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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


NO Al FORUM MONDIALE DELL’ACQUA A FERRARA
Sbagliata e grave la candidatura del Comune di Ferrara

Da: COMITATO ACQUA PUBBLICA FERRARA e GRUPPO BLU FERRARA

Abbiamo appreso con stupore e rammarico che il sindaco Alan Fabbri ha annunciato che il Comune di Ferrara ha aderito al Comitato promotore nazionale per candidare il nostro Paese a ospitare il Forum Mondiale dell’Acqua nel 2024 e a indicare la nostra città per svolgere un ruolo importante per quell’evento.
Ci teniamo a evidenziare che, a dispetto del nome, il Forum Mondiale dell’Acqua (WWF – World Water Forum) creato dal Consiglio Mondiale dell’Acqua è una sede cui i Governi sono chiamati a partecipare e a discutere sotto l’egida delle più grandi multinazionali del settore, che tentano di ottenere il via libera alla definitiva mercificazione del diritto all’accesso all’acqua e la definitiva privatizzazione dei servizi idrici integrati.
Da sempre i movimenti mondiali per l’acqua – e quello italiano tra loro- contestano la legittimità del Forum Mondiale dell’Acqua, peraltro definito nel 2009 dal Presidente dell’Assemblea dell’ONU, Miguel D’Escoto Brockmann come profondamente influenzato dalle società idriche private e strutturato in modo da precludere ogni possibilità che i principi relativi al riconoscimento del diritto all’accesso all’acqua e la tutela di questo bene siano le priorità della propria iniziativa.

Anzichè accodarsi alle schiere dei privatizzatori del servizio idrico e delle grandi aziende multinazionali che ne sono le principali protagoniste, avremmo voluto che il sindaco della nostra città si fosse pronunciato contro la quotazione in Borsa dell’acqua nelle Borse di Chicago e Wall Street, avvenuto alla fine dell’anno scorso, che segna non solo la totale mercificazioe dell’acqua, ma anche il fatto che su di essa si possa tranquillamente speculare.
Oppure ricordare che, sempre nel 2024, scade nel territorio ferrarese la concessione del servizio idrico a Hera, azienda quotata in Borsa e ispirata da una logica privatistica, e che dunque è possibile passare ad una gestione pubblica e partecipata del servizio idrico, dando attuazione ai referendum sull’acqua del 2011.
Confidiamo comunque che il sindaco si esprima su questi punti e, per parte nostra, continueremo a batterci perché il nostro Paese non ospiti nel 2024 il Forum Mondiale dell’Acqua e per salvaguardare la risorsa acqua come bene comune e per ripubblicizzare il servizio idrico.

COMITATO ACQUA PUBBLICA FERRARA
GRUPPO BLU FERRARA

Vite di carta /
“Casa d’altri”, il racconto perfetto di Silvio D’Arzo

Vite di carta. “Casa d’altri”, il racconto perfetto di Silvio D’Arzo

Così è stato definito da Eugenio Montale: “un racconto perfetto”. Mi riferisco a Casa d’altri, scritto nel 1947 da Ezio Comparoni, un giovane autore di Reggio Emilia che per pubblicazioni precedenti si era dotato di altri pseudonimi e che per questo suo racconto lungo aveva scelto di firmarsi Silvio D’Arzo. Ho ritrovato  il suo nome in appunti ormai datati, presi a un corso d’aggiornamento per docenti di letteratura italiana; il relatore era il grande Andrea Battistini, che ne caldeggiò la lettura a chi gli chiedeva quali fossero gli autori canonici del Novecento. E’ passato anche troppo tempo, ora voglio conoscerlo. Per prima cosa cerco negli scaffali della mia libreria e trovo quasi subito un volumetto che ho comprato all’epoca, L’uomo che camminava per le strade: una raccolta di racconti dello stesso D’Arzo uscita nel 1993 a cura di Daniele Garbuglia, in cui è riportata una buona bibliografia sull’autore; da lì spicca il nome di Eraldo Affinati come curatore dell’opera saggistica di D’Arzo, raccolta sotto il titolo Contea inglese.

Ho conosciuto Affinati e letto il suo intenso L’uomo del futuro. Sulle strade di don Lorenzo Milani; so che lavora con passione e scrive con sguardo profondo. Si aggiunge a Montale e a Battistini nello spingermi verso questo giovane scrittore reggiano che era del 1920, come mio padre, e come me si era laureato in Lettere a Bologna, lui però a soli 21 anni. Un grande talento morto a 32 anni di leucemia. Non so da cosa vi facciate convincere voi nelle scelte di lettura, io sono piuttosto sensibile alle parabole di vita così segnate dalla tyche e mi lascio guidare volentieri dal giudizio di coloro che mi sono maestri.

Eccomi dunque con il volumetto dei racconti tra le mani. Scelgo di leggere in ordine casuale i testi che vi sono raccolti e sono ben contenta che Casa d’altri qui non ci sia. Sento che devo rispettare delle tappe di avvicinamento al capolavoro. Vado solo a sbirciare le poche righe che lo riassumono nella edizione Einaudi del 1980, che intanto mi sono procurata, in cui la introduzione è scritta proprio da Affinati: i protagonisti sono un prete e una vecchia. Il fulcro della storia ruota intorno a una domanda che la donna rivolge al prete. Mi piace. Mi piace che i personaggi siano persone così e che le parole scambiate tra loro stiano al centro del racconto.

Comincio a leggere e la voce narrante, che è quella del parroco di un paese dell’Appennino reggiano, mi introduce alla povera vita che si conduceva lassù poco dopo la fine della seconda guerra. Nelle pagine iniziali siamo dentro la vita quotidiana del prete: sta lasciando la casa di un morto e dà le disposizioni per il funerale del giorno seguente; incontra il giovane parroco del paese vicino che è appena arrivato ed è pieno di iniziative e lo raggela dicendogli che lì, nella zona di Montelice, la vita non cambia mai, non succede niente di niente.

C’è un giorno diverso, però. L’esordio della storia è nei fatti che vi accadono sul far della sera: il prete sta tornando a casa e nota una donna che giù nel canale lava dei panni. E’ sola nella natura autunnale dalle tinte viola e tiene vicina a sé una capra. Il parroco non la conosce: deve essere venuta a vivere qui da poco; la pensa come un “uccello sbrancato” e nei giorni che seguono ripensa a lei. Si aspetta che prima o poi vada da lui a parlargli, come fanno tutte. Da lui che si è ridotto a essere “un prete da sagre e nient’altro”, mentre ai tempi del seminario veniva chiamato doctor ironicus per la sua arguzia. Vecchio lui, ormai, e vecchia e solitaria lei. Per molte sere ripassa dal punto in cui l’ha vista la prima volta, solo per inquadrarla un momento nel freddo della sera, mentre la luce se ne va.

È amore. Rileggo alcuni passaggi per comprenderlo. Amore fulmineo, è predilezione e attrazione totale. Solo che D’Arzo dissemina brevi segnali linguistici di questo terremoto interiore che travolge il parroco e li distribuisce nei suoi pensieri, a piccoli dosaggi. Mentre le giornate scorrono, apparentemente uguali, il prete non pensa ad altro che ad allontanarsi da casa sul far della sera per rivedere la vecchia. Assume anche informazioni su di lei e viene a saperne il nome, Zelinda, e l’età, sessantatre anni. Fa la lavandaia e fatica da mattina a sera con la sola compagnia della sua capra. “Mai una volta alla processione: mai ai Vespri: mai in chiesa”. Una sorta di Lupa verghiana.

Attendo che arrivi la domanda fatidica che lei rivolge al prete tempo dopo, la sera in cui hanno camminato insieme per un tratto di strada. Ora sono giunti sulla soglia della casa di lei, sull’estrema soglia mi verrebbe da dire, e lei chiede: “se in qualche caso speciale…qualcuno potesse avere il permesso di finire un po’ prima”. Ecco, di nuovo non capisco. Ritorno indietro alle pagine in cui il prete si accorge della vita faticosa che Zelinda porta avanti, un giorno dopo l’altro. Non ho considerato abbastanza “il male di vivere” che la riguarda. Ho voluto cercare nelle pagine solo i segnali dell’attrazione che il prete prova per lei, scomodando lo Stilnovo con i suoi nodi concettuali: lo sguardo che innamora l’uomo, la visione epifanica della donna e il suo incedere e la sua ritrosia, come elemento che ancor più incatena l’amante.

Devo aver seguito una falsa pista di lettura. Non solo, ammetto che fatico a rapportarmi allo stile di questo testo: ora  trasmette mille echi letterari che me lo rendono familiare, da Manzoni a Fenoglio, da Verga a Machiavelli, ora mi torna estraneo e diverso da ogni altro racconto o romanzo del Novecento che ho attraversato. Saranno le frasi brevi, dal tono perentorio. Frasi costruite spesso su battute popolari che comprendo solo in parte. E sì che sono emiliana come l’autore. Il ritmo narrativo è segmentato e si alternano asserzioni dalla carica semantica sempre diversa: una breve frase sul tempo autunnale già freddo, la successiva sui gesti del personaggio, quella dopo sugli universali della vita e della morte. Non so se mi piace. Capisco che nel mio ruolo di lettore sono in cammino e la strada non è agevole. Lo stile di Silvio D’Arzo un minuto mi fa sentire ‘a casa’ e un minuto dopo mi ha tolto ogni certezza. Meno male che l’introduzione di Affinati mi soccorre ed è un raffinato scavo dentro al testo, di cui fa emergere lo straordinario valore letterario.

Ho recuperato il senso della domanda:  Zelinda vuole sapere se è permesso che qualcuno si tolga la vita, che lei ponga fine alla sua. Cosa le risponde il nostro prete, che in lunghi anni di ministero pastorale a Montelice ha celebrato matrimoni alla buona, cresimato ragazzi e messo d’accordo “sette caprai per un fazzoletto di pascolo”? Dice egli stesso “Sul momento non mi venne parola. Ma poi no, non fu neanche così: alla bocca mi salirono parole e parole e raccomandazioni e consigli e ‘per carità’ e ‘cosa dite’…Tutte cose d’altri, però…Di mio non una mezza parola: e lì invece ci voleva qualcosa di nuovo e di mio, e tutto il resto era meno di niente”. È una risposta inadeguata. Nella studiata simmetria del testo spicca l’asimmetria tra i ”cosa dite”, convenzionali, e la profondità filosofica della domanda.

Il prete da sagre chiude il suo racconto con due brevi sequenze: l’una nella casa di Zelinda, dove la salma di lei viene lavata e il pianto funebre sta per cominciare. L’altra quando, qualche tempo dopo, incontra il prete di Braino e trova che la vita del paese lo ha ingrassato. I segni del tempo che è trascorso sono tutti qui: le morti che si sono succedute (anche Melide, la perpetua, non c’è più), i chili che il curato ancor giovane ha messo su nella monotona vita della montagna.

“Allora mi vien sempre più da pensare ch’è ormai ora di preparare le valige per me e senza chiasso partir verso casa. Credo d’avere anche il biglietto. Tutto questo è piuttosto monotono, no?”
Casa? Penso che voglia intendere la vera casa, in cui un parroco aspira a tornare più di ogni altro, la casa del Padre. Anche se la relazione tra le persone del racconto è tutta orizzontale e la religiosità di Zelinda, che vuole morire e degli altri che restano a vivere, si consuma nei riti che essi compiono e nelle liturgie. Questa terra è casa d’altri. Così come cose d’altri sono le parole inadeguate, le parole trite. Credo di avere afferrato il senso che regge il racconto.
Mi tiro un po’ su, ma il cammino dentro questo testo è ancora lungo.

Nell’articolo faccio riferimento ai seguenti testi:
– Silvio D’Arzo, L’uomo che camminava per le strade, a cura di Daniele Garbuglia, Quodlibet, 1993
– Silvio D’Arzo, Casa d’altri e altri racconti, a cura di Eraldo Affinati, Einaudi, 1980
– Eraldo Affinati, L’uomo del futuro. Sulle strade di don Lorenzo Milani, Mondadori, 2016

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari della rubrica di Roberta Barbieri clicca [Qui]

Il caso singolare di Gian Pietro Testa e del suo nuovo libro

Il giornalista Gian Pietro Testa arrivò per primo quel 5 giugno 1975 sul luogo dove fu ammazzata la brigatista Mara Cagol. Con questo ricordo si apre Il caso singolare di Gesù e della cagnetta Evaristo, edizioni La Carmelina, con prefazione dell’attore Giuseppe Gandini, un libro che vorrei fosse Gian Pietro a raccontare perché ogni suo ricordo è un pezzo di storia d’Italia, di giornalismo e di umanità. In questo breve libro, parla Fraschenor, cioè Giuseppe Mazzini, un personaggio che accompagna Testa nei suoi romanzi da diversi anni e che, dopo avere scelto di non parlare più arroccandosi solo nel suo pensiero, o meglio, in un pensiero che pensa di pensare, tornare a parlare, vivere, ricordare, soprattutto interrogarsi.
Ma c’è un ghiribizzo, un pensiero bizzarro e dittatore senza capo né coda che dialoga con Fraschenor Mazzini, gli si pone di fronte e prende il largo, si chiede se la Madonna avesse abortito cosa sarebbe successo: “non ci sarebbe stato tutto quel guazzabuglio di scontri, di balle, di guerre, non ci sarebbero stati i 76 Papi, no quelli sarebbero esistiti, forse non vestiti di bianco, ma pur di comandare avrebbero indossato un paio di calzoni blu e una camicia rossa, e forse ciò non è avvenuto per la semplice ragione che il soldato italiano si sarebbe confuso con quello vaticano”.
Giuseppe Gandini, che una quindicina d’anni fa portò a teatro Lettera semiseria di un comunista a signore Dio illustrissimo di Gian Pietro Testa, firma la prefazione di quest’ultima pubblicazione parlando di ballata, di uno scritto intriso di misticismo materialista. Gian Pietro Testa, che rimane uno dei giornalisti e degli intellettuali più lucidi del nostro tempo, va ancora una volta letto per quello che racconta e per come lo racconta.

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Edilizia: a Ferrara in cantiere si muore anche di domenica

 

Da Fillea Cgil

Nel giorno che dovrebbe essere dedicato al riposo, l’operaio edile Giuseppe Fiore cade dal  balcone e muore sul colpo, un incidente mortale dovuto ancora all’ennesima caduta dall’alto.

Si ripete drammaticamente un evento che non è dovuto alla pandemia ma con essa convive, insieme a molti altri pericoli con cui i lavoratori edili fanno i conti. La domanda viene spontanea: come stava lavorando, le norme sulla sicurezza erano rispettate? Aspettiamo gli esiti dell’indagine degli organi ispettivi per avere informazioni più dettagliate.
Giuseppe era un operaio esperto e competente ma questo di per sé non lo ha reso immune dai rischi.
E’ la prevenzione difatti, che riduce le probabilità di subire infortuni.
La prevenzione va adottata con misure concrete, che stabiliscono come deve essere svolta la prestazione di lavoro.

Il sindacato vuole esprimere solidarietà e vicinanza alla memoria di Giuseppe e ai suoi familiari, ma anche chiedere che venga accertata la responsabilità di chi aveva il compito di vigilare.
I dati a livello nazionale degli incidenti sono in aumento,  dal monitoraggio  si evidenziano 32 incidenti fatali nei primi due mesi del 2021 contro i 12 dello stesso periodo 2020: il 170% in più rispetto all’anno scorso.

Come sempre, nei cantieri italiani, si muore soprattutto per caduta dall’alto (48%) e travolti da materiali (26%). Nel 33% dei casi i lavoratori erano totalmente o parzialmente irregolari; erano il 25% (4 casi su 12) nello stesso periodo 2020. E a preoccupare è anche l’età dei deceduti, sempre più anziani: il 43% delle vittime è tra i 40 ed i 60 anni, un altro 43% è di over 60, di cui 3 ultrasettantenni.
Nonostante il nostro grande impegno sulla sicurezza, è evidente che c’è un problema. Non è possibile che lavoratori così anziani si trovino a lavorare sui tetti o sulle impalcature.
Come ribadito dal Sindacato anche nell’ultimo seminario organizzato dal Comitato Consultivo Provinciale Inail Ferrara “I giovedì della prevenzione” c’è un problema diffuso di illegalità, la legalità e la sicurezza nei cantieri sono due facce della stessa medaglia.
In quest’ottica si chiede uno sforzo di collaborazione a tutti gli enti di controllo, per affrontare tutti insieme questa diffusa mancanza di rispetto delle regole di sicurezza e impedire ulteriori morti  nei cantieri.

Ferrara, 9 marzo 2021

8 marzo: perché detesto lo sbandierar di mimose

 

Detesto la Festa della Donna e non perché le donne non meritino una festa; detesto tutto lo sbandierare di mimose la cui unica attrattiva è quel meraviglioso giallo splendente e un po’ di profumo effimero; detesto gli auguri accompagnati da un grande sorriso sotto le mascherine, segni inseparabili del nostro tempo, e quel guizzo di protagonismo orgoglioso che le donne riservano alla data dell’8 marzo, camminando fiere per strada, almeno per un giorno.
Mi accorgo che, più che detestare, provo la tristezza destinata alla vista di creature fatte uscire dai recinti, esibite e coperte di complimenti e lusinghe per poi rientrare in cattività.
Le donne meritano ben più di questa ricorrenza che dura il tempo di 24 h e poi sfuma nel nulla, in attesa dell’annata successiva.
Penso a quelle costrette a rinunciare ai loro sogni annientandosi in vite che non  appartengono loro, a quelle abbandonate a crescere da sole i figli, alle donne picchiate, derise, tormentate, uccise a ogni latitudine geografica, a quelle relegate al ruolo e funzione di ‘serva’, a quelle a cui è negato il lavoro perché donne e quelle che di notte non dormono col pensiero di come far campare la famiglia. Penso a tutte coloro che in un modo o nell’altro hanno dato un pesante contributo all’immagine di genere ancora molto lontana da equità, giustizia, merito e riconoscimento.
Altro che festa! Non è sufficiente festeggiare, anche se il significato dell’8 marzo attinge a una storia passata da non dimenticare: quel 1911 a New York nella fabbrica Triangle perirono in un incendio 146 persone fra cui 123 donne di origine italiana ed ebraica, e quell’8 marzo 1917 a San Pietroburgo, quando le donne manifestarono per invocare la fine della guerra in una Russia ridotta alla fame.
La storia non va dimenticata e la storia delle donne men che meno, accompagnata com’è da un lunghissimo iter lastricato di sofferenze e grandi vuoti sociali. Quella che è stata proclamata dall’ONU “Giornata internazionale della donna” è svilita nel tempo, spesso ridotta – in epoca pre Covid – a occasione, neanche tanto rara, di ritrovi  festaioli con sbaraccate ridanciane davanti a spogliarellisti, leonesse per un giorno davanti all’immagine del maschio ridicolizzato.
Forse questo periodo di costrizione ha aiutato anche a ridimensionare questa storpiatura, riconducendo la ricorrenza alla sana riflessione e a un necessario bilancio che ci riguarda da vicino.
Continuiamo pure a sbandierare le nostre mimose, come vessilli rivoluzionari, come è stato in molte altre rivoluzioni colorate – la rivoluzione dei garofani in Portogallo, quella dei gelsomini nella Tunisia della Primavera araba, quella delle rose in Georgia, quella dei tulipani in Kirghizistan… – e non dimentichiamoci dei restanti 364 giorni dell’anno. Perché, oltre a festeggiare, dobbiamo difenderci, affermarci, sostenerci, esercitare tutto il nostro coraggio, la nostra voglia di essere donne consapevoli del proprio valore sempre, e non solo a ritagli.

In copertina : New York,  l’incendio nella fabbrica di camicie Triangle in cui il 25 marzo 1911 perirono 146 persone (123 donne)

ONORIAMO L’8 MARZO:
Quest’anno, mettiamo via le mimose!

 

Il tema della gender equality è uno degli obiettivi di sviluppo sostenibile indicati dalle Nazioni Unite, ma inutile dire che siamo ancora ben lontani dal conseguirlo.
Secondo le Nazioni Unite le donne stanno soffrendo di più per l’impatto economico del virus.[1]. Prima di tutto perché meno donne lavorano. Il 94%degli uomini tra i 25 e i 54 anni ha un’occupazione contro il 63% delle donne nella stessa fascia di età. Le donne che lavorano hanno uno stipendio minore. Gli ultimi dati Eurostat sulla disparità salariale in Europa, registrano una differenza media del 15%.

Secondo il rapporto Eures nei primi 10 mesi del 2020 in Italia sono stati registrati 91 femminicidi di cui 18 avvenuti all’interno del nucleo familiare. Il 2020 è stato l’anno in cui l’incidenza della componente femminile nel totale degli omicidi è stata del 40,6%, cioè la più alta di sempre.  Ben 15mila sono le chiamate di aiuto delle donne al nr 1522 tra marzo e giugno 2020, un numero doppio rispetto a quello dell’anno precedente. Ogni anno i fondi vengono stanziati e i nomi delle donne uccise dal partner aumenta. 28 milioni è la cifra stanziata per i centri antiviolenza e le case rifugio. Vedremo quanti ne arriveranno a destinazione.

Durante il lockdown il peso maggiore è stato sostenuto dalle donne. La chiusura delle scuole e dei centri diurni per le persone non autosufficienti aumenta la mole di lavoro domestico e di cura. Il lavoro da una manodopera retribuita – asili scuole, babysitter – si trasferisce ad una che non lo è. Le donne che lavorano spendono in media più di 4 ore al giorno per i lavori domestici e di cura non retribuiti, contro solo meno di 2 ore al giorno degli uomini occupati.

I dati dell’Ispettorato del lavoro confermano la situazione pesante per le donne: nel 2019 sono aumentate le dimissioni delle lavoratrici che avevano avuto da poco dei bambini. Di contro, solo un terzo (rispetto alle donne) dei neo papà hanno lasciato il lavoro per seguire i figli. La pandemia ha pesato sull’occupazione. Del resto nel 2020 per le famiglie mancano all’appello 29 miliardi di reddito e 108 miliardi di consumi. Nel solo dicembre scorso su 101 mila posti perduti, ben 99mila erano donne.

Il settore dei servizi alle famiglie, dove le donne sono l’86,8% del totale, conta 65mila occupate in meno e 15mila uomini in più.

Inutile dire che la chiusura delle scuole ha penalizzato le madri e i bambini specialmente nelle famiglie meno abbienti, in cui la didattica a distanza è più problematica sia per le minori attrezzature informatiche sia per il minore livello di competenze scolastiche.
Già prima della pandemia, nella fascia tra i 25 e i 49 anni, il tasso di occupazione delle donne senza figli era del 71,9%. Con un figlio in età scolare scendeva al 53,4%. Il titolo di studio incide sulla partecipazione e la qualità del lavoro, quindi il fatto che le laureate in Italia siano il 22,4%, contro il 35,5% della media europea, pesa negativamente sulla posizione lavorativa.[2]
La chiusura
delle scuole e dei centri diurni per le persone non autosufficienti accresce la mole di lavoro domestico e di cura per le donne. Le donne infatti, spendono in media 4,1 ore al giorno per i lavori domestici e di cura familiare, contro solo 1,7 al giorno degli uomini. Si è creato per le donne un carico di lavoro, mentale, psicologico, emotivo molto pesante.

Secondo una ricerca recente condotta dalla Bocconi, il 66% delle donne (rispetto al 40% degli uomini) dichiara di avere svolto in questi mesi più lavoro domestico rispetto al periodo precedente alla pandemia. Lo stesso vale per i figli: più del 60% delle donne intervistate ha dichiarato di avere speso più tempo nella cura dei figli, contro il 50% dei maschi.

Prima di tutto perché meno donne lavorano. Il 94%degli uomini tra i 25 e i 54 anni ha un’occupazione contro il 63% delle donne nella stessa fascia di età.

Le donne, quando lavorano, hanno uno stipendio minore. Gli ultimi dati Eurostat sulla disparità salariale in Europa, registrano una differenza media del 15%.
Durante il lockdown il peso maggiore è stato sostenuto dalle donne. La chiusura delle scuole e dei centri diurni per le persone non autosufficienti aumenta la mole di lavoro domestico e di cura. Il lavoro da una manodopera retribuita – asili scuole, babysitter – si trasferisce ad una che non lo è. Le donne che lavorano spendono infatti in media 4,1 ore al giorno per i lavori domestici e di cura non retribuiti, contro solo 1,7 ore al giorno degli uomini occupati.

Secondo una ricerca recente condotta dalla Bocconiil 66% delle donne (rispetto al 40% degli uomini) dichiara di avere svolto in questi mesi più lavoro domestico rispetto al periodo precedente alla pandemia. Lo stesso vale per i figli: più del 60% delle donne intervistate ha dichiarato di avere speso più tempo nella cura dei figli, contro il 50% dei maschi.-
Nel Piano nazionale di ripresa dell’ItaliaNext Generation – sono previste risorse ingenti per la parità di genere (4,2 mld); sarà importante che gli obiettivi legati all’occupazione femminile vengano realizzati nei tempi previsti, utilizzando tutte le risorse a disposizione.

In ogni situazione le donne affrontano in un modo importante le difficoltà della vita: hanno maturato una vera e propria cultura della cura, hanno sviluppato la capacità di andare avanti comunque, ma non senza costi. In generale, afferma la direttrice del Centro di Medicina di Genere dell’Istituto superiore di sanità, “le donne sono più attente, sono loro che ad esempio in famiglia portano il marito e i figli all’attenzione del medico, seguono le vaccinazioni, si occupano in generale della salute”.

Verifichiamo una differenza di genere forte nei comportamenti e nelle attitudini nell’affrontare la pandemia che è stata confermata anche da studi analoghi condotti in Francia, Germania, Inghilterra e Stati Uniti e che probabilmente è destinata a rimanere anche nei prossimi mesi”.

Non c’è molto da festeggiare nella prossima ricorrenza dell’8 marzo, ma invece molto da fare in ogni ambito: dall’istruzione, al lavoro, ai servizi, non da ultimo alla costruzione di immagini sociali meno stereotipate.
Quindi, almeno questo anno, mettiamo da parte le mimose: ognuno in rapporto ai propri ruoli, è chiamato ad avviare azioni concrete.

[1] F. De Bortoli, “Futuro grigio senza la forza delle donne”, Corriere della Sera, 8/21/21
[2] , Nazioni Unite, The Impact of COVID-19 on Women [Vedi qui]

Per leggere tutti gli articoli della rubrica Elogio del presente di Maura Franchi clicca [Qui]

Marzo 2060

Suona il campanello della porta e Cosmo-111 va ad aprire. E’ Prisca, l’amica di Axilla, con Galassia-111 (detta G-111), il suo robot. Chissà perché i ragazzi chiamano i robot con nomi che “provengono dallo spazio” (Cosmo, Galassia, Giove, Tempesta, Asteroide …). In realtà i nostri Robot non provengono dallo spazio, li costruiamo noi. Noi, in quanto esseri umani.
I nostri, in particolare, vengono costruiti a Trescia, città che ha un centro di assemblaggio meccanico-elettronico d’eccellenza e una facoltà di ingegneria meccatronica, in cui si studiano tutte le evoluzioni possibili di queste straordinarie macchine. Chiamarli con nomi astrali è una moda nata su Tick-Out, l’evoluzione di quel Tick Tock con cui giocavo io quando ero una ragazzina e che faceva preoccupare mio fratello Enrico. “Valeria diventerai ceca” mi diceva.

Tra loro i nostri robot si conoscono e, essendo Cosmo-111 molto bravo ad imitare il modo di fare e di pensare di Axilla e G-111 quello di Prisca, si piacciono. Sono anche loro, a modo loro, amici. Cosmo-111 cerca continuamente di insegnare a Galassia-111 il gioco delle vocali, esattamente come fa Axilla con Prisca. Questa situazione sta diventando imbarazzante. Stanno invadendo il mondo umano con un nuovo modo di comunicare, con un linguaggio che, nato da un errore, finirà per  affrancarsi dallo stigma di “sbaglio” per diventare un modo di parlare alternativo che, dal “mondo di mezzo”, trasmigrerà all’umano. I codici comunicativi degli umani e dei robot, che i due mondi “vivente” e “mediano” si sono sempre accaparrati come esclusivi e che hanno contribuito ad un forte processo identitario in vista del riconoscimento dei confini di appartenenza dei soggetti che li abitano, si stanno mescolando e, così facendo, ibridando.

“ Casa daca Galassaa-111, mangama an galata?” (Cosa dici Galassia-111 Mangiamo un gelato?)
“Ma cosa stai dicendo Cosmo-111, ho capito che stai parlando con me, ma non hai imbroccato le parole giuste”.
“Ma dai G-111, perché non impari questo gioco?. Dì gelato usando solo la A. Anzi, ripeti: galata! (gelato!)”
“Galata!” ripete rassegnata G-111, più per mangiare il gelato che per assecondare Cosmo-111.
Primo o poi cederà definitivamente e si rassegnerà anche lei a parlare con una sola vocale per volta.

I robot riflettono i sentimenti umani e vivono di luce riflessa. Apprendono osservando il nostro comportamento e lo riproducono in maniera fedele cercando di adattarlo alle situazioni, alle persone che incontrano e a tutti gli imprevisti che possono capitare. E’ un procedere per prove ed errori che rinforza alcuni tipi di comportamento piuttosto che altri. I robot mangiano il gelato che poi il loro corpo meccanico trasforma in calore e quindi in energia che loro usano per funzionare.
Ma la cosa strana è che non a tutti piacciono gli stessi gusti. Come mai a Cosmo-111 piace il gusto Spagnola con le amarene sciroppate e a G-111 il Pistacchio?

Gli ingegneri del Centro-Trescia-111 non riescono a spiegarselo, hanno fatto diverse ipotesi ma nessuna li convince del tutto. E’ forse che i robot apprendono anche i gusti per imitazione degli umani che interagiscono con loro? Il fatto è che i conti non tornano.
Ad Axilla piace il gelato al limone e Prisca mangia solo il Pino-Pinguino, un gusto dal color azzurro intenso, dolcissimo  e nauseabondo che ricorda lo zucchero filato delle fiere a cui andavo quando ero piccola. Un vero rompicapo, perché i gusti preferiti dei robot e dei loro umani di riferimento-primario non corrispondono? Ad Axilla non piace il gelato che mangia Cosmo-111 e Prisca non vuole nemmeno vedere il gelato che mangia Galassia-111, dice che il verde del pistacchio le ricorda il vomito. Ma allora, da dove vengono i gusti dei due robot?.

Abbiamo chiesto una spiegazione agli ingegneri del Centro-Trescia-111 e da questa richiesta  sono nate le teorie più svariate. Ad esempio: il passaggio al calore e quindi la trasformazione del gelato in energia, è facilitato dalle componenti (ingredienti) di alcuni gelati invece che da altri, i robot hanno imparato a preferire gli alimenti più idonei al processo di trasformazione di questi in energia essenziale al loro funzionamento. Potrebbe essere anche quello un tipo di apprendimento per prove ed errori. Ma le loro componenti meccatroniche sono pressochè uguali, allora perché Cosmo-111 mangia la Spagnola e Galassia-111 il Pistacchio?
Una seconda spiegazione potrebbe essere che  i gusti vengono selezionati grazie a un meccanismo imitativo che non centra nulla con la trasformazione in energia ma che si basa su un processo imitativo-secondario, cioè non agito in relazione alla figura di riferimento primaria, ma ad un’altra figura umana che per qualche motivo è diventata un riferimento transitorio nel momento di definizione del gusto preferito.
Cioè, per qualche motivo che non è del tutto noto agli ingegneri di Trescia, Cosmo-111 imita, mangiando la Spagnola, un umano che è stato significativo per determinare quella specifica scelta, probabilmente solo quella. Ad esempio, potrebbe essere successo che Cosmo-111 sia entrato in gelateria e che un bambino con in mano la Spagnola, lo abbia salutato, accarezzato e gli abbia chiesto se la voleva assaggiare. Cosmo-111 l’ha assaggiata  e da qui è nata la sua preferenza. Nel suo cervello si è creata una rete neuronale del tipo: Bambino-buono-bello-Cosmo-111-buona-Spagnola. Stessa cosa deve essere successa a Galassia-111 col pistacchio.
Oppure ancora: è una scelta legata al colore del gelato. Potrebbe essere che a Galassia-111 piaccia il verde del pistacchio perché gli ricorda i prati verdi delle vacanze estive. La famiglia di Prisca va sempre in vacanza a San Martino di Castrozza e lei e Prisca vanno sempre a fare le passeggiate nei boschi. L’associazione col gusto del gelato potrebbe essere arrivata per via indiretta attraverso una catena neuronale dovuta prevalentemente alla similitudine del colore del gelato con quello dell’erba di San Martino di Castrozza. Però la Spagnola è gialla con striature bordeaux, a che località l’ha associata Cosmo-111?

A Pontalba zona con quei colori che possano piacergli particolarmente, non ci sono, a meno che ci sia una similitudine col colore del tramonto. Pontalba è un paese di pianura dove d’estate si vedono dei tramonti molto colorati e, a volte, il rosso del sole invade tutto il cielo rendendolo di fuoco, altre volte l’arancione del tramonto si specchia nelle nuvole e le rende di un colore e di una forma che ricorda quella del gelato. Ma la spiegazione mi sembra un po’ troppo fantasiosa, anche se molto romantica.  Quindi per quale processo imitativo Cosmo-111 ha imparato a preferire il gelato al gusto Spagnola? Non sappiamo, abbiamo anche smesso di interrogarci sulla questione. Esattamente come i bambini che preferiscono un gelato piuttosto che l’altro, così i robot hanno le loro preferenze, che probabilmente sono un mix tra necessità, processi imitativi e accidentalità fortunose della vita.

Comunque sia, ognuno a casa nostra mangia il gelato che preferisce e lo assapora con soddisfazione.“Buunu Buunu” (Buono Buono) dice Cosmo-111,
“Buunu Buunu” (Buono Buono) dice Axilla,
“Buunu Buunu (Buono Buono) si rassegnano a ripetere in coro Prisca e Galassia-111, e tutti e quattro, con visibile soddisfazione, mangiano il gelato parlando solo con la vocale U.

Lo raccontavo una sera a Luca che, essendo un ingegnere, fa parte della categoria di professionisti che propende di più per una spiegazione di natura meccanicistica. Ci ha pensato un attimo e poi ha commentato, da papà più che da tecnico,: “ L’importante è che siano contenti, non preoccuparti troppo della genesi dei loro gusti per il gelato. Ognuno di gusti ha i suoi, vale per gli umani, per gli animali, per i vegetali e anche per i “mezzani” (sono chiamati così gli abitanti del mondo di mezzo, cioè i robot)”.
E’ vero. Ognuno di gusti ha i suoi e cercare di spiegare proprio tutto in termini razionali/ingegneristici non è di certo la strada più emozionante. In questo  mondo che cambia stiamo cambiando tutti, ci sembrano normali cose che solo qualche decennio fa venivano definite “marziane”. “Saputo, saputo, aku aku, saputo saputo, aku totù!” a volte mi sorprendo a cantare, senza nemmeno sapere cosa significhino le parole di quella canzone che piace tanto a Cosmo-111.

N.d.A.
I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.

A partire da Gennaio 2060 (questa è la terza puntata) potrete seguirr le storie di Costanza Del Re tutti i mesi su Ferraraitalia. 

Inflazione: problema reale o suggestione?

 

In questo periodo l’attenzione degli italiani è tutta per il Covid 19 e i colori di Comuni, Province e Regioni ma la mia, inspiegabilmente, è stata catturata da un video che gira in rete, incentrato sui pericoli dell’inflazione e con relatore un noto onorevole ed economista, Luigi Marattin. Un video che per quanto mi riguarda ha già avuto successo, visto che mi ha ispirato le considerazioni che sto per condividere e che potrebbero servire come spunto di riflessione anche a chi mi sta leggendo.
Esistono le suggestioni, quelle che durano a lungo, decenni, persino secoli e per essere abbandonate, per lasciar spazio alla realtà e alla logica hanno bisogno di un trauma, di una condizione nuova, rivoluzionaria, che abbia la forza dirompente di risvegliare la nostra parte assopita, assente, perché le difficoltà della vita costringono alla delega delle decisioni, persino alla delega dei bisogni, nella speranza (suggestioni) che il nostro bisogno coincida con quello del delegato.
Jean-Baptiste Say (1767 – 1832) è stato il principale economista classico francese, il suo pensiero è stata la suggestione dell’800 e oltre, “l’offerta crea sempre la sua domanda”, dogma nelle università e nelle istituzioni (elitarie ovviamente) che riversò le sue conseguenze sui suggestionati fino al crollo di Wall Street e alla grande depressione. Trauma, conseguente fine della suggestione, e risveglio a base di ricette keynesiane.
Una crisi epocale l’abbiamo avuta anche noi e oggi, quando ancora non ci eravamo completamente risollevati a causa delle note ricette tecniche, siamo stati sorpresi da una ulteriore crisi portata da una incredibile e inaspettata pandemia che sta scoperchiando ancor di più tutti gli errori del passato prossimo. Ma, invece delle ricette keynesiane, da noi è arrivato Draghi e si profilano nuove ricette tecniche, miste ad un’operazione di assemblaggio di politici etichettati a priori come “i migliori”.
Intanto è un fatto, siamo in una crisi economica e servono soluzioni, e l’argomento di discussione dovrebbe essere sul come sostenere la ripresa economica nei prossimi mesi o anni. Deve essere la Bce a monetizzare il gap esistente tra domanda e offerta oppure bisogna chiedere prestiti finanziati dagli stessi stati che li chiederanno? In altri termini, la Bce dovrebbe mettere a disposizione soldi nuovi da utilizzare immediatamente nell’economia oppure dovrebbe attingere a quelli in circolazione e a disposizione di investitori internazionali (cioè attraverso mercati e finanza)? Dobbiamo stampare moneta oppure chiedere prestiti? Dobbiamo limitarci a pensare a come utilizzare i fondi del Next Generation Eu oppure si potrebbe andare oltre?
Tante possibili domande che cercano risposte e a cui il video in argomento contribuisce dicendo cosa assolutamente non deve essere fatto a prescindere: stampare moneta, lasciarsi catturare dalle sirene della sovranità monetaria. E se questo non si può fare l’alternativa è ovviamente chiedere prestiti, questo sì che è una cosa saggia, oltre che figlia di una suggestione che si avvicina anch’essa alle 100 candeline. Quando la Bce, o una qualsiasi altra banca centrale, crea moneta stampandola questa produce inflazione che, prima o poi, si trasforma in iperinflazione. L’unica soluzione possibile o consona è, quindi, chiedere prestiti o accettare programmi di aiuto.
“Ho un albero di mele e del terreno libero per piantare altri meli, ma siccome il raccolto potrebbe poi essere troppo abbondante e qualche mela potrebbe marcire, chiedo un po’ di mele in prestito al mio vicino promettendogli di restituirgli capitale e interessi oppure, se non riesco, di sistemargli le aiuole o di cedergli parte della mia casa.”
Affidarsi alla suggestione dell’inflazione come fenomeno esclusivamente “cattivo”, elevarlo al nemico dietro l’angolo, assolve dall’eventuale peccato di uscire dal pensiero comune, ma non tiene conto di ragione, analisi storica e comparazione degli eventi. La crisi del 2007 – 2008 e quella da Covid-19 hanno tolto moneta dal circuito economico e allora oggi ci sono più prodotti che soldi per acquistarli, quindi stampandoli si coprirebbe semplicemente un buco per poi ripartire senza debito e catene. I prestiti comportano (giustamente) una restituzione di capitale e interessi nonché sudditanza politica.
Bisognerebbe ricordare che quando si è affidato alle banche centrali la moneta, condividendo con essa il potere sovrano della sua creazione, le è stato consegnato la macchina per stamparli e il dovere del controllo che ne fossero stampati nella quantità giusta, né troppo né troppo pochi.
“Ho tante mele e una sola bocca per mangiarle, posso tagliare l’albero oppure potarne qualche ramo o utilizzare il surplus per farci barattoli di marmellata di mele e conservarli per il futuro.” Insomma c’è sempre una scelta da contrapporre all’impulso di distruggere la fonte di approvvigionamento o limitare la possibilità di un investimento.
Si aiutano le future generazioni, e noi stessi, conservando i mezzi di difesa e di attacco che l’economia, in senso lato, ci mette a disposizione. Affidarsi ai prestiti europei significa affidarsi a qualcosa che non possiamo controllare e questo creerà sicuri problemi. L’aumento delle risorse trovate in questo modo corrisponderà alla diminuzione della capacità di spesa futura perché se si accetta che il denaro sia una quantità prestabilita, allora bisogna essere pronti fin da subito all’idea che nel futuro prossimo bisognerà ribilanciare tale quantità. Quindi nel mondo che avremo si consoliderà l’idea che la moneta è merce ed è scarsa, che saremo costantemente in deflazione e che sempre più gente soffrirà la fame in nome di qualcosa che semplicemente non esiste.
Ma torniamo nello specifico dell’inflazione. Questa viene solo dopo aver coperto quel buco esistente tra la capacità di produzione e la quantità di moneta in circolazione. Se ho 10 mele e 10 soldi ogni mela mi costa 1 soldo, se poi stampo 100 soldi senza aumentare la produzione di mele allora la stessa mela mi costerà 10 soldi.
Milano Finanza ha pubblicato un articolo in queste settimane in cui si fanno i calcoli sull’aumento dell’offerta di denaro negli Usa. Ebbene, l’offerta di moneta M2, cioè quelle attività finanziarie che hanno elevata liquidità e valore certo in qualsiasi momento futuro (essenzialmente i depositi bancari e quelli postali), è aumentata di 4.000 miliardi di dollari nel 2020. Il tasso di inflazione a gennaio 2021 era 1,4%, cioè stampo moneta con un aumento del +26% rispetto all’anno precedente ma sorprendentemente non ottengo inflazione.
In Eurozona, e solo con le operazioni di Quantitative Easing, dal 2015 ad oggi si è fornito al sistema denaro per 3.066 miliardi di euro.

Il tasso di inflazione nella stessa area a gennaio 2021 è arrivato allo 0,90%.
Ma perché a Weimar e nello Zimbawe, in Argentina e in Venezuela c’è stata o c’è inflazione, addirittura iperinflazione e a noi niente? Forse c’è qualcosa da rivedere, che a mio modesto avviso potrebbe non essere stato considerato, qualche connessione di natura storica e strutturale forse è saltata.
Partiamo da una differenza di fondo, la differenza tra inflazione e iperinflazione per arrivare a quando o come la prima si trasforma nella sua patologia.

Come si può notare per calcolare l’iperinflazione si guarda al tempo necessario per il raddoppio dei prezzi che nel caso dell’Ungheria del 1946 avveniva ogni 15 ore, a Weimar ogni 3,7 giorni mentre nello Zimbawe il raddoppio era giornaliero e il tasso di inflazione, sempre giornaliero, era del 98%. Normalmente noi ci occupiamo e siamo coinvolti in aumenti annuali e anche quando sono a due cifre, come nell’Italia degli anni ’80 in cui si arrivò al 20%, non necessariamente si assiste a casi di suicidi, chiusure aziende e licenziamenti a catena come succede nei casi di deflazione tipo quella della crisi del 2008 fino ai giorni nostri.
A Weimar ci si arrivò come conseguenza di una guerra mondiale, di un trattato di pace sbagliato e di un’occupazione dei territori maggiormente produttivi da parte dei paesi vincitori. Allo Zimbawe dopo una rivoluzione che portò improvvisamente al governo persone non preparate nella gestione della macchina amministrativa e produttiva, la scelta di investimenti in armi e una guerra al Congo per impossessarsi delle sue risorse. All’Argentina per scelte populiste di politica economica e sociali che portarono alla necessità di agganciare la propria moneta ad una moneta estera (cosa che si fa quando la situazione monetaria interna è già molto compromessa). Al Venezuela per incapacità gestionale delle ricchezze petrolifere e per il tentativo di volersi distaccare dall’influenza geopolitica americana.
Cioè oggi non bisogna stampare moneta perché: “Ho un albero di mele che mi potrebbe sfamare, ma come dimenticare che in Karponistan nel 1967 il raccolto andò a male, meglio chiedere un Recovery”
In una realtà di paesi occidentali normalmente produttivi il problema serio e da tenere sotto controllo risulta essere la deflazione, cioè la mancanza di denaro, e non il suo contrario che è appunto l’inflazione, cioè l’abbondanza di moneta.
In paesi dove c’è alta capacità produttiva e mancanza di tensioni significative con l’estero, il problema è l’incapacità di alimentare il sistema economico con la giusta quantità di moneta. Solitamente è necessario aggiungere e non togliere, ma questo sarebbe troppo democratico e toglierebbe potere a chi poi la moneta la controlla. Se tutti possono utilizzare l’acqua del fiume che scorre in abbondanza, questa non ha valore, ma se costruisco una diga e comincio a razionarla, questa acquista un grande valore per chi deve bere e un grande guadagno per chi controlla la diga.
Il denaro, pur avendo una storia millenaria che meriterebbe approfondimenti, è disarmante nella sua semplicità di funzionamento pratico. Riflette beni e servizi prodotti e quindi se viene a mancare impedisce gli scambi e, di conseguenza, manda in crisi l’economia perché l’economia è scambio e il pil si calcola proprio su questi. Il denaro, però, è un po’ più complicato dal punto di vista politico e del potere che rappresenta, ma questa è un’altra storia.
Che tipo di problema abbiamo dunque oggi in Italia e in Europa? Siamo tutti bloccati in casa. Le aziende sono aperte a sprazzi e i lavoratori restano a casa con la preoccupazione del futuro. Sono semi-chiusi i bar, i ristoranti e i negozi in centro, mentre misteriosamente continuano ad aprire nuovi centri commerciali, almeno a Ferrara (nota polemica). Quindi i bar, i ristoranti e chi si occupa di turismo ma anche gli studi professionali e i parrucchieri, dovranno ricevere dilazioni nei pagamenti delle tasse e prestiti a tassi vantaggiosi dalle banche oppure sarebbe il caso di dar loro soldi senza condizioni e a fondo perduto al solo scopo di coprire un buco tra un lockdown e l’altro, tra una zona gialla e una rossa?
In fondo è come chiedersi se sia più importante avere 1.000 euro oppure un respiratore che salva la vita a nostro nonno, padre o fratello o addirittura figlio. A cosa servono mille euro se non a rappresentare un bene o un servizio immediato che preservi la vita o la dignità di un essere umano?
L’inflazione sarà pure un fenomeno monetario ma non è neutro ne nelle origini né nelle conseguenze. La scelta di stampare moneta in un paese avanzato e produttivo è politica, cioè qualcuno decide di farlo e di conseguenza è politica anche la scelta della deflazione, cioè qualcuno decide di non farlo. Le conseguenze non sono monetarie ma politiche, cioè chi decide di stampare cerca di far riprendere gli scambi e le attività commerciali e quindi sta aiutando i cittadini, mentre chi vuole chiedere prestiti o aiuti sta creando deflazione, cioè continua a mettere merci/servizi e denaro sullo stesso piano di importanza.
Chi sceglie tra stampare o chiedere prestiti a prima vista sta scegliendo tra inflazione e deflazione, cioè sta scegliendo quale fenomeno monetario causare. Da un esame più attento si potrebbe però scoprire che sta scegliendo come utilizzare il proprio potere e chi favorire, sta quindi scegliendo quale fenomeno sociale creare, povertà o benessere.

PER CERTI VERSI
Il nostro tempo

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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IL NOSTRO TEMPO

Se fosse
Una questione di testa
Io direi
Che il nostro tempo
Non fa mai festa
Si nasconde
Con la natura
Delle cose belle
Ama
I nascondigli
E le questioni di pelle
Il cielo
Le nuvole
Le stelle

PRESTO DI MATTINA
Nube ombra di luce

 

Può apparire una quaresima nuvolosa, più faticosa del solito. I suoi quaranta giorni sembrano aggiungere pesantezza a pesantezza, quarantena a quarantena. “Ma no, no”, ho pensato tra me e me, bisogna solo saperla prendere dalla parte giusta, percorrendo il sentiero ai margini, quello all’ombra della luce. Com’è camminare all’ombra della luce? Credo sia come camminare sulla seta, avendo una nuvola come tappeto, in leggerezza, con l’accortezza però di alzare lo sguardo del cuore verso la meta. L’inno liturgico quaresimale che apre il mattutino è da mandare a memoria, almeno le prime righe. Le faccio risuonare come un ‘mantra’, parola sacra nell’Induismo, il cui suono è potenza trasformatrice, che si prende cura dei pensieri notturni, capovolti, pesanti, rendendoli di una diafania leggera, trasparente.

Può essere una buona pratica meditativa, un promemoria, in questo tempo che è detto favorevole, opportuno per volgersi decisamente verso la Pasqua, per ri-diventare come bambini capaci di relazioni affidabili. Se li chiami, non tirano dritto per la loro strada; si fermano, si girano e si mettono attenti in ascolto; è la vita che parla loro. In questo sono costruttori di letizia, appunto di leggerezza, perché viandanti; sanno di essere di passaggio e, dopo aver ascoltato, ritornano a seguire la vita che gli cammina innanzi, protesi oltre, lasciandoci come traccia l’ombra della loro luce. Scrive Salvatore Quasimodo «Per credere bisogna ritornare/ col cuore di piccoli fanciulli,/ e poi pregare; pure se la fame,/ tenendovi per mano,/ zufola sorda e tartaglia con la morte,/ quando l’odore caldo del pane/ sveglia le strade mattutine» (Tutte le poesie, 552).

Eccolo allora questo ‘mantra’ quaresimale: «Protesi alla gioia pasquale, sulle orme di Cristo Signore, seguiamo l’austero cammino della santa quaresima; la legge e i profeti annunziarono dei quaranta giorni il mistero, Gesù consacrò nel deserto questo tempo di grazia»; gli fanno eco, più ermetiche, e più facili a mandare a memoria le parole di Giuseppe Ungaretti: «La vita si vuota/ in diafana ascesa/ di nuvole colme/ trapunte di sole» (Tutte le poesie, 67).

Nel racconto di Marco è detto che Gesù nel deserto vive dell’ascolto della parola del Padre, suo intimo alleato, e così rintuzza e controbatte, con quella spada affilata a doppio taglio, parole avvelenate, fatte di menzogna, ingannatrici, le striscianti parole del tentatore antico. Ma in quel deserto di pesantezze e di tentazione, Gesù vive e resta in armonia con la creazione di cielo e di terra; è detto: “stava con le bestie selvatiche ed era servito dagli angeli”; come se dicesse anche con le parole di Ungaretti: «Mi presero per mano le nuvole» (ivi, 184). Che leggerezza evangelica! Ma non si dice forse dell’altro Consolatore, dello Spirito, che è ospite dolce, dolcissimo sollievo, che nella fatica è riposo, nella calura riparo, nel pianto conforto? Non è la sua compagnia che ci fa camminare all’ombra della luce?

Italo Calvino ricorda che Michel Ponge parla delle cose a partire da ciò che esse non sono. Così per arrivare a parlare del mare, egli principia dai suoi margini, dalle rive, dalle spiagge, dalle coste: parla dell’illimitato nel momento in cui giunge al confine. Con analogo stilema, le nubi ben possono considerarsi liminari al deserto, buone interlocutrici per parlarci di quell’esodo che è la quaresima.

Come c’è una nuvola informatica (cloud computing), un archivio tra le nuvole, che rende più leggera la vita sulla terra, così spero che la nube biblica nel deserto possa darci indicazioni per rendere più lieve il nostro cammino. Il deserto, come anche la quaresima, diventano il luogo della conversione e maturazione degli affetti, per sapere dove cammina il cuore e con quali desideri cammina: se con quelli che ti portano su o con quelli che ti lasciano cadere.

Ricordo che a un campo scuola con la parrocchia, il tema era ‘Una nuvola come tappeto’. In quell’occasione avevo scattato una foto simbolica. In una passeggiata sul monte Roen sul confine della val di Non, a strapiombo sulla val d’Adige; arrivati in cima c’erano diverse nuvole che in prospettiva, spostandomi un poco sotto la cima, sembravano passare quasi alla stessa altezza della montagna, quasi fossero fatte apposta per salirci sopra. Così dissi a Davide di mettersi in posa, simulando di muovere un passo per arrampicarsi sopra, come ad iniziare una nuova ascensione: più su ancora.

L’immagine, come il tema del campo estivo, quella volta furono ispirati proprio al titolo di un libro di Erri De Luca. Egli, commentando il salmo 105, 39 in cui si ricorda la prossimità di Dio al suo popolo nel deserto così commenta: «Il testo ufficiale della Chiesa lo traduce: “distese una nube per proteggerli”. Alla lettera è invece: “stese una nuvola come un tappeto”. Dio spiana in cielo il suo cirro ed esso, per effetto dell’ombra che produce, forma in terra una traccia. Gli Ebrei attraversano la penisola del Sinai, loro primo deserto: dove dirigersi nell’uniformità dell’orizzonte? Levano lo sguardo al cirro disteso la cui ombra si stende come un tappeto, si affidano alla segnaletica celeste. Segnato dalle nuvole sarà il cammino del popolo estratto dai ceppi d’Egitto. Nei deserti, nei secoli, attenderanno dal cielo i sentieri. Per tappeto intenderanno la Bibbia» (Una nuvola come tappeto, Milano,1999, 5).

C’è come un senso della Bibbia per la leggerezza, che la percorre e attraversa tutta. Un senso affinato, rimirando la cavalcata di Dio tra le nubi che, volgendosi a guadare la terra, l’abbraccia con la sua ombra: «appianate la strada a colui che cavalca le nubi» (Sal 68,5). Egli «cavalcava un cherubino e volava, si librava sulle ali del vento» (Sal 18, 11); «Ecco, il Signore cavalca una nube leggera ed entra in Egitto» (Is 19,1); «stese la mano dall’alto e mi prese, mi sollevò dalle grandi acque» (Sal 18, 17); Colui che siede nell’alto «solleva l’indigente dalla polvere, dall’immondizia rialza il povero, per farlo sedere tra i principi, tra i principi del suo popolo. Fa abitare la sterile nella sua casa quale madre gioiosa di figli» (Sal 112,7-9).

Vi è pure un senso di Gesù per la leggerezza. Non solo quella da lui sperimentata entrando nella nube che lo avvolse sul Tabor, da cui sgorgò la voce di un padre per il figlio nella prova che gli sussurrava: “ci sono, sono qui con te”. Ma soprattutto la leggerezza sta nel cuore del suo insegnamento, la buona notizia: «Il mio giogo è dolce e il mio peso leggero» (Mt 11,30). Il Regno dei cieli è, in fondo, mistero di leggerezza, e le Beatitudini così come il Pater noster ne sono la rivelazione e la preghiera. Non diversamente il ministero di Gesù è tutto un rialzare, sollevare, togliere i pesi: un alleggerire pure le mani dei lapidatori, facendo cadere le pietre; uno slegare e lasciar andare liberi, anche i suoi uccisori, perdonandoli. Il suo fu un continuo comandare alla vita di farsi leggera e alzarsi, come se lo stesso verbo usato nei vangeli per indicare la risurrezione fosse già presente e operante nelle parole e nelle azioni del Messia, amalgamato alla sua stessa vita come, lievito, sale, luce, primizia di una promessa di leggerezza.

Tale fu anche l’esperienza, tutta nel segno della leggerezza, dell’incontro con Dio di Elia, profeta sul monte: «Ecco, il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello» (1Re 19,12). La stessa preghiera di Gesù al Padre fu esperienza di leggerezza; è detto infatti che Gesù salì sul monte a pregare e mentre pregava «il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce» (Mt 17,2).

E persino nell’orto degli ulivi, nella pesantezza di quell’ora che lo schiacciava, Gesù trovò una presenza che lo fece rialzare e rimettere in cammino. Era l’angelo che dal cielo, come la nube esodica, lo ombreggiò infondendogli il coraggio di una prossimità paterna, ricordata con le parole raccolte e riportate poi dall’evangelista Giovanni: «Ecco, verrà l’ora, anzi è già venuta, in cui vi disperderete ciascuno per conto proprio e mi lascerete solo; ma io non sono solo, perché il Padre è con me» (Gv 16, 32).

Pure sulla via di un altro monte, caduto sotto il peso della croce, incontrò il Cireneo che liberò dal quel peso le sue spalle, mentre le donne di Gerusalemme lavarono con il loro pianto quel volto sfigurato, che la Veronica deterse con mano e velo leggero. Sotto la croce alla sua ombra, quando si adombrò tutta la terra, la madre e il discepolo, legandosi l’uno all’altra come figlio a madre, sciolsero il groppo della sua cupa paura di doverli abbandonare. Infine un centurione pagano che, avendogli perforato il cuore con la lancia nel momento della morte – lo stesso in cui il Padre insieme alla Madre lo prendevano tra le loro braccia, sollevandolo da terra – lo riconobbe esclamando: “davvero costui era Figlio di Dio” e ne divenne il discepolo velato.

In mezzo alla durezza della vita c’è sempre qualcuno che sorregge, che scalfisce la durezza, mitigandone la pesantezza, fessurandone la densità, aprendo spazi e mettendosi frammezzo: «E la colonna di nube si pose tra l’accampamento d’Egitto e quello degli ebrei e si produsse una densa oscurità, mentre (per gli ebrei) fu illuminata la notte e non si avvicinarono gli accampamenti gli uni agli altri per tutta la notte»; commenta Rashi di Troyes: «La situazione può essere paragonata a quella di un tale che faceva un viaggio e suo figlio lo precedeva. Se vengono dei briganti a prendergli il figlio, allora quello lo pone dietro di sé. Se viene un lupo ad assalire da dietro, egli pone il figlio davanti a sé. Se poi vengono contemporaneamente dei briganti davanti e dei lupi dietro, allora prende il figlio in braccio e combatte contro costoro; così ha fatto Dio con Israele, perché è scritto: “Ho guidato Efraim sorreggendolo per le braccia”» (Commento all’Esodo, 109).

Anche noi, viandanti verso la Pasqua promessa, avremo ristoro, facendo memoria del cammino di Israele nel deserto, muovendoci al ritmo della nube luminosa, dove abita Dio. Come Mosè e Gesù, anche noi entreremo nella nube di tenebra per essere confermati nel ministero dell’ascolto: quello delle parole del Figlio amato e delle sorelle e dei fratelli che ci vengono accanto. Un procedere cangiante al ritmo delle nuvole che scorrono in cielo e delle loro ombre sui prati, nelle piazze e sui tetti delle case.

Nei suoi diari il poeta Gerard Manley Hopkins descrive di continuo le nuvole: Estratti sulle nuvole è il titolo dei suoi taccuini nell’edizione Guanda delle Poesie: «Oggi ‒ altro nitido pomeriggio con molte nuvolette leggere dopo la pioggia  ‒ osservi la crespa e piatta scurezza dei boschi di contro al sole e la tenue fumosità dalla parte opposta. Gli alberi gemmati e i loro virgulti attorti, quasi acconciati per la primavera… lunghe matasse di avviluppate nuvole grigie un po’ arrossate inferiormente, non proprio orizzontali, ma alquanto oblique, ascendenti da sinistra a destra, e in basso a sinistra una stanga o spranga più solida del resto con sopra un arruffato orlo di pelo o vello… un bel tramonto, gran campo d’oro; lungo l’orizzonte una processione di nuvole scure formate di grumi o di grappoli, che sormontavano in alto il loro stesso percorso; più in alto una obliqua corsa di fiocchi conici oppur guizzanti come pesci, come si vedono spesso; l’oro, ageminato di più splendente oro e foggiato in pezzi fulvi annodati e ondosi come creste d’acqua» (Poesie, 172).

Quello che Hopkins ha detto con il linguaggio, John Constable lo ha fatto con la pittura, dipingendo cieli pieni di nuove e terre cavalcate dalle loro ombre. Una smisuratezza tutta raccolta nei margini di un quadro, che tuttavia deborda fuori di esso, incontenibile nello sguardo di colui che osserva con stupore. Attraversamento di confini pure per chi ascolta la parola di Dio, la sua smisuratezza, abbreviata su tavole di pietra e confinata nella scrittura di un libro, torna ad esondare all’infinito ogni volta sulle tavole del cuore di carne di colui che crede.

Originale mi sembra l’interpretazione allegorica della nube esodica di Ruperto di Deutz (1075 – 1129) in rapporto a Cristo: «Chi è questa guida del viaggio se non colui che è per noi la “via”, Gesù Cristo, Figlio di Dio? Colonna di fuoco perché vero Dio, colonna di nubi perché vero uomo. Nella notte era fuoco, ma quando si levò il giorno della grazia, il tempo della misericordia, il fuoco si fece nube, colui che è Dio si fece uomo, si fece carne rivestendo la carne … Il vero sole, fonte di ogni luce, è venuto nella nube della sua carne. E questo sole, velato dalla nube, spande più chiarore che un tempo il fuoco nella notte» (PL 167,636).

Una oscurità luminosa e presente è il Deus absconditus della quaresima: «“Il Signore ha deciso di abitare nella nube” (1Re 8,12). Segreto dell’antico tabernacolo. Segreto di un’umile esistenza d’un giudeo palestinese. Segreto della Sua presenza nel pane e nel vino. Segreto della Sua presenza nel suo corpo che siamo noi», (Dorothee Sölle).

“UN PONTE DI CORPI” ANCHE A FERRARA
Appuntamento sabato 6 marzo ore 15,00 in piazza Trento Trieste

 

da: un gruppo di donne ferraresi

Flash mob
Apriamo le frontiere!
UN PONTE DI CORPI
su tutte le frontiere e in tutte le piazze d’Europa

SABATO 6 MARZO 2021, Dalle ore 15:00, a FERRARA in piazza Trento Trieste

Il 6 marzo un gruppo di donne, riconoscendosi nel Manifesto “Un Ponte di Corpi” promosso da Lorena Fornasir, attivista sulla rotta balcanica al di là e al di qua del confine, tra Bosnia e Trieste, costruirà con i propri corpi un ponte simbolico di attraversamento della frontiera, per denunciare le continue violenze e i respingimenti di cui sono vittime le persone che tentano di raggiungere la loro meta.
Anche Ferrara non si volta dall’altra parte, aderisce e partecipa al ponte di corpi che attraverserà idealmente le frontiere europee per porre fine ai respingimenti a catena.
Non possiamo più fingere di non sapere e continuare a consegnare al mondo menzogne su menzogne dalla “colta” Europa.
Noi saremo i corpi che non abbandoneranno altri corpi al loro destino di freddo, violenza e morte. Noi decidiamo adesso di essere coloro che saranno ponte di corpi per altri corpi che dalla rotta balcanica risalgono e che troveranno donne e uomini da cui saranno amati, curati, ricomposti dallo smembramento del corpo e della mente. Con spirito di sororità attiviamo un ponte di donne e uomini che hanno a cuore l’umanità, che compiono azioni, che mettono al sicuro la vita finché non è pronta per tornare al mondo.
Noi siamo un ponte di corpi che salva la scia di corpi martoriati, nostri compagni di viaggio sulla terra che è madre di tutte e di tutti senza confini.

NOI DONNE DICIAMO
NO alla violenza dei respingimenti
che non consentono neppure la legittima presentazione delle domande di asilo

NO al razzismo e alla discriminazione
che da sempre conosciamo

SI al diritto insito in ogni corpo di potersi muovere
e andare dove ritiene di poter vivere una vita degna

Il 6 marzo saremo in tante/i ad accorrere sui confini, ad attraversarli, a ribellarci alla disumanità, costruendo un grande movimento di solidarietà insieme a tutte le persone che hanno a cuore i diritti umani, la giustizia e che non tollerano la barbarie.
La partecipazione è a titolo assolutamente personale. È obbligatorio l’utilizzo di mascherine e il rispetto del distanziamento.
Si invitano i partecipanti a indossare un sacco nero della spazzatura (che i migranti lungo la rotta balcanica indossano per proteggersi da pioggia e vento) e cartelli ispirati al manifesto “Per un ponte di corpi”.

Per info e adesioni: unpontedicorpi.fe@gmail.com

In copertina: Croazia confine (foto Amnesty International)

CONTRO VERSO
In bicicletta 

 

In un pomeriggio di qualche anno fa, appoggiata sul cemento di una pista ciclabile, venne ritrovata una neonata avvolta in una coperta. Senza neppure provare a chiedere aiuto, o ad affidarla, la mamma l’aveva abbandonata, il papà non l’aveva mai riconosciuta.
Dopo alcuni anni, aborti, amori, quella donna ha avuto un’altra bambina. Occorreva vigilare affinché la storia non si ripetesse.

In bicicletta 

Passeggiavo in bicicletta
una limpida mattina,
pedalavo senza fretta
quando ho visto la bambina.
Lei strillava a perdifiato
lì, posata sul cemento.
Io mi sono avvicinato
pedalando controvento.

Era un cucciolo spaurito
-poche settimane appena-
il visetto un po’ sgualcito
e un profumo di verbena.
I polmoni, nel gran pianto,
eran vuoti d’ogni fiato
Ho provato con un canto,
il suo volto ho accarezzato.

La piccina la ricordo
ma la mamma lì non c’era
Non il padre, quel codardo,
proteggeva primavera.
Sull’asfalto maculato
d’ombra e sole tra le foglie
stava il fiore, abbandonato,
per il primo che lo coglie.

Poi la bimba in adozione
ha trovato una famiglia,
tanto amore e la ragione
per sentirsi, infine, figlia.
Però chi l’ha partorita
ha di nuovo una bambina.
Questa storia, infinita,
come finirà… indovina?

Se si lavora a lungo con famiglie fragili ci si può trovare di fronte a un dilemma: proteggere la nuova bambina da un possibile abbandono, uguale a quello vissuto dalla sorella maggiore, o investire sulla possibilità che la stessa donna possa vivere la maternità in modo totalmente diverso?

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia  il venerdì. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

RISPARMIO TRADITO A FERRARA:
retrospettiva su un delitto economico

Novembre 2015. Carife sta aspettando da mesi il bonifico di 300 milioni del Fitd (Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi), per una ricapitalizzazione deliberata in luglio 2015 dall’assemblea dei soci. Quei soldi tardano ad arrivare, perchè pende una interlocuzione tra Governo italiano e Commissione Europea, che sostiene che quel denaro (chiaramente erogato da un ente privato, essendo contribuito dalle banche italiane) sarebbe un “aiuto di Stato”.
Nel frattempo, un fiume di depositi continua ad uscire dalla banca, vista l’incertezza (in una banca gestita in quel frangente da coloro che dovrebbero essere i custodi della sua stabilità, ovvero i Commissari di Bankitalia, che non fanno nulla per rassicurare i clienti e trattenere quei soldi). In data 19 novembre 2015 Vestager (Commissaria alla Concorrenza presso l’Unione Europea) scrive a Padoan dicendo che un intervento del Fitd, di natura propriamente privata (poi denominato schema volontario), non sarebbe aiuto di Stato e non farebbe scattare il bail-in.
In data 22 novembre 2015 il governo Renzi decreta comunque la risoluzione delle 4 Banche, con le conseguenze che conosciamo bene. Risparmiatori azzerati dalla sera alla mattina, una banca che chiude la saracinesca e la riapre il giorno dopo con l’insegna “Nuova Carife”, i soldi di migliaia di famiglie che hanno creduto nel rilancio della loro banca locale, comprandone le azioni, cancellati con un tratto di penna. Un bail-in “leggero”, che in realtà “salva” solo i depositi liberi e le obbligazioni ordinarie, travolgendo il resto.

Aldilà delle storielle di macroeconomia raccontate in questi anni da rampanti professori per giustificare il misfatto, il diavolo si nasconde nei dettagli. E il dettaglio, in questo caso, sta proprio in quei quattro giorni. Il 19 novembre 2015 l’Europa scrive al Governo italiano che, se i soldi del Fitd vengono erogati a titolo di “contributo volontario”, la censura di aiuto di Stato verrebbe superata.
Niente bail in, niente risoluzione.
Il Governo italiano cosa fa?
Invece di aspettare i tempi tecnici che permettano al Fitd di creare al suo interno lo “schema volontario” – che infatti qualche settimana dopo verrà utilizzato per “salvare” Caricesena, impedendo di raderne al suolo il tessuto economico-sociale – quattro giorni dopo la lettera della Vestager, il 22 novembre 2015, decreta la “risoluzione” di Carife. Una morte e risurrezione che, fatta da un privato qualunque, lo farebbe inseguire coi forconi dai creditori imbufaliti. Invece il Governo Renzi la spaccia come il minore dei danni, mentre i creditori non se la prendono con lui nè con Murolo, ma con gli sportellisti. Una decisione politica, che ignora la via d’uscita offerta dall’Europa, accolta dal manipolo di parlamentari ferraresi di allora con una acquiescenza al capo (ora ridotto a farsi dare la mancia da un califfo che fa eliminare i giornalisti, allora enfant prodige della sinistra contemporanea) cui stento tuttora a credere. Ma è tutto vero, e infatti la propaggine piddina locale, identificata (e come poteva essere altrimenti) come l’indifferente ancella di chi ha deciso la demolizione del suo territorio, ha perso il governo locale dopo settant’anni. Dopo questo capolavoro, avrebbe perso perfino contro Naomo. Infatti ha perso contro Naomo.

Non sono i saggi economici, in questi casi, a mostrare la cruda sostanza di quanto accaduto alla carne delle persone: sono i romanzi. Cito dal romanzo Bankabbestia (l’ho scritto io, pazienza, mi perdonerete e se non mi perdonerete, pazienza). Chi parla, nel romanzo, è uno dei commissari (immaginari, per carità) di Bankitalia, che annuncia ai sindacalisti la risoluzione della banca con queste parole: “…purtroppo, non si è potuto evitare che gli obbligazionisti subordinati contribuissero in maniera significativa alla rinascita della banca. E’ stato un prezzo doloroso ma limitato. Del resto, in questo modo sono stati completamente salvaguardati i correntisti e i dipendenti. E non un solo posto di lavoro è andato perduto!” conclude, con un tono che parte contrito e sale fino a comunicare un inaspettato colpo di fortuna, una vincita alla lotteria. Invece, ci sta dicendo che ci fanno fallire e che espropriano il denaro dei nostri clienti. Non riuscirò mai a rendere con sufficiente accuratezza l’ammirazione che provo per questo genere di pornografica disinvoltura nel travisare le cose.

La decisione della Corte Europea di questi giorni rinnova il dolore e l’amarezza. Con questa decisione, definitiva, la Corte afferma che la Commissione Europea commise un “errore di diritto” nel considerare “aiuti di Stato” quelli concessi dal Fitd a Tercas. Ricordo che lì una pronuncia della Commissaria europea ci fu, ed infatti è stato possibile impugnarla. Nel caso di Carife, come sopra descritto, ci fu addirittura il contrario: l’Europa indicò una strada, ma il Governo italiano decise di non seguirla, e di fare pulizia della banca dissestata drenando il denaro dei risparmiatori: pensionati, dipendenti, artigiani, piccoli imprenditori, dipendenti della banca, loro amici e parenti che ne misero in dubbio la buonafede. Un massacro esistenziale, non solo sociale, del quale Ferrara pagherà il prezzo per decenni. Perché adesso si parla di risarcimenti per i danneggiati, ma aldilà delle perplessità per le possibili basi giuridiche di un simile ricorso se riferito a Ferrara, la storia non si è fermata e soprattutto non è possibile riavvolgerne il nastro.
Non ci meritavamo i Murolo, i commissari, Renzi e i suoi silenziosi accoliti locali, però li abbiamo avuti e li abbiamo subiti tutti, fino in fondo. Non so dire se questa sia la nemesi per una qualche colpa collettiva di cui ci siamo macchiati. Di sicuro i terremoti sono stati tanti, da quello fisico a quello economico, e hanno scavato ancora più nel profondo quella ‘busa’ nella quale viviamo.
Ci resta la bellezza malinconica delle emergenze urbanistiche, come certi sprazzi dell’Addizione Erculea, che dal Castello ci precipita nella piena campagna attraverso pochi passi che risuonano silenziosi sull’acciottolato più struggente d’Europa. Non è un patrimonio di poco conto, a pensarci bene.

In copertina:  Ferrara: corso Ercole I d’Este (foto Ferrara Terra e acqua)

 

Al cantón fraréś
Flavio Bertelli: “Un źir int al Saraśìn”

 

La via Saraceno “forse la strada più ferrarese della città” (Carlo Lanzoni, Al Saraśìn) deve la denominazione probabilmente alle “Corse al Saracino”, ovvero le giostre e i tornei all’epoca degli Estensi. Flavio Bertelli, in un suo racconto/testimonianza della Ferrara di ieri, rende un affettuoso omaggio al rione tratteggiando la vivacità della gente, dei personaggi, delle botteghe e la nostalgia degli odori del luogo.
(Ciarìn)

Uη źir int al Saraśìn

Am ciàpa impruvisamént la nostalgìa dal Saraśìn, dill so butégh, dill so ca’, dla so źént e… dal so udór. Eco a créd propia che la nostalgìa l’am sia nata priηzipalmént da l’udór. L’udór ach gnéva fóra da la butéga ad Tassinari quand che, a la matìna, al faśéva i biscòt.
Pòrca misèria ach fat udór! Oh, intandénas: l’è véra che ‘sta banadéta misèria l’as mitéva iη cundizión ad naśàr solamént, però l’è aηch véra che Tassinari al spargugnàva, par tut al Saraśìn, n’udór ch’al s’palpàva. Uη quèl ch’at faśéva gnir vója ad tiràr su col naś cumè uη can da trìfula coη l’arfardór.
Tassinari al li faśéva lu, ‘sti biscòt, e al cuśéva int al fóraη ch’al gh’aveva ad dré da la butéga. Quand al li tiràva fóra (a diéś ór dla matìna) al jéra uη spargugnamént d’udór ch’al rivàva iηfìn iη Saη Piér e l’andava déntar dapartùt.
Tuta la źént varźéva i buś dal naś e con al slaηgurìn dla matìna, al jéra propia un tribulèri duvér sól naśàr.
Ad ogni mod agh jéra póch da sègliar: o as gh’aveva i quàtar sold par cumpràrin un, o as duvéva far cónt ad gnént e mandàr sla fórca la buléta.
St’banadét pastiziér, quand al tirava via dal fóran i sò bilìn, al li mitéva in vedrìna, tut bèj stéś su na padèla.
I jéra propia da védar! Grand cumè na cartulina, rigà tut par la lunga e séch ch’j sa sgranàva, j gh’éva uη culór da roba bona ch’a gnéva infìη vója ad rubàri. Mi a digh che se j fus sta’ partìcul, e la butéga la fus sta’ na Céśa, avrìsaη fat la comunión tut ill matìn.
Mi a sóη sémpar sta’ iη lòta con al desidèri ad cumpràrin un, e… aη l’ho mai cumprà. I soldi, qualch volta, a jò aηch avù, mó al peηsiér ad spéndar vint zantéśam int uη quèl ch’al sarìa sparì in du e du quàtar, aη m’ha mai da’ la spinta par varcàr cla porta. E, acsì, am è rimàst la vója! Na vója granda che am la strapégh ancora a dré tant che, se al fus pusìbil, andrìa a truvàr Tassinari.
Sicóm però l’è mort, l’è mèj che am tiéna la mié vója!
Agh jéra àltar du post ach m’interesàva s’al Saraśìn: Stablìn al giurnalàr (indù ch’andava a spéndar tut i mié suldìn) e Azzolini al gelatàr in dóv che mi, e tut chi àltar cumè mi, an andàvaη mai a spéndar gnént.
Anch quest chì al jéra un post, cum òja da dir, da lusso. Na spèzia ad musica proibita par di sunadùr ch’andava a urécia. Al jéra uη sit par la źént dabén insóma, quéla agh gh’aveva i soldi.
Figurèv che as magnàva al “gelato santà”! Ròba che nu as l’iηsugnàvan a la not e che, se a jò da dir la vrità, as faśéva anch uη pó rabia.
Bisogna ch’a precisa che, dit iη ‘sta maniéra, a parrìa che, a èsar “santà” al fus al gelato, iηvez “santàda” la jéra la źént ch’al cumpràva.
Nu però a gévan acsì parché, se as capitava ad tórin un, al tulévan da du sold, e pò a stàvan iη pié.
Quél “santà” invéz, al custàva diéś sold: j’al serviva con al guciarìη su uη piàt tut fiurà, e j’al mitéva su di tavulìn ad màram ch’j gh’éva d’atóran dill pultrunzìn ch’a s’éva da star cumè a let.
Eco, al jéra uη fat iηsóni che a jéra nat iηfìn al vizi ad dir (se uη qualcdun al s’dava dill j’ari da spacón!) uη quèl ch’al curéva sla bóca ad tuti: “Mo clulì, crédal fórse d’avér magnà al gelato “santà”?

 

Un giro nel Saraceno (traduzione dell’autore)

Mi piglia improvvisamente la nostalgia del Saraceno, delle sue botteghe, delle sue case, della sua gente e… del suo odore. Ecco, credo proprio che la nostalgia mi sia nata principalmente dall’odore. L’odore che usciva dalla bottega di Tassinari quando, la mattina, faceva i biscotti.
Porca miseria che profumo! Oh, intendiamoci: è vero che questa benedetta miseria ci metteva in condizione di annusare soltanto,  però è anche vero che Tassinari spargeva, per tutto il Saraceno, un odore… che si toccava. Una cosa che ti faceva venire una gran voglia di tirar su col naso, come un cane da tartufi con il raffreddore.
Tassinari li faceva lui , questi benedetti biscotti, e li cuoceva nel forno che aveva dietro la bottega. Quando li tirava fuori (alle dieci del mattino) era uno spargimento d’odore che arrivava fino a san Pietro ed entrava dappertutto.
Tutta la gente apriva le narici, e con il languorino della mattina, era proprio una tribolazione dover annusare soltanto.
Ad ogni modo, c’era poco da scegliere: o si avevano i quattro soldi per comperarne uno, o si doveva far conto di niente e mandar sulla forca la bolletta.
Questo benedetto pasticcere, quando levava dal forno i suoi dolcetti, li metteva in vetrina, tutti belli e distesi su una padella.
Erano proprio da vedere! Grandi come una cartolina, tutti rigati per il lungo e secchi che si sgranavano, avevano un colore di roba buona che veniva perfin voglia di rubarli. Io dico che, se fossero state ostie, e la bottega fosse stata una chiesa, avremmo fatto la Comunione tutte le mattine.
Io son sempre stato in lotta con il desiderio di comprarne uno, e… non l’ho mai comprato. I soldi, talvolta, li ho anche avuti, ma il pensiero di spender venti centesimi in una cosa che sarebbe sparita in quattr’e quattr’otto, non m’ha mai dato la spinta per varcare quella porta. E così, m’è rimasta la voglia. Una voglia grande che ancora mi trascino dietro, tanto che, se fosse possibile, andrei a trovare Tassinari.
Siccome, però, è morto, è meglio che mi tenga la mia voglia!
C’eran altri due posti che m’interessavano sul Saraceno: Stabellini il giornalaio, dove andavo a spender tutti I miei soldini, e Azzolini il gelataio, dove io, e tutti gli altri, non andavamo mai a spender niente.
Anche questo era un posto, come devo dire?, di lusso. Una specie di musica proibita per suonatori che andavano ad orecchio. Era un luogo per gente bene, insomma, quella che aveva denaro.
Figuratevi che vi si mangiava il “gelato seduto”! Roba che noi sognavamo la notte, e che, se debbo dire la verità, ci faceva anche un po’ rabbia.
Bisogna ch’io precisi che, detto in questa maniera, parrebbe che a star seduto fosse il gelato, invece seduta era la gente che lo comprava.
Noi però dicevamo così perchè, se ci capitava di prenderne uno, lo prendevamo da due soldi e stavamo in piedi.
Quello “seduto”, invece, costava dieci soldi; lo servivano con il cucchiaino su di un piatto tutto a fiori, e lo mettevano su tavolini di marmo che avevano attorno delle poltroncine in cui si doveva stare come a letto.
Ecco, era un tal sogno che era perfin nato il vizio di dire (se qualcuno si dava arie da spaccone!), una frase che correva sulla bocca di tutti: “Ma quello lì, crede forse d’aver mangiato il gelato “seduto”?

Tratto da: Flavio Bertelli, Mi e la Frara da ier : ricord, ciacar e fatt d’un mond divers : testo in dialetto ferrarese. Note di grammatica e linguistica storica di Lorenza Meletti. Bologna, Seledizioni, 1978.

Flavio Bertelli (Ferrara 1916 – 1983)
Autore e regista teatrale, oltre che di commedie radiofoniche e televisive, ha collaborato con quotidiani e riviste. Romanziere, ha ottenuto riconoscimenti nazionali ed internazionali.  Altre sue pubblicazioni in dialetto: Mi, la guera e la bicicleta (1979), Mi e la Frara d’inquó (1980), Ferraresi ritratti : zibaldone in lingua e dialetto (1981), La bona nova : dal Vangelo secondo San Marco (1982).

 

Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui] 

In copertina:  Ferrara, via Saraceno – foto di Marco Chiarini

DIARIO IN PUBBLICO
Incontri poetici

 

Nella primavera del Covid decidiamo di andare in piazza a far spese. Il taxi ci porta in centro attraversando strade un tempo fervide di commerci e gente. Ora solo pochi ‘umarel’ discutono animatamente davanti alla Cattedrale, ma sotto il sole tiepido la città, come in una celebre canzone, appare vuota. Imbocchiamo la via famosa per i negozi e di fronte a quelli frequentati da una vita veniamo respinti se tentiamo l’ingresso simultaneamente, con gentilezza ma fermamente, perché, come ci insegna Figaro, “Uno alla volta, per carità! per carità! per carità!”

Infine, troviamo rifugio in un magazzino che vende cosmetici e prodotti per la cura della pelle. Ci lasciano entrare in coppia e cominciamo a vagare tra gli scaffali ancora sconosciuti per reperire ciò di cui abbiamo bisogno. Tra le poche persone che s’aggirano comprando ci imbattiamo in una giovane signora dai lunghi capelli neri che spinge una carrozzina da dove ci sorride una splendida creatura vestita di rosa che ci protende le manine in segno di saluto. Ogni tipo di difesa svanisce e di fronte alla cassa cominciano i vezzi e le moine. Mi congratulo con la madre dai penetranti occhi neri e chiedo di sapere il nome della bimba. “Clizia” mi risponde. A sentirlo il cuore comincia a mandarmi segnali d’amore e rispondo “ un nome montaliano?”. Gli occhi della signora s’illuminano. “Ma allora lei conosce la poesia?” – “Certo!” E dentro di me riecheggia il volo di Irma-Clizia tra le nebulose: “Ti libero la fronte dai ghiaccioli/che raccogliesti traversando l’alte/nebulose; hai le penne lacerate/dai cicloni, ti desti a soprassalti”. E nel caos del ricordo ecco che rivedo Eusebio/Montale all’Alpe mare del Forte dei Marmi e nella sua casa milanese. La signora spalanca gli occhi e mi chiede il nome. A mia volta la invito a venirmi a trovare al Centro studi bassaniani quando aprirà, essendone io co-curatore. La signora lancia un piccolo urlo e dichiara che non ci può credere. Ma perché?. E lei con un grande sospiro dichiara che la sua prima bambina, ora di cinque anni, si chiama….. Micòl in onore di Bassani.

Non è leggenda. È la coerenza dell’impossibile.

E, celando una curiosità malsana, la sera stessa sbircio la prima serata di Sanremo. Mai dico mai avrei potuto toccare con mano l’immensa distanza che separa un vecchietto, ancora culturalmente in forma, con gli orrori che ho visto. Strana gente che viene chiamata ‘cantante’ apre la bocca, da cui escono suoni incoerenti e maldestri. Un giocatore di calcio, che sembra la copia esatta del presentatore, dice e fa cose di una banalità disarmante. E le acconciature e i vestiti…. Da brivido. Una semi-famosa cantante ha i capelli infilati dentro un tubo di metallo e le unghie!!! Altro che Crudelia Demon. L’orrore puro è testimoniato da una anziana cantante L.B. oscenamente scosciata e con i capelli azzurri.

Mi congratulo con me stesso allora di essere un attardato radical chic e, di fronte al rimprovero dei miei assennati amici frequentatori di critica alta e di pensieri accademici, rispondo che stare in questo mondo è anche rendersi conto di dove e come viviamo. Per cui alla sera, lasciando l’ultimo ponderoso volume di critica dantesca, mi diletto a gareggiare con i concorrenti dell’Eredità, perdendo regolarmente visto il mio deficit culturale sullo sport, sulle canzonette, sulla cucina.

In lontananza brancolano negli scompensi del ricordo brani di vita vissuta in Versilia, a Lipari, a Firenze, a Bassano, in fuga da ‘Ferara, stazione di Ferara’. E tutto si confonde, si appiattisce, sembra non avere alcun senso.

Poi con la tromba del giudizio s’affaccia la prossima prova che mi restituisce al mondo: sarò vaccinato il 5 marzo e con la seconda dose al 26 dello stesso mese.

E il tempo si rinquadra nella dimensione che conosco.

Parole a capo
Pier Luigi Guerrini: “Sconcerto d’inverno” e altre poesie

La casa della poesia non avrà mai porte.”
(Alda Merini)


L’odore dietro casa

Canti canti
cantilena
cantastorie.

Ruvido percorso di passanti
a solitaria andatura.
coro muto senza voglie.

Prolisse e smerigliate
passano le giornate
quando il vento
è pensieroso a punta delta.

Fitto fitto
s’inoltra
il fatto.

Fatti di carne.

(1979)

 

La vita

la vita è perder
persone;
amiamo ricordi
e speriamo
d’essere amati nel ricordo;
scompaiono verso sabbie
ricamate con un sorriso
e chissà se ritrovano
la strada.

(1982)

 

Imprevisto

Scendono le ore in silenzio
tradendo l’attesa con passatempi
rimediati.
Non avevo previsto la situazione
non avevo pronta la sostituzione
mi sentivo agnello (sacrificale)
e non leone,
alla ricerca disperata di una
soluzione: basica,
alcalina,
matematica,
meccanica
o, comunque, problematica.

(2013)

 

Sconcerto d’inverno
(per i profughi d’ogni tempo)

battono i denti nel freddo
battono i vetri dal vento
battono gli occhi ogni tanto
battono le ore del tempo
urlano le onde tra voci senza fiato
nelle discariche del silenzio
passano a caso pensieri di senso.
All’improvviso, s’apre uno squarcio di sole
tra il filo spinato.
Corrono impaurite note in dissenso
passano frontiere in pieno tormento.
Sguardi, domande mute, lamenti
battono i sassi tra ghiaccio e sangue
battono i tasti ma la musica langue
battono i pugni nell’indifferenza
battono il petto ma non è penitenza.

(inedito)

Pier Luigi Guerrini (1954, Ferrara). Ha fondato, con Roberto Guerra e Lamberto. Donegà, la rivista Poeticamente (1980). Ha pubblicato Il fenomeno scomposto, Reggio Emilia, 1984 e l’e-book In prosa per la foto, ISNC Edizioni, 2014. Ha pubblicato in numerose antologie, riviste in cartaceo e online.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Microfestival delle storie: l’ 8 marzo alle 21,00 “L’estate dello storione” di Massimo Ubertone

 

Da; Ufficio stampa Microgestifal delle storie

Libri e dibattiti nel calendario di marzo del Microfestival delle storie di Polesella. Il primo appuntamento, condotto da Consuelo Pavani, sarà lunedì 8 marzo alle 21 con la presentazione del libro L’estate dello storione, edizioni Apogeo, di Massimo Ubertone. Il libro dello scrittore rodigino, per i risvolti noir della vicenda, si inserisce nel MicroNerofestival, la parentesi dedicata ai romanzi gialli della rassegna.

Lunedì 15 marzo, alle 21, Paolo Pileri, ideatore del progetto Vento, la ciclovia da Torino a Venezia, sarà intervistato da Gianluca Barbi dell’associazione Teradamar sul tema progettare la lentezza.
Altri due gli appuntamenti con i libri per fine mese: mercoledì 24 marzo alle 18.30 il giornalista Angelo Carotenuto presenta Le canaglie, edizioni Sellerio, intervistato da Riccarda Dalbuoni, mercoledì 31 marzo, sempre alle 18.30, il musicista e scrittore Pietro Leveratto dialoga con Riccarda Dalbuoni sul romanzo Il silenzio alla fine, edizioni Sellerio.

Tutti gli incontri saranno in diretta sulle pagine facebook del Microfestival delle storie e di Ferraraitalia.

L’estate dello storione di Massi    mo Ubertone. Bisinello, 14 luglio 1964: la giovane moglie del fornaio del paese viene trovata morta nella sua casa. Potrebbe trattarsi di un incidente domestico, ma i genitori sospettano del marito della ragazza, che non hanno mai visto di buon occhio perché si comporta in modo strano e soprattutto perché viene dalla Sicilia. Del caso si occupano Rosaria Puglisi e il nipote Totò. Lei è la prima donna avvocato della provincia di Rovigo, lui un impresario di pompe funebri per necessità e investigatore per vocazione. Per scoprire se c’è davvero un assassino e per dargli un nome i due non esiteranno a cacciarsi in situazioni pericolose e al limite della legalità. Sullo sfondo si intrecciano vicende di corna e di vero amore in un paesino sulle rive del Po popolato da personaggi divertenti e bizzarri. Una realtà arcaica e piena di pregiudizi dove Rosaria, bella, spregiudicata e agguerrita paladina dei diritti delle donne, porta una ventata di irriverente modernità: l’anticipo di un ’68 ancora di là da venire.

 

IL VIRUS DELLA DISEGUAGLIANZA
La pandemia ha reso forti i divari già presenti nella società

 

Le 1.000 persone più ricche del mondo hanno recuperato in appena nove mesi tutte le perdite accumulate per l’emergenza Covid-19, mentre i più poveri per riprendersi dalle catastrofiche conseguenze della pandemia potrebbero impiegare più di 10 anni. È quanto emerge da Il virus della disuguaglianza, il rapporto pubblicato da Oxfam, organizzazione impegnata nella lotta alle disuguaglianze in occasione del World Economic Forum di Davos.
A dicembre la ricchezza dei miliardari nel mondo aveva raggiunto il massimo storico di 11.950 miliardi di dollari, ossia quanto stanziato da tutti i Paesi del G20 per rispondere al coronavirus.

Il Covid19 ha reso più evidenti alcuni importanti divari già presenti all’interno della società. La fascia meno istruita è stata ulteriormente penalizzata, nel lavoro e nelle condizioni di vita. Angus Deaton, premio Nobel studioso delle diseguaglianze, sostiene che il Covid19 aumenterà il divario tra ricchi e poveri in America. La pandemia ha colpito prima e di più i Paesi ricchi, finendo per ridurre in qualche modo il divario tra Paesi ricchi e poveri. “Questo è forse l’unico modo in cui il Covid ha reso il mondo giusto” scrive Deaton.

Un sondaggio globale svolto da Oxfam in 79 paesi rafforza tali previsioni, mentre la Banca Mondiale prevede che entro il 2030 oltre mezzo miliardo di persone in più vivranno in povertà.
Le donne, ancora una volta, sono le più colpite perché impiegate nei settori professionali più duramente colpiti. Le donne rappresentano oltre il 70% della forza lavoro impiegata in professioni sanitarie o lavori sociali e di cura. Questo le espone a maggiori rischi.
La pandemia uccide in modo disuguale: sono le donne e le minoranze etniche a subire il peso maggiore della crisi. In molti paesi sono i primi a rischiare di soffrire la fame e ritrovarsi tagliati fuori dall’assistenza sanitaria”.

I divari nell’istruzione hanno inciso in modo forte: 1/3 degli americani ha un diploma universitario e 2/3 invece ne è sprovvisto. Un fattore, questo, che comporta come prima conseguenza la possibilità o meno di accedere ad un posto di lavoro e, dunque, di avere o meno un dato stile di vita. Si nota ancora quindi – prosegue – che dal 1990 al 2018, l’aspettativa di vita di chi è sprovvisto di istruzione, non ha subito variazioni in positivo. Per contro, in questi 2/3 di popolazione si assiste invece a una più diffusa abitudine al fumo e alle droghe.
In questo contesto il Covid19 ha ampliato le disuguaglianze. I meno istruiti si sono trovati in condizione di non poter lavorare da remoto.

Un altro importante dato di diseguaglianza riguarda le donne. Perché le donne potrebbero soffrirne di più? Prima di tutto perché ci sono molte meno donne che lavorano: il 94% degli uomini tra i 25 e i 54 anni ha un’occupazione, contro il 63% delle donne nella medesima fascia di età.
Le donne, quando lavorano, hanno uno stipendio minore. Gli ultimi dati Eurostat sulla disparità salariale tra uomo e donna in Europa [Vedi qui], registrano una differenza media del 15%.
Oltre all’aspetto economico vi sono implicazioni sociali. Secondo le Nazioni Unite, la chiusura delle scuole e dei centri diurni per le persone non autosufficienti aumenta la mole di lavoro domestico e di cura. Le donne che lavorano spendono, in media 4,1 ore al giorno per i lavori domestici e di cura non retribuita, contro solo 1,7 ore al giorno degli uomini. La pandemia enfatizza le note e sedimentate disparità.

PER CERTI VERSI
Tutto è nella terra

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
[Qui]

TUTTO E’ NELLA TERRA

Tutto è nella terra
E se una farfalla
Chiude le ali
Se un’ape si sperde
Manca qualcosa
A quel tutto
Che sempre si rinnova
Dicono i filosofi
Ma i poeti
Non sanno rassegnarsi
Quando muore
Un uomo
Una donna
Un bambino
Quando muore
Un albero
Un gatto
Una cimice
Persino
Se ne va un pezzo di mondo
E si rimpicciolisce
L’immensità
La ragione non serve
Il cuore vuole morire
Di verità

NGEU:
Uno strumento di ingegneria sociale per il controllo delle masse

Parlare di Next Generation Eu significa cercare di capire:
– sostanzialmente cosa succede nel mondo e in Europa
– incidentalmente il perché di Draghi, del voto bulgaro al suo governo, dell’appiattimento ad un pensiero unico di partiti che solo ieri si odiavano
– cosa possa aspettarsi il popolo italiano
È un approccio schematico che prende in considerazione un punto di inizio che, anche se non rappresenta il Big Bang, quantomeno ci evita di parlare solo di effetti senza passare dalle cause.
I punti da considerare ai fini del ragionamento sul Ngeu sono almeno tre:
– Quanti sono i trasferimenti reali destinati all’Italia
– Quali le condizionalità politiche
– A cosa è destinato realmente il “piano di salvataggio”
I trasferimenti previsti li vediamo dall’infografica di seguito, di questi una parte sono credito/prestito e una parte sono trasferimenti a fondo perduto.

Se consideriamo che il bilancio Ue è settennale e andiamo a vedere i conti del bilancio 2012- 2018 risulta che l’Italia ha versato 112,85 miliardi e ne ha ricevuto 76,49, di conseguenza ha contribuito al netto al bilancio europeo per 5,2 miliardi all’anno trasferendo all’Europa in sette anni 36,36 miliardi. Nel 2019, proseguendo, l’Italia ha versato 16 miliardi e 799,2 milioni e ha ricevuto 11 miliardi e 386,2 milioni con un saldo negativo che mantiene e conferma l’andamento medio del bilancio settennale precedente.
Per il bilancio 2021-2027 l’Italia dovrebbe versare, calcolando la perdita di Pil conseguente alla pandemia, tra i 13 e i 15 miliardi all’anno per un totale di circa 100 miliardi. Poiché ne dovrebbe ricevere 81 miliardi, il saldo negativo sarà di una 20ina di miliardi cioè un trasferimento di poco meno di 3 miliardi all’anno.
Cosa succede alla parte prestiti, ovvero 127 miliardi? Per calcolare il vantaggio bisognerebbe comparare il tasso di interesse praticato ai Titoli che emetterà la Commissione europea a quelli che sta emettendo l’Italia e che sono prossimi allo zero. Si tenga presente che nell’ultima asta del 16 febbraio i Btp a 10 anni sono stati collocati all’interesse lordo dello 0,604%.
Secondo le stime di Cottarelli, avvalorate all’epoca da Gualtieri, dall’operazione Ngeu (parte prestiti) si avrebbe un risparmio di 25 miliardi. Risparmio comunque tutto da dimostrare poi nella pratica e che non tiene conto del fatto che i Titoli emessi vengono oramai quasi tutti assorbiti dalla Bce e che quindi gli interessi che paghiamo sui Btp vengono poi rigirati all’Italia. Una volta si chiamava “partita di giro” ed era solo contabilità mentre oggi è vita quotidiana.
Compreso che il Ngeu non porterà ricchezza infinita e non ci risolleverà da tutti i mali, passiamo al secondo punto, le condizionalità.
In un momento in cui è necessario spendere e fare debito per assicurare la ripresa, come persino Draghi ha ammesso in varie occasioni durante il 2020, la Commissione continua ad essere ancorata ai principi dell’austerity dettata in particolare dai paesi frugali come l’Austria, l’Olanda e la Finlandia per cui già dal 2024 ci potrebbero essere i primi controlli sul livello delle spese (deficit e debito) che potrebbero anche portare all’interruzione dei programmi di finanziamento. Considerando che è stato previsto per cosa questi finanziamenti si possano spendere, che l’erogazione deve essere approvata dalla commissione e che poi bisognerà rendicontare ogni euro, viene da se che le condizionalità non solo ci sono ma potrebbero rappresentare un peso burocratico enorme. Al punto da limitare sia l’efficacia nell’immediato che la resa nel tempo.
Quelle che precedono però sono per lo più esempi di condizionalità economiche. Un esempio di condizionalità politica potrebbe essere rappresentata … dal governo Draghi che grazie ad una manovra a dir poco inimmaginabile solo poco tempo fa, ad opera di uno sparuto gruppo parlamentare, diventa il gestore del Recovery italiano. Nientemeno una troika anticipata con regia del Pdr e plauso dell’intero emiciclo romano che, se non fosse per l’astensione di Fratelli d’Italia e qualche fuoriuscito, sembrerebbe di essere un po’ più a Est qualche decennio fa.
Detto questo rimane il punto centrale, a cosa serve realmente questo piano e forse, a voler essere diretti, a chi serve veramente.
La Germania ci tiene così tanto che l’Italia si “salvi” da mettere il suo stellare rating a disposizione dei Titoli che la Commissione europea metterà sul mercato nonostante sia stata parte integrante se non fondante dei paesi frugali. Archiviando le contestazioni a Draghi da parte della sua Banca Centrale e dei cosiddetti “falchi” ai tempi del “whatever it takes” (perché la Germania dovrebbe addossarsi le responsabilità del debito italiano & company?), si passa alle benedizioni di oggi e, insieme al francese Macron e all’amico Biden, promuove l’intervento del Ngeu e l’arrivo del salvatore.
Soldi dunque a disposizione dei paesi in difficoltà, Italia in prima linea come maggior beneficiario, mentre loro regalano senza, in sostanza, prendere nulla o quasi. Del resto con il surplus commerciale accumulato la Germania potrebbe tranquillamente fare da sola, quindi pura generosità e sogno europeo.
Ma la debolezza dell’Italia è una questione da analizzare in senso un po’ più ampio. L’Italia è un paese debole dal punto di vista politico ed esprime tutta la sua debolezza nella sua politica estera dato che si muove sempre “a corredo” di necessità altrui, in particolare per tutto ciò che interessa ad americani ed inglesi. Negli ultimi anni la strana corrispondenza tra interessi altrui e la nostra è diventata esplicita anche nei confronti dei francesi con il caso Libia (erano i tempi di Berlusconi – La Russa – Sarkosy) o quello del Mali nel 2012 – 2013. Con il caso, invece, dei turchi lasciati liberi di spadroneggiare nel Mediterraneo e in Libia grazie alla gestione Conte – Di Maio risulta del tutto evidente la nostra debolezza e inconsistenza geopolitica.
Del resto l’Italia, pur avendo inutilmente capacità belliche superiori alla Turchia, non ha altrettanto unità d’intenti e chiarezza di obiettivi, quindi qualsiasi azione di contrasto messo in atto da parte di navi militari italiane sarebbe contestata in primis proprio dalla politica, poi dall’informazione ed infine dalla magistratura, un film già visto.
Dunque un paese debole e instabile internamente a cui si aggiunge poca visione e coerenza estera (Cina si, Cina no) ma indubbiamente ricco, terzo Pil europeo e primo nella ricchezza privata. Un problema serio per i suoi partner e competitor. Abbiamo l’obbligo di rimanere nel campo occidentale per mantenere gli assetti strategici americani e occidentali e dobbiamo rimanere ancorati al sistema euro per non scompensare l’unità europea che si basa sempre più chiaramente sull’egemonia tedesca e la grandeur francese che a tratti riaffiora.
L’Europa ha bisogno in ogni caso che l’Italia continui ad assicurare il necessario interscambio commerciale, un suo crollo scompenserebbe un intero sistema e non certamente solo il nostro Paese.
Come si potrebbe spiegare quello che abbiamo visto succedere in queste settimane, gli eventi che hanno portato all’insediamento di Draghi se non mettendo tutto in riga, analizzando fatti e circostanze che includono l’assetto politico mondiale, gli aspetti macroeconomici, i deficit e surplus delle bilance commerciali di paesi come gli Usa e la Germania. Cos’è l’Italia per paesi così forti e determinati, che hanno piani industriali, commerciali e di interessi internazionali da difendere?
Non possiamo essere noi il pericolo, non lo vogliamo noi e non lo vuole la Germania e la Francia, gli Usa e la Gran Bretagna. Abbiamo un ruolo nello scacchiere altrui, di cui non è sensato pensare di essere parte decisoria, bisogna rispettare e continuare ad essere dei buoni gregari. Dobbiamo anche accettare di essere salvati e che venga deciso come.
L’Italia è una grande risorsa, buona fino a quando fa la sua parte e non crea problemi e quindi da tenere sotto controllo perché si dimostra spesso scheggia impazzita, imprevedibile, preda a volte di impulsi populisti. Ci hanno tenuto sotto controllo benissimo gli americani quando ci hanno impedito di affacciarci troppo ad Est dopo la seconda guerra mondiale, gli inglesi e i francesi hanno tessuto i fili durante gli “anni di piombo” e lo fanno ora i tedeschi per impedirci di rovinare i loro interessi economici, nuova formula di controllo degli stati.
Cos’è il Ngeu? Tante cose o forse una sola veramente centrale, qualcosa che fa a pagamento quello che una banca centrale potrebbe fare gratis, uno strumento di ingegneria sociale per il controllo degli stati europei che serve a tutti tranne, forse, a quelli che avrebbero bisogno di sostegno finanziario.

PRESTO DI MATTINA
Scrivere, perché?
… vedremo strada scrivendo

 

Scrivere, perché?
«Silenzioso passa il vento/ tra una smunta tenda/ Tace la notte/ tra la bianca nebbia/ Piange l’albero/ il suo perduto splendore/ Nuda la terra/ nella notte fredda urla le sue ferite». Parole ritrovate, con l’emozione della prima volta, riaprendo un libro dopo tanto; un foglio riappare, lo scritto d’una persona cara. E, lei, la tenda, è sempre così smunta perché sa di essere di troppo nel voler trattenere le parole esiliate dal dolore, smarrite nella bianca nebbia.
Del nulla che resta, solo il movimento ne ricorda il passaggio. E tuttavia, a margine una nota, come un destarsi del sapere che interpreta le parole, custodendone la scintilla: «questa è l’unica poesia che non sia nata da un rigurgito di angoscia, ma in un momento di silenzio nella notte. Nel cuore della notte. Era già autunno inoltrato, vuotavo la lavatrice e fuori la nebbia copriva tutti i suoni, tutto era assopito; sentivo le gocce di umidità che cadevano dai rami del ciliegio, la tenda ‒ l’unica della casa ‒ lentamente si muoveva e così nel cuore della notte ho sentito la terra nella sua intimità».

Si scrive per scoprire quello che non si sa ancora, per esprimere quello che non c’è.

Se leggere è come aprire la porta di casa a parole migranti, gocciolanti nella nebbia ‒ apri un libro e «la stanza è invasa da tutto ciò che c’è scritto dentro» (Nadia Terranova) ‒ come ospitare un forestiero, fare conoscenza e trovare compagnia tra le parole straniere, scrivere implica invece un andare a cercale: partire alla ricerca di parole che non si conoscono, non si sa dove; parole nascoste, vaganti, perdute, inanimate; o appena concepite ma non esattamente sapute, che attendono di nascere, di diventare in quel silenzio parole tue da portare in grembo.

Ma scrivere è anche prendere la via dell’esilio, costretti dal disgusto delle parole vane di un linguaggio divenuto banale, formale, zeppo di espressioni vuote. O peggio, un linguaggio servo dell’inganno di nuove dittature, anche spirituali, che mettono il bavaglio alle parole vere, quelle che nascono dalle cose incontrate e rese intime. Una pervasività del reale delle cose che preme dal di fuori e si fa sentire dentro, compagnia di parole ancora libere, levatrici del tuo germinare in terra arida, straniera, ma generativa di spazi aperti.

La prima ragione che ci porta a scrivere è allora «proprio il ‘disgusto’ di ciò che siamo costretti a pensare e a dire», ricorda Michel Ponge. Le cose, l’oggettività del reale è per lui «ciò che ‘tira fuori’ la mente, ciò che la strappa al chiuso, alla ristrettezza di sé: la ‘bellezza’ della natura consiste nella sua immaginazione, in quel modo di poter tirare l’uomo fuori da se stesso, dal maneggio ristretto». È dalle cose, dunque, che nasce la poetica. Esse sono l’oggetto interlocutore dello scrivere (Ponge scrive in prosa); «a fronte di un ripiegamento frettoloso, spiritualista o contro la superbia dell’uomo che si crede esterno e superiore alle altre creature e ‘cose’ dell’universo», la parola poetica, incontrata nel vissuto delle cose, rimette tutto in questione, perché questa attinge il suo essere sovversiva e suscitatrice all’esistenza stessa, che incontra nelle realtà più umili di ogni giorno.

Il perché dello scrivere lo si scopre però solo scrivendo. Lo trovi nascosto nelle parole in cui ci si esprime, svolgendole nel testo come sulla strada di Emmaus: come un pellegrino, straniero che si accosta e ti svela il perché delle scritture, e la sua voce a poco a poco ti scalda il cuore e tu ne scopri il senso solo dopo. Lo stesso accade anche con la parola poetica: cammina avanti, precede la conoscenza; e dopo averla incontrata, come ai discepoli, ci si aprono gli occhi; la riconosci e ti riconosci in essa, lasciando in te quella stessa gioia della parola data come un pane spezzato, a Emmaus, che nutre e ti fa partire di nuovo. Per questo, in un articolo sulla poetica di Ponge, scritto sul Corriere del 1979, Italo Calvino titolò Felice tra le cose (Saggi 1945-1985, 1, Milano 1995, 1401-1407).

Scrivere ancora, perché?

Partiamo dal basso, dal fondo valle salendo al rifugio Auronzo e alla chiesetta sotto le tre cime di Lavaredo, sul versante veneto ‒ la chiesetta dedicata a Santa Maria Ausiliatrice ‒ e poi proverò a salire, seguendo le orme sul Sentiero degli scrittori, attraversando le gallerie del Paterno, fino alle cenge più alte.

Mi capita spesso ‒ quando cerco di narrare con parole mie, scritte con la voce, il vangelo alla gente in quella che fu una chiesetta nata dalle acque edificata sulle ghiare soleggiate del Po di Primaro ritiratosi per la rotta di Ficarolo e dedicata a Santa Francesca ‒ mi accade spesso la domenica a messa di dire parole che non avevo pensato, sgorgate all’improvviso, sconosciute affiorate all’ultimo momento, che comprendo anch’io solo dopo averle ascoltate. E ogni volta mi trovo in un altrove inaspettato. Le mie parole pronunciate in piedi dall’ambone, ad un tratto, mi sembra come di ascoltarle, seduto tra la gente in silenzio, come se fosse un altro a predicare e mi stupisco di imparare anch’io. Questo sottosopra e via vai di parole, scritte a voce, che nascono da me, ma che poi sembrano invece giungermi di rimbalzo tra la gente che ascolta, non come risonanza, ma come parole nuove, diventano un annuncio anche per me che vado esercitandomi ad annunciare, come ‘un povero cristiano’, la poesia del vangelo. E mi rallegro assai poiché come l’atto poetico dà forma, a poco a poco, al poeta sino a farlo veramente tale, così l’annuncio evangelico dà forma di vangelo a chi ogni volta riprova quell’annuncio vivendolo.

Questo fenomeno lo spiega bene Carlo Bordini: «Amo la poesia perché quando scrivo so sempre da dove parto e non so mai dove arrivo. Arrivo sempre in territori sconosciuti e dopo ne so più di prima non scrivo quello che so ma lo so mentre lo scrivo è per me la poesia. È sempre fonte di continue rivelazioni è come se durante la scrittura ci fossero improvvise rotture dell’inconscio in questo senso sono abbastanza convinto che la parola venga prima del pensiero… non si scrive quello che si sa ma lo si sa dopo averlo scritto… io non creo ma sono creato, non scrivo ma sono scritto… non tradire quello che gli viene dettato; difficilissimo essere spontanei la spontaneità è nascosta sotto una serie di strati di rigidità intellettuali di pseudo conoscenze ideologiche di velleità banali, la poesia rompe tutto questo va la centro dei problemi per raggiungere la spontaneità; credo che la poesia come ogni forma d’arte sia il tentativo con mezzi non perfetti di giungere alla perfezione (un cammino di perfezione); c’è quindi sempre dentro qualcosa di artigianale di imperfetto così come artigianale è una preghiera, nulla di precostituito o di seriale», (Il costruttore di vulcani, Sossella editore 2010).

Scrivere come pregare? Come la preghiera è un andare incontro a colui che ti viene incontro, a colui che non è te, ma è dentro di te, prima di te e dopo di te, in te.

Scrivere come amare? Come cercare l’amato fuori di te che è oltre se stessi? Colui, il cui amore è già presente in te, ma anche proteso in avanti, chiede di essere di nuovo ricercato e raggiunto.

L’altra scrivente guida è stato per me in questa ascensione Italo Calvino che domandandosi: “perché scrivo” risponde: «Posso dire che scrivo per comunicare, perché la scrittura è il modo in cui riesco a far passare delle cose attraverso di me, delle cose che magari vengono a me dalla cultura che mi circonda, dalla vita, dall’esperienza, dalla letteratura che mi ha preceduto, a cui dò quel tanto di personale che hanno tutte le esperienze che passano attraverso una persona umana e poi tornano in circolazione. È per questo che scrivo. Per farmi strumento di qualcosa che è certamente più grande di me e che è il modo in cui gli uomini guardano, commentano, giudicano, esprimono il mondo: farlo passare attraverso di me e rimetterlo in circolazione. Questo è uno dei tanti modi con cui una civiltà, una cultura, una società vive assimilando esperienze e rimettendole in circolazione (1983) […]. Scrivo per imparare qualcosa che non so. Non mi riferisco adesso all’arte della scrittura, ma al resto: a un qualche sapere o competenza specifica, oppure a quel sapere più generale che chiamano ‘esperienza della vita’… E questo posso farlo solo nella pagina scritta, dove spero di catturare almeno qualche traccia d’un sapere o d’una saggezza che nella vita ho sfiorato appena e subito perso (1985)».

Si scrive per farsi strumento per far passare attraverso di sé il senso e le esperienze della più grande vita. Questo, che è anche impegno civile di condivisione del sapere anche verso i più piccoli, ritorna in Calvino nella forma dell’elogio della leggerezza nella prima delle Lezioni americane. Scrivere per togliere peso, per dare leggerezza al vivere.

Ripensando ai suoi racconti e alle sue storie, egli così definisce il suo lavoro: «la mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio… sono stato portato a considerare la leggerezza un valore anziché un difetto. Quando ho iniziato la mia attività, il dovere di rappresentare il nostro tempo era l’imperativo categorico d’ogni giovane scrittore. Pieno di buona volontà, cercavo d’immedesimarmi nell’energia spietata che muove la storia del nostro secolo, nelle sue vicende collettive e individuali. Cercavo di cogliere una sintonia tra il movimentato spettacolo del mondo, ora drammatico ora grottesco, e il ritmo interiore picaresco e avventuroso che mi spingeva a scrivere. Presto mi sono accorto che tra i fatti della vita che avrebbero dovuto essere la mia materia prima e l’agilità scattante e tagliente che volevo animasse la mia scrittura c’era un divario che mi costava sempre più sforzo superare. Forse stavo scoprendo solo allora la pesantezza, l’inerzia, l’opacità del mondo: qualità che s’attaccano subito alla scrittura, se non si trova il modo di sfuggirle. In certi momenti mi sembrava che il mondo stesse diventando tutto di pietra: una lenta pietrificazione più o meno avanzata a seconda delle persone e dei luoghi, ma che non risparmiava nessun aspetto della vita», (ivi, 5-6).

Così mi sono sentito interpretato, il mio sentire con le parole di Calvino. Scrivere per alleggerire dalla fatica del cammino le persone; grazie al testo, lo strumento del passatore, dalla riva della pesantezza a quella della leggerezza. Senza chiedergli permesso, ho approfittato della sua carità samaritana legando la pesantezza delle mie carte alla leggerezza delle sue.

Gratuitamente ho ricevuto; per quel poco che posso cerco di rigiocare quella gratuità ministeriale di Calvino, che mi ha risollevato e suscitato il senso. Scrivo per condividere i pesi di chi mi cammina accanto, in questa pesante pandemia, provando a offrirgli leggerezza tramite quel vangelo che mi porta mentre lo porto a lui. Scrivo dunque per unire due sponde, quelle della vita e quella della poetica del vangelo. E durante l’attraversata sulla barca, trovo un po’ di tempo per scrivere parole mie, salvate dalle acque dell’oblio, sillabate nell’umiltà delle parole del maestro che dice: «Il mio giogo è lieve, il mio peso leggero» (Mt 11,29). E vedremo strada scrivendo.

CONTRO VERSO
Mamma a sua insaputa 

 

Ci sono casi in cui è difficile mettersi nei panni degli altri. Come con questa signora, che un bel giorno è andata in ospedale per un “forte mal di pancia” e ha partorito una bambina che non sapeva di portare in grembo.

Mamma a sua insaputa 

Ma che sorpresa
la mia pancia tesa!

Che meraviglia…
C’era dentro una figlia!

Sì, nove mesi.
Siamo tutti sorpresi

Una guardata
mi avrà impressionata.

Ci penso tanto.
Che sia lo spirito santo?

Ma che disfatta,
sono proprio distratta.

A mia insaputa
questa bimba è venuta.

Eh, che parapiglia…
ho solo fatto una figlia!

Non è semplice credere che una donna possa arrivare al nono mese di gravidanza senza accorgersi di essere incinta, eppure accade. È davvero un mistero.
Così piena di emozioni è una gravidanza, ricca di sensazioni fisiche, punteggiata da visite e controlli, confermata dagli sguardi degli altri… così intima, relazionale e sociale, da non credere che possa sfuggire a ogni livello di consapevolezza, propria o altrui.

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia  il venerdì. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Bitcoin e criptovalute, la nuova bolla destinata a scoppiare

Una definizione di criptovaluta ci è attualmente offerta dalla normativa italiana (AML, V direttiva), che descrive la crittovaluta come una “rappresentazione di valore digitale che non è emessa o garantita da una banca centrale o da un ente pubblico, non è necessariamente legata a una valuta legalmente istituita, non possiede lo status giuridico di valuta o moneta, ma è accettata da persone fisiche e giuridiche come mezzo di scambio e può essere trasferita, memorizzata e scambiata elettronicamente.”

Avete presente i chip con cui giocate a poker, o che lanciate sul tavolo quando puntate alla roulette, o le banconote false del Monopoli, ammesso che giochiate a soldi veri? Immaginate di smaterializzare quell’oggettino, di renderlo un messaggio digitale – per riuscire a fare questo dovreste essere un informatico con un notevole fiuto e farvi chiamare Satoshi Nakamoto, che non è il vostro nome ma uno pseudonimo. Poi immaginate di riuscire a convincere un sacco di gente a pagare in bitcoin (la più celebre delle criptovalute) e a scambiarseli, con un meccanismo che non è tanto interessante dal punto di vista informatico, quanto economico, poichè si basa sul meccanismo della domanda e dell’offerta puro. Puro, in quanto la quantità di valuta (bitcoin) in circolazione è limitata a priori, inoltre è perfettamente prevedibile e quindi conosciuta da tutti i suoi utilizzatori in anticipo. Non che non cambi nel tempo: infatti si prevede che “asintoticamente” (concetto matematico che sconfina nella metafisica) la quantità di bitcoin in circolazione cresca fino ad avvicinarsi ad un limite progressivamente maggiore, ma senza mai raggiungerlo. Ipotizzando che la domanda di questa valuta cresca in maniera più che proporzionale rispetto alla sua disponibilità, il bitcoin subirà una deflazione del valore, ovvero un aumento del valore dovuto alla relativa e costante scarsità dell’offerta rispetto alla domanda.

Come è possibile che una scrittura contabile che non ha sotto di sè alcun valore reale (non dico dell’oro o di una moneta vera di riferimento, ma nemmeno quello di una frittola o di un bulbo di tulipano, per citare la prima grande bolla speculativa della storia), se non quello conferitole dall’incrocio tra domanda e offerta, sia legale? La risposta è semplice: è legale finché un’autorità non la dichiara illegale. Ma sarebbe comunque una rincorsa infinita, tipo quella della lotta al doping: quando scopri una sostanza e la vieti, il sistema ne ha creata un’altra, che viene usata al posto della precedente fino a che non viene dichiarata illegale, e così via. Anche perché è impossibile individuare e bloccare tutti i software capaci di generare criptovalute e conseguenti scambi economici. Una guerra persa in partenza.

Allora, perchè funziona? Funziona per ragioni che sono molto più psicologiche che economiche: chiunque può accedere ai bitcoin, e nessuno li può “stampare” a piacimento (almeno, fino a che il creatore del giochino non decide di cambiare la regola). Quindi in teoria il sistema coniuga il massimo della libertà al massimo della prevedibilità: l’unica variabile che influenza il valore del mio investimento è il fatto che ci sia sempre molta più gente che lo vuole comprare rispetto a chi lo vuole vendere. Ma bitcoin non è un investimento, è una speculazione. E chi specula, prima o poi vende per realizzare il guadagno delle propria speculazione. Per cui non si lamentino le migliaia di esercizi, attività commerciali, professionisti che accettano pagamenti in bitcoin, se un giorno il controvalore reale dei loro incassi non varrà un tubo. Perchè non c’è un regolatore, il regolatore è il mercato, puro. E’ democratizzazione della finanza, questa? No. E’ un terreno fertile per abili e disinvolti millennials o poco più che hanno colto l’affare nella sua fase ascendente, e detengono questi nulla che stanno fruttando loro un controvalore enormemente superiore a quello iniziale. Se Elon Musk investe 1,5 miliardi della sua cassa in Bitcoin (come in effetti ha fatto), il valore sale enormemente. Ma se lo stesso Elon Musk, così come chiunque detiene enormi quantità relative (rispetto al flottante in circolazione) di questi nulla, decidesse di vendere tutto all’improvviso, il valore crollerebbe. E’ già successo: nel 2017 si è passati in un amen da un valore unitario di 20.000 dollari a 3.000. Quindi altro che democrazia: il mercato non lo fanno i piccoli risparmiatori. I piccoli risparmiatori il mercato lo subiscono, come sempre. Quindi, non venite a lamentarvi con me se cadrete in disgrazia per colpa di questo delirio. Io vi avevo avvisato.

Pino Mango e una poesia che si intitola Coimbra

Io ho diciannove anni. “Rebecca ormai sei grande” mi dice sempre la zia Costanza. Mia sorella Valeria ne ha dodici e Enrico, il piccolo di casa, ne ha compiuto quattro.
Credo che una delle cose che la zia ha cercato di insegnarci in questi anni sia l’amore per la musica e per la poesia, per la storia e per quel poco di filosofia che può essere utile a dei bambini.
Fin da quando ero piccola facevamo il gioco delle rime. Lei diceva una frase e io dovevo concluderla con una rima:
“Il gatto si fece male alla testa” e io dicevo “perché volò dalla finestra”. Oppure lei diceva:    “C’è una striscia d’oro nel cielo” e io continuavo “sembra luccicante come un velo”. Oppure giocavamo alle rime tra le parole: “Cane” e “pane”, “Vento” e “tempo”, “fiore” e “amore”, “fratello” e “ombrello”.
Non so se siano giochi usuali ma a me piacevano e vedo che piacciono anche ai miei fratelli piccoli.
Enrico ama particolarmente le rime con i nomi degli ortaggi: “zucca” e “mucca” ,  “uva” e “clava”, “mela” e “ragnatela” e così via.

Oggi ho sentito in Tv un’intervista a Laura Valente, la ex moglie di Pino Mango, nonché cantante dei Matia Bazar per quasi dieci anni (dal 1990 al 1998). Oltre ad essere una bravissima cantante, Laura è una donna molto forte e determinata. L’ho sentita dire che ciò che riempie la sua vita e quella dei suoi figli è la poesia che ha lasciato loro Mango.
Le canzoni, le rime, la possibilità di ‘volare alto’ attraverso la poesia e la musica sono l’eredità che questo grande uomo, compositore e cantante, ha lasciato alla sua famiglia e di cui sua moglie si sente fiera e testimonial. Mango ha lasciato loro un modo di vivere che, abbracciando l’arte, diventa semplice, possibilista, aperto alla sorpresa e alla felicità. Un’arte aperta ai sogni e a ciò che di bello può succedere.
Filippo e Angelina Mango sono due musicisti eccellenti. Angelina canta e Filippo suona la batteria e altri strumenti. Molto talentuosi i ragazzi, figli di illustri genitori. I Mango senior (sulla terra o nei cieli) sono sicuramente contenti della scelta professionale dei loro figli perché l’hanno sempre considerata e tramandata come una strada per la felicità, come un modo, forse il migliore di tutti,  per andare via dalla tristezza del mondo e innalzare lo spirito verso la stella più vicina. Là c’è Orione.

Anche la zia Costanza, che considera Mango un poeta oltre che un bravo cantante, ogni tanto scrive poesie.  Dice che le sue sono opere “casalinghe”, che non hanno la pretesa di diventare famose. Basta che piacciano a noi tre, i suoi nipoti. Le altre migliaia di persone non contano nulla. E’ convinta che  se una poesia sia in grado di illuminare, anche solo per un attimo, la vita di un’unica persona, merita tutta la dignità della sua esistenza, del nome che l’identifica. Dice che non bisogna scrivere poesie per diventare famosi, ma per allietare le giornate delle persone che ci circondano, che ci vogliono bene, che sono la nostra famiglia (biologica o acquisita poco importa, ciò che importa è la qualità delle relazioni che si instaurano  e consolano).

Con questa premessa, e cioè che il suo scrivere poesie è esclusivamente finalizzato all’apprezzamento parentale, la zia scrive spesso senza pretese e senza alcun desiderio che altri leggano  le sue opere.
Lo scopo delle poesie della zia si esaurisce tra le mura domestiche. Sono parole che non vanno altrove, nessuno prova a mandarle ad un editore, a inviarle a una rivista, a postarle da qualche parte. Noi tre nipoti siamo gelosi dell’appartenenza, quasi esclusivamente nostra,  dei componimenti della zia. Ci sembrano più preziosi perché racchiusi nei cassetti dei nostri comodini. La poesia è sensibile come lo è chi la scrive e come deve esserlo chi la legge. Altrimenti diventa una qualunque lista di parole che serve solo a riempire cestini che vengono svuotati subito.

Una poesia che a me  piace particolarmente è stata scritta dalla zia di ritorno da un viaggio a Coimbra e si intitola appunto “Coimbra”.
Alcuni anni fa, tornata a scuola dopo la pausa estiva, ho descritto in un tema la vacanza della zia e ho trascritto la sua poesia (dopo averle chieste il permesso che mi ha concesso senza troppo entusiasmo e che non credo mai mi riconcederà. E’ stato un attimo di debolezza momentaneo che ha dato a “Coimbra” un po’ di visibilità).
Ho preso “appena sufficiente”, l’insegnante diceva che la poesia era sicuramente copiata. Ma da chi? Non lo sapeva, forse da un autore locale portoghese. Si sa i portoghesi con la poesia ci vanno a nozze. Pessoa, uno per tutti.

Le ho spiegato che la poesia era stata scritta dalla zia Costanza, ma non mi ha creduto, oppure ha creduto che era la zia stessa ad avermi imbrogliato e ad aver spacciato per sua una poesia di qualcun’altro. A quel punto è venuto un piccolo dubbio anche a me e mi sono messa a cercare ovunque. Di questa poesia non c’è traccia da nessuna parte. L’ha proprio scritta la zia per regalarla a me. L’insegnante non ci ha creduto, credo che sia ancora là che si arrovella alla ricerca del vero autore che secondo lei deve avere tutt’altro nome che Costanza Del Re. Siamo talmente abituati a conti, bollette, bilanci, rapporti scientifici che non riusciamo più a prendere in considerazione l’dea che ci sia ancora qualcuno che ama le parole baciate ed è in grado di scrivere poesie (almeno per le persone a lui care).
Eppure i grandi poeti sono importanti almeno quanto gli ingegneri, gli architetti,  i matematici e i medici. Attraverso la poesia possiamo  aprire le ali e garantire a noi stessi un senso dell’esistere che migliora i nostri respiri e i nostri attimi di pace, la nostra voglia di vivere.

Laura Valente dice che con Mango ha vissuto molti anni in mezzo alle note e alle parole  e che questo ha migliorato molto la sua vita.
Il grande regalo che Pino Mango ha lasciato a sua moglie è una poesia dentro la quale vivere e che le potrà tenere  compagnia per sempre, fin che vivrà. La poesia sopravvive a chi la scrive. Consola chi la ama. Un grande uomo non può che lasciare ai suoi amori delle poesie.
Pino Mango leggeva molto e tra i suoi autori preferiti c’erano: William Shakespeare, Eugenio Montale, Federico Garcia Lorca, Charles Baudelaire, Pablo Neruda e Nazim Hikmet. Poco prima di lasciare questa terra, ha inserito in una prefazione questo pensiero:
Non tutti amano la poesia, anzi alla maggior parte delle persone sembra non piacere affatto, però io credo che, il più delle volte, non si tratti di scarsa sensibilità verso questa nobile arte, quanto di una mancata abitudine all’analisi intima dei colori che da, all’arcobaleno dei sentimenti, la vera tonalità del vivere.”

“IO CREDO NEL MISTERO DELLE PAROLE”
Un ‘Uomo di Lettere’ e il destino di essere solo

 

di Rosario Castelli

«Ce ne ricorderemo di questo pianeta»: questa frase Leonardo Sciascia l’aveva letta probabilmente da giovane in un libro de Il Borghese di Leo Longanesi. Nei folgoranti frammenti di Parliamo dell’elefante, diario dei tumultuosi anni della guerra, dal 1938 al ’46, si legge infatti: «Usciamo. Nella piazza deserta stride una civetta e i nostri passi risuonano sul selciato come quelli di un’antica ronda. La luce dell’osteria si spegne e nelle larghe pozzanghere la luna lascia riflessi d’argento. “È triste il mondo, signori miei”, disse Stefano. “Non so chi, ma qualcuno ha detto: Ci ricorderemo di questo pianeta. Sì, ce ne ricorderemo!”».

Il racalmutese, che dell’Omnibus era stato precoce e assiduo lettore, e che all’insegna di Longanesi aveva fatto nascere le sue Favole della dittatura, di quella frase si sarebbe ricordato per tutta la vita. Tanto più al tramonto e quando, al di là della sua attribuzione a una precisa fonte letteraria, gli sarebbe risuonata in testa, con il senso del rimpianto di chi affida alla memoria del proprio passaggio sulla terra la delega in bianco di un’effimera sopravvivenza: il ricordo da un lato, dunque, l’hic et nunc dall’altro a illuminare una concezione che fa del mondo una necessità e una fatalità, l’approdo di un percorso che ha salde radici nel passato e investe, nel presente, tanto l’autore che i propri contemporanei. Ovvero come l’ultima deliberata contraddizione di un uomo dalla vocazione eretica e anticonformista e che, piuttosto, avrebbe voluto che sulla propria lapide campeggiasse la frase: «contraddisse e si contraddisse».

Questa condizione lo scrittore la incarna in Voltaire, prima di volgersi all’haiku di quel Villiers de l’Isle-Adam cui un altro degli auctores sciasciani – Jorge Luis Borges – aveva dedicato un volume della Biblioteca di Babele, definendolo uno specialista in «orrori morali».
Nel 1979, in un articolo per il Corriere della Se­ra, Sciascia definiva lo scrittore argentino «il più grande teologo del nostro tempo. Un teologo ateo. Vale a dire il segno più alto della contraddizione in cui viviamo» e che suona come una sorta di auto-definizione per il tramite di uno schermo, quello del letterato sudamericano che incontrerà a Roma l’anno dopo e che è un altro polo fondamentale in cui inquadrare la vocazione del siciliano al paradoxe di diderottiana memoria, al rovesciamento cioè di ogni verità accettata in verità che appaiono inaccettabili.
Un autore che gli apparirà come un ‘classico’, il «più significativo del nostro tempo, delle nostre vertigini», tornando frequentemente a citarlo e chiosarlo, elevandolo a modello di «filologiche e filosofiche in­dagini», di «misteriose ricostruzioni di dissepolti frammenti della storia e del pensiero umano», quali erano peraltro quelle di Sciascia stesso. E tuttavia analoghe e ben più forti sollecitazioni potevano giungere da altri scrittori come Luigi Pirandello e Alberto Savinio, trovando semmai un comune denominatore nell’idea, questa sì borghesiana, della Letteratura come unica forma di conoscenza possibile della realtà, di quella realtà i cui confini con la scrittura sono labili fino al punto di confondersi.

Era questa fiducia a fargli preferire la definizione di “uomo di lettere” a quella d’intellettuale, categoria quest’ultima segnata da una sostanziale indistinzione che finisce con l’accomunare figure eterogenee, legate tra loro da un malinteso senso di compromissione con la realtà. “Intellettuale” è vocabolo che si adatta al philosophe dell’epoca dei Lumi come al poeta romantico dalle pose titaniche, all’autore compagno di strada di un partito come al militante organico a un’ideologia. Ma Sciascia non era né Voltaire né Byron né Vittorini e nemmeno uno dei tanti corifei dell’imperante intellettualità liquida profetizzata da Zygmunt Bauman.
Se a un archetipo volessimo guardare, allora, il nome che ci viene in mente è semmai quello di Émile Zola, strenuo apostolo del primato della letteratura come strumento di smascheramento dei lati occulti della retorica dominante, assertore del principio secondo cui solo le lettere «regnano eternamente […] sono l’assoluto, mentre la politica è il relativo»: lo scrittore che usa le parole per diagnosticare i mali, senza pretendere d’imporre i rimedi che competono invece a chi governa, alieno da ogni fanatismo e detentore di un capitale simbolico che è unicamente quello della parola letteraria, con il proprio bagaglio di valori universali ed eterni.
Il modello che si afferma, a partire dall’affaire Dreyfus, mira a escludere la coazione all’impegno e a restituire al letterato una funzione, la stessa che saprà incarnare Pasolini, prima di Sciascia, ma con un sovrappiù di compromissione fisica ed energica eloquenza. È il privilegio di una Verità congetturale che detiene lo scrittore che, come scrisse nel famoso Romanzo delle stragi che si legge negli Scritti corsari, «cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero».

La concezione della letteratura come intatto serbatoio cui attingere per trovare un senso anche all’insensatezza della Storia, Sciascia l’aveva formulata nel racconto Il Quarantotto laddove riconosceva nella scrittura «un modo di trovare consolazione e riposo; un modo di ritrovarmi, al di fuori delle contraddizioni della vita, finalmente in un destino di verità», un’accezione che traluce anche nelle parole del protagonista dell’Antimonio quando afferma: «Io credo nel mistero delle parole, e che le parole possano diventare vita, destino; così come diventano bellezza».
La letteratura non solo conosce la verità e la rispecchia, ma la redime, pacificandola nelle sue contraddizioni sicché «l’uomo, col suo cuore vivo, per la pace del suo cuore, può legare in armonia pietra e luce, ogni cosa alzare ed ordinare al di sopra di sé stesso».

È della capacità di opporsi al conformismo, di rinunciare al balsamo delle certezze accomodanti, di smascherare le imposture del Potere, di denunciare le funamboliche piroette del trasformismo, attraverso il contravveleno dei libri e di uno scrivere non compromissorio che parlano tutte le opere di Sciascia e di cui dicono le sue prese di posizione pubblica.
È questa prerogativa che lo accomuna ad autori come Pasolini con cui sconterà, soprattutto negli ultimi anni di vita, il destino di essere ‘solo’, non assoggettato al Potere, ma in grado di attingere all’«intatta e appagata musica dell’uomo solo», come si legge in Todo modo, dell’individuo cioè capace di valutare le cose nella loro immediata e semplice evidenza, interamente scevra dal pregiudizio ideologico, come il protagonista di Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia, il cui candore non ha solo una valenza etica, ma soprattutto epistemologica.
Una virtù che accomuna un’ampia genealogia di sciasciani confréres letterari: dal professor Laurana di A ciascuno il suo al don Cecè Melisenda del Quarantotto, dall’avvocato Di Blasi del Consiglio d’Egitto all’eretico Diego La Matina di Morte dell’inquisitore o al bargello Matteo Lo Vecchio della Controversia liparitana. Tutti uomini di «tenace concetto», il cui candore divinamente incauto si realizza nella fede nelle proprie idee, nella pervicace resistenza al Potere, indipendentemente dal volto che può assumere, sia esso quello del fascismo, dello stalinismo, dell’Inquisizione o della semplice e metamorfica vischiosità dell’italico trasformismo.

Sarà per questa via che Sciascia potrà rivendicare alla letteratura la capacità di farsi documento del vero, di ergersi come valore superiore in un mondo in cui imperversano sterili disvalori e fallaci utopie, e nella sua ricerca pagò alla fine il prezzo di essere, come Pasolini, un uomo ‘solo’, isolato per le scomode prese di posizione che assunse in tema, per esempio, di terrorismo o antimafia.
Uno scotto necessario, un prezzo che, dirà lui, si dev’essere sempre pronti a pagare, come fu per i suoi più alti modelli d’impegno: il cattolico Georges Bernanos che scrisse contro il franchismo e l’André Gide di Ritorno all’URSS che anticipava di vent’anni quello che avrebbe detto Kruscev. Isolati, ma in un isolamento che, pur pesante, poteva riuscire persino redentorio e che gli faceva dire: «Ecco, a momenti io mi sento preso da questa specie di allegria. Sono criticato da destra e da sinistra. Segno che non servo né la destra né la sinistra».

Rosario Castelli è professore associato di “Letteratura italiana” presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Catania

Sulla figura e l’opera di Leonardo Sciascia leggi su Ferraraitalia:
Sergio ReyesUN ILLUMINISTA IN SICILIA : Attualità di Leonardo Sciascia a 100 anni dalla nascita [Qui]
Giuseppe TrainaDENTRO IL GIALLO : I personaggi di Sciascia e Simenon davanti al potere [Qui]
Roberta Barbieri
, RICORDANDO SCIASCIA : Una storia semplice [Qui]
Rosalba Galvagno
IL MAESTRO E IL GIOVANE ESORDIENTE : La corrispondenza tra Leonardo Sciascia e Vincenzo Consolo [Qui]
Giuseppe Giglio“Ce ne ricorderemo, di questo pianeta” [Qui]

In copertina:Totò Bonanno: Ritratto di Leonardo Sciascia,1986 (wikimedia commons)

Parole a capo
Patrizia Benetti: “Questo cielo scalzo” e altre poesie

“E’ responsabilità del poeta essere donna, non perdere d’occhio il mondo e gridare come fece Cassandra, ma per farsi ascoltare, questa volta.”
(Grace Paley)

Questo cielo scalzo
di vento e nuvole
celeste e albicocca
dominato dal sole
blu intenso
come carta di Presepe
nero come pece
trapunta di stelle
rabbioso e incolore
di pioggia e tuoni
se lo perdoni
ti regala arcobaleni

 

L’albero
china il capo
e danza al ritmo
di un vento bizzarro.
Tempo tiranno
sabbia nella clessidra
fragili vite.
Un nostalgico tramonto
brilla negli occhi
di un vecchio stanco.
La luna raccoglie
le sue lacrime
e le trasforma in stelle.

 

Il mio domani
nelle mie mani
nel sibilar del vento
il mio tormento
nella tiepida sera
la mia primavera
nella tua carezza
la mia tenerezza
nel riverbero del sole
gioia e calore
e poi chissà
solo il tempo lo dirà.

 

I miei versi tristi
Li ho lasciati al vento.
Rincorro un raggio di sole.

 

Bevvi l’ebrezza
della mia giovinezza
di giorni assolati
di mari salati
stelle gemelle
notti in spiaggia
luna gigante
tu occhi di diamante.
Canzoni urlate
a volte stonate
risate sincere
amici vicini
ora lontani
sogni giganti
molti infranti.
imperfetti
astratti.
Vissi l’incanto
della mia giovinezza.

Patrizia Benetti
Ferrarese, educatrice professionale, classe 1961. Nel 2012 ha pubblicato: Racconti Neri, Este Edition, classificatosi secondo al Premio Nazionale di narrativa Oubliette. Altri titoli: La vendicatrice, Il direttore d’orchestra, La danza dei delfini, La Sirena edizioni. Lontano dagli occhi (romanzo), Mezzelane editrice, 2019. Amore smemorato, Delos Digital, 2020. Nel 2021 è uscito l’ebook Incubi, contenente tre racconti, Ali Ribelli editore e Delitto in castello, PAV edizioni.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

LE PAROLE PROIBITE:
Riduzione dell’Orario di Lavoro

 

“Turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore sono alla nostra portata da qui al 2030″.
Così si esprimeva l’illustre economista John Maynard Keynes nel 1930, in una celebre conferenza tenuta a Madrid, diventata nota sotto il titolo “Prospettive economiche per i nostri nipoti”. Com’è noto, Keynes non era un sovversivo incendiario, bensì più modestamente un sostenitore della necessità di una riforma del capitalismo, da non lasciare semplicemente in balia dell’ideologia del libero mercato capace di autoregolarsi. Da buon borghese e liberale illuminato, era fiero oppositore del comunismo, e in particolare dell’esperienza che era in corso in Unione Sovietica, e credeva fermamente, anche nei tempi della Grande Depressione degli anni ‘30 del secolo scorso, al ruolo progressista del capitalismo, purché opportunamente reindirizzato.

La storia ha preso un’altra strada e, comunque, in questo caso della riduzione dell’orario di lavoro, purtroppo la smentita dei fatti appare inequivocabile. E non certo perché non fosse suffragata da basi economiche solide, ancorché un po’ grossolane, esposte dallo stesso Keynes, e cioè che grazie ad una continuità dei tassi di accumulazione del capitale e di crescita della produttività, nell’arco di cento anni, dal 1930 al 2030, il tenore di vita sarebbe cresciuto da 4 ad 8 volte, rendendo possibile quella forte riduzione di orario; e consentendo l’uscita dal regno della necessità economica, così che l’uomo si sarebbe trovato di fronte “…al suo vero, costante problema: come impiegare la sua libertà dalle cure economiche più pressanti, come impiegare il tempo libero che la scienza e l’interesse composto gli avranno guadagnato, per vivere bene, piacevolmente e con saggezza”.

Effettivamente la crescita economica dal 1930 ad oggi ha sostanzialmente verificato l’ipotesi di Keynes, visto che, a livello mondiale, il PIL è cresciuto di circa 4 volte nei Paesi ricchi, quelli ai quali Keynes si riferisce di quasi 5 volte. Per la riduzione dell’orario di lavoro le cose sono andate diversamente: dal 1870 al 1930 l’orario di lavoro, nei Paesi ricchi, si riduce in modo più significativo che dal 1930 ad oggi. Dicendolo in termini schematici, si passa da più di 60 ore settimanali di fine ‘800 a circa 50 ore nel 1930 e un po’ meno di 40 ai tempi nostri. Peraltro, tali riduzioni sono scandite da un lungo ciclo di lotte del movimento operaio, che fa della riduzione dell’orario di lavoro, assieme al controllo sulla produzione e sull’organizzazione del lavoro, gli assi portanti di tutta la storia del movimento dei lavoratori nel ‘900.
Liberazione dal lavoro e liberazione del lavoro vanno a braccetto, almeno nelle elaborazioni e nelle pratiche più avanzate che si costruiscono in questo contesto. “Otto ore di lavoro, otto di svago, otto per dormire”  fu la parola d’ordine, coniata in Australia nel lontano 1855, e condivisa da gran parte del movimento sindacale organizzato del primo Novecento.

All’inizio del Novecento l’Occidente conosce le prime leggi che riducono l’orario di lavoro. In Italia, nel 1919 l’accordo tra la Fiom e la Federazione degli Industriali Metallurgici fissa l’orario di lavoro settimanale a 48 ore e questo diventerà il riferimento per il decreto del 1923 che estende i termini dell’accordo all’insieme della forza lavoro. Poi, da allora, le battaglie per la riduzione dell’orario di lavoro vanno avanti in modo alterno, fino ad arrivare al ciclo delle lotte operaie della fine degli anni ‘60 – inizio anni ‘70, quando, per stare all’Italia, si raggiungono le 40 ore settimanali.
Da quel momento, sembra inaugurarsi un lungo silenzio che perdura sino ai nostri giorni: non che non succeda nulla, ci sono diversi accordi aziendali che arrivano anche a sancire le 32 ore settimanali, nel 1995 il settore metalmeccanico tedesco approda alle 35 ore, nel 1998 la Francia vara una legislazione che riprende quello stesso risultato, ma esse appaiono più il prodotto di condizioni specifiche – un forte sindacato in Germania, uno degli ultimi tentativi di un governo di sinistra in Francia – che non l’affermarsi di una linea di tendenza forte e duratura. Tant’è che, in nome della flessibilità, entrambe queste soluzioni vengono messe in discussione negli anni successivi, assestandosi in una logica di orari medi plurisettimanali e soggetti all’andamento della congiuntura economica. Solo in questi ultimi tempi sembra si riapra uno spiraglio per tornare a discutere del tema.
Nel frattempo, poi, molte cose sono cambiate in profondità nel mondo del lavoro: sotto la spinta delle trasformazioni degli ultimi decenni, esso si è frammentato, disperso e articolato in una pluralità di figure, la precarietà è diventata una forma ‘normale’ di lavoro, è tramontata per tutti la ‘sicurezza’ del lavoro a tempo indeterminato, il capitalismo delle piattaforme ha riproposto il lavoro a cottimo e persino quello gratuito e ha dilatato e flessibilizzato, al di fuori di qualunque regola, lo stesso orario di lavoro.

Ma, per tornare al punto focale del ragionamento, perché la “profezia” di Keynes, nonostante i suoi fondamenti economici, non si è realizzata?
La risposta è abbastanza semplice: il capitalismo, nella sua versione neoliberista e del dominio della finanza, a partire dagli anni ‘80 del secolo scorso, ha costruito un’enorme redistribuzione dei redditi e della ricchezza, dai ceti bassi a quelli alti, dal lavoro ai profitti e alla rendita.
Nei Paesi più ricchi, nel 1975 il 15-25% dei redditi andava a profitti e rendite e il restante 75-85% al lavoro, mentre nel 2010 la quota dei profitti e delle rendite è cresciuta di circa 10 punti percentuali, assestandosi tra il 25 e il 35%: di fatto tutti gli incrementi di produttività, e forse anche qualcosa di più, sono andati in quella direzione, a detrimento dei redditi da lavoro. Come ha avuto modo di dire Warren Buffett, multimiliardario e protagonista della finanza, “è in corso una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo”.
C’è inoltre una ragione, probabilmente ancora più profonda, che sta alla base di quel mancato percorso e che ha provocato anche la nuova disuguaglianza, e cioè che il capitalismo neoliberista ha ricostruito la concorrenza tra i lavoratori e  un ‘esercito di riserva’ che la alimenta, di cui ha strutturalmente necessità: altrimenti succede, come si è verificato nel corso degli anni ‘70 del Novecento, che con la piena e buona occupazione, il potere contrattuale del lavoro aumenta, si innalzano i salari e si riduce l’orario di lavoro e si comprimono i profitti. Una delle condizioni che, appunto, ha fatto scattare la controffensiva neoliberista.

In ogni caso, i motivi per riproporre oggi una significativa riduzione dell’orario di lavoro in pochi anni, per esempio a 30 ore settimanali a parità di salario – assieme a politiche per il lavoro che raggiungano la piena e buona occupazione e all’istituzione di un reddito incondizionato di base – ci sono tutti e, anzi, si sono rafforzati.
La rivoluzione tecnologica in corso distrugge più posti di lavoro
di quanto sia in grado di crearne di nuovi, propone l’ “economia dei lavoretti” sottopagati e privi di diritti, la stessa pandemia apre l’interrogativo rispetto alla messa in campo di un nuovo modello produttivo e sociale. Tornano a sentirsi, anche se troppo flebili, voci che guardano alla prospettiva della riduzione dell’orario di lavoro: dal sindacato inglese a quello tedesco, dal governo spagnolo a quello finlandese.
Spiace constatare l’assenza totale di voci dal nostro Paese: silenti i sindacato confederali, mentre è, ovviamente, chiedere troppo che il ‘beatificato’ nuovo Presidente del Consiglio dica qualcosa in proposito ( ma non era keynesiano?). Non resta che confidare in un sussulto di coscienza, organizzazione e mobilitazione dei tanti, che ci sono anche in Italia, e che ragionano sul nuovo mondo da costruire, non più fondato sul profitto ma sulla cura reciproca.

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Insegnami la tempesta
Il rapporto conflittuale tra madre e figlia nell’ultimo romanzo di Emanuela Canepa

Le viscere dell’amore materno non si arrendono, nemmeno di fronte al respingimento di una figlia che sceglie come vuole essere. Insegnami la tempesta, Einaudi, di Emanuela Canepa è un libro in cui l’essere madre è continuo sgretolamento di certezze, è un vento contro che ti investe della diversità di una figlia che si allontana. Lo sguardo della giovane Matilde perde di intensità verso la madre Emma, la ragazza si stacca e, in un enigma che starà a Emma risolvere, cresce. “Non capisco cosa le ho fatto”, si chiede Emma, niente verrebbe da suggerirle, se non la fatica di inseguire una figlia che chiede autonomia, comprensione del suo essere altro da chi l’ha messa al mondo.
Lo scontro fra le due donne diventa il conflitto tra personalità diversissime il cui reciproco riconoscimento, per il legame di sangue che lo sottende, deflagra generando chiusura, soprattutto da parte della giovane Matilde. Verso Emma, la ragazza pone confini netti e glaciali, silenzi, fuga.
Il senso di colpa di Emma è polimorfico, riconduce a sé il carico degli insuccessi in quanto figlia e madre, della non corrispondenza tra come le cose sono andate e come tutti si aspettavano che sarebbero andate.
Emma vede Matilde imboccare le strade che più la possono portare distante, fino all’antitesi, cioè a una persona del passato con cui Emma aveva chiuso e da cui Matilde si rifugia. Tra i rivoli dispersi, si muove Matilde eleggendo proprio quella vecchia amicizia di Emma, Irene, donna a cui consegnare il proprio dolore. Matilde, cercando di tutelare se stessa in un momento di grandi scelte personali, contribuisce a imprimere una svolta al vecchio rancore di Emma che si domanda se abbia ancora senso provarlo o se, invece, sia arrivato il momento di un cambio di passo.
Il cambiamento riguarderà anche altro nella vita di Emma e nel suo avvicinarsi a Matilde: una madre può arrivare a vedere la forma dell’ingombro che si è messo in mezzo tra lei e la figlia e solo allora può riuscire a stare un passo indietro e lasciarla andare.

Emanuela Canepa presenterà Insegnami la tempesta venerdì 26 febbraio alle 21 in diretta sulla pagina Facebook del Microfestival delle storie  [Qui] e su quella di Ferraraitalia [Qui].
Dialoga con l’autrice Riccarda Dalbuoni.