, un mucchio di rullini fotografici e quasi tutta la discografia di Battiato disponibile all’epoca (poi lentamente ma piacevolmente dispersa tra i vari amici che la chiedevano, più o meno esplicitamente, in prestito). Così ho avuto modo di ascoltare quasi tutto, dai primi pezzi elettrizzanti incomprensibili e cacofonici, a quelli più orecchiabili e (diciamo) “intuibili”. Per cui su tutte le conversazioni che avevamo da adolescenti, soprattutto nelle estati calde, ormai bolognesi, traboccavano delle citazioni da Battiato.
Il trascorrere del tempo e delle cose ha ridotto di molto la mia disponibilità ad ascoltare i suoni della natura, degli ambienti, e ad apprezzare la morbidezza della loro comunicazione, umana, animale, ambientale. Al suo posto è entrato, non un sintetizzatore, ma un linguaggio macchina, che oggi permea la vita dei più, e sta rimodellando, nostro malgrado, il nostro modo di sentire. Dove il modello di riferimento è qualcosa di digitale, discreto (in senso matematico), poco sfumato, prevedibile e ordinato. Per via del tempo dato alla riflessione, nel tempo musicale, Battiato è per me un simbolo in controcorrente.
Una volta (decisamente prima della moda dei vinili) incredibilmente trovai una copia usata in vinile di Giubbe Rosse. Album specchio del mio sentire di giovane catanese (…e le lucertole attraversano la strada…). La regalai a una ragazza di cui ero innamorato.
Da quarantenne discreto, ordinato e razionale, potrei dire che è una cazzata, perché se piaceva a me non vuol dire che piacesse a lei. Ma è nei tempi morti, nelle sfumature, nel mistero che non abbandona il proprio spazio all’efficienza che possiamo contemplare, la natura dentro e intorno a noi, il sentire, le emozioni.

cover: Franco Battiato al Festival Gaber, 2010 (wikimedia commons)

FANTASMI
Una cosa talmente piccola

 

Una nevicata così se la ricordava solo da bambina. Quanti anni poteva avere? Poteva avere cinque anni? Forse invece non l’aveva mai vista in vita sua una nevicata così, e tutto quel bianco la portava indietro, a quando era molto piccola, o anche prima, prima ancora che le cose avessero un nome. Mentre lo aspettava – e questa non era una novità perché buona parte della sua giornata la passava ad aspettarlo – non poteva staccare gli occhi dalla grande finestra. Dietro quel muro bianco in confuso movimento non si vedeva niente.
Una settimana dopo era già tutto finito, concluso, archiviato. Aveva anche smesso di piangere, e aveva dovuto insistere, quasi arrabbiarsi con sua sorella: SI’ CAZZO, sono sicura, voglio solo stare un po’ sola, è permesso? E sua sorella: Ma guarda Nora che non mi costa nulla rimanere, a casa mia è tutto sistemato, ci facciamo qualcosa per cena.
Le aveva risposto male: NO, DICO DAVVERO, VA VIA!, scusami, prometto che domattina ti chiamo.
C’è ancora un po’ di neve in città, sul prato dei giardinetti e in piccoli mucchi sporchi e ghiacciati sui bordi delle strade, la temperatura è scesa di dieci gradi. Nora è sola, cammina per le stanze, ha compiuto 56 anni a ottobre, non è neppure vecchia. Mentre si muove per la casa, le viene in mente che dovrebbe occupare meglio quel tempo, pensare a qualcosa di utile ma non riesce a smettere di camminare, non riesce a fermarsi su un pensiero, ecco, l’ha trovato un pensiero, è un ricordo recente. Nella camera da letto del figlio, è lei che parla: Allora ti prendono? Lui ride, – Va piano mamma, è solo un provino, vado a Milano con il mister e per tre giorni mi alleno con la Primavera, mi vedono giocare, mi fanno tutti i test medici, alla fine mi diranno qualcosa. – Lei aveva sentito un tremito, una piccola paura che le si allargava dentro, ma era una cosa che il figlio non doveva vedere. Così ricordava una per una le sue parole: – Fammi capire bene, vuol dire che potresti andare a stare a Milano? E io, e il liceo, la maturità? No, caro mio: Mi oppongo vostro onore! – Così si erano messi a ridere tutti e due.

A Milano, al provino del Milan, non aveva fatto in tempo ad andarci. Per poco però, sarebbero bastati due giorni in più. Così se n’era andato da “non calciatore”, o almeno da “non ancora calciatore”. Ma sarebbe stato un calciatore o un fisico teorico? O un ingegnere come suo nonno? Oppure? Lui poteva diventare veramente tutto, perché lui era bello, lui era intelligente, lui era giovane, lui era buono. Così ragionano le mamme dei loro figli, così Nora ragionava fra sé. Le venne una voglia improvvisa di spaccare qualcosa, a mani nude, un vetro, un oggetto, un vaso da fiori. Era ancora molto incazzata, con Dio naturalmente, esattamente come Giobbe, fanculo, molto di più di Giobbe. Poi le vennero, lei li chiamava così, i pensieri paralleli. Lei non li chiamava ma loro arrivavano lo stesso. Se non avesse preso la bicicletta? Con quella nevicata poi. E se non fosse uscito per niente? Che bisogno c’era di uscire, col freddo, la neve, il buio? Se invece si fossero messi a fare la loro gara di solitari? Vinceva più lui che lei, gli venivano quasi sempre, lo zoppo, la piramide, Napoleone, e senza imbrogliare. Anche quando era un bambino piccolo e sbagliava i verbi e inventava le parole, vinceva lui, senza trucco e senza inganno. Scartò quei pensieri, non erano solo inutili, le facevano proprio male. Si concentrò sull’unico pensiero, sull’unica cosa che importava, il tormento di quell’ultima settimana. Dov’era ora il suo Luca?

Passò un anno, un anno intero, non le sembrava giusto e possibile ma passò ugualmente, e si era ancora in inverno, ancora faceva buio alle cinque, fuori ancora nevicava fitto. Non era cambiato molto o poco in quella casa. Nora adesso aveva 57 anni, ma vestiva allo stesso modo, si incantava davanti alla grande finestra, cercava di guardare attraverso il bianco confuso della neve, camminava per le stanze, pensava quello stesso pensiero.
Non era vero che non era cambiato niente. Da alcuni giorni e alcune notti Nora aveva una nuova idea. Una cosa per passare il tempo? Forse poteva chiamarlo così, un passatempo, un passatempo innocente, e se era una cretinata chissenefrega, e se era una follia chissenefotte. Quell’idea gliela aveva messa in testa suo fratello, senza volere, anzi volendo la cosa contraria, perché suo fratello Luca – si chiamava Luca anche lui come suo figlio ma il suo Luca era diverso – era una persona positiva, talmente impegnato nella sua azienda. Le telefonava tutte le settimane. Tutti i lunedì alle diciannove e trenta, e non saltava una settimana. Al telefono Nora sentiva la voce grossa del fratello maggiore che compiva il suo dovere e le diceva cosa doveva fare. Glielo ripeteva da un anno, Nora devi uscire, devi vivere! Ma sì, pensava Nora, era un discorso molto ragionevole, anche se ci sarebbe stato da discutere. Invece rimaneva zitta, sapeva che l’amore per la sorellina Nora si traduceva in lui solo in quell’imperativo categorico che aveva guidato tutta la sua vita. Così Nora ascoltava il fratello, si sottoponeva docilmente alle periodiche telefonate, ma non si piegava. Nonostante quel mantra settimanale, lei si limitava a sopravvivere, rimaneva preferibilmente sola, più o meno chiusa in casa, mangiando quasi niente, smettendo ogni occupazione e interesse.

Suo fratello non era abituato ai rifiuti. Come tutti gli uomini potenti non poteva sopportare l’impotenza. Non fosse stata la povera Nora, la sorella che aveva perso l’unico figlio, si sarebbe di sicuro alterato, avrebbe gridato e sgridato, sbattuto il pugno sulla scrivania. Con Nora sembrava una battaglia persa. Ma qualche giorno prima, l’ultima telefonata non gli era riuscita né paterna né affettuosa, si era invece conclusa con una vera e propria filippica. – Ascoltami bene Nora, Luca è morto e di lui quaggiù non è rimasto niente, niente di niente. –  Anche questa volta Nora lo aveva ascoltato, in silenzio, non ce l’aveva con la furia impotente del fratello. Ma anche questa volta non era d’accordo con lui.
Eppure lui le aveva detto qualcosa di nuovo, una piccola parola aveva messo in moto una enorme macina nel suo cervello, era come se si fosse spalancata una porta. Nora spense il cellulare e provò a guardare oltre quella porta, a inquadrare una cosa di cui non vedeva ancora bene i contorni, proprio come ci capita davanti a una fotografia che riconosciamo ma di cui non distinguiamo bene le figure fuori fuoco. Doveva pensarci, pensò, doveva lavorarci su.

E Nora ci lavorò, di giorno e di notte soprattutto, perché la notte i pensieri scivolano meglio gli uni sugli altri, liberi dal guinzaglio stretto del nostro io. Dopo appena due giorni Nora aveva raggiunto il primo risultato. Sembrava, alle prime, una semplice riflessione, un pensiero celibe come tanti, ma l’intuizione trovò presto conferme, così Nora la promosse al rango di una tenue certezza, infine sentì come il sapore di una vittoria, la prima dopo tanti mesi. Di fronte a lei, dentro di lei, vedeva e toccava una verità a prova di ogni confutazione. Come aveva detto suo fratello Luca? Non è rimasto niente di niente, aveva detto. Ma come era possibile? Sentiva che per nessuna ragione al mondo il suo Luca, morto a 17 anni in bicicletta per colpa di un camionista disattento, avrebbe potuto andarsene, liquefarsi, sparire del tutto. Fosse stata pure la regola aurea dell’Aldilà, l’avessero anche costretto con gli schiaffi o i forconi, o l’avesse voluto lui stesso, per stanchezza o voglia di oblio, in tutti i casi possibili, immaginabili e inimmaginabili, il suo Luca non poteva lasciarla sola, senza di lui, senza niente di lui. Luca, questo pensava ora Nora, doveva essere lì, da qualche parte ma non troppo lontano. Almeno un pezzetto di Luca, un piccolo resto, un frammento, una scheggia, una semplice ombra. Dopo tanto tempo, Nora provava qualcosa di molto vicino alla felicità. Non era un pensiero razionale? Chissenefrega, chissenesbatte, chissenefotte, Nora si congratulò con se stessa. Strinse forte le mascelle, adesso cominciava la parte più difficile.

Ma dove? Iniziava la caccia, le venne da ridere, era la sua caccia al tesoro. Rimase qualche minuto indecisa. Si guardò intorno, cercava un segno, un’ispirazione come la chiamava sua nonna. Ma dove? Nella camera da letto di Luca – era rimasta come quel giorno, lei non aveva toccato niente – o nella libreria, infilato tra un volume e l’altro, o nelle pieghe del divano, dietro la tela del quadro dello sconosciuto antenato, o in dispensa tra le bottiglie di conserva e i vasi di marmellata di marasche. Luca a sette anni ne aveva svuotato uno tutto intero, armato solo di un cucchiaino. Oppure in garage, sotto la sella della sua moto, nel cassetto dove stavano tutti gli attrezzi del mondo, o nel ripostiglio dove non guardava mai nessuno. Oppure. Potrebbe. Forse. Magari. E se fosse nella grande cassa in soffitta, dove dormivano i suoi giochi di bambino. Bisognava entrare nella testa di Luca: “quella cosa” l’aveva lasciata dietro di sé prima di andarsene, certo, potrebbe essere, ma forse lui “quella cosa” era tornato indietro dopo, era tornato apposta per riportarla, per darla a lei, per lasciarla a lei. Nora cercava, pensava e cercava, con gli occhi, col naso, le orecchie. Cercava di giorno, ma di notte soprattutto, a luce spenta, perché nel buio non c’è nulla che ti distrae ed è più facile scoprire i tesori nascosti.

Quella domenica mattina c’era un bel sole, quel sole d’inverno che non scalda il corpo ma l’anima sì, le venne in mente la canzone di Jannacci, “c’era un bel sole che bruciava gli orti, c’era un bel sol e asciugava i morti”. Cercò la canzone su Youtube e la mise a tutto volume. Quando un’ora più tardi, come tutte le domeniche mattine, arrivò sua sorella la trovo così, in piedi, vestita con il suo vestito a fiori rossi e gialli. In camera da pranzo Nora ballava da sola mentre andava la musica. Era un ballo lento, leggero, pieno di grazia. Sua sorella si fermò a guardarla sulla soglia della stanza e vide Nora a sedici anni appena compiuti, come l’aveva amata e come l’aveva invidiata. Ma in questa mattina di sole Nora è proprio strana e non è proprio vero che balla, sembra come dondolarsi, si culla, si abbraccia. Nella mano destra stringe una cosa segreta, una cosa raccolta chissadove. Non è una cosa grande, né una gran cosa, deve essere un oggetto minuscolo per stare tutto intero nella piccola mano di Nora. La sorella non ha mai visto in vita sua una scena del genere. Ma ecco, non c’è da preoccuparsi, ora Nora la sta guardando, mentre balla le sorride.

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Maggio 2060: Galassia-111

 

Mia figlia Axilla ha vent’anni e assomiglia a mio marito Luca e alla sua famiglia.
Mio figlio Gianblu ne ha diciotto e assomiglia a mia madre e alla zia Costanza. Oltre alla somiglianza fisica, Gianblu assomiglia ai Del Re anche per aspetti caratteriali. Gli pace leggere le poesie della zia Costanza e poi interrogarla su quando le ha scritte, su chi e cosa le ha ispirate. Gli piace la vecchia soffitta della casa di via Santoni, il giardino della zia Costanza con i cespugli di ortensie, la voliera con i canarini e le due gatte soriane dal manto scuro. Ogni tanto mi ricorda che c’è un po’ di confusione sui nomi delle due gatte, ed è vero. Quella che si chiama Ombra è di color nero e quella che si chiama Nera è tigrata, a strisce marroni e nere. Le gatte non sono state chiamate così per una precisa strategia, o per divertire la gente, ma in maniera casuale. Nera ha quel nome perché la prima volta che la zia e Axilla l’hanno portata dal veterinario, questi ha aperto la cartella sanitaria del felino e ha chiesto il nome. La zia e Axilla si sono guardate senza sapere cosa rispondere, perché la gatta veniva regolarmente chiamata Gatta e non aveva un nome vero e proprio. La zia ha guardato Axilla e le ha detto:
– Dai Axy scegli un nome
– Ma io non so che nome darle – le ha risposto Axilla,
– Il primo che ti viene in mente
– Nera – ha detto Axy e così, senza farselo ripetere due volte, il veterinario ha registrato il nome e la gatta è passata dal chiamarsi Gatta al chiamarsi Nera in un batter d’occhio.

Nera è così diventato il suo nome ufficiale anche se, in casa, non riuscendo a dimenticarci il modo in cui era sempre stata chiamata, le è stato appiccicato il nuovo nome a quello già consolidato e il nome di Gatta è diventato Gatta-Nera. Già questo era un po’ una stranezza, ma non è finita lì. Gatta-Nera, prima di essere sterilizzata, ha fatto quattro meravigliosi micini. Tre li abbiamo regalati e uno l’abbiamo tenuto. È una femmina con un manto folto, lucidissimo e nero, sembra una piccola pantera. Una gatta bellissima, l’ha detto anche il veterinario.

Questa volta la zia e Axilla non si sono fatte sorprendere e, prima di portarla al controllo sanitario, hanno scelto il nome. La piccola pantera si chiama Ombra, di certo non la si poteva chiamare Nera visto che Gatta-Nera è sua madre. Così, a causa di questo strano incrocio di eventi e casualità, non è la gatta nera a chiamarsi Nera, ma la gatta tigrata detta Gatta-Nera. Ogni volta che lo raccontiamo, le persone ridono di gusto. Chi non ride è la zia Costanza che sostiene che i nomi delle sue gatte non hanno niente di buffo, anzi sono seri e molto belli. Ma lei è unica, come sempre.

Questa vicenda diverte anche Prisca, l’amica di Axilla, che se l’è già fatta raccontare più volte.
Prisca va spesso con Axilla e Galassia-111 a trovare la nonna e la zia Costanza nella vecchia casa di via Santoni Rosa al numero civico 21. Come arrivano, entrano in casa, si tolgono i cappotti e si mettono a cercare Gatta-Nera e Ombra. Anche Galassia-111 ha un cappotto impermeabile, perché le apparecchiature elettroniche temono molto le infiltrazioni d’acqua che le danneggiano irrimediabilmente. I temporali improvvisi sono una delle principali cause di morte dei nostri Robot. Queste straordinarie macchine assomigliano ai loro proprietari, li imitano e acquisiscono da loro le modalità di comportamento. Amano stare all’aperto, giocare, leggere, parlare e fare tutto quello che fanno i loro umani di riferimento, oltre a svolgere i lavori per cui sono stati programmati.

Dopo essersi tolte il cappotto Prisca e G-111 si guardano intorno e poi compiono dei saluti di rito.
Galassia-111 è molto veloce nei saluti. – Ciao a tutti – dice, mentre Prisca fa il giro di tutti gli umani di via Santoni (li chiama i Santoniani) e degli animali domestici. Poi, quasi sempre, mentre Galassia-111 dice che vuole una caramella e trova qualcuno che gliela offre, Prisca saluta Pit-x, il canarino-robot della zia.
– Ciao Pit-x, pit pit.
– Pit – risponde il robot-canarino della zia,
– pit pit – dice Prisca
– pit pit pit – dice Pit-x.

Prisca salute sempre anche le gatte:
– Ciao Gatta-Nera tigrata e ciao Ombra nera.
Abbiamo notato che i nomi delle gatte mandano in confusione i circuiti meccatronici di G-111. Comincia a dire:
– Gatta-nera-tigrata-ombra-nera – ma, in fila a quel modo, le parole non le sembrano sensate e allora comincia a mescolarle cercando di costruire una catena di senso:
– Gatta-ombra-tigrata-nera-nera – e poi: – Ombra-nera-tigrata-nera-gatta – e poi ancora: – Nera-nera-tigrata-gatta-ombra.

Nel corso di questi ultimi anni, Galassia-11 ha cercato più volte di trovare un senso alla catena di parole che si può comporre con i nomi delle nostre gatte, inanellando tutte le combinazioni possibili, fino a quando una volta ha esclamato:
– Sbaglio, sbaglio! C’è una parola in più! Non bisogna ripetere “nera” due volte ma: “Gatta-tigrata e Ombra-nera”.
Siamo rimasti di stucco. I colori delle due gatte erano stati ricomposti semplicemente eliminando una parola di troppo (il secondo nera) ed erano quelli giusti. Non sappiamo come, Galassia-111 era riuscita ad associare il vero colore delle gatte al loro nome, semplicemente eliminando il “doppio nera” e, per uno strano caso, la sequenza aveva acquisito una sua verità ed efficienza.

Il mondo dei Robot è sorprendente, l’acquisizione per imitazione combinata alla programmazione elettronico-informatica sa davvero stupire.  Dopo esserci ripresi dall’exploit di G-111 ci siamo chiesti come fare a spiegarle che in realtà non c’è un nome di troppo, ma che i nomi delle gatte non corrispondono al loro colore. Come dirle che, per una strana confusione, il nero non era associato alla gatta nera, ma era il nome proprio della gatta tigrata, come dirle che Gatta era usato, sia come nome generico, che come nome proprio, che Ombra era il nome della gatta nera, che, anche se Gatta era tigrata, non si chiamava Tigrata, ma Gatta-Nera per un miscuglio di tradizione, casualità e bizzarria di Axilla e Costanza, di fretta del veterinario. In quel momento abbiamo evitato di provarci e nessuno ha commentato l’errata conclusione del rebus da parte di Galassia-111.

Passati alcuni giorni Prisca, convinta che il suo Robot sia il più intelligente di Pontalba, ha provato a spiegarle la situazione. Abbiamo visto uno spettacolo incredibile. Il circuito elettronico che aiuta G-111 a ragionare, ha cercato di nuovo di trovare un senso logico alle informazioni che le stava trasmettendo Prisca, ma non c’è riuscito. L’abbiamo vista stare prima ferma immobile senza dire nemmeno una parola, poi cominciare a roteare le telecamere degli occhi, poi a roteare le braccia meccaniche in maniera vorticosa e, infine, l’abbiamo sentita ripetere: – nera, nera, nera, nera, nera, …- Mamma mia che spavento abbiamo preso quel giorno!.

Il cervello di Galassia-111 è andato ‘in loop’. La scienza informatica definisce ‘loop’ una operazione che si ripete in ciclo, di solito in modo controllato. Può durare N volte (cioè un numero definibile di volte), o finchè non si verifica una particolare condizione. Oppure, come nel caso di Galassia-111, si dice che un programma è andato ‘in loop’, quando si mette nelle condizioni di girare su se stesso all’infinito, a causa di un errore di programmazione, o del verificarsi di accidentalità non previste in sede programmatoria.
Povera Robot, era nei guai. Il suo cervello si era confuso ed era entrato in un potente loop, continuava a ripetere “Nera, nera, nera, nera, nera …”  con le telecamere strabuzzate dalle orbite e le braccia che mulinavano paurosamente.

Prisca vedendo la scena si è messa a piangere, mia madre a ridere di gusto e Axilla, con il suo solito sangue freddo, ha preso il telefono e chiamato Luca, suo padre, che è un ingegnere elettronico molto bravo.
– Paaaa aiuto!
– Ciao Axy, cosa ti succede?
– Galassia-111 sta male, non capisce il nome delle gatte della zia Costanza e continua a ripetere nera, nera, nera, nera, nera …
– C’era da aspettarselo – ha commentato Luca con un tono di voce poco sorpreso.
– Il mondo di via Santoni è troppo bizzarro per i nostri Robot, li mette in crisi.

Ascoltando la sua voce al telefono non si capiva se era divertito o preoccupato o un misto di queste due cose.
– Provate a farla uscire dal loop distraendola. Axy dì a Prisca di darle un gelato al pistacchio.
Così Axilla è corsa in gelateria e poi è tornata a casa con il gelato al pistacchio.
Quando Galassia-111 ha visto il gelato si è immobilizzata. Prima ha ripetuto ancora per qualche volta – nera, nera, nera., …-  e poi si è fermata, ha fatto roteare le telecamere a ha alzato le braccia verso Prisca che le tendeva il gelato. Dopo un momento di silenzio, ha detto:
– verde-pistacchio-verde-pistacchio-gelato!
Evviva era uscita dal loop.
Noi che abbiamo visto la scena siamo rimasti impressionati, mentre la zia Costanza, che era andata ad innaffiare le ortensie, ha commentato quando è rincasata e Axilla le ha raccontato l’accaduto:
– Chissà perché ti è venuto in mente di dire al veterinario che volevi chiamare Gatta con il nome Nera. Hai messo a segno un colpo straordinario.
Zia e nipote si sono guardate e sono scoppiate a ridere. Sanno di aver combinato un pasticcio.

Costanza e il suo mondo sono solo apparentemente diversi e distanti dal mondo che usiamo definire “reale”, e quasi sovrapponibili ad ogni mondo interiore. Chi fosse interessata/o a visitare gli articoli-racconti di Costanza Del Re, può farlo cliccando [Qui]

Welfare: Riapertura in sicurezza dei Centri estivi, in Emilia-Romagna si parte il 7 giugno.

 

Welfare. Riapertura in sicurezza dei Centri estivi, in Emilia-Romagna si parte il 7 giugno, pronto il Protocollo operativo condiviso con tutte le realtà interessate. Nella nuova ordinanza della Regione il via libera alle attività per bambini e bambine e ragazzi e ragazze dai 3 ai 17 anni, dopo l’approvazione da parte del Governo delle Linee guida nazionali. La vicepresidente Schlein: “Un’opportunità per i più giovani e un sostegno per le famiglie”.

Tra le misure previste per garantire la sicurezza di partecipanti, personale e familiari: attività il più possibile all’aperto, inclusione di disabilità e fragilità, organizzazione in gruppi stabili di massimo di 25 ragazzi, omogenei per fasce di età, rispetto delle norme igieniche e di sanificazione, anche di materiali e giochi, utilizzo delle mascherine.

Bologna – In Emilia-Romagna si conferma per il prossimo 7 giugno la riapertura dei Centri estivi. Già annunciato nelle scorse settimane, il via libera ufficiale all’inizio delle attività, contenuto in una nuova ordinanza della Regione, arriva a seguito dell’approvazione da parte del Governo delle Linee guida nazionali, allegate all’ordinanza dei ministri della Salute e delle Pari opportunità firmata il 21 maggio scorso.

Si tratta dell’ultimo passaggio formale necessario per la ripresa delle attività estive per bambini e ragazzi tra i 3 e i 17 anni di età. Viale Aldo Moro, infatti, aveva già provveduto ad aggiornare e condividere con il tavolo regionale, composto da enti locali, enti gestori, coordinamenti pedagogici territoriali, organizzazioni sindacali e sanità regionale, il Protocollo regionale per i centri estivi nelle strutture, che ora andrà ad integrare le Linee guida nazionali.

“Abbiamo lavorato tutti insieme per conciliare il diritto all’educazione e alla socialità di bambine e bambini che hanno sofferto molto le misure restrittive, con la massima tutela della sicurezza loro, delle loro famiglie e del personale che lavora nei Centri estivi- sottolinea la vicepresidente con delega al Welfare, Elly Schlein-.  E ora che anche le Linee guida nazionali sono state emanate, tutto è pronto per ripartire con un servizio fondamentale per i bisogni dei più giovani e per la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro per le famiglie”.

Il Protocollo, in sintesi:

Le norme regionali riguardano i requisiti di accessibilità, i requisiti per il personale e per i volontari e la formazione sulle misure anti-Covid, le modalità di svolgimento in sicurezza delle attività e dei giochi, le misure precauzionali da rispettare per prevenire la diffusione del virus, le regole per l’accompagnamento e il ritiro degli iscritti, le procedure da seguire in presenza di casi positivi sospetti.

Alla base del Protocollo regionale ci sono sempre il distanziamento e l’uso delle mascherine e dei dispositivi di protezione per il personale, attività da svolgere il più possibile all’aperto, pulizia e sanificazione delle superfici e degli oggetti, oltre all’aerazione costante degli ambienti in caso di permanenza in spazi chiusi.

Tra gli altri provvedimenti indicati per garantire la sicurezza a bambini, ragazzi ed educatori, losvolgimento delle attività in gruppi stabili di massimo 25 iscritti con adeguati rapporti numerici tra educatori e bambini/ragazzi. Ladisponibilità di diversi spazi per lo svolgimento delle attività programmate, attenzione ai contatti, pulizia e disinfezione dei materiali e areazione costante degli ambienti. Attenzione particolare all’inclusione di bambini con disabilità o in condizioni di fragilità o vulnerabilità; accompagnamenti ed entrate scaglionati.

Il contributo regionale:

Confermati per il quarto anno consecutivo i contributi della Regione alle famiglie per sostenere i costi delle rette di frequenza: 6 milioni di euro provenienti dal Fondo sociale europeo e assegnati a Comuni ed Unioni per finanziare il progetto di conciliazione dei tempi lavoro-famiglia, in un anno che, per le famiglie e le donne soprattutto, ha comportato su questo fronte grandi disagi e sacrifici. Il contributo massimo sarà di 336 euro a figlio, a copertura totale o parziale in funzione del costo effettivo di iscrizione e potrà permettere la partecipazione a Centri estivi anche diversi, e per settimane anche non consecutive; unico vincolo è l’importo massimo riconosciuto per ciascuna settimana di 112 euro. Requisito economico necessario per beneficiare del sostegno, riservato alle famiglie (anche affidatarie) composte da entrambi i genitori, o uno solo in caso di famiglie monogenitoriali, occupati e residenti in Emilia-Romagna: un Isee entro i 35mila euro, rispetto ai 28mila dell’anno scorso. Dunque, un allargamento della platea dei beneficiari.

DIARIO IN PUBBLICO
Nome, cognome, soprannome

 

Nella diuturna fatica di scoprire pregi e difetti del popolo attraverso la stancante ma istruttiva visione dei programmi televisivi più conosciuti e frequentati ho scoperto che l’intervistato o l’intervistatore, per esibire la frequentazione e l’amicizia con qualche personaggio pubblico, sfoderano il nome di battesimo del suddetto. Il gioco sta nel proporre anche ai miei 5 lettori il nome di battesimo a cui dovranno aggiungere il cognome. Chi batte ogni primato è senza dubbio

Vittorio

E di ruota:

Matteo 1

Matteo 2

C’è chi invece mantiene la dizione del solo cognome, come la Meloni, in quanto, anche se ha scritto un libro per ribadire che si chiama Giorgia, non può adottarlo come segno di intimità televisivo-politica, perché quel nome è già occupato da una cantante pop.

Comunque la dizione nome+cognome ancora resiste con buoni risultati presso i politici, a cominciare dal capo dello stato, che correttamente viene indicato in quella dizione: Sergio Mattarella, come pure Dario Franceschini chiamato talvolta Dario dal suo concittadino Vittorio o Enrico Letta per il fatto che nella storia un solo personaggio ha diritto di essere chiamato solamente Enrico. Vale a dire Berlinguer.

Più complesso il caso dell’unicità del cognome che, secondo la prassi accademica, diviene oggetto di stima e/o di lavoro, indicando col cognome l’opera. Naturalmente la riflessione si svolge nell’ambito a me congeniale, ma è particolarmente diffusa nel ramo scientifico, economico, medico. Allora senza dubbio è normale chiamare Caretti, Binni, Spini, Preti, Nencioni, Varese….usati spesso con l’articolo per indicarne l’opera: il Sapegno, il Longhi, la Barocchi, la Gregori. Se figli o parenti prossimi, seguono la stessa strada, ecco allora la necessità di distinguerli attraverso la dizione nome+cognome: Valdo Spini, Stefano Caretti, Lanfranco Binni, Ranieri Varese, Federico Varese, Marina Varese, Federica Varese.

Ma l’ansia di intimità condivisa nella pronuncia del solo nome di battesimo diventa un vero e proprio esercizio di conquista, che Alessandro di Battista – questa settimana doppiato da un Crozza sublime – esercita nella presentazione ansiolitica della sua ultima fatica (si fa per dire) letteraria Contro. A un severo Bersani che dialoga con lui non risparmia un sospiroso ‘Pier Luigi’, che viene accolto da un improvviso colorito (rabbia? emozione?) più acceso dell’interpellato.

Non ho mai preteso o voluto un riscontro di compartecipazione nel nome di battesimo tra lo stuolo davvero notevole delle persone in qualche modo famose che ho incontrato nella mia non breve vita. Solo a tre ho osato pretendere l’uso del nome senza il cognome: Cesarito, Elsa, Giorgio. Il primo, che ho conosciuto attraverso la frequentazione diuturna dal 1956, lo interpello con quello che per gli amici era un affettuoso appellativo. Si tratta naturalmente di Cesare Pavese. Ma qui si va oltre una conoscenza immemoriale, in quanto quel cognome viene usato anche nelle ricordanze tecniche se, come qualcuno sa, la mia mail comincia con ‘gianpavese’. L’altra, a cui si è affidata la parte più intima della mia vita, è la Morante, che da sempre per me era e rimane solo Elsa; infine Giorgio non può che essere Bassani, amico in ogni senso e di cui ancor oggi divido con Portia Prebys la curatela del Centro ferrarese a lui dedicato. C’è poi la frequentazione, ancora una volta accademica, che fa sì che ‘l’Ariani’ sia il carissimo amico Marco, studioso di fama mondiale, oppure nel gioco delle parti la scherzosa polemica fiorentino-ferrarese tra le due Dolfi, Anna e Laura, che in altri tempi insegnavano alla mia nipote Alessandra in vacanza in Versilia che, per essere nel giusto, mai doveva pronunciare alla ferrarese ‘le Dólfi’ ma ‘le Dòlfi’, scatenando utili ed esilaranti polemiche.

A proposito dei soprannomi la cautela è d’obbligo, diventando di solito il soprannome un giudizio critico. Così, se ad un pronipote particolarmente dotato di interessi culturali viene dato quello di ‘Sapientino’, questo diviene sigla di riconoscimento nella comunità familiare.
Altro valore ha l’uso di soprannomi, che determinano un rifiuto dell’attività svolta da chi ne viene investito. Uno per tutti: ‘Naomo’, che dall’ambito ferrarese si dirama anche a livello nazionale. Oppure la dizione tipica del linguaggio regionale o provinciale. Si pensi al nome ‘Alan’ pronunciato con la palatale, come è d’uso dalle nostre parti.

Concludo questo diario spiegando le ragioni ben più profonde che mi hanno indotto a questo esercizio e che si riferiscono al conflitto israelo-palestinese. Nomi di popoli, nomi di guerre. Nomi che dietro si trascinano la Storia e che ci turbano, ci includono, ci frustano in quanto dietro ogni nome si cela la realtà: una realtà mai univoca.

 Per leggere gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

BIBLIOTECHE E SCUOLA:
CRESCERE CON LE PAROLE GIUSTE

 

Al dunque questa amministrazione comunale svela tutta la sua sciatteria. La gestione della cultura appaltata all’impresa dei fratelli Sgarbi e al loro inner circle, esternalizzazione dei servizi bibliotecari ed educativi, l’Istituzione dei servizi educativi, scolastici e per le famiglie da smantellare come un vecchio arnese per fare spazio al niente.

Il recente scivolone sull’inceneritore di Hera è rivelatore, perché denuncia l’assenza di visioni di prospettiva circa il futuro della nostra comunità cittadina. Il sindaco, invece di rendere conto di come la sua amministrazione sta operando per realizzare gli obiettivi di sviluppo sostenibile indicati dall’Agenda 2030 dell’ONU, mostra di avere il fianco scoperto, resta afono e ricorre al Presidente della Repubblica e al Consiglio di Stato.

Tra i target dell’agenda ci sono anche l’istruzione, l’educazione, la cultura in quanto condizioni fondamentali oggi per costruire qualsiasi domani. La complessità del presente, le incognite di ciò che non possiamo prevedere impongono una ricerca continua, un bisogno costante di acquisire nozioni nuove. Dovremmo, dunque, crescere tutti in una comunità preoccupata e sempre più attrezzata per questo, senza superficialismi, consapevoli che non esiste un sapere dato per sempre, ma piuttosto un sapere in continuo divenire che accompagna le nostre vite. Non ci sono più i catechismi da apprendere a memoria e neppure enciclopedie da consultare al momento del bisogno, ma problematiche sempre nuove, che mettono in discussione le competenze già acquisite.

E allora toccare biblioteche e servizi educativi senza avere un progetto di alta qualità e di vasto respiro è da sciocchi, come è da sprovveduti pensare di risparmiare sulla cultura, non quella degli eventi, ma quella delle persone, in particolare delle generazioni che verranno e di quelle che stanno crescendo.

Avremmo bisogno di irrobustire biblioteche ed istituzioni educative, anziché renderle più fragili e precarie; l’esperienza della pandemia ha messo in evidenza la necessità di mettere in rete sul territorio scuole, istituzioni culturali, servizi educativi, risorse culturali e del terzo settore. Questa rete non c’è e nessuno la sta disegnando. Nessuno neppure l’immagina e la prospetta, come se ogni presidio culturale del territorio fosse una realtà a se stante.

Un ferrarese come noi, ora ministro dell’istruzione del nostro paese, ha proposto i patti educativi di territorio. Cosa sono se non l’invito a creare sinergie tra scuole, biblioteche, istituzioni culturali, chiedendo alle scuole e al sistema delle istituzioni culturali di aprirsi a funzioni e servizio più ampi, nuovi rispetto a quelle strettamente istituzionali. Si tratta di ridisegnare i propri profili, di inventarsi modi nuovi di essere scuola sul territorio, come di essere biblioteca, museo, istituzione culturale, superare la prassi cattedratica delle scuole, come la vocazione preminentemente conservativa di biblioteche, archivi e musei. Divenire autentiche “piazze del sapere” per citare un bellissimo libro di Antonella Agnoli, edito da Laterza. [Vedi qui]

Chi è che si deve fare promotore di tutto questo, mettersi alla testa di un progetto nuovo che veda formazione e saperi come un affare corale, collettivo, permanente, non relegato alle liturgie delle scuole o delle istituzioni culturali, che rompa con le ritualità tradizionali paralizzanti? Una sfida alta di idee e di idealità, che dovrebbe vedere la discesa in campo dell’amministrazione comunale, almeno con i suoi assessori all’istruzione e alla cultura, anziché assistere ai balbettii di assessori impacciati, incapaci di immaginare il nuovo, perché impreparati, ridotti a passa carte del loro sindaco.

Le risorse per i patti educativi di territorio ci sono tutte, ciò che manca è l’adeguatezza di questa Giunta che farà perdere alla nostra città un’importante occasione, a danno soprattutto dei suoi giovani, grandi e piccoli, la possibilità di aprire una finestra su prospettive nuove tutte da costruire e percorrere.

Ci sono dati che ci dovrebbero preoccupare, di cui avremmo dovuto sentire parlare l’assessora all’Istruzione, la quale dovrebbe avere cura di occuparsi della scolarità dei nostri giovani e quindi anche della dispersione scolastica.
I dati dell’Istat sono preoccupanti, non conosciamo i dati della città, ma nella nostra provincia l’abbandono scolastico è al 19%, contro il 15% regionale, il 10% come obiettivo dell’Europa entro il 2020. Il dato cresce al 25% con picchi al 30% nei comuni più a Est, abbandono che riguarda soprattutto i ragazzi rispetto alle ragazze.
Dati che due anni di pandemia hanno fatto ulteriormente lievitare, bisognerebbe guardarsi intorno e capire che cosa è avvenuto nelle nostre realtà, quanti giovani, ragazze e ragazze stiamo rischiando di perdere.

Considerazioni queste che, se fatte, avrebbero dovuto suggerire alla Giunta comunale di non toccare presidi importanti per l’istruzione e la formazione come le biblioteche di quartiere, le quali vantano un ruolo importante nell’integrazione dell’offerta formativa delle scuole, da migliorare, aggiornare e ampliare, da reinventare anche, non certo da interrompere o ancora peggio smantellare.

Con disinvoltura si pone fine all’Istituzione dei servizi educativi, scolastici e per le famiglie che ha dimostrato di essere fondamentale per garantire integrazione, pari opportunità di crescita e di realizzazione a tutta la nostra infanzia e adolescenza. Nel mentre nulla viene detto da parte dell’assessora all’istruzione in merito al Sistema integrato di educazione e istruzione zero-sei.

Eppure la frequenza sempre più numerosa dei nidi e delle scuole d’infanzia è fondamentale, dovrebbe essere un obiettivo da perseguire per combattere le diseguaglianze, gli svantaggi di partenza cause prime della dispersione scolastica, per rimuovere, secondo il dettato costituzionale, gli ostacoli di ordine economico e sociale, che impediscono il pieno sviluppo della persona umana.

Avremmo bisogno di curare le parole della crescita, della crescita dei nostri piccoli, dei giovani e della città. Le parole dei saperi, delle conoscenze, le parole delle pari opportunità che permettono di rimuove gli svantaggi di partenza, che consentono di crescere uguali con le stesse possibilità, con la forza di credere nel proprio futuro da realizzare, anziché arrendersi, abbandonare la strada e ritirarsi in se stessi.
Crescere con le parole giuste quelle dell’istruzione, dei saperi, delle conoscenze, delle letture fondamentali, quelle degli incontri con gli altri, delle relazioni, quelle che apprendi nelle piazze del sapere che sono le biblioteche, la rete dei luoghi di formazione dai nidi alle scuole. Parole che questa amministrazione comunale dimostra di non saper pronunciare e nemmeno immaginare.

GLI 80 ANNI DI DYLAN
(Per una teoria dell’immortalità)

 

Forse non ha molto senso festeggiare gli 80 anni di Bob Dylan.
Naturalmente tutti i compleanni sono celebrazioni convenzionali, ma nel caso di Dylan, almeno stando a certe sue dichiarazioni, la cerimonia appare particolarmente insensata. In un’intervista su Rolling Stone di pochi anni fa ha dichiarato al povero giornalista che lo stava intervistando che lui era morto da tempo, per l’esattezza nel 1964. Subito dopo gli ha mostrato un articolo con una fotografia di un certo Bobby Zimmerman (nome originario di Dylan), un motociclista californiano ucciso in un incidente stradale. Il giornalista ha pensato a un caso di omonimia, ma è stato subito messo a tacere.
“Nessuna omonimia. Semplicemente ero io. Quel Bobby Zimmerman di cui hai visto la fotografia adesso non c’è più, se ne è andato definitivamente. Vorrei poter tornare indietro a dargli una mano, dirgli che sono suo amico, ma è impossibile. Adesso ci sono io, Bob Dylan, con cui ora stai parlando, la trasfigurazione di quel Bob Zimmerman. Perché io sono morto nel 1964 e poi mi sono trasfigurato.“
Il giornalista gli chiede cosa significhi esattamente, e se lui, Dylan, è morto oppure trasfigurato, ma lui in sostanza gli risponde che non è questo il punto e che, alla prova dei fatti, non c’è differenza: “Tocca a te indagare su cos’è la trasfigurazione. Ma se credi puoi tranquillamente scrivere che stai intervistando un morto. Io non avrei ragione di oppormi.” Poi Dylan prosegue sostenendo che lui non è certo l’unico trasfigurato al mondo, che ci sono e ce ne sono stati diversi, alcuni famosi, anche se non così tanti, ed elenca vari personaggi da Churchill a Toni Morrison a B.B. King e altri. Tralasciando per eleganza Cristo e Budda. Ci tiene anche a precisare che non si tratta di reincarnazione o trasmigrazione delle anime, ma di pura e semplice trasfigurazione.

Altri tentativi di capirci qualcosa di più falliscono: bisogna andare a leggere i vangeli o i libri di alcuni mistici dove si parla della trasfigurazione, dice. A una prima lettura è facile sospettare che lui e il giornalista si siano messi d’accordo per divertirsi alle spalle dei lettori di Rolling Stone, ma sarebbe un errore. Perché in diverse occasioni Dylan ha ripetuto che la morte fa parte della vita, o meglio che si appartengono a vicenda, che la morte siede ogni mattina con te al tavolo della prima colazione e che la concezione lineare del tempo è pura apparenza. Che il passato continua a vivere nel presente finché a un certo momento ti accorgi che non esiste più, che è proprio passato per davvero.
E allora non sai più dove ti trovi e capisci di essere fuori dai giochi. Mentre gli altri fanno il loro gioco a volte ti capita di stare lì a guardarli, ma poi alla fine scopri che stai bene con te stesso perché tutto questo non ti riguarda, stai da un’altra parte, in un tuo angolo gelosamente custodito, un altrove accessibile a pochi. I’m not there, “Io non sono qui” è il titolo di una canzone dei primi anni sessanta scritta da Dylan che dà anche il titolo a un film di Todd Haynes sulla sua vita. Ed è proprio questo il punto forse più interessante.
Nell’universo di idee, immagini, metafore, citazioni e rielaborazioni che popolano le canzoni, nei libri e nelle interviste rilasciate da Dylan la questione del tempo è assolutamente centrale. Solo il presente e il futuro sono certi, il passato lo puoi trasformare a tuo piacimento, dice ribaltando un luogo comune consolidato. Tranne che il presente passa troppo in fretta e il futuro ancora non c’è.
In un’altra occasione ha dichiarato che il passato, il presente ed il futuro possono convivere in una stessa stanza. Liberi di credere che si tratti solo di frasi a effetto o magari di pura cialtroneria, paradossi mescolati con citazioni erudite o misticheggianti, come capita spesso nelle interviste a molte celebrità pop desiderose di stupire. Ma anche questo sarebbe un errore, perché se si riflette con più attenzione, poco alla volta si fa strada una precisa visione del mondo, anche se in perenne evoluzione e a volte contraddittoria. E in ogni caso all’inizio dell’intervista Dylan premette subito che sta cercando di spiegare cose che non si possono spiegare e chiede aiuto al giornalista che lo intervista per spiegare l’inspiegabile.

Quindi anche io, nello scrivere queste righe, cerco soltanto di spiegare le idee di qualcuno che fa fatica lui stesso a spiegare. Un’impresa destinata al fallimento. Eppure dietro il caos e l’apparente illogicità di tante dichiarazioni persiste la sensazione che ci sia un ordine mentale molto ben organizzato. E soprattutto una concezione particolare del tempo e della sua percezione che, almeno in parte, sfugge alle definizioni e alle spiegazioni fornite dalla filosofia.
Basta citare alcuni versi da canzoni famose per avvertire la presenza quasi ossessiva del tempo. ‘I was so much older then, I’m younger than that now’, ‘Then take me disappearing/through the smoggy rings of my mind/Through the foggy ruins of time’ ‘Inside the museums eternity goes up on trial’ ‘If the bible is right/ the world will explode… The next sixty seconds/could be like an eternity’ ‘And there’s no time to think’ solo per citarne alcuni.
Uno dei suoi dischi più famosi, del 1997, si intitola Time out of mind, tradotto come “Tempo immemorabile”. E molte sue citazioni, similitudini, proverbi più o meno deformati o ribaltati provengono non solo dalla Bibbia, secondo alcuni la sua principale fonte di ispirazione, ma anche da testi di classici greci o latini, come ad esempio Tacito, molto da Shakespeare e da Blake, da cantanti blues o jazz spesso poco conosciuti, da poeti simbolisti o surrealisti o da frasi di generali o politici vissuti durante la guerra civile americana. Nell’intervista a Rolling Stone dice che la storia serve come fonte di ispirazione, ma che la natura umana non è legata a un periodo storico particolare.

La stessa voce sepolcrale con cui canta ormai da qualche decennio evoca tempi e luoghi lontani. Una voce che si potrebbe definire fuori campo e fuori tempo, proveniente da quell’altrove storicamente e geograficamente indefinito.
Quando dice che in molte delle sue canzoni ogni verso può essere l’inizio di un’altra canzone e che potrebbe anche combinarsi con i versi di altre sue canzoni espone un principio matematico che rimanda ad una potenziale infinità di collegamenti e contaminazioni. La continua trasformazione delle stesse canzoni ogni volta che le esegue dal vivo, arrangiamento e testi, sta a simboleggiare un work in progress senza sosta, un presente continuo; una canzone del 1965 cantata nel 2016 non è più la stessa canzone, per questo l’unica vera musica è quella eseguita dal vivo e non quella che esce dagli studi di registrazione. Perché, dice, la trasformazione è nella natura dell’esistenza. Il tentativo è quello di modellare il tempo – ma anche i tempi della metrica dei versi e il ritmo della canzone – secondo criteri puramente soggettivi, estemporanei. Un’eternità mobile, fluida, inafferrabile, che ti sfugge tra le mani, con i vivi e i morti che coabitano, dialogano e si mescolano nello stesso spazio, nella fattispecie nello spazio di una singola canzone come nell’insieme di tutte le canzoni composte e variamente eseguite da Dylan durante i suoi infiniti concerti dal vivo.

Interessante anche il fatto che questa visione del tempo, ma anche dello spazio, sia stata ispirata da un maestro di pittura, tale Norman Raeben, un ebreo di Odessa, ex pugile, emigrato a New York. Su questo argomento molto è stato scritto da Alessandro Carrera, il traduttore in italiano dei testi di Dylan, suo massimo studioso italiano e non solo, scopritore degli angoli meno conosciuti dell’arte di Dylan.
Una canzone deve essere come un quadro, deve poter essere percepita e assimilata in un unico colpo d’occhio (o di orecchio). Impresa materialmente impossibile, ma possibile metaforicamente se con la memoria musicale e l’immaginazione si riesce con un movimento circolare a ricongiungere l’inizio della canzone con la sua fine fino a confonderli.
Pare che l’ispirazione originaria per questa idea sia venuta a Dylan, da sempre molto interessato alla pittura, da Chagall. Nei quadri di Chagall la forza di gravità (che in diverse occasioni Dylan giudica un elemento di disturbo, una forma di prigionia) viene sostanzialmente abolita insieme alla prospettiva. Oggetti e figure umane galleggiano nello spazio e i piani prospettici si sovrappongono a scapito della prospettiva. Ma anche dal punto di vista del racconto contenuto nei dipinti di Chagall difficilmente si trova un punto di vista che dia un ordine temporale a quanto accade. I punti di osservazione si mescolano e il passato ormai morto, il mondo dei vecchi villaggi ebraici distrutti prima dai russi e poi dai nazisti, continua a vivere in una dimensione al di fuori delle coordinate spazio/temporali.
Ecco allora che ritroviamo alcune idee forza che sottendono la poetica e l’idea di musica di Dylan: la memoria (Proust) che va oltre il semplice ricordo, la durata, la percezione e la circolarità del tempo, l’abolizione del tempo lineare. C’è dietro naturalmente molta filosofia, da Bergson a Nietzsche fino a Sant’Agostino e Heidegger e alla tradizione dei mistici ebraici e cristiani, altre idee prese dalla tradizione religiosa orientale, ma la filosofia deve farsi accettare con il suo linguaggio specifico e i suoi processi mentali per poter entrare nella vita delle persone, e solo di alcune, e nel farlo perde necessariamente dei pezzi, lasciando frammenti aridi, scollegati. Mentre l’arte, come nel caso di Dylan o come appunto in certi quadri di Chagall, penetra nella vita di tutti i giorni senza mediazioni, attraverso un approccio sensoriale, emotivo.

E’ stato pubblicato su Ferraraitalia il racconto breve di Francesca Alacevich Chi guarda chi [Qui], circolare già dal titolo, che sembra ispirato proprio a questa idea di atemporalità. La modella del quadro di Corcos sta lì e conserva il suo dolore e il suo rancore per secoli, chiusa in un museo e tenuta sotto processo per l’eternità, come dice Dylan in Visions of Johanna.
L’impatto è tanto più profondo quanto più viscerale, evoca una maledizione e fa pensare al blues, che continua a riecheggiare nelle composizioni musicali di Dylan. Ancora il blues, che con la sua selvaggia antica irriducibile malinconia e voglia di vivere, con la sua invincibile vocazione alla ribellione e alla sconfitta, contiene elementi di immortalità.
Molta musica contemporanea fatica a liberarsi dal blues, forse proprio perché, come dice Dylan, il blues fa parte della natura umana e la natura umana non appartiene a un periodo storico determinato. Le mode scorrono su un piano temporale parallelo che non si incrocia con il genere di arte di cui stiamo parlando.
Una teoria dell’arte che Dylan trasforma coerentemente in uno stile di vita, attraverso una serie continua di concerti dal vivo in giro per il mondo, il Neverending Tour, che gli permette di vivere dentro le sue canzoni, perennemente trasformate, l’unica realtà per lui degna di questo nome.
Una realtà senza tempo vissuta sopra un palco, capace di ingannare il passare degli anni, la vecchiaia e la morte. Una strada per l’immortalità.
Viene in mente la sua canzone Journey through a dark heath, dove canta: ‘There’ s a white diamond gloom/ on the dark side of this room/ and a pathway that leads up to the stars/ if you don’t believe there’s a price/for this sweet paradise/just remind me to show you the scars’, tradotto da Carrera con ‘C’è un alone di diamante bianco che brilla/ nell’angolo buio di questa stanza/ e un sentiero che conduce su fino alle stelle/ se non credi che c’è un prezzo/ per questo bel paradiso/ ricordami di mostrarti le ferite.’ 

Io contengo moltitudini è il titolo di una delle canzoni del suo ultimo recente album (Rough and Rowdy Ways). Poi però – dice in un’altra intervista – bisogna un po’ per volta sgombrare il campo e trovare un’identità utile al momento, più o meno dice così. E le tante moltitudini ci ricordano il Io è un altro di Rimbaud, una dichiarazione di poetica che Dylan doveva avere ben presente sin dalle prime canzoni degli anni Sessanta. Ecco perché è poi arrivato a dischi come Blood on the tracks, dove i narratori – l’io, il tu e il lui/lei – si mescolano e i tempi, come i personaggi del racconto si confondono fino a formare un affresco senza inizio e senza fine. Ecco come una canzone può essere percepita in un insieme, al di fuori dello scorrere del tempo lineare, proprio come un quadro. E questo è l’intento consapevole con cui ha scritto le canzoni di Blood on the tracks e in particolare Tangled up in blue, la più famosa di quell’album.
Contenere moltitudini non è un’esperienza comune, così come l’essere dei morti e/o trasfigurati che parlano e cantano con molte voci, alcune prese dalle cantilene religiose ebraiche altre dalla musica afroamericana e altre dal jazz o dal country o da un rap ante litteram, e poi trasformate sul palco, dal vivo.
Cantare le stesse canzoni sino a renderle irriconoscibili, cambiando i testi sul momento a secondo dell’umore e delle circostanze, spiazzare i musicisti evitando le prove e cambiando la scaletta, tutte queste non sono esperienze comuni. Così come l’inattualità di Dylan rispetto alle mode correnti non è una posa, che del resto molti hanno imparato a simulare, ma una necessità intrinseca al suo modo di immaginare la musica e le canzoni. In questa prospettiva parlare di mode, letterarie o musicali, non ha senso, quindi più che parlare di non attualità nel caso di Dylan bisognerebbe parlare, appunto, di atemporalità.

In conclusione, tanto per chiudere in modo circolare così come ho cominciato: ha senso scrivere un articolo per celebrare l’ottantesimo compleanno di un morto/trasfigurato che vive nell’atemporalità e che è immerso da tempo immemorabile in un paesaggio mentale che potrebbe trovarsi ovunque ma al tempo stesso esiste solo nella sua sconfinata immaginazione?
Come le mitologiche Highlands, una canzone di sedici minuti dell’album Time out of mind, luogo reale nel nord della Scozia ma usato da Dylan come metafora di quel “sentiero che conduce su fino alle stelle” o forse di questo altrove in cui si è rifugiato.
Probabilmente celebrare questo compleanno è fuori luogo, ma ormai è troppo tardi per fermare tutti coloro che hanno deciso di farlo.

Bob Dylan [vedi Wikipedia] andrebbe letto, ascoltato e riascoltato, dal principio alla fine e (viceversa), o iniziando da un punto e da una canzone qualsiasi. Il suo sito ufficiale [Qui]. Per un sito italiano di riferimento [Vedi qui]

Cattive TERF e buone femministe

 

Nell’articolo di Elena Tebano sul Corriere della sera dal titolo “Chi sono le «Terf», le femministe «critiche del genere» che si oppongono al ddl Zan [Vedi qui] l’acronimo Terf (un termine che sono certa la maggior parte delle donne non conosce) è un’offesa pesante a tutte noi.
Sono una donna e sono una femminista tardiva (radicale lo scopro ora), e questo termine  ho cominciato a sentirlo solo da quando mi sono convinta che il testo del ddl Zan, così come è scritto, cancella le donne e il loro sesso.

Basta dirsi critiche verso quel testo per venire bollate come Terf, ​ e direi che l’articolo di Elena Tebano ne è la dimostrazione. Ma cosa vuole dire? Vuole dire, ce​ lo spiega la giornalista, che siamo “femministe radicali trans escludenti”.  Ma tutte sappiamo bene che Sesso e Genere non sono la stessa cosa. Sappiamo bene che essere incarnate in corpi femminili ha segnato e segna  la nostra esperienza nel mondo e nella storia. Avere le mestruazioni una volta al mese, banalmente, è molto reale e impatta sulla nostra vita anche economicamente. Ed è​ chiarissimo a tutte noi che è sul sesso delle donne che si è costruita l’oppressione millenaria sui corpi delle donne. ​
Ancora oggi 140 milioni di bambine subiscono la​ cliterectomia​ e questo a causa del loro ​sesso biologico.​

Ora, secondo la giornalista e chi usa il termine Terf, volersi dire  donne perché nasciamo con sesso femminile, vorrebbe dire che siamo contro i trans o contro i gay o le lesbiche.
Ma come si può pensare di fare un’associazione di questo tipo? ​ Vorrei informare tutti e tutte che l’acronimo Terf in Inghilterra ormai è considerato un termine dispregiativo bandito persino dalla policy twitter: questo un tweet di Bea Jaspert (@ hogotherforsaken del 5 agosto 2019  “ Twitter’s Uk govt head of Pubplicy Katy minshal agreed at Humanrightctte tha terf, like Bitch and cunt is gendered term and that tweet usin the term, like those cited below, violate twitter’ policies and should be removed.”​

Avrei da entrare poi nel merito di molte questioni affrontate da Elena Tebano, a  partire  dal suo ridurre la biologia e il sesso biologico a un fatto di poco conto,  salvo poi appoggiare quella pratica aberrante che è la maternità surrogata tutta fondata sulla biologia, che fa dei  proprietari dei gameti i veri genitori, a scapito della donna che lo fa crescere nel suo grembo e lo partorisce grazie al suo sesso.
Mi vengono in mente le parole della leader del movimento delle donne mapuchevoi intendete la natura come una forza produttiva (sottinteso – da cui estrarre ogni ricchezza) noi come qualcosa di identitario e spirituale..” più chiaro di così!

Curiosamente i promotori del testo Zan  sono gli stessi che dicono che la maternità surrogata è un atto di amore, che la maternità non è biologia ma cultura, che i nostri corpi sono macchine ai quali cambiare i pezzi per riconoscergli la possibilità di essere quello che “ci sentiamo di essere a prescindere dal dato biologico” includendo nello slogan tutta la bellezza e l’amore di una società che ti accoglie per quello che sei quando invece è una torsione falsissima che prevede un amore della società cosi grande e disinteressato (ironico) da aprirsi in modo sfacciato e senza alcun pensiero critico al mercato delle transizioni e dell’uso di bloccanti della pubertà in età prepuberale, al mercato dei corpi e dei pezzi di corpi, (banche di spermatozoi e ovuli, embrioni etc ) alla medicalizzazione esasperata della società, oggi unico mercato in fortissima crescita.

È bene dunque sapere che chi usa messaggi retorici di amore e inclusione in questo modo, fa riferimento a un’idea di amore e di inclusione basata su questi paradigmi. Oggi la narrazione transumanista, che sono certa la maggior parte  della gente non sa cosa sia, è strisciante e ovunque. Sono quelli  convinti che la chimica infallibile degli algoritmi e dei robot possono tranquillamente sostituire la biologia (limitata e limitante) dei nostri corpi, quelli che perseguono l’immortalità e i corpi perfetti fino a volerci convincere che un corpo di silicone è come l’essere umano. Quelli delle digitalizzazione estrema  che fanno si che un robot oggi risponda al telefono chiedendoti di parlare perché sta imparando a parlare la nostra lingua (provate a telefonare al numero Eni ti risponderà Lucilla!).
Per me invece biografia e biologia sono fortemente interconnesse,  e i nostri corpi sono così intelligenti perché sanno integrare continuamente le informazioni biologiche con quelle biografiche legate al pensiero, ai sentimenti, alle emozioni, all’ambiente che ci circonda e sono giunti ai giorni nostri proprio grazie a questa intrinseca intelligenza emotiva biologica razionale.

Viviamo tempi estremi ma è oggi che siamo chiamati a decidere quale è la visione profonda che anima la nostra idea di mondo e di vivente. Domani sarà troppo tardi.
Io la mia scelta l’ho fatta, sono contro la visione transumanista, perché questa è al servizio del mercato dei corpi e di una falsa idea di libertà e di amore, perché tradisce nel profondo il senso antropoligico di essere umano.
Vi invito ad approfondire e a dire la vostra. Va fatto ora, senza accettare come buoni, falsi e semplificatori slogan, per lo più urlati dalla sinistra, perché in gioco c’è la civiltà futura e il mondo in cui vivranno i nostri figli.