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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


Al cantón fraréś
Nino Tagliani: “Via Campofranco”

 

La denominazione della Via deriva dalla concessione data, nel XIV secolo dagli Estensi, ai duellanti per potersi battere in un campo franco. Nel vicolo si trova la chiesetta del Corpus Domini. Vi sono sepolti personaggi della famiglia d’Este, fra cui Lucrezia Borgia. Vi è annesso l’antico monastero di clausura delle Clarisse, dove operò S. Caterina de’ Vegri, celebrata anche per il miracolo della cottura del pane. Nella poesia, Nino Tagliani immagina la piccola strada, appartata e silenziosa, come luogo d’incontro tra innamorati, tratteggia le peculiarità del luogo di culto, ricorda l’episodio della santa.
(Ciarìn)

Via Campofranco

L’è na stradéta aηcora coi giarùη,
stricàda fra du mur, već, scalzinà,
na stradéta ch’aη pasa quaś nisùn,
al dì, mo iηvéz ad sira, tut stricà
spiplànd al scur, na ciòpa d’ambruśìn
i zérca al paradìś int uη baśìη.

Uη sitìη quiét, coη sol una ciśìna
dill vòlt avèrta mo più spés saràda
che pochi i tgnós dal tant ch’l’è piculìna,
e da chi mur, a dśéη, quasi lugàda
mo chi ‘g va déntar par curiosità
al sent ch’l’è la più granda dla zità.

Briśa parché là déntar j’à suplì
Lucrezia Borgia, e źént tuta impurtànta
dla storia ad Frara, mo parché uη bel dì
int al cuηvént, da suóra, è dvantà santa
faśénd al paη col Sgnór, ogni matìna,
na ragaza di Vegri: Catarina.

Via Campofranco

È una stradina ancora coi ciottoli, / stretta fra due muri, vecchi, scalcinati, / una stradina dove non passa quasi nessuno, / di giorno, ma invece di sera, tutti stretti / bisbigliando al buio, una coppia di fidanzatini / cerca il paradiso in un bacino. /

Un luogo quieto, con solo una chiesetta / a volte aperta ma più spesso chiusa / che pochi conoscono tanto è piccolina, / e da quei muri, diciamo, quasi nascosta / ma chi vi entra per curiosità / sente che è la più grande della città. /

Non perché là dentro hanno sepolto / Lucrezia Borgia, e altra gente importante / della storia di Ferrara, ma perché un bel giorno / nel convento, da suora, è diventata santa / facendo il pane col Signore, ogni mattina, / una ragazza dei Vegri: Caterina.

Tratto da:
Nino Tagliani (Faηghét), Spulgadur fraresi : da lèzar intànt c’as brustèla la pulenta, Ferrara, SATE, 1968.

Nino Tagliani (Ravalle 1905 – 1998)
Generale dell’Arma dei Carabinieri. Conosciuto nell’ambito dialettale con lo scutmai (soprannome) di Faηghét, ha pubblicato varie raccolte di poesie, tutte in sestine endecasillabi: Spulgadùr fraréśi (1968), Bidùη, urtìg e campanèli (1969), Al marafóη śligà (1971), Sfuracèli (1976), La fiéra di śdaz con Luigi Vincenzi (1977), La pèrdga dal lóv (1978), Stupiùη (1982), Al granadèl (1983).

 

Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui] 

In copertina:  Ferrara, via Campofranco – foto di Marco Chiarini

Mo-LESS-tie

 

È un giovedì mattina come tanti altri: mi alzo, faccio colazione, prendo il mio cellulare e spreco il poco tempo libero che mi rimane, prima di mettermi a studiare, scorrendo il dito sullo schermo. Sono gesti automatici a cui non presto attenzione, tocco dopo tocco sono diventati parte della mia routine.
E così l’Evergreen che blocca il canale di Suez, la nascita di Vittoria Lucia-Ferragni e il pittore impazzito che si diverte a colorare le regioni italiane accompagnano il mio risveglio ogni giorno.
Altre informazioni indistinte allungano il mio caffè, scambio qualche messaggio e rimango fedele alla mia appendice digitale.

Una notizia in particolare però coglie la mia attenzione più delle altre. Leggo articoli, vedo Instagram Stories, post e commenti aventi un solo soggetto, Damiano Coccia alias Er Faina. Lo sgomento provocato da questo personaggio, noto per avere opinioni irriverenti e mancanza di filtri, inizialmente mi incuriosisce: è possibile che tra commenti anarchici e trasgressione, a cui ha abituato il suo pubblico, riesca ancora stupire? A malincuore scopro che la risposta è positiva.

Prima di concentrarmi sulla frivolezza delle parole utilizzate da Coccia, mi permetto di introdurre il tema con la delicatezza che merita. A meno di un mese dall’aver promesso rispetto ed uguaglianza alle donne l’8 marzo, il primo Aprile 2021 si parla di CatCalling sminuendolo e facendolo passare per un complimento desiderato ed altamente formativo per l’autostima femminile. Purtroppo, nonostante la data potesse far pensare ad uno scherzo, di divertente non c’è nulla.

Il Catcalling, o molestie di strada, oltre ad includere azioni come avance sessuali persistenti, palpeggiamenti da parte di estranei ed inseguimenti, include anche le tanto discusse molestie verbali, quali fischi, gesti o commenti indesiderati, che possano mettere altamente a disagio chi li riceve. La sopracitata polemica di Coccia, il quale dopo essersi messo in ridicolo davanti a tutta Italia, ha avuto almeno la decenza di chiedere scusa, pretendeva che frasi puramente oggettificanti, gridate a squarciagola in luoghi pubblici, senza alcun consenso da parte di chi le riceve, dovessero passare come meri complimenti.

Ora, non voglio soffermarmi sulle intenzioni dell’influencer, personalmente sono lieta che si sia reso conto dei suoi errori e che si sia scusato pubblicamente. Mi interessa ancora meno della natura di queste scuse, certo non deve essere difficile capire di aver sbagliato se tutto il Web ti ripete che non devi fare altro che vergognarti.
È l’ignoranza che vorrei mettere al centro dell’attenzione e vorrei puntare i riflettori su questa parola dal suono straniero che tanti non conoscono.

Nel 2021 è ora che si capisca che la violenza, di qualsiasi natura e in qualsiasi contesto, nasce quando qualcuno insiste dopo aver ricevuto un no come risposta. Il consenso deve diventare la nuova chiave di lettura di ogni comportamento e di ogni azione. Ogni individuo, di qualunque genere, etnia ed orientamento sessuale deve avere il diritto di sentirsi al sicuro. Abbiamo il dovere di creare una società che rispetti la libertà altrui e che sia libera da quella limitazione culturale, a cui ci ha da sempre abituato il patriarcato. Il sessismo, così come il razzismo e la xenofobia, sono costrutti mentali e culturali che vanno sdoganati ora e per sempre: il nostro mondo è cambiato e si è evoluto, non abbiamo più né tempo né voglia per dei limiti impostici a priori.

È tempo che, quando una donna esce di casa da sola, giorno o notte che sia, si senta al sicuro quanto un uomo. È tempo che il nostro genere, il colore della nostra pelle e il nostro dio non mettano a rischio la nostra incolumità. È tempo che l’uguaglianza evolva dalla sua connotazione statica di utopia e condanni a morte l’ignoranza.

Parole a capo
Rita Bonetti: “Come il primo bacio” ed altre poesie

Ringrazio tanto gli amici Gigi Guerrini e Giampo Benini per aver ridato voce a Monica Vitti. Lei, indimenticata, da tanti anni, come Daniele Del Giudice, vive nel silenzio della mente. Forse, invece, abitano già, in anticipo, in un Altromondo, fatto di persone gentili, di cose belle, di immagini e scritture. A noi rimangono i racconti di Daniele Del Giudice e i film di Monica. Quelli non li abbiamo scordati.
(Francesco Monini)

“La poesia è una grazia, una possibilità di staccarsi per un po’ dalla terra e sognare, volare, usare le parole come speranze, come occhi nuovi per reinventare quello che vediamo”
(Monica Vitti)

COME IL PRIMO BACIO

Scivoli e riappari
tra i fili del gelo
guerriera son chiusa
nella rigida maschera

L’anima inciampa
trema di stupore
mi urla in testa

Il cuore mi accarezzi
non più tempio sacro
di silenzio immane

E il tocco lo percuote
come il primo bacio
quella volta

 

COME IO  FOSSI

Di questo tuo amarmi
fatto di silenzi e di poesia
non posso più fare a meno

Come io non fossi carne
ma fragile involucro
che  puoi solo vegliare
oltre le parole

Se io ti cercassi
non saprei dove andare
sei nel mormorio del fiume
nello squarcio di cielo dopo la pioggia
nel ritornello che conosco

Eccomi qui
a bere calici di solitudine
ad aspettare
che tutto accada un’altra volta

Ora che l’amara notte cala
parlami d’amore sottovoce
come io fossi spiaggia
come tu fossi mare

 

CIO’ CHE RIMANE

Se tu me lo avessi chiesto
avresti visto i miei occhi spalancarsi
immensi come  prato o bosco
e attendere il tuo volto
per dare un senso al mio

Se tu me lo avessi chiesto
t’avrei donato il sogno
e alle radici di quell’albero
l’ombra di erba schiacciata
e i nostri nomi sulla via

Se tu mi avessi amata
avresti visto in me una donna migliore
che scriveva poesie su di noi
per restituire a dio
alcuni frammenti del creato

Un ricordo senza dolore
è ciò che rimane
di tutto quello che è stato

 

VIVO

Vivo giorni scalzi
racchiusa nel nido
a comporre parole di schiuma
posate sul confine dei sogni
Dolce inquietudine
racchiusa in un vaso di coccio
frantumato alla sera
nello  stupore trasparente del pianto
L’arpeggio lieve del vento
lambisce i cirri
in attesa di  nuove albe

Rita Bonetti nasce e vive a Bologna. Da sempre innamorata di romanzi e letteratura.
Dopo la laurea in Archeologia presso l’Università di Ferrara, inizia una stretta collaborazione di scrittura creativa con due amiche storiche e nel 2017 pubblica la prima opera narrativa, una raccolta di racconti scritti a tre mani Le Regine di Quadri. Contemporaneamente, l’autrice approfondisce la passione per la poesia e nel mese di Febbraio 2019 esce la sua prima raccolta di liriche “Persiane Blu”, Armando Siciliano Editore. Nel settembre 2019, questa raccolta di poesie si classifica al secondo posto al Concorso Internazionale POETIKA LAB. Il 18 Maggio 2019 la sua poesia Dettagli e l’11 Gennaio 2020 la sua Poesia “Scrivi per me” vengono pubblicate nella rubrica La bottega della Poesia del quotidiano Repubblica di Bologna. La sua poesia Il bacio si classifica sesta tra i dieci vincitori del PREMIO WILDE Concorso Letterario Europeo sezione POESIA D’AMORE. Nel 2020 l’autrice inizia la sua collaborazione con il sito web Lo Scrigno di Pandora, per la pagina della poesia.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

FANTASMI
Chi guarda Chi

 

Hanno chiuso i Musei di nuovo. E io soffro. Soffro molto. Ma poi la mia mente, incapace di sostenere tutto questo, comincia a tracciare dei percorsi e a pescare quadri rimasti imbrigliati nella rete succosa di sinapsi che hanno ancora da dirmi qualcosa. E allora cammino su e giù per la cucina, l’ingresso il salotto e poi l’ingresso e il corridoio lo studio e la camera da letto e poi di nuovo l’ingresso con gli occhi assetati di sgranchirsi e allungarsi oltre le limitanti pareti, oltre la finestra con i palazzi di fronte, oltre… fino a salire quelle scale abbaglianti tra guardiane fiere dormienti varcare l’ingresso ed entrare. Guardo tutto quel che è lì apposta per lasciarsi guardare, sala dopo sala; quando a un tratto qualcosa cambia, il ritmo cambia, il suono dei miei passi rallenta. Non sono più io a guidare il gioco. Abbasso lo sguardo e ascolto. Ascolto e avverto qualcosa, un calore alle mie spalle. Una figura serena e determinata seduta sulla panchina mi guarda. Una figura dipinta mi guarda. Sono guardata. Lei è all’aperto seduta sulla panchina e sembra avere tutto il tempo di questo mondo per guardare me chiusa in una scatola. Sono io l’oggetto immobile. E allora socchiudo gli occhi e ascolto la vita raccontata da quelle pennellate.

Era con le mani in mano, nessuna commissione. Chiese a mio padre se poteva farmi un ritratto. Lui gli rispose “Chiedi a lei… se le va”. Si volse e io ero già lì. Non servì parlarne. Andai subito a prendere dei libri a caso. Non avevo mai avuto questa esperienza e immaginavo fosse piuttosto noiosa. E non sapevo quanto tempo ci avrebbe messo. Avevo sentito parlare di reggimento in metallo, imbracature per tenere il busto fermo, o roba simile. Tutta roba “invisibile” che non è mai comparsa dipinta nei quadri ovviamente, ma che permette al soggetto di stare lunghe ore immobile. Perciò ero ancora più curiosa dei retroscena. Curiosa di vedere e toccare gli “arnesi segreti” del mestiere. Presi anche l’ombrellino, visto che il pittore si stava dirigendo con il cavalletto all’esterno, per evitare di bruciare la pelle al sole.
E invece accadde qualcosa che mai mi sarei aspettata. Quel suo scrutare ogni mio dettaglio da riprodurre su tela, era più interessante di qualsiasi altra cosa. Il tempo mi volò contemplandolo. Chi guarda chi. Mai ci rivolgemmo parola ognuno protetto nella propria bolla di sogno. Il mio sguardo esagerò e lui lo riprodusse fedelmente. Ciò mi condannò allo scandalo. Sparì ogni mio pretendente ritenendo che quei miei occhi, velati da lune insonni, rivelassero una certa intimità con Corcos, il pittore amico di mio padre. Mai i miei pensieri furono rivolti a lui come uomo ma alle sue mani d’artista, al suo occhio agitato, al sopracciglio fremente. Fu il mio stupore per lo spettacolo pirotecnico di un uomo immerso nella sua passione. Nulla di più. Avevo ventitré anni e lui trentasette con una giovane raffinata colta sensibile moglie; e con figli. Io scalpitavo una vita emancipata e imprevista che voleva decollare anzi “librarsi” da una vita già scritta e racchiusa in mere e antiquate pagine di inchiostro. Lui era al culmine della sua carriera mentre io rimasi inchiodata a quello sguardo. Il mio volo si schiantò dentro quella tela.

Note
• Tela di Vittorio Matteo Corcos “Sogni”, 1896. Esposta oggi alla Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea a Roma. La ragazza ritratta è Elena Vecchi, figlia di Jack La Bolina. un amico del pittore.
• Questo Scritto è a metà tra sogno dell’autrice e realtà.

Per leggere tutti gli interventi di Fantasmi, la rubrica curata da Sergio Kraisky e Francesco Monini, clicca [Qui] 

Vite di carta /
Giovani scrittrici del disagio

Vite di carta. Giovani scrittrici del disagio

Quanto disagio nella loro scrittura. Penso che potrebbero essere mie figlie, penso che sono giovani  e hanno il privilegio di scrivere. Di pubblicare quello che scrivono, romanzi per lo più. Eppure raccontano come per seguire una sorta di terapia e nel raccontare esplorano il loro disagio. Mi riferisco a due autrici pressoché coetanee di cui ho letto in questi giorni. Ho letto un libro per ciascuna: Come il mare in un bicchiere di Chiara Gamberale e La più amata di Teresa Ciabatti.

Come sono arrivata a Chiara Gamberale? L’ho vista in tv, proprio mentre finiva la sua intervista e la presentatrice ricordava il titolo del suo ultimo libro uscito qualche mese fa. Ho controllato nella mia libreria ritrovando di lei solo la fiaba Qualcosa e Le luci nelle case degli altri e ho pensato che vorrei rileggerli, soprattutto il secondo col suo titolo bellissimo. Sono sicura di avere letto almeno altri due suoi libri, ma non li ho rintracciati, forse provenivano dalla biblioteca scolastica e là sono ritornati.

Come sono approdata a Teresa Ciabatti. Ho letto una recente recensione sul suo Sembrava bellezza, uscito da pochissimo e finalista al premio Strega 2021. A parlarne bene sulle pagine di Repubblica Michela Marzano, che ho conosciuto di persona un paio di anni fa: una scrittrice profonda, generosa nell’incontrare i ragazzi dei Licei cittadini che gremivano la Sala Estense e molto aperta, sia alla conversazione che al dialogo. Poi, sedute davanti a un piatto di cappellacci ferraresi a uno dei tavolini del Brindisi, così piccolo da non farle sentire la mancanza dei locali parigini, ci siamo confrontate sul nostro mestiere di insegnanti. Lei professoressa ordinaria di filosofia morale all’Université Paris Descartes, io docente di lettere al Liceo Classico cittadino. Era presente anche Nadia Terranova, che ci ascoltava e ci incalzava con nomi e titoli di autrici italiane da leggere assolutamente, perché andavamo mescolando al resto i discorsi sul nostro ruolo di lettrici, sempre.

Dunque Marzano consiglia di leggere l’ultimo libro di Ciabatti. Dopo, succede tutto molto in fretta: non posso uscire dal mio paese perché la nostra regione è zona rossa e alla biblioteca di Poggio Renatico trovo il romanzo precedente, La più amata, che è uscito nel 2017.
Trovo invece il “quaderno”, lei lo definisce così, di Gamberale: Come il mare in un bicchiere. Porto a casa entrambi e comincio da quest’ultimo. Strano libro. Senza filtri che separino la scrittura dalla biografia minuta; un quaderno che diventa anche diario delle lunghe settimane vissute in lockdown lo scorso inverno. Alcune pagine sono davvero intense, sono piene di spunti per guardare la vita dentro le nostre case e dentro le persone. Per fare un bilancio su quello che sta cambiando, sulla fragilità di tutti. Sulla forza di tutti, che si fa strada nell’autrice come donna e come madre. Mi ricorda l’urgenza di racconto che ha ispirato tanta narrativa della Resistenza alla metà del secolo scorso. Siamo di nuovo in guerra e la scrittura tende a ricalcare la vita vissuta con le parole. Come durante la Resistenza l’esperienza individuale si pone come paradigmatica, rivelando la vita di tutti.

Quando passo al romanzo di Ciabatti bastano le prime pagine a farmi sospirare “Ecco un’altra autobiografia”, con la storia personale e della famiglia. Eppure un passo dopo l’altro vengo  inglobata nello spessore delle pagine, dove i ricordi della autrice scorrono talmente vivi da essere dentro il suo presente, dentro il garbuglio della sua psicologia. Ne parla in modo così scoperto. Ecco la cifra del Novecento, la biografia di sé che ricalca l’impianto della psicanalisi: Teresa e il suo rapporto col padre, adorato. Teresa e la difficile convivenza con la madre. La distanza che aumenta tra lei e il fratello gemello mentre diventano adulti.
Rispetto al “quaderno di Gamberale la storia di questa bambina privilegiata, nata in una famiglia ricchissima, che i genitori hanno amato, ma senza darle sicurezza, è la storia di un isolamento. Che a tratti scade in solipsismo. La bambina diventa adulta senza vivere il proprio romanzo di formazione, senza fasi di crescita che disegnino per lei una identità dotata di una qualche armonia, di un equilibrio. Il suo raccontare si muove su piani temporali che variano continuamente e il cursore del tempo passa dall’infanzia al presente e alla adolescenza per ritrovare sempre le stesse inquietudini e la donna che a quarantaquattro anni ancora si sente incompiuta, “qualcosa meno di un adulto”.

Cosa hanno in comune le due scrittrici, mi chiedo. Ho in mente  una  risposta ma mi occorre rivedere il genere letterario della autobiografia a cui i due libri fanno riferimento.

E’ un volume  ponderoso, il numero cinque della Letteratura Italiana Einaudi che staziona dal 1986 sulla mensola a sinistra della mia scrivania; il titolo è Questioni e fa al caso mio. Trovo il saggio di Marziano Guglielminetti dedicato a Biografia e Autobiografia e ripercorro, paragrafo dopo paragrafo, lo sviluppo tutto al maschile che la scrittura di sé ha disegnato nei secoli, dalla agiografia medievale alla letteratura di consumo del XX secolo, dove spesso parlano della propria vita non solo letterati e artisti, ma anche attori, sportivi e politici.

Mi confermo che il primo tratto in comune, banalmente ma non troppo, è che sono davanti a una scrittura di genere: a parlare di sé e del proprio paesaggio interiore sono due donne. Entrambe  mettono a nudo con determinazione l’osmosi difficile tra l’io e il mondo. Sono donne che affrontano i dilemmi della complessità di cui è fatto il nostro tempo, sorrette da un uso raffinato del linguaggio, che usano come strumento di chiarificazione interiore.
Un secondo elemento comune è che sono figlie della tradizione del romanzo psicologico e questa loro radice le spinge a scardinare dall’interno almeno un aspetto costitutivo del genere autobiografico, ovvero la concezione del tempo. Entrambe selezionano con nettezza i fatti e i momenti salienti da raccontare, ma rinunciano a collocarli in ordine cronologico secondo la sequenza codificata di infanzia, adolescenza, età matura. I nodi emotivi, le gioie e le sofferenze del passato sono recuperate attraverso frequenti flash back e riesplodono vivi nel presente della narrazione, contaminando tra loro i diversi piani temporali. Sono figlie del paradigma instaurato all’inizio del Novecento dalla narrativa di giganti come Svevo e Pirandello, i cui protagonisti ci mostrano il loro io che si frantuma perplesso e smarrito in un mondo senza riferimenti assoluti, figli a loro volta della nuova epistemologia del relativismo.

Infatti nelle due autrici non rilevo alcuna nota agiografica, nessuna esaltazione di sé; semmai qualche spunto di ironico abbassamento verso “l’inettitudine”, come è stata immortalata da Svevo nella Coscienza di Zeno. Nel libro di Gamberale, ogni volta che il vivere quotidiano sembra sopraffarla con la complessità dei compiti e dei doveri. Nella narrazione di Ciabatti quando il resoconto di sé assume un vago sapore scandalistico, si direbbe per la voglia di punirsi per i vizi e gli errori commessi.

Eppure c’è qualcos’altro che le determina. Non sono solo figlie ma anche madri. E’ passato un  secolo dall’ “involontario soggiorno sulla terra” di Pirandello e l’istanza narrativa degli autori e delle autrici che sono venuti dopo ha attraversato altre stagioni. Passata la fase pigra e sfiduciata della letteratura postmoderna, in questi primi vent’anni del nuovo millennio pare tornata la voglia di racconto. Anche del racconto di sé, andando oltre la disgregazione della identità del personaggio, oltre anche la sopraffazione del “Là fuori”, come lo definisce Gamberale. Più marcati in lei, ma soffusi anche nelle pagine finali di Ciabatti, trovo i tratti di una resilienza, che credo caratterizzi l’eroe degli anni Duemila. Come accettazione dei capricci della Fortuna, direbbe Machiavelli, passata attraverso i capricci anche del modello consumistico e le montagne russe della nostra vita globalizzata. Una sorta di pars construens del nostro io, che sa di non poter modellare il mondo, ma gli resiste e può riprogrammare il suo percorso dopo che un ostacolo lo ha fatto deviare. Ne è un campione Marco Carrera, il protagonista del libro che ha vinto l’ultimo Strega: Il colibrì di Sandro Veronesi.
Uno scrittore doveva esserci, no?

Nel testo faccio riferimento ai seguenti libri:

  • Chiara Gamberale, Come il mare in un bicchiere, Feltrinelli, 2020
  • Teresa Ciabatti, La più amata, Mondadori, 2017
  • Sandro Veronesi, Il colibrì, La nave di Teseo, 2019

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari della rubrica di Roberta Barbieri clicca [Qui]

Come bombe atomiche

 

ehi, mi ricordo di te? che ci fai lì, perché te ne stai rintanato nella poltrona? so chi sei, è da un po’ che ti contempli gli alluci, lo trovi divertente? io non direi che sia il massimo, e tu? quando ci siamo incontrati sei stato molto gentile, penetrante, hai cercato di catturare la mia attenzione con ironia e intelligenza ci provavi in continuazione, ora cosa fai qui? non ti interessa più abbagliarmi con la tua saggezza da sciocco di strada, non c’è motivo che tu lo dimentichi, oppure sì? ebbene sì, io sono ancora qui, non mi vedi? pendo dalle tue labbra, anche se ho sempre fatto finta di nulla, sono sempre stato un buon fingitore, non sei l’unico sai? mi ricordo delle tue parole, tutte, anche se credevi pensassi solo alla birra che il barista stava spillando, anche se pensavi che stessi ascoltando l’ultimo singolo di quel gruppo folk, ero qui, ricordi? la memoria ci fa ricordare solo quello che ci interessa, strano vero? immagazzinare spazio nel cervello, conservarne un pezzetto per questa cosa, ma non è meno importante che fare spazio nel cuore, e io ti ricordo, sai, la ram non è infinita, non è espandibile, quella del cervello è limitata e preziosa, non trovi sia fantastico? oh, ma guarda che non voglio rubarti il posto, non mi credo un poeta, è solo che vederti lì, mi fa pena, mi fa sentire solo, nel frastuono del mondo.

non immagino proprio cosa ti sia accaduto, quella poltrona sa di sudore e lacrime, un misto insopportabile ma necessario, perché non fai qualcosa? su alzati da lì, aspetti di diventare il prossimo lazzaro? e sai, posso capire che ti faccia gola il personaggio, la scena e tutti i dialoghi, senza pensare poi della storia che resterà per millenni, raccontata, di bocca in bocca, di libro in libro, ma non sei lazzaro, anche se la metafora ti garba, guarda che ti conosco bene io, pur non sapendo chi sei nella vita, io ho conosciuto la parte migliore di te, quella che non ti vergognavi a far trapelare, quella che non volevi proprio nascondere, io sì che ti conosco, non vuoi? anche se pensavi che nulla potesse scalfire la mia noiosissima routine, ora voglio dirti come la penso finalmente, ascoltami bene, tu la mia routine l’avevi spezzata in due, sembrava che io facessi solo un break da lavoro, ma ehi, mi ascolti? quel giorno normalissimo, evidentemente noiosissimo, hai spaccato il tempo e lo spazio, e anche se a te sembrerà sciocco dirtelo ora, che sei bloccato su quella sedia, tu hai spalancato la mia immaginazione, mi hai insegnato a vivere, per un breve istante, prima che tornassi a vivere per gli altri, per chi mi ruba tempo e spazio e me lo ripaga con milleduecento euro al mese, eh, sì, io sì che mi ricordo chi eri? e tu pensi di poterci riuscire? pensi di capire, quanto sono amareggiato.

l’amarezza, anche questa cosa qua, che prima riservavo solo ai capi ufficio, ora ti confesso che non fa più male come prima, potrei essere invidioso, vero? guardami! invidioso del tuo modo di fare, del tuo parlare senza tabù, e si lo ammetto lo sono stato, perciò sono scappato, la maggior parte delle volte, anche ora che fai finta di non sentirmi, lo so che invece non è così, come ho provato io a lasciarti fuori dalla mia coscienza, è inutile che cerchi di coprirti con la coperta e cerchi con lo sguardo stanco fuori la finestra, aspettando che la verità possa arrivare dagli alberi, giù in fondo alla strada, non funziona così! credi di essere diverso da quello che pensavi? solo perché un paio di persone ti hanno visto distratto, annoiato, disinteressato? credi che sia vero? le persone molte volte non sono uno specchio, sono solo altre persone, diverse da te, completamente, le persone sono bombe atomiche, ti irradiano il loro malessere e ti lasciano ferite indelebili sulla pelle, tu prova a farla ricrescere, lo farai per me? non sei quel male che ci hanno cucito addosso, le persone non sono degli specchi, sono emittenti letali, irradiale tu, più forte sempre più forte, ci provi per me? non immaginavo che ne saresti rimasto così scottato, frastornato da tutto quel rumore, da tutto quel fumo, non puoi pensare solo ad incassare e resistere, prova a brillare anche tu.

come una bomba atomica, capito? ma veramente pensi di essere il solo? sarò alla mia centesima esplosione, e se non ne ho ricavato molto, almeno sono riuscito a brillare, come una stella prima di diventare un buco nero, provaci, è liberatorio, lo sai? mancano ancora tante settimane, ore e minuti alla tua esplosione? quanto tempo, quanto tempo vorrai far passare ancora? dovrò aspettare molto prima di riconoscerti? su, non avere paura, è naturale, concedersi uno sfogo, purifica l’aria, ascoltami una buona volta, te ne stai ancora lì, seduto sulla poltrona a ricordare chi eri, e fare i conti con quello che sei ora, ridicolo, vigliacco, pezzetto di vita immaginario, hai sognato di diventare un bambino vero, e invece hai fatto la fine di un burattino, non credere che i fili si spezzeranno solo perché tu lo vorrai, ehi, mi senti? devi brillare sugli altri, voltati e fammi un sorriso, prendi quel foglio e ricomincia daccapo, una volta imparato ad andare in bici non si dimentica, anche dopo anni, si riparte per una nuova avventura, non sei mai stato così silenzioso, quelle parole? dove le hai nascoste? anche se sembrava che parlottassi con chicchessia, io ero lì, e per me, anche quando prendevo e camminavo dritto, non curandomi di te e di tutti voi, ti avevo notato, tanto che mi dirai di essere pazzo e bugiardo… “ma come non eri andato via?” mi dirai… e invece no, ti avevo visto con la coda dell’occhio e ti avevo rifiutato, tirando dritto con le mie patatine in mano, ero solo scappato via, ma questo non può averti portato ad odiarmi, non sei affossato in quella poltrona per colpa mia? perché darmi tutta quell’importanza, per poi scappare a tua volta? ehi, ma ti ricordi cosa volevi? devo pensarci io? e non accampare scuse, io c’ero anche quando infine disperato postavi poesie e racconti su siti intelligenti, non mi vedevi il più delle volte, non lasciavo commenti e neppure un like, ma c’ero, leggevo, notavo, e tu… tu c’eri? ci sei?

LA MIGLIORE SICUREZZA:
rispondere ai bisogni di tutti, a partire dai più deboli

 

La pandemia ha messo in evidenza tutte le fragilità delle nostre società diseguali, dissipatrici, e senza regole. Molti sono i pericoli ai quali ci siamo assuefatti: dai morti per incidenti stradali, alle guerre che hanno andamento endemico in ampie aree del mondo. Tuttavia, l’improvvisa e rapida comparsa di un nemico sconosciuto, come il coronavirus, nei confronti del quale non ci sono ancora sufficienti difese, ci trova impotenti.

Questo virus scuote profondamente i miti del progresso e della crescita illimitata, la fiducia nella possibilità di controllo e di dominio da parte della tecno-scienza, mettendo in discussione alcune fondamentali certezze e ribaltandone il significato.

Il primo concetto che perde di significato è quello di difesa: siamo abituati a pensare che ci si difenda alzando muri, chiudendo porti e confini con eserciti militari. Ma di fronte a questo nemico invisibile le armi non servono. Anzi, proprio l’aver destinato grandi risorse alle spese militari, sottraendole ad esempio alla sanità e alla ricerca, ci rende più indifesi. Il nostro sistema sanitario universalistico, che pure è uno dei migliori al mondo, vacilla e lamenta la mancanza di attrezzature e di medici.

Il COVID19 ci insegna dunque che il modo migliore di creare sicurezza è avere una società organizzata in modo tale da rispondere ai bisogni di tutti, a partire dalle fasce più deboli. Una società di questo tipo saprà garantire anche le proprie ‘difese immunitarie’ contro i pericoli, interni ed esterni, che possono minacciarla, sviluppando l’uso corretto del potere da parte di ciascuno, le capacità di autogoverno e di resilienza, nonché forme organizzate di difesa popolare nonviolenta che i movimenti per la pace da tempo propongono.

Un altro importante ribaltamento di significato è quello del concetto di isolamento. Da Trump a Salvini a Orban, le destre sovraniste di tutti i continenti hanno rispolverato un nazionalismo pericoloso e fondato sulla cultura individualista imperante, legittimata dal pensiero unico neo-liberista. Espressioni come ‘Prima gli Italiani’ o ‘America first’, creano un isolamento, una barriera tra noi e gli altri, visti come nemici e dai quali distinguerci e separarci. È un isolamento che chiude agli altri, teso a difendere i propri privilegi, e interessi, a scapito della propria umanità.

L’isolamento al quale ci costringe il COVID19 ha invece una diversa connotazione. Serve sì a proteggere noi stessi, ma allo stesso tempo, protegge anche gli altri, perché nessuno sa se potrebbe essere un veicolo di diffusione dell’epidemia. Il COVID19 non risparmia nessuno, colpisce poveri e ricchi, giovani e anziani, al Nord come al Sud, non fa differenze di sorta. Anche chi pensa di essere più forte, potente, attrezzato, in realtà è fragile come tutti: non c’è ricchezza, potere, posizione che tenga.

Tutti hanno bisogno dell’aiuto degli altri, perché NESSUNO SI SALVA DA SOLO.

È la rivincita della solidarietà contro l’individualismo. Riusciremo a realizzare, dopo questa emergenza, un diverso rapporto tra noi e con l’ambiente che ci ospita?
Queste emergenze, climatica, sanitaria, migratoria, ci obbligano a cambiare passo, recuperando valori di solidarietà e sobrietà, che aprono una possibilità di futuro sostenibile per tutti. Proprio come è avvenuto dopo la seconda guerra mondiale, quando si è avvertita l’esigenza di creare istituzioni, come le Nazioni Unite, che si ponessero come strumenti alternativi per la risoluzione delle controversie internazionali. In realtà l’ONU oggi è una istituzione troppo debole e priva di reale potere nel gestire le relazioni internazionali.

Oggi il vaccino ci porterà forse fuori dall’emergenza, ma non ci risolverà il problema di una diversa consapevolezza che richiede un ambiente inclusivo.

Per leggere tutti gli articoli di Elogio del presente, la rubrica di Maura Franchi, clicca [Qui]

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Piovono pietre su Fornero e Jobs Act:
il lavoratore non è una merce

 

L’ultimo decennio ha segnato un arretramento secco sul fronte dei diritti dei lavoratori. Abbiamo assistito alla traduzione in leggi (prima la Fornero, nel 2012, poi il Jobs Act, nel 2015) di un’idea secondo la quale il lavoro è una pura merce, priva di un valore in sè che incorpori la realizzazione attraverso di esso dei valori di dignità e personalità umana. Una merce come tante altre, che si paga ad un prezzo di mercato: più quella merce è sostituibile, più il suo valore si deprezza. Più persone sono disposte a fornire la stessa merce, meno costa procedere alla sostituzione della singola persona, pura fornitrice di forza-lavoro.
Attenzione: l’obiezione secondo la quale i contratti di somministrazione, i negozi a termine, i finti contratti di collaborazione “autonoma” realizzavano già, in abbondanza, questa idea restituisce il clima di progressiva precarizzazione del lavoro incorporato nella pletora delle diverse forme contrattuali.
Ma le operazioni compiute con la Fornero e il Jobs Act hanno fatto compiere alla legislazione un salto di qualità negativo, rendendo in un certo senso precario ab origine anche il rapporto a tempo indeterminato. Non mi soffermo più di un attimo sull’inganno di senso costruito sul termine “flessibilità”, usato per conferire un velo di cosmesi al reale concetto sotteso, che è “precarietà”. Quando la precarietà diventa, come nella Fornero e nel Jobs Act, elemento costitutivo del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, la derubricazione del lavoro a pura merce non è più una variazione sul tema giustificabile, di volta in volta, con le necessità di inserimento graduale nel mondo del lavoro o con le caratteristiche di impieghi che comunque non saranno svolti per tutta la vita. No: la precarietà diventa elemento ontologico del lavoro, deprivando di garanzie e sicurezze un intero percorso professionale, che diventa così soggetto, dall’inizio alla fine, al potere di ricatto della controparte datoriale.
Chi è assunto dal marzo 2015 con il cosiddetto “contratto a tutele crescenti” sa fin dall’inizio che potrà essere licenziato senza una giusta causa, e che il prezzo che potrà incassare se un giudice riconoscerà l’ingiustizia (e intanto bisogna andarci, da un giudice) sarà un puro indennizzo, sganciato del tutto dalla gravità dell’ingiustizia subita e commisurato solo alla sua anzianità di servizio: una specie di liquidazione impropria (e di importo modesto) per liberarsi di uno scomodo/a. Ciò implica che un datore di lavoro può calcolare in anticipo il prezzo del suo arbitrio, come un qualunque altro costo aziendale. Lo può mettere a budget.

La progressiva traslazione da “prestazione lavorativa” a “performance” è anch’essa un inganno, funzionale ad una sottrazione di tutele.
Se la prestazione sul lavoro di ognuno dei 24 milioni di individui (all’incirca la popolazione occupata in Italia) dovesse essere misurata come si misura una prestazione sportiva professionistica, allora tre quarti dei lavoratori italiani  meriterebbero il licenziamento, e tra essi ci saremmo anche noi. Sfortunatamente, questa riduzione a competizione parasportiva di ogni elemento attinente al lavoro finisce per inficiare anche quella parte di valutazione (e di extra-retribuzione) legata al raggiungimento di obiettivi, che si concentra esclusivamente sulla quantità di cose fatte o vendute: se sei un poliziotto, quanti arresti hai compiuto; se sei un assicuratore, quante polizze hai venduto; se sei un primario, quanti posti letto hai liberato.
Non importa realmente in quale modo è stato ottenuto questo risultato: il quanto è oggetto di premio, il come non lo è. Ricordo un solo esempio tra gli innumerevoli che si potrebbero fare: la caserma dei carabinieri Levante di Piacenza (che poi una procura scoprì essere una minicupola dedita allo spaccio e al ricatto) poco prima ricevette un encomio solenne dal comandante della Legione Emilia-Romagna per i risultati conseguiti nel contrasto allo spaccio di stupefacenti. Sapete perché? Per il numero di arresti compiuti. Peccato che molti di essi fossero arresti abusivi, funzionali alle minacce, ai pestaggi, alle torture.

Lo “scarso rendimento” che può giustificare addirittura un licenziamento esiste nel nostro ordinamento, ed è costruito dalla giurisprudenza di merito. Ma se non si considera come elemento costitutivo della nozione di “scarso rendimento” una responsabilità soggettiva del lavoratore, allora anche un lavoratore malato assente spesso a causa delle cure da sostenere, o una madre assente per gravidanza possono essere imputati di “scarso rendimento”, come dato oggettivo.
Per non parlare poi dei licenziamenti per “giustificato motivo oggettivo” legati alle condizioni economiche, o alle scelte organizzative dell’azienda, che comportano la soppressione di quel posto, o la esternalizzazione di quella funzione.

In tutti questi casi, la legge ordinaria in materia di lavoro degli ultimi vent’ anni, spiace dirlo, sembra scritta spesso da emissari delle aziende. Per questo, non saremo mai abbastanza grati ai padri costituenti per avere scritto la Costituzione e alla Corte Costituzionale per la capacità, tuttora integra, di censurare le nostre leggi quando non sono conformi ai principi costituzionali.
L’ultimo esempio è la sentenza 59 del 2021, con la quale la Corte ha decretato che l’art.18 Statuto lavoratori, così come modificato dalla legge Fornero nel 2012, è incostituzionale laddove, in caso di licenziamento per motivi economici di cui sia accertata la manifesta insussistenza della causa, preveda che il giudice può scegliere se indennizzare o reintegrare il lavoratore.
Il principio costituzionale violato è quello di uguaglianza (art.3): infatti, quando in un licenziamento per giusta causa il fatto posto a base del provvedimento è inesistente, la reintegra del licenziato è obbligatoria, non facoltativa. Dal momento che il presupposto dell’insussistenza del fatto ha meritato la tutela della reintegra, la Corte afferma che la stessa non può essere facoltativa quando l’insussistenza è legata ad un licenziamento dichiarato come economico. Fuori dai tecnicismi, significa questo: se vengo licenziato senza un motivo, il giudice deve disporre la mia reintegra.
Che poi il lavoratore (non il giudice) possa decidere di far convertire in denaro questo diritto, è quello che fa la differenza tra una somma a titolo di risarcimento (come quella che sostituisce una reintegra nel posto di lavoro) e un indennizzo (come quello del Jobs Act).
Nel primo caso (risarcimento), la cifra deve corrispondere alla ricompensa per un danno ingiusto subito.
Nel secondo (indennizzo), la cifra è un contentino a fronte di un atto che l’ordinamento non considera nemmeno antigiuridico.

Il che rende ancora più evidente (e odiosa) la disciplina puramente indennitaria del Jobs Act, che presuppone che un licenziamento ingiustificato non sia fonte di danno ingiusto verso il lavoratore. Danno sì, ma non ingiusto. Che questa bella impostazione sia stata propugnata non da Margaret Thatcher, ma dall’allora segretario del PD, trascinandosi dietro una buona fetta del partito, restituisce la misura dello smottamento che una parte della sinistra ha compiuto verso il più scellerato dei liberismi, se applicato bovinamente a quella che loro considerano la ‘merce’ lavoro.

La sentenza della Corte purtroppo non risolve automaticamente i problemi di coloro che sono stati assunti dopo il marzo 2015, con un contratto redatto ai sensi di un corpus normativo (Jobs Act) che, appunto, non considera nemmeno il licenziamento ingiustificato come un atto antigiuridico. Tuttavia è un grande passo nella direzione della riconquista del significato costituzionale del lavoro, come strumento di affermazione della personalità e dignità umana: perché una Repubblica che si dichiara “fondata sul lavoro” non può essere fondata su una merce.

DIARIO IN PUBBLICO
Questione d’orecchio

 

Sempre attratto dalla fisiognomica mi affiggo a riconoscere le più straordinarie orecchie esibite da personaggi pubblici in questo tempo di pandemia. Ecco che senza ombra di dubbio quelle che eccellono per la loro curva e la loro preponderanza sono quelle di Francesco Paolo Figliuolo, Commissario dell’emergenza Covid e di Pietro Senaldi direttore di Libero. Scendendo poi al livello metaforico si riconosce, a chi è competente in campo musicale, quelli che ‘hanno orecchio’ e a quelli che ne difettano il non averne. Salta immediatamente all’orecchio, dunque, che chi non stona è sicuramente il Figliuolo, mentre a mio parere chi prende terribili stecche è il giornalista.

Rientra poi nell’accezione positiva – sempre se si parla di fisiognomica – anche l’imponenza con cui il militare si presenta: dalla penna sul cappello alla divisa corazzata di mostrine che, mi comunica un finissimo intellettuale come Fernando Rigon, hanno in gergo militare un nome strepitoso. Cito: “Gianpavese  hai superato te stesso nell’articolo su Figliuolo, pelosi e Letta al plurale. Un’integrazione linguistica: le onorificenze pettorali e le medaglie in gergo militare si chiamano ‘banane’. Vezzeggiativo o spregiativo?…”.

Un‘altra non secondaria qualità, che rende umana la figura del nostro Commissario dell’emergenza Covid, è l’esporre il proprio corpo alla curiosità del pubblico, quando decide di vaccinarsi con quello ‘maledetto’, di cui è ormai difficile pronunciare il nome che ora è Vaxzevria, provocando l’analisi satirica strepitosa di Luciana Littizzetto in Che tempo che fa, interessatissima al seno del Commissario. Quello che invece risulta stonato nelle frequentissime apparizioni del Senaldi è la sua vocazione alla pedagogia della critica e del rifiuto. All’aprirsi della bocca le orecchie sembrano mettersi in movimento autonomamente e siglare con imperio le affermazioni pronunciate con tono sempre asseverativo. È logico che queste note vogliono alleviare, se fosse possibile, il difficile momento che stiamo passando.

Circondato da amici straordinari  attenti alle conseguenze linguistiche spaventose che da ormai troppo tempo imperversano sulla nostra infelice cultura riporto, con il suo permesso, una mail che il professor Claudio Cazzola, docente di latino a Unife, ma prima di tutto uno dei miei più cari e amati ‘allievi’ mi ha spedito:
“Mi permetto di cambiare argomento, essendo stato io deliziato dalla pronuncia ‘règime’ adottata dal generale Figliuolo come da te sapientemente segnalato. Proprio in nome di questa delizia, vorrei sottoporti, al rovescio, alcune prelibatezze offerte dai messaggi che sono apparsi in sovraimpressione ieri sera su Telestense durante il commento alla partita della Spal:SPAL, voglio che sei vincente oggi!

  1. Ragazzi, mettiamolaci tutta!
  2. Era gol, non ce la tecnologia in B!
  3. Servon soldi per vincere, altrimenti si va in defolt!
  4. NN vedono CKE Missiroli cammina in campo!

E mi fermo qui. Non mi straccio le vesti, ma è amaro constatare il livello di padronanza della lingua (anche il vocabolo straniero è storpiato…).”

Frattanto mi adopero a rendere meno impervio il cammino dantesco della mia amatissima pro-nipote Isabella, con la quale e con la sua amica Pally in video conferenza passiamo momenti per me confortanti nello spiegare i temi, la storia, le parole di LUI. Mi sembra di tornare indietro nel tempo, quando per 15 anni il mio impegno totale è stato quello di rendere storicamente comprensibile la lezione del Sommo e in questo aiutato, e non lo ringrazierò mai abbastanza, dalla straordinaria qualità delle recite di Roberto Benigni.

Stavamo tranquillamente leggendo (seppure non come Paolo e Francesca), ma come per loro ‘solo un punto fu quel che ci vinse’, quando incontrammo la figura di Farinata degli Uberti. Manente degli Uberti detto Farinata; con aria assorta interloquisce Isabella “perché Farinata?”. Certo tutti noi sappiamo cos’è la farinata tratta dal grano macinato per cui farina, ma perché il terribile condottiero viene così soprannominato?
Febbrilmente mi metto a sfogliare ben 16 commenti all’Inferno dantesco. Tutti imperturbabilmente riferiscono che così era chiamato, ma il perché nessuno lo spiega. Consulto l’Enciclopedia dantesca: nulla. Telefono in Svizzera all’amico Stefano Prandi illustre dantista, ma la risposta è ancora negativa. Quasi vergognandomi telefono a colui che considero il maggior dantista italiano e non solo: l’amico carissimo Marco Ariani. Scoppia in una delle sue inimitabili e fragorose risate, confessandomi che qualche sera prima, sentendo Benigni al Dantedì recitare il poeta, si era posto la stessa domanda ma…anche lui, Marco, non lo sapeva. Mi ha detto che quello sarà l’impegno più stringente che curerà in questi giorni.

Frattanto il mio amatissimo nipote Ludovico fa una ricerca su Google e riporta la notizia che il soprannome deriva probabilmente dal colore dei capelli di Manente ‘biondo platino’ assimilabile al colore della farinata. Mah! sembra una spiegazione applicabile a qualche film storico girato sulle rive del Tevere negli anni Cinquanta. Comunque sia la straordinaria creatività di Durante-Dante, che passa dall’avverbio del suo nome intero a quello verbale del diminutivo, mi rende contento.

E spero anche voi.

Per leggere gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

PRESTO DI MATTINA
Il dono dell’aquila

 

La Pasqua non è qui; il sepolcro è vuoto, nessuno dentro; la pietra è ribaltata, le fasce sciolte, il sudario ripiegato in un angolo, quasi lo si fosse riordinato prima di partire per un viaggio. Tanto che viene da chiedersi se la Pasqua, anziché una meta da raggiungere, sia piuttosto l’inizio di un cammino.
Credo proprio di sì.
Come il vangelo è una via, quella di Gesù, così la Pasqua è mettersi in via con Gesù. È lei che detta l’agenda ai discepoli, li incrocia per un momento, per poi sfuggire loro, precedendoli altrove e lasciando solo indizi del suo passaggio, affinché possano di nuovo mettersi sulle sue tracce.
Ma dove cercarla? In quale direzione? Quali avvisaglie ce la rivelano?

Per rispondere basterebbe riflettere sul fatto che la Pasqua altro non è che l’epilogo di quella storia che Gesù scelse per descrivere l’essenza della sua vita: quella del chicco di grano caduto in terra, che se non muore rimane solo, ma se muore porta molto frutto. Per questo sarebbe inutile cercare a Pasqua Gesù nel sepolcro. Come il chicco di grano, la sua vita non è più nella terra, ma è migrata nella spiga e da qui è passata oltre, attraverso la farina e l’acqua e le mani che hanno impastato, entrando nella fornace ardente che l’ha cotta per diventare un fragrante pane. Di più: un pane spezzato che di nuovo continua, di mano in mano, a consegnarsi ad altre mani, dividendosi in frammenti ma restando un solo pane, come una moltiplicazione incontenibile, un fiume di pane come quella prima volta sul monte con tanta gente seduta sull’erba; un dono per tutti, tanto che quella volta ne avanzarono dodici cesti pieni.
È questa la memoria della Pasqua: una consegna che si custodisce disperdendola moltiplicandola, un dono per chi vuole imitare il maestro continuando a frangere pane.

“Per tutti è Pasqua!”, nel suo avanzare audace verso tutti e sorride don Primo Mazzolari sentendosi citato: «Per tutti, anche per i molti che non partecipano al sacramento, il mistero della Pasqua, è una consegna. In tempi neghittosi ci sprona all’audacia: in tempi disamorati ci suggerisce la pietà: in tempi di odio ci inclina al perdono: in tempi folli e disperati ci restituisce al buon senso e ci guida verso la speranza. […] Quando sentono parlare di pace, i cristiani sanno bene di che cosa si parla, poiché il desiderio che è nel cuore di tutti è il dono che è nell’incontro pasquale» (La Pasqua, Vicenza 1964, 54 e 69).
Lo spirito del Risorto è come il vento: soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va. Così è di chiunque è nato dalla Pasqua, (Cf. Gv 3,8).

Pasqua non è più qui, perché vive e testimonia della ridondanza del dono, dell’eccedenza di un evento che non si è concluso, di un gesto di donazione che non ha mai cessato di essere praticato; continua a riversarsi da quella prima Pasqua in ogni altra pasqua in cui la vita si offre. Come le acque che scaturiscono da una sorgente, e all’inizio sono poca cosa, tanto che ad attraversarle ci si bagna appena i piedi, ma poi diventano, di onda in onda, un fiume che attraversi solo navigandolo, così la Pasqua è là dove scorre e arriva il fiume: è là dove giungono le sue acque per risanare e portare nuova vita.

«Egli non è qui ‒ disse l’angelo alle donne ‒ presto andate a dire ai suoi discepoli: “È risorto dai morti, ed ecco, vi precede in Galilea; là lo vedrete”. Ecco, io ve l’ho detto”», (Mt 28,6-7): Pasqua è là.
«Yhwh Sâmmâh/ Là è il Signore», (Ez 48,36) è questa l’ultima parola del libro di Ezechiele, profeta e sacerdote del popolo deportato in esilio. Il cuore del suo annuncio, la visione di un ritorno a Gerusalemme, sta tutto in quel “Là è il Signore”, parola chiave per dire tutto il senso del suo messaggio, in cui descrive una nuova dimora per Dio, non più tra le mura ristrette nell’antico tempio, ma in una dimora ampia quanto l’universo e quanto ogni cuore umano: una nuova creazione, là sarà il luogo della sua dimora. Nella sua ultima visione Ezechiele racconta di una fonte simile a quella di Siloe nella città di Gerusalemme, ma non umile e modesta come quella. Simbolo della potenza vivificante di Dio della sua gloria, egli vede una nuova fonte le cui acque, filtrando da sotto la porta del tempio, vanno crescendo enormemente e da rigagnolo diventano fiumana, portando beneficio non solo alla città santa ma così da rendere fertile anche la parte desertica, le regioni dell’Arabia portando vita e pesca nel Mar Morto. Un’acqua così abbondante da far germogliare e crescere e fruttificare alberi da frutta ogni mese e le cui foglie verranno usate come medicine. La Pasqua trova in questa visione la sua forma fluida, il suo dinamismo, lo stesso dell’acqua e dello spirito, dono che è pure un effluvio che discende a generare un cuore nuovo: «vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere» (Ez 36, 26-27).

Come l’acqua in quelle terre mediorientali è preziosissimo dono e non va negata a nessuno, così la Pasqua è dono libero, gratuito per tutti, non privatizzabile, perché la Pasqua generata dallo Spirito del Risorto è un bene pubblico, non finalizzabile a strategie e obiettivi umani. Essa non va nemmeno incanalata, perché più la costringi, più essa esonda dai confini, attraversa i limiti che le gerarchie sociali e anche religiose le vorrebbero imporre. Pasqua dono di grazia manifesta se stessa come gratuità di un amore generativo di una esperienza di reciprocità.

Non è allora difficile intuire quali indizi ci segnalino oggi la presenza della Pasqua. Essa è là dove Cristo sfama ed è sfamato, disseta ed è dissetato, visita ed è visitato in carcere, in ospedale, accoglie ed è accolto ai confini e alle frontiere di terra e di mare. Pasqua è una conversione, un’interruzione del cammino conosciuto verso quello che non so; è un abbandonare il proprio posto, ancorché buono (Jon Sobrino), per lasciarsi condurre dal vangelo, dove Dio vuole essere incontrato “là dove è”; con la sola certezza che stiamo sempre iniziando un nuovo cammino, non da soli ma nella compagnia mite e silenziosa del Risorto.

Vi è una chiesa in uscita perché vi è una Pasqua in uscita.
In questo tempo, chiamiamolo pure di secolarizzazione in cui sembra di stare in balia di un fenomeno regressivo di riduzione dello spirito, di umiliazione della creazione in favore dell’economico, dell’impersonale, di relazioni a bassa intensità di presenza; in questa situazione di una nuova secolarizzazione, dove è in atto una mutazione del processo che ora avviene più in profondità, passa dall’esterno all’interno del vivere, dalle idee alle affezioni più intime sfiduciandole, transita dalle istituzioni sociali alla vita interiore sempre più erosa di tessuto spirituale, di memoria delle origini e quindi della stessa capacità di immaginare un futuro degno e umano; in questo scenario esistenziale la via percorribile per ribaltare le sorti è quella del dono: lo stile dell’umano perdersi e risorgere a Pasqua.

Credo che la strada per far tornare il vento nelle vele, anzi nello spinnaker di poppa del credere e del vivere nello spirito di Gesù, per ritrovare anche una chiesa e il suo dono, chiesa ferita nella sua capacità di immaginazione, di affezione, di pervasività narrativa, educativa e ministeriale, sia la via mistica, un immergersi di nuovo nel mistero pasquale per ricevere e praticare la sua forma.
«Solo recuperando una visione mistica penso che avremo delle energie ecclesiali. Sono stato affascinato dall’idea che la Chiesa possa rifondarsi nella ridondanza del dono. Il problema della Chiesa in uscita è: cosa esce? C’è qualcosa che può uscire? Altrimenti cadiamo nell’ennesima forma retorica ecclesiastica e teologica. La carità che la Chiesa esercita all’esterno non può che essere l’effluvio di una carità esercitata all’interno… La Chiesa media l’ospitalità in Cristo ma chiede accoglienza. Sempre di più penso che mettersi nella condizione dell’ultimo di tutti è ciò che permette che non ci sia solo quel popolo ma tutti i popoli» (Roberto Repole, Chiesa e teologia, https://www.agensir.it/ quotidiano/2021/3/13/). È guardando alla Pasqua sorgente di inesauribile creatività che le nostre comunità cristiane potranno guarire di quella «ferita dell’immaginazione» (Michael Paul Gallagher) e partecipare agli altri il sogno di Dio realizzatosi a Pasqua nella gratuità di un dono.

Nel racconto di Nathan Zach, La grande aquila si narra di un’aquila impagliata, imbalsamata e appesa al muro, come un trofeo. Ma che con l’andare del tempo fu sempre più ignorata da tutti quelli della famiglia in cui era entrata: era ormai come una vecchia e ingiallita stampa alla parete e sentita come qualcosa di ingombrante da disfarsene prima o poi. Tutti tranne che per uno, Yotam, il figlio più piccolo: «Era rimasta fissa al muro della veranda fra la stanza da letto e la cucina le ali spiegate di qua e di là il piumaggio ben teso sul corpo, gli artigli estratti pronti a conficcarsi nella carne del nemico ormai vicino. E invece no. Nessuno pensava più a lei come a un’aquila tutti la consideravano ormai soltanto una specie di arazzo». Pure la domestica aveva paura di toccarla anche soltanto con il piumino. La decisione alla fine venne con le pulizie di Pasqua, imbiancare le stanze, rinnovare gli arredi, togliere ingorbi e le cose che avevano fatto il loro tempo. Così anche il destino dell’aquila fu segnato, ma nessuno per un motivo o per un altro si decideva a prendere l’iniziativa (per i particolari vi rimando al libro: L’omino nel pane ed altre storie, Donzelli, Roma 2003).

Solo Yotam pensava al modo di salvarla dalla rottamazione. Perché una volta si accorse che, guardando all’aquila impolverata, questa guardava lui «tremendamente». Così dapprima prese il piumino per togliere la polvere, ma al vederla così rinsecchita pensò a una doccia «Senza pensarci su due volte, prende uno dei tanti secchi che si ritrova intorno, lo riempie di acqua del rubinetto, dal bagno, e butta addosso all’aquila tutta l’acqua del secchio». Subito, non accadde niente ma all’improvviso: «“improvvisamentissimamente” l’aquila abbassa la sua testa e la affonda dentro il secchio con l’acqua pulita. Questa vecchia aquila beve. Beve un sacco. Beve come non ha mai bevuto in vita sua. Beve come se non sapesse che cosa significa bere». Sentiva sempre più che i suoi occhi lo guardavano. Ma come aiutare un’aquila inchiodata al muro?

Avvicinandosi si accorse però che i chiodi erano con il tempo caduti, solo un poco di colla la tratteneva ancora alla parete. Così la staccò dal muro e lentamente l’aquila cominciò a respirare ed ad ogni respiro il petto si allargava sempre più come un palloncino quando lo gonfi. «Adesso l’aquila muove un po’ la testa, poco poco. Muove la testa verso la finestra chiusa. Di nuovo, senza pensarci su, Yotam va a spalancare la finestra. L’aquila è ormai sul davanzale. Guarda Yotam. Yotam la guarda. Occhi gialli di fronte a occhi castani, scuri scuri, quasi neri. Allora improvvisamente l’aquila dispiega le ali. Ehi, che grandi ali ha quest’aquila, quando non è appiccicata o inchiodata al muro. Un piccolo slancio, e quelle gigantesche ali portano il corpo dell’aquila fuori dalla finestra, ormai. Un colpo d’ali soltanto, ed eccola sopra gli alberi, ormai. Di laggiù, rivolge ancora una volta a Yotam i suoi occhi gialli. Poi, su su là in alto, quasi come un pallone che si è liberato del filo, scompare». Abbassando lo sguardo verso terra Yotam scorse una pozzanghera con all’interno una grande piuma, una piuma d’aquila, una piuma normale, grossa, fantastica. L’aveva lasciata l’aquila, forse come un dono, un grazie, ma anche come traccia di un incontro da non dimenticare, la compagnia di un ricordo che avrebbe reso lieve i passi del suo cammino, come fosse sollevato su ali d’aquila.

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

 

CONTRO VERSO
Filastrocca che stringe alla gola

 

Nicola, un bimbo di 6 anni. Entra in un negozio di abbigliamento insieme all’affidataria e si mette a tremare davanti a un mazzo di cinture appese. Ne indica una borchiata: “Pensa se papà mi picchiava con quella”. Questa filastrocca è per lui, ed è stata scritta canticchiando. Forse per quietare la paura la rabbia che non lo lasciavano in pace, neppure dopo.

Filastrocca che stringe alla gola

Laccio, cintola, cinghia,
m’hanno chiuso il cuore dentro una conchiglia.

La cinghia mi stringe alla gola
si fa buio intorno e niente mi consola

Cinghia, cintola, laccio
mi porto dentro il male, nel male che mi faccio.

Il laccio è un filo d’argento
mi affossa in un istante, ritrovo il mio tormento.

Cintura, di stoffa, di pelle
solca la mia schiena, e io conto le stelle

È solo una frusta di cuoio
tremo di paura e penso: “Adesso muoio”.

Ma è cinghia, di borchie, di sabbia,
mi scuote la tempesta, esplode la mia rabbia

Tempesta, di sabbia, di schegge
di vetro che mi taglia, di fiato che non regge

È un laccio di cuoio e catrame
non ci voglio stare dentro quel letame

Mi stringe, restringe, costringe,
e penso che l’amore si dà e non si finge

La cintola è un nastro di seta
voglio arrampicarmi sopra una cometa

Mi fionda in un cielo cobalto
prego che sia vero e punto ancora in alto

Il cielo è cintura di ghiaccio
cerco di allentarla dentro al vostro abbraccio

Gingillo con quella cintura
finché potrò scoprire che non ho più paura.

Cintura, di cuoio, più dura
non è mai finita, vedi, la paura
Resta, la ferita, senza una sutura

La questione delle botte è controversa. Cambia con le latitudini, i secoli, le culture. In Italia è reato l’abuso di mezzi di correzione, cioè l’eccesso di sberle, mentre darne una ogni tanto si può. È molto difficile quantificare quanti bambini le prendono sistematicamente dal momento che i dati non vengono rilevati. Esiste una sola ricerca nazionale ormai un po’ invecchiata (registra i dati al 31.12.2013). Impostata con basi scientifiche da Autorità Garante dell’Infanzia e dell’Adolescenza, Cismai e Terres des Hommes con la collaborazione di Istat, riporta che in Italia, su 1000 minorenni, 9,5 sono in carico ai Servizi sociali per una qualche forma di maltrattamento e, tra questi, il 6,9% proprio per maltrattamento fisico.
Sono pochi, sono tanti?
Non ha importanza.
L’importante è che siano riconosciuti, aiutati, protetti.

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia  il venerdì. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Enrico Vaime
lo spettacolo continuerà anche lassù

 

Il grande autore e pensatore istrionico Enrico Vaime ci ha lasciato, ha raggiunto il caro compagno di una vita di battaglie artistiche scomparso nel 2008 con cui aveva formato la famosa ditta artistica Terzoli & Vaime.
Vaime è stato uno dei più grandi autori radiofonici e televisivi, nonché autore di circa una trentina di libri. Fra i tanti successi radiofonici, da ricordare “Black Out”, che ci ha accompagnati ogni sabato e domenica mattina dal lontano 1979.
Eccezionale come conduttore, mai sopra le righe, mai volgare. Un signore mai noioso e sempre brillante, simpatico e con una buona dose di pungente ironia:

Io sono uno che dice sempre la verità. Anche a costo di mentire.

In questo paese di ignoranti uno che riesce a distinguere un condizionale da un congiuntivo rischia di passare per intellettuale.

Anni fa, durante un’intervista, alla domanda sul suo orientamento politico, rispose: “A sinistra, anche se la sinistra non sa ridere, è permalosa, è sempre stata così. Andreotti invece, se lo prendi in giro, ride”
Poi, alla domanda se era comunista, rispose: “Dipende. Se me lo chiede Berlusconi rispondo di sì. Se me lo chiede Bertinotti rispondo che ci devo pensare”.
Il pensiero di Vaime sulla morte lo portava a riflettere sulla poesia di Fernando Pessoa La morte è la curva della strada.

La morte è la curva della strada,
morire è solo non essere visto.
Se ascolto, sento i passi
esistere come io esisto.
La terra è fatta di cielo.
Non ha nido la menzogna.
Mai nessuno s’è smarrito.
Tutto è verità e passaggio.

La morte non è che l’ombra della vita stessa. Non si può, infatti, scindere la vita dalla morte e non si può, come scrive Pessoa, trascurare il fatto che la morte sia la curva della strada.
Italo e Enrico continueranno anche lassù a fare spettacolo!

FANTASMI
PERCHÉ I FANTASMI CI PERSEGUITANO

PERCHÉ I FANTASMI CI PERSEGUITANO

Inizia oggi, e vi terrà compagnia ogni settimana, una nuova rubrica del giornale.
Se i FANTASMI  muovono la vostra curiosità, in questa rubrica ne farete conoscenza ed esperienza. A patto che siate disposti ad aderire alle regole di ingaggio della rubrica, che sono poi gli ingredienti base della ricetta di
Periscopio: miscelare (si spera con intelligenza e un quid di arguzia) intenzioni, lingue, linguaggi, stili e generi letterari diversi, Nel caso di FANTASMI: l’Alto e il Basso, Il vicinissimo e il remoto, Il credibile e l’incredibile. il dramma e il comico, l’incubo e il risveglio. Quindi Il racconto, ma anche la notizia, la recensione, il catalogo (di spettri naturalmente), il saggio breve, Insieme alle figure: il disegno, la mappa, la foto, il fumetto. 
(I curatori della rubrica: Sergio Kraisky e Francesco Monini)

I fantasmi ci perseguitano. Le nostre ambizioni segrete, le illusioni, i fallimenti temuti e quelli vissuti, la percezione di non essere capiti e, a volte, neppure visti, la coscienza di essere scambiati per quello che non siamo, le aspettative tradite, gli amori finiti e quelli infiniti, gli amori mai dichiarati e quelli bruciati in un secondo, l’esaltazione per i  progetti futuri, quelli realizzabili come quelli del tutto velleitari, le gelosie e gli equivoci, le nostre personalità nascoste e certi vecchi ricordi, a volte più vividi della realtà presente, la nostalgia per mondi e paradisi perduti che forse non sono mai esistiti, stanno lì accanto a noi, nascosti e impalpabili, e popolano come fantasmi le nostre vite. Alla fine condizionano la nostra esistenza, le nostre scelte e i nostri comportamenti, più delle convenzioni e delle regole che governano quella che comunemente consideriamo realtà.

E poi ci sono le centinaia di miliardi di esseri umani, tutti coloro che ci hanno preceduto, che hanno abitato e forse amato questa terra più di noi. I nostri antenati, di cui si tramandano le gesta e le infamie, quelli che non abbiamo mai conosciuto, ma anche quelli che abbiamo conosciuto prima della loro morte e che probabilmente non sappiamo chi fossero davvero, il perché di tante loro gesta, vili o eroiche che fossero. Tutti costoro forse ci guardano da lontano, come le stelle che a noi sembrano brillare ogni notte e che invece sono solo il ricordo di milioni e milioni di anni fa. Senza contare gli invisibili, quegli uomini e quelle donne di cui nessuno ha registrato l’esistenza, senza data di nascita né di morte, sepolti tra le montagne, nelle periferie metropolitane, nei deserti, in fondo ai mari. Uomini in fuga o uomini in trappola, che sono e sono stati sempre e solo fantasmi, anche se rappresentano la materia prima, grezza, con la quale è stata forgiata quella che comunemente viene chiamata Storia.

Ma alla fine qualcuno, giustamente, si chiederà: che senso ha evocare tutti questi fantasmi? Forse è solo un innocuo gioco di società, piacevolmente inutile. O forse, chissà, dietro queste storie, dietro questa voglia di raccontarsi e di raccontare, si celano delle riflessioni, delle esperienze interessanti. Forse, potremmo azzardare, perfino delle lezioni di vita. Tanto alla fine importa ‘cosa’ si racconta e ‘come’ lo si racconta. Accade sempre nella vita come nella letteratura: ci sono fantasmi che lasciano il segno e altri che evaporano nel nulla. Chi prima e chi dopo. In ogni caso la conclusione è una sola: i fantasmi ci perseguitano per la semplice ragione che esistono. E perché sono tanti, molti più di noi.
(Sergio Kraisky)

Cover: Senza titolo, acquarello di Enrica Prosperi

Racconto:
La partita

 

“Francesca è bellissima.
Io ne sono innamorato dal primo giorno della prima media.
Adesso faccio la seconda, sezione E, e penso proprio di amarla. Lei ancora non lo sa, ma un giorno ci sposeremo “.
Giulio appoggiò la penna per terra, chiuse il suo diario e si consegnò sfinito ai suoi sogni
Giulio era un ragazzino che un tempo si sarebbe definito solo ‘timido’. Oggi si parlerebbe di difficoltà relazionali, bassa autostima, ansia da prestazione…

Nella classe 2E della scuola Media Tasso c’era la ragazzina più bella che avesse mai visto.
Un archetipo: capelli fluenti biondi, occhi celesti, alta e magra.
Lui invece era un poco sovrappeso, non troppo alto, ma per il resto tutto in ordine, fuorché l’interno.
Era molto, troppo… ‘sensibile’.
Tutto da Giulio era vissuto in modo molto coinvolgente. Per l’appunto… troppo.

La sua materia preferita era Italiano. Eccelleva nello scritto.
Francesca, quando si trattava di svolgere una verifica, gli chiedeva sempre di fare anche la sua traccia e Giulio in una ora riusciva a terminare entrambe le prove.
Per Francesca riusciva a fare tutto.
Anche ingannare la sua amatissima prof. di Italiano.
Andava meno bene nelle materie scientifiche, ma era in ginnastica che evidenziava le difficoltà maggiori.
Si muoveva in modo impacciato. Sempre fuori posto.
E poi si sentiva perennemente addosso gli occhi ipercritici di tutte le ragazze della scuola e in modo particolare quelli di Francesca.
Inutile aggiungere che era sistematicamente escluso da tutti i tornei a squadre organizzati dall’Istituto.
Quello che di più piaceva a Francesca era il mini torneo di palla a volo e quindi anche lui, anche Giulio, lo seguiva con grande, grandissimo interesse.
Oramai si avvicinava la finale.
Bisognava solo eliminare la 3A.
Cosa più facile a dirsi che a farsi. Infatti in quella squadra c’erano tutti giocatori delle team più blasonate della provincia.
Ma la classe 2E poteva contare su un vero e proprio campione: Sandro.
Sandro sembrava più grande della sua età. Giocava in modo formidabile. Insomna una vera promessa della palla a volo cittadina.
Sandro per Giulio era bello come un discobolo greco, forte come Ercole, astuto più di Ulisse.
Ah, Ulisse e l’Odissea!
La prof. di Italiano quindici minuti prima del termine delle lezioni leggeva sempre un capitolo di Omero.
Giulio si può dire che viveva per quel quarto d’ora.
Appena la prof. Rizzoni cominciava a leggere, ecco che l’aula si trasformava immediatamente e comparivano nella sua mente i personaggi mitici del poema.
Lui stesso si sentiva addosso la stessa frenesia dell’eroe greco di andare a svelare l’identità  del misterioso abitante dell’isola dei ciclopi, o di avvicinare la sensuale bellezza di Calipso e quella eterea di Nausicaa, o sentire sulla pelle la irrefrenabile curiosità di ascoltare il canto delle Sirene…

La partita della vita stava per iniziare.
Il prof. Lenzi aveva voluto tutti i ragazzi presenti in panchina, in tuta e pronti, se non a giocare, almeno ad incoraggiare i compagni.
Giulio era la prima volta che si trovava ad essere seduto su quella panchina.
Quando c’era l’ora di educazione fisica un malessere strano e subdolo cominciava a prendergli lo stomaco e arrivava fino alla gola, impedendogli di fare qualsiasi cosa.
Il prof. aveva compreso le difficoltà di Giulio a farsi vedere in pantaloncini corti e maglietta e aveva inventato una soluzione vincente: il fischietto.
Sì, lo aveva solennemente investito del ruolo fondamentale di arbitro in seconda.
E gli arbitri, lo sanno tutti, non scendono in campo in pantaloncini, ma in una impeccabile tuta nera.
Quel giorno, quello della partita, il prof. gli aveva chiesto un piacere personale. La epidemia influenzale aveva ridotto la presenza maschile a soli sette elementi.
Il prof. insomma aveva bisogno di lui.
E Giulio non poteva lasciare il suo prof. in mezzo ai guai.
E con grande senso del dovere si era convinto della necessità della sua presenza in panchina.
In campo mai.
Quello infatti non sarebbe stato necessario.
I compagni del sestetto base avrebbero giocato quella partita anche senza una gamba.
C’era infatti la possibilità di entrare nella storia dell’Istituto e soprattutto negli sguardi e nel cuore delle ragazze.

La partita inizia ed è un duello entusiasmante.
I compagni di Giulio, guidati da un Sandro in forma strepitosa, ribattono colpo su colpo i gesti atletici dei ragazzi più grandi della terza.
Un set per uno.
Inizia quello decisivo.
Si lotta su ogni punto e Giulio dispensa sorrisi rassicuranti alle ragazze, che dalla piccola tribuna osservano in piedi l’andamento della partita.
Undici pari. Si arriva ai quindici punti.
Batte Sandro.
L’unico a riuscire a fare la battuta come i professionisti: in corsa e dall’alto.
La mano colpisce con inaudita forza il pallone in aria, il suo corpo, dopo essersi elevato fino al cielo per la battuta, scende sulla terra e… il piede destro, appoggiandosi malamente al suolo, si piega all’interno.
Sandro cade per terra e tutta la 2E scatta in piedi, coprendosi il viso con le mani, quasi a non voler vedere il dramma che si stava consumando sotto i loro occhi.
Non c’era tempo da perdere.
Il prof. corre verso Giulio per dargli le istruzioni sulla posizione da prendere in campo

Giulio non sente assolutamente niente.
Vede solo mani alzate e visi concitati e imprecanti contro la cattiva sorte
Tutti sono intorno a lui.
Tutti sono con lui
Si toglie in fretta la tuta.
Tutta la classe scandisce il suo nome.
Giulio entra in campo come Ulisse nella sala da pranzo della sua casa contro Proci.
Giulio è Ulisse.
La battuta è  ancora della 2E.
Tocca a lui.
Giulio tende il suo braccio come fosse l’arco dell’eroe greco e colpisce la palla da sotto, con un movimento a pendolo, mentre il prof. gli urla: “Aperta Giulio!…la mano tienila aperta!”
E Giulio lo fa.
La palla si alza altissima, fino a sfiorare il soffitto.Tutto il pubblico segue con occhi sbarrati e la bocca aperta la traiettoria assolutamente eretica del pallone.
Eccola adesso arrivata nel campo avversario.
Tutti si aspettano, alta come è, che prosegua la traiettoria fino ad andare fuori campo.
E invece succede l’imponderabile.
Come guidata dalla dea Atena, la palla ferma la sua traiettoria ascendente sopra circa la metà del campo avversario e improvvisamente scende giù!
Il sestetto avversario colto di sorpresa non riesce ad intercettarla.
La palla tocca per terra.
Punto per la 2E!
Un boato liberatorio esplode nella palestra della Tasso.
Giulio, investito del favore degli dei, non si scompone e chiama la palla per la nuova battuta.
Il prof. Lenzi osserva incredulo: la 2E è in vantaggio!
Mancano solo due punti.
Adesso un silenzio assoluto e innaturale accompagna Giulio alla sua seconda battuta.
Stessa dinamica della precedente.
Gli avversari osservano il pallone salire in modo così innaturale e poi scendere improvvisamente.
Altro punto per la 2E.
Sembra che venga giù la scuola dal fracasso gioioso dei ragazzi festanti sulla tribuna.
Manca solo un punto.
Sandro si alza dalla panchina e zoppicante si avvicina a Giulio, bisbigliandogli qualcosa nell’orecchio.
Giulio fa un cenno di assenso e sorride.
Tutti si attendono il terzo pendolo.
Ma Giulio, invece di tenere la palla bassa e batterla da sotto, con un gesto fulmineo la alza in alto e la colpisce con tutta la forza in suo possesso.
La palla viaggia velocissima come la freccia dell’arco di Ulisse.
La squadra avversaria, che si era posizionata tutta nella parte centrale del loro campo di gioco, osserva la nuova traiettoria del pallone, che radente passa la rete e finisce proprio in fondo, a lambire l’angolo destro del campo.
Tutti girano la testa in direzione dell’arbitro.
Buona. La palla è dentro. Punto valido.
La 2E è in finale!
Giulio adesso vede tutti i suoi compagni correre verso di lui, sollevarlo e portarlo in mezzo al campo.
Lo fanno volare tre volte, come si fa con un campione.
Mentre è in aria cerca gli occhi di Francesca.
Li incrocia.
La vede che sorridente alza la mano per salutare il suo campione.
Giulio alza anche lui la mano e mentre è ancora in cielo restituisce felice il sorriso.

Parole a capo
X_Galli: “Sette haiku”

“L’eco è lo specchio dei suoni come lo specchio è l’eco delle immagini.”
(Andrea Emo Capodilista)

Sette haiku

1.

L’acqua si ferma
tra il viottolo e il fossato:
Crescono i giorni.

2.

Verso la mura
il susino è fiorito,
qui è ancora inverno.

3.

Il sole in casa,
questa cosa che è il corpo,
luce che trema.

4.

La fioritura assedia
i giardini del Barco:
io, qui, che aspetto.

5.

Dentro il bicchiere
l’oro della mimosa,
il tempo e l’acqua.

6.

Acqua e pioppi,
la punta di San Giorgio,
qui è il mio cuore.

7.

L’usignolo
in via Vigne, di notte
sa che non dormo.

X_Galli è una parte del suo nome. Ha trent’anni, sta in provincia di Ferrara ed è la prima volta che scrive a una rivista. Queste sono le sue prime prove poetiche in forma di haiku.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Se in tutto il mondo la Scuola facesse la Rivoluzione

 

Pare che per i discendenti di Asterix i numeri romani siano di difficile comprensione, tanto da aver indotto madame Noémie Giard, curatrice del Museo Carnavalet dedicato alla storia della città di Parigi, a trasformare Luigi XIV in Luigi 14 e Luigi XVI in Luigi 16.
Massimo Gramellini nel suo Caffè si è divertito ad ironizzarci sopra, mentre Donato Speroni, dell’ASviS, ci ha confezionato un editoriale per il Corriere della Sera in cui infodemia, crisi della scuola e della democrazia, compiono il solito auto da fè, come quando non si sa cosa dire.

Di fronte ad un’idiozia gallica subito parte il grido di allarme verso una scuola che non educa, contro l’inflazione dei social media, la denuncia dei giovani allo sbando per incapacità degli insegnanti e della scuola. Insomma, mentre la nostra vita sul pianeta si fa sempre più complessa, come ci ha spiegato l’Agenda Onu 2030, pare invece che ci si muova più facilmente nella direzione opposta, dando spazio alla semplificazione, al riduzionismo, al codice ristretto, poiché difettiamo non solo di competenze ma anche di comprendonio, passi per l’analfabetismo funzionale degli adulti, ma non può essere che i nostri giovani crescano privi degli strumenti per vivere nella complessità, per costruirsi una visione informata del futuro.

Tutto bene. Salvo che alla denuncia del problema continuano a non seguire, non dico i fatti, ma almeno le idee. Il repertorio è sempre il solito: la scuola come sfida più difficile. È un refrain che mi accompagna da quando decine di anni fa mi affacciai alla vita sociale, politica e lavorativa, per non parlare delle illusioni perdute di un militante sul campo di battaglia della scuola.
La nostra scarsa educazione civica riguardo ai problemi dell’istruzione ci accomuna al resto del mondo. I sistemi scolastici del pianeta funzionano tutti grosso modo alla stessa maniera, salvo per le diverse visioni dell’esistenza che sono ad essi sottese.

Mai però come oggi abbiamo bisogno di studiare, di combattere la povertà educativa, di rivendicare il diritto allo studio, studiare, studiare e ancora studiare. Impegnare cervello, intelligenza e fatica nello studio, non come coercizione ma come passione, come liberazione, piacere e avventura, come diritto a percorrere i curricula con la soddisfazione di ricostruire il sapere, di ripercorrere i percorsi che hanno portato l’umanità alla loro conquista, come orizzonti e prospettive su cui gettare lo sguardo. Godere della sorpresa, della scoperta, delle intuizioni e delle immaginazioni, delle emozioni che possono dare senso al nostro progetto di vita, alla nostra realizzazione, al nostro star bene con noi e tra noi.

L’ho scritto altre volte la felicità non fa parte dei nostri programmi scolastici, ma gli economisti, quelli umanisti, hanno scoperto che ciò che conta non è il PIL, ma la felicità. Parola terribile per le sette di flagellanti, la felicità non è di questa terra, eccetera, eccetera. Tranquilli, non felicità come piacere alla Epicuro o alla Bentham. No, più semplicemente come la felicitas dei latini, con la radice feo-, che a sua volta deriva dal greco phyo-, che significa ‘generare’, ‘far crescere’. Ecco il senso della felicità, e chi dovrebbe ‘generare’ e ‘far crescere’ se non tutti i sistemi formativi del mondo? A partire dai nidi e dalle scuole d’infanzia per bambine e bambini, diffusi ovunque perché è da zero a sei anni che si impara ad apprendere, che si può familiarizzare con il desiderio di sapere, che si può nutrire il piacere della curiosità per ciò che ancora non si conosce.

Non è che ci vogliono tante cose per essere felici, ma una di queste, imprescindibile, è il sapere.
Se i sistemi scolastici di tutto il mondo dovessero fare una rivoluzione tutti assieme, dovrebbero iniziare con il chiudere i loro silos scolastici, dove hanno ammassato generazioni di bambine e bambini, di ragazze e di ragazzi per formare cittadini di cittadinanze che non esistono più, per preparare forza lavoro per mercati di lavoro che non ci sono. Servire invece il compito di far crescere generazioni che respirino a ‘piena mente’ l’apprendimento come il loro principale nutrimento fin dalla nascita, per se stesse e per i loro futuri.

Ethos, pathos e logos tornino ad invadere i luoghi dove si studia, si insegna, si impara e si apprende, c’è l’ha insegnato Aristotele che senza ethos, pathos e logos gli apprendimenti non sostano, non si aggrappano alle nostre vite. Chiudiamo gli obitori del sapere e apriamo la scuola al mondo, all’emozione di apprendere, alla passione per la ricerca, all’infaticabile rincorsa di competenze e saperi, di comprensioni e dilemmi, quesiti e problemi, alla gioiosa fatica che comporta studiare.

Poco più di dieci anni fa Zygmunt Bauman, nelle sue 44 lettere dal mondo liquido, scriveva: “Ciò di cui invece c’è bisogno sono idee insolite diverse da tutte le altre, progetti eccezionali che nessuno ha mai suggerito prima…”
Questa è la sfida, non ce ne sono altre, resta ancora in attesa di essere colta, sempre che l’analfabetismo funzionale non riguardi anche il futuro dell’istruzione e delle nostre scuole.

Per leggere gli altri articoli di La città della conoscenza, la rubrica di Giovanni Fioravanti, clicca [Qui]

Incontro intervista con Hazal Koyuncuer e le donne del villaggio curdo Jinwar

 

Avevamo già preso ii biglietti, deciso l’itinerario, valutato i punti critici alle varie frontiere. Dovevo partire anch’io per il Rojava e raggiungere il villaggio autogestito di Jinwar. Hazal Koyuncuer, la nostra guida, era moderatamente ottimista: “la guerra adesso sembra essere in pausa, riprenderà verso l’estate”. Poi è arrivata la pandemia e tutto quello che sapete. Ma del popolo curdo, della gloriosa lotta contro l’Isis (perché sono i Curdi, da soli, ad averlo sconfitto sul campo), della sua esperienza rivoluzionaria di una democrazia governata dal basso e di una radicale uguaglianza di genere, non possiamo dimenticarci. Il webinar partecipato organizzato da Macondo è un appuntamento da non perdere. E il viaggio? Beh, quello è soltanto rimandato. Deve passare la nottata.
(Francesco Monini)

Macondo incontra

Martedì 30 marzo 2021 – dalle ore 20:30 alle 22:00
Webinar – Incontro partecipato: per collegarsi all’evento in diretta su Zoom clicca [Qui]

«Jinwar, nella regione del Rojava (nord della Siria): un villaggio di donne curde che è punto di aggregazione sociale e politica di donne e bambini, per un cammino di libertà, uguaglianza e giustizia»
Introduzione:             Donatella Ianelli – avvocato penalista, Bologna
Relatrice:                   Hazal Koyuncuer – portavoce della comunità curda di Milano
Interventi:                  In collegamento dal Rojava testimonianze di donne curde
Moderatrice:              Monica Lazzaretto Miola – componente la segreteria nazionale di Macondo
Al termine:                interventi dei partecipanti

Hazal Koyuncer – portavoce della comunità curda di Milano

Dalla introduzione di Donatella Iannelli

Ho conosciuto Hazal Koyuncuer a Bologna, era arrivata per una manifestazione a sostegno del popolo curdo. Era il 2019, allora  ci si poteva ancora incontrare…Macondo* mi aveva chiesto di prendere contatti con lei in previsione della festa nazionale dell’associazione Macondo appunto, la festa dell’anno successivo, intorno a maggio 2020 si era detto. Avrebbe potuto partecipare e portarci l’esperienza curda del Rojava.

Hazal, insieme ad Ylmaz Orkan, sono i portavoci della comunità del Rojava in Italia. Nel primo incontro abbiamo fatto una chiacchierata di una mezz’ora.
Intanto avevo bisogno di collocare geograficamente il Rojava. Si tratta di  una regione del nord est della Siria, abitata da varie etnie – curdi, turcomanni, arabi, ebrei, armeni, caldei, ceceni, assiri ed altri – che, nel pieno dell’insurrezione siriana e immediatamente dopo, in lotta contro l’invasione delle truppe del Daeshl’ISIS–  sottoscrivono un patto di autogoverno denominato ‘Contratto Sociale del Rojava’:

La resistenza curda del Rojava e della Siria del Nord

“Con  l’intento  di  perseguire  libertà,  giustizia,  dignità  e  democrazia,  nel  rispetto  del  principio  di  uguaglianza  e  nella ricerca di un equilibrio ecologico (…)  un  nuovo  contratto  sociale,  basato  sulla  reciproca  comprensione  e  la  pacifica  convivenza fra  tutti  gli  strati  della  società, nel rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali,  riaffermando  il  principio  di  autodeterminazione  dei popoli (…) in uno spirito di riconciliazione, pluralismo e partecipazione democratica, per garantire a tutti di esercitare  la  propria  libertà  di  espressione (…) costruendo  una  società  libera dall’autoritarismo, dal  militarismo, dal  centralismo (…) si  proclama  un  sistema  politico  e  un’amministrazione  civile  fondata  su  un  contratto  sociale  che possa riconciliare il ricco mosaico di popoli della Siria attraverso  una  fase  di  transizione  che  consenta  di  uscire  da  dittatura,  guerra  civile  e  distruzione,  verso  una  nuova  società democratica in cui siano protette la convivenza e la giustizia sociale.”

Questo primo incontro mi ha fatto venire voglia di conoscere ancora di più questa realtà. Si è aperto un dialogo ed una conoscenza. Sino a parlare di Jinwar un  nome  che è un gioco di parole tra “JIN”, che in curdo vuol dire sia donna che vita, e “WAR”, che invece indica il doppio concetto di luogo e di casa.

Jinwar è un villaggio di donne e bambini centrato sulla liberazione delle donne. Dall’inizio del processo di costruzione iniziato il 25 novembre 2016 – nella giornata internazionale contro la violenza sulle donne – quando è stata messa la prima pietra, fino ad oggi siamo stati in grado di costruire il villaggio con la forza e la creatività di molte donne” – mi dice Hazal
“Come parte del villaggio abbiamo costruito 30 case, una scuola per bambini, una università, una panetteria, un negozio, luoghi per animali, un giardino e intorno al villaggio ci sono dei campi. Viviamo in comunità, in sintonia con i concetti di società ecologica e democratica”.

Mi spiega che un punto importante di Jinwar è che le donne si auto organizzano e sviluppano in autonomia tutti i campi della vita. In quel momento stavano aprendo la loro unica clinica che si chiama Şîfa Jin, su quello stanno concentrando le loro forze.

Cosa significa Şîfajin? Le chiedo

“La cura della donna” mi dice “integriamo la medicina convenzionale e naturale. I nostri obiettivi sono dedicare attenzione sanitaria alle donne di Jinwar e dei 50 villaggi circostanti, preparare le nostre medicine naturali, educare le donne alla salute attraverso seminari e formazioni più a lungo termine e fare ricerche sulla medicina locale e anche sulla condizione sanitaria delle donne nella zona”

Qual è la situazione attuale di Şîfajin?

“Abbiamo aperto la clinica il 4 marzo del 2019 con poche risorse, ma nonostante le carenze e le limitazivillaggiooni stabilite a causa del CoronaVirus, la nostra clinica rimane aperta giornalmente erogando servizi a molte donne e bambini. La cosa più importante del nostro lavoro è prendersi cura delle donne e dei bambini poiché la situazione della loro salute è critica.  Stiamo prestando assistenza medica e supporto mentre prendiamo le misure appropriate contro CoronaVirus e realizziamo informazione su questo problema. Vogliamo dotare la clinica di un ambulatorio per il medico, uno per l’ostetrica, uno per il ricevimento e un altro  per la medicina naturale. Non possono mancare  un laboratorio, una farmacia e un’ambulanza. Per questo abbiamo bisogno di una decina di persone che ci lavorino. In questo momento abbiamo una medico, un’infermiera, un’addetta alla reception, una specialista in medicina naturale con assistente e una addetta alle pulizie, e tutte lavorano senza ricevere alcun compenso”.

Tutto questo, il villaggio Jinwar, la clinica Şîfajin, sono parte del Rojava, questa nuova esperienza di autonomia governativa che il popolo curdo, tra mille difficoltà, ha costruito e realizzato anche durante il riacutizzarsi degli attacchi ISIS.
L’ Associazione Macondo ha appoggiato questa nuova esperienza di vita, dove tane persone diverse si raccolgono con un obiettivo comune, di pace libertà e democrazia

Mi colpivano molto le foto delle donne militarizzate e combattenti contro l’ISIS: nonostante la durezza e la difficoltà che le aveva visto protagoniste sembravano serene nella loro difesa quotidiana del territorio e del progetto di vita, non solo del loro. Non si può dimenticare che nessuno si salva da solo e il benessere del mondo è il benessere di noi tutti.

Se non sei riuscito a partecipare alla diretta, guarda e ascolta la registrazione dell’incontro con Hazal Koyuncuer e le donne curde del villaggio Jinwar sul sito dell’Associazione Macondo: clicca [Qui]

RUBENS GIOCAVA A PALLONE
In anteprima alcune pagine del primo romanzo di Stefano Muroni

 

Arriva oggi in tutte le librerie (reali e virtuali) il primo romanzo del nostro Stefano Muroni, fresco di stampa per i tipi di Pendragon. E’ un grande piacere anticipare per i lettori di Ferraraitalia alcune pagine del volume. Un  grazie a Stefano per aver pensato a noi.
(La redazione)

II

Pensare che di lui non ci sia rimasto più niente, questo fa male.

Né una camicia, un paio di pantaloni, o il barattolo della brillantina che adoperava ogni mattina per prepararsi. Né una lettera scritta prima della fine di tutto. Anche una foto in più – a parte quelle in posa, di rito, prima di ogni battaglia – per vederlo in altre situazioni: che so, quando era in campagna da bambino, o la prima comunione, oppure quando divenne operaio alla Ceretti, o una foto con gli amici, quando già guadagnava bene. Non una cintura, una pacchetto di sigarette. Neanche la casacca del Tresigallo Calcio che usava durante gli ultimi allenamenti in bonifica, nei freddi mesi del 1944, quando era ritornato al Cimabue per scampare dai bombardamenti su Milano.

Un suo pensiero di vita, un suo concetto, un suo modo di dire.

Nemmeno una registrazione della sua voce è rimasta.

È scomparso tutto – di lui non resta niente – e nemmeno ce ne siamo accorti. Forse un parente da qualche parte nel Nord Italia ancora c’è rimasto.

D’altronde aveva una sorella e molti fratelli. Questi certamente avranno vissuto più a lungo, avranno portato più avanti il loro filò su questa terra, magari innamorandosi di qualche brava ragazza o giovane signorino, dando vita a qualche figlio, tirando su famiglia e lavorando sodo in qualche fabbrichetta di Milano – perché alla fine i Fadini hanno sempre bazzicato Milano e dintorni, mai Torino. E chissà se a quei figli – i nipoti di quel sognatore – avranno raccontato tutta la storia, da cima a fondo.

Dal paese di origine al tesoro scoperto dal nonno. Da quella ricchezza improvvisa fino alla miseria più nera, che costrinse il vecchio Angelo, suo padre, a trasferirsi in bonifica, per cercare un posto qua e là, fra una corte e l’altra, a qualsiasi prezzo e a qualsiasi condizione, pur di racimolare qualcosa a fine giornata, e garantire un pasto caldo alla moglie, alla sorella, e a quei sei figli che, fra il 1918 e il 1927, avevano fatto la loro comparsa in questo mondo marcio. Senza contare Nelly.

Certamente in bonifica non c’è rimasto più nessuno. Non solo di loro, dei Fadini, ma anche di tutti gli oltre mille e cinquecento indigeni che lì avevano fatto la ricchezza della Società bonifiche terreni ferraresi, la sBTF, che da fine Ottocento, in queste zone dimenticate dell’universo, aveva prodotto sviluppo e prosperità, sulle spalle dei contadini e su quelle delle donne, che qui restavano per quasi tutto l’anno disoccupate.

Eravamo agli inizi del secolo, eppure da quelle parti c’era la schiavitù più nera, quella seria, quella dei faraoni, nemmeno quella del caporalato. E dai primi giorni in cui la famiglia dal Veneto si trasferì nel Basso Ferrarese, zona di bonifica, non è passata notte in cui zia Jole non avesse versato qualche lacrima nella stanzetta che stava sopra, al primo piano dalla parte che si affacciava sulla campagna, dove i tecnici avrebbero poi speri- mentato le prime risaie. E anche la moglie di Angelo, che aveva smesso di parlare – rimase in silenzio per quaranta giorni – non riusciva a crederci, a darsi pace.

«Questo è l’inferno» mugugnava la notte, a bassissima voce, ripensando a quanto stavano bene lassù, oltre Po, a Casa Leone, tra la loro gente.

Ma le cose non sono fatte per restare. Di questi sentimenti, di questi spostamenti tra un villaggio e un altro, a oggi non resta altro che qualche carta ingiallita in qualche Comune o anagrafe della Bassa Padana. E quando vai a fare ricerca verso Arcore – perché lì il ragazzo è sepolto – trovi degli omonimi, gente che ha il suo cognome, ma che non c’entra nulla con la sua razza. Sono tutti milanesi da generazioni, mentre lui era ferrarese, di padre veneto e di nonno mantovano. Pure

sua mamma, l’Annetta, era veneta, di Melara, provincia di Rovigo.

Se è vero che di lui nessuna cosa è restata – nemmeno i suoi calzoncini, o uno straccio di cravatta che aveva iniziato a mettersi per le foto dei giornali – è pur vero che, anche se è morto da settant’anni, di lui ancora si parla.

Anteprima da: Stefano Muroni, Rubens giocava a pallone, Pendragon, 2021, Capitolo II, pp. 19/21

CAMPIONE PER SEMPRE
Nel romanzo di Stefano Muroni, la storia del giovane Rubens Fadini, vittima a Superga

 

La maglia granata numero sei. I polpacci muscolosi, più imponenti delle spalle. Lontano sullo sfondo, quasi fosse una visione, appare Superga: il sogno di un bambino, la sua meta, la sua morte; ma al tempo stesso la sua immortalità. L’istante eterno della vita.

Illustrata dall’arte di Rosanna Mezzanotte[1], la copertina di Rubens giocava a pallone, edizioni Pendragon, è sintesi limpida del romanzo che Stefano Muroni ha dedicato alla «vittima più giovane della più grande tragedia sportiva italiana»: Rubens Fadini, nato nel 1927 a Jolanda di Savoia, in provincia di Ferrara, e morto in un tragico volo. «Il 4 maggio del 1949, il Grande Torino, la squadra di calcio più forte del mondo, tornava da Lisbona dopo aver partecipato ad un’amichevole contro il Benfica. La nebbia, la stanchezza, forse un errore umano, portano l’aereo a schiantarsi contro la collina di Superga, alle porte di Torino».

La tragedia di Superga sconvolse tutti. Impossibile restare indifferenti; inaccettabile l’idea che quei ragazzi, nel pieno della forma fisica, potessero all’improvviso scomparire nel cielo sopra Torino, la città che li aveva appena battezzati promesse del calcio: sfracellarsi e dissolversi insieme al sogno del Grande Torino, ma soprattutto delle loro giovani vite.

Ma l’autore sa recuperare i brandelli di quello schianto crudele, restituendoci una storia personale: ci fa sentire la carne e il cuore del giovane Rubens, «la vita di un campione dimenticato, la cui breve parabola ha il respiro dell’epopea e la magia di una leggenda».
Ventuno capitoli, uno per ciascuno degli anni del giovane Rubens. Per raccontare un’infanzia sofferta sulla pelle, la caparbietà di un giovane uomo che resiste alla violenza per difendere il suo sogno: «Da grande avrebbe voluto fare il calciatore». E l’autore si specchia in quel sentimento tenace, in «quella straordinaria sensazione di sentirsi alla pari con se stessi, in una vita che ti voleva sempre in debito».

Un pallone di cuoio, il campo di calcio dietro la scuola, la vita spietata nei territori della Grande Bonifica; e sullo sfondo la storia maiuscola: il Fascismo, la guerra. Radici e cielo.
Da una stella cadente intravista in una notte di dolore, alla realizzazione del sogno che consacra Fadini astro nascente del calcio. Il settimo capitolo – cruciale nella narrazione – commuove e fa rabbrividire. Uno stile diretto, tinte forti, un espressionismo della parola che suscita emozioni profonde. E non manca mai il tocco poetico dell’autore, il segno che sa restituire un senso, che sublima anche la sofferenza. Tutto torna: nella rotondità di quel pallone di cuoio, la vita di Rubens si compie come un cerchio, affermandolo «campione per sempre».

Una storia unica. Un romanzo d’esordio avvincente per Stefano Muroni, già autore di due applauditi volumi: Tresigallo città di fondazione. Edmondo Rossoni e la storia di un sogno (Pendragon, 2015) e Dall’alto della pianura. Storie perdute di amore e di follia (Pendragon, 2017).

La copertina del romanzo

Una vicenda che, come nei libri precedenti, si nutre nella storia dei suoi nonni e dei suoi bisnonni, dai racconti tramandati di generazione in generazione. ‘Fole’ e leggende che l’autore ha ascoltato con occhi scintillanti e avidi di curiosità. Cresciuto in una realtà di Provincia, Stefano Muroni è legato visceralmente alla storia della sua Terra, alle sue meravigliose corrispondenze con l’infinito: «Dalle nostri parti si dice che per il 2 novembre i morti ritornino a dormire nei loro letti[2]».
Da qui arriva l’ispirazione di Rubens giocava a pallone: «A volte le storie stanno nel vento, nel frastuono degli uragani di giugno, nelle nebbie dense di novembre, nella leggerezza delle spighe di grano, nei canti lontani che non ci sono più, nel silenzio della campagna. Basta solo saper ascoltare».

Basta solo saper ascoltare.

Note
[1] Tra le tante collaborazioni, R. Mezzanotte è illustratrice del video Jenny è pazza di Vasco Rossi
[2] Incipit del romanzo

Qualche pagina in anteprima del romanzo di Stefano Muroni è stata pubblicata da Ferraraitalia. Per leggerla clicca [Qui]   

Cover: Formazione Torino FC, conosciuta come Grande Torino1948-49, cartolina per i tifosi (Wikimedia Commons) 

Lo spartiacque del Partito Democratico

Genealogia di una catastrofe è il titolo di un articolo che Massimo Cacciari ha scritto per L’Espresso (14 marzo 2021), sulle ultime vicende che hanno coinvolto, o travolto, il Partito democratico. La riflessione non va certo presa come oro colato, eppure non sarebbe male soffermarsi su quelle parole perché – da semplice lettore, sia chiaro – hanno il merito di andare diritto al cuore delle questioni.

Punto primo: le dimissioni del segretario nazionale Nicola Zingaretti (5 marzo, annunciate il giorno prima su Facebook). È stato detto e scritto che non è stata un’uscita di scena come tante altre, perché non era mai successo che un segretario se ne andasse, praticamente sbattendo la porta, dicendo di vergognarsi di un partito i cui dirigenti, in sostanza, s’interessano solo, o quasi, di conservare le proprie poltrone. Uno “spartiacque” l’ha definito Cacciari perché, piaccia o non piaccia, o è arrivato il momento dei titoli di coda, oppure nella palla del Pd c’è ancora aria e allora, toccato il fondo, può ancora rimbalzare.

Nel febbraio 2020 Gianni Cuperlo presentò a Ferrara il suo libro intitolato Un’anima e in quella circostanza disse: “se sbagli analisi sbagli la politica”. L’analisi sembra proprio la stessa cosa invocata dal filosofo veneziano, perché il gruppo dirigente Pd possa “ragionare con tutta l’onestà richiesta dalla catastrofica situazione sulle ragioni che a questa hanno condotto”.

La riflessione critica e autocritica, e siamo al punto due, si spinge fino a sostenere che il Pd non sia mai nato “perché nulla – scrive – può nascere da energie esaurite”. Cosa vogliano dire queste parole è spiegato nelle righe che seguono. Il mondo inaugurato dal crollo del Muro di Berlino ha finito per mettere fuori gioco le due culture politiche che s’incontrano, in una sorta di fusione a freddo (è stato detto), nel Partito democratico. È spiazzata la via del welfare socialdemocratico, del compromesso tra capitale e lavoro: spesa pubblica in cambio di consenso.

Globalizzazione, produzione, finanza e rimescolamento della composizione sociale, sentenziano che non è più praticabile la via del crescente indebitamento, perché non ha più lo sbocco keynesiano e, come previsto da Habermas già negli anni ’70, il capitalismo maturo sarebbe andato incontro a una crisi di legittimazione.

“Questo produce – scrive Cacciari – l’autentica bancarotta generazionale. La montagna del debito chiaramente inestinguibile – continua –  produce un vero e proprio asservimento delle generazioni future, una loro universale dipendenza dall’impersonale Mercato”. Il modello ‘tassa e spendi, brandito anche dalle destre non senza interessate semplificazioni, non regge più.

Ma è spiazzata anche la strada che l’ex sindaco di Venezia definisce del “moroteismo postumo”, non solo per l’esito traumatico nel 1978 della figura chiave di quel disegno, per mano di regie che pare sempre più appropriato storicamente declinare al plurale.

Si potrebbe, infatti, aggiungere che alle spalle dei Beniamino Andreatta, Leopoldo Elia, Roberto Ruffilli, Pietro Scoppola, Persanti Mattarella (per citarne alcuni), sia stata progressivamente prosciugata la sorgente del cattolicesimo democratico, ossia l’affluente pre-politico che, sulla scorta di rigorose analisi sul rapporto fede-storia, aveva intravisto un legame fecondo tra democrazia compiuta e concilio (la dico così), il cui disegno, però, non si è trovato funzionale alla Chiesa di Wojtyla, Ratzinger e Ruini.

Vero è che all’impreparazione di una parte si aggiunge, quasi aritmeticamente, quella che Cacciari chiama degli “alfieri di una prospettiva liberal-liberista, del tutto subalterna alle ideologie vincenti intorno alle meravigliose e progressive sorti della globalizzazione economico-finanziaria”. Il risultato è la detronizzazione della politica, sempre più ancella di altri poteri sottratti a ogni controllo democratico e arbitrari. Un’erosione inarrestabile e fatale della capacità di governo, che si traduce in una montante ed equivoca nostalgia di decisione.

Dunque, una generale perdita della capacità di lettura dei cambiamenti d’epoca delle culture politiche tradizionali e peraltro non solo dentro i confini nazionali, dal momento che all’orizzonte non si vedono tutti questi fenomeni. Fatto sta che nel solco progressista si continua a ondeggiare tra la riproposizione di assistenzialismi in deficit da una parte e di austerità moderate e più o meno solidali, dall’altra. Così – o per via elettorale, o più spesso per il senso di responsabilità – si consumano risorse ingenti per salvare il salvabile, in un contingente che toglie il respiro e, alla fine, il consenso.

Eppure ci sarebbero dei banchi di prova, sui quali il Pd, se c’è ancora aria, potrebbe rimbalzare.

Il primo, secondo Cacciari la riforma delle riforme, è lo Stato. Se le risorse per ripartire non possono essere quelle di continui incrementi del prelievo fiscale, allora bisogna mettere mano alla struttura istituzionale, burocratica e amministrativa. A partire da un esame di coscienza che a sinistra prima o poi occorrerà fare su riforme istituzionali, costituzionali, le Province, Aree vaste e materie concorrenti tra livelli istituzionali, che sono fonte di contenziosi e tensioni, come quelle sotto gli occhi di tutti in tempo pandemico.

La riforma della pubblica amministrazione è fra le condizioni contenute nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) e deve far riflettere che le linee guida del governo Draghi portino la firma del ministro Renato Brunetta, lo stesso che anni fa, al netto di tutte le condizioni storiche che si vuole, vedeva i dipendenti pubblici come fannulloni. Ed è singolare, pure, che quelle linee guida abbiano avuto da subito il placet della triade sindacale, compresa la Cgil di Maurizio Landini.
Da tempo, in terreno normativo, si assiste con impotenza alla diritta via smarrita dei testi unici e ad un autentico nubifragio legislativo ben oltre il limite stesso della leggibilità, come sta denunciando – mi pare inascoltato – Sabino Cassese. Non si tratta solo di sprechi – ricorda Cacciari – “ma di una situazione che impedisce, blocca e frena ogni nuova impresa, ogni investimento”.

C’è poi il tema giustizia. Per chi abbia letto il libro Il Sistema di Luca Palamara intervistato da Alessandro Sallusti, i casi sono due. O c’è qualcuno che, carte alla mano, è in grado di smentire che quel sistema esista, altrimenti è difficile che la sinistra possa chiamarsi fuori da un problema che mina dalle fondamenta il principio di indipendenza della magistratura, secondo il modello di bocca della legge.

Ci sarebbe anche il banco di prova della scuola. Basta ascoltare i racconti degli insegnanti, per rendersi conto che la scuola pubblica italiana sta regredendo rovinosamente da luogo di cultura, istruzione e apprendimento, a semplice ammortizzatore sociale. Anche in questo caso, siamo così sicuri che a sinistra nessuno arrossisca, pensando al diluvio di pedagogia, psicologia, docimologia, burocrazia e ambiti di competenze, piovuto nelle aule da troppi decenni a questa parte?

La conclusione dell’ex sindaco di Venezia è severa: “Senza una visione di riforma che abbia questa ampiezza, non può riprendersi la sinistra italiana, né il Pd”. È questa la genealogia che dovrebbe essere messa sotto i fari dell’analisi, come direbbe Cuperlo, per non continuare a sbagliare politica.

La chiamata di Enrico Letta alla guida del partito è la scelta di un galantuomo e competente, segno in netta controtendenza nel panorama politico nostrano, e il fatto che nel suo primo discorso abbia detto: “non vi serve un nuovo segretario, ma un nuovo Pd”, è sembrato un segno importante in questa direzione.
Ciò non toglie che il lavoro da fare, a occhio e croce, pare essere davvero tanto e solo il tempo dirà se nel Pd c’è ancora aria per rimbalzare.

In copertina: elaborazione grafica di Carlo Tassi

RACCONTO
Gli occhi dei sapienti

 

La nebbia ristagnava nelle strade e nei vicoli deserti. Tra le costruzioni di pietra dai tetti di tegole rosse si aggirava una giovane donna: camminava con gli occhi alzati al cielo, come se conoscesse a memoria il suo cammino, e con le mani teneva i seni sollevati verso l’alto. Dentro la veste trasparente i suoi fianchi eseguivano movenze lente e regolari descrivendo una serie di linee uniformi, senza interruzioni o angoli bruschi. Un lento snodarsi delle membra lungo il perimetro di un’armonia invisibile, una bellezza velata solo dalla nebbia. Sembrava dovesse camminare per l’eternità.

Un gatto grigio correva lungo le mura del paese e miagolava in preda a una inspiegabile eccitazione giovanile. Non aveva l’aria del felino a caccia di prede, piuttosto sembrava celebrare un rito festoso. Le sue narici aspiravano la nebbia.

Poi, in pochi minuti, la notte si dissolse.
E’ quasi l’alba e già metà del cielo si copre di chiarore, ma nell’antico palazzo le finestre sono ancora illuminate dai lampadari. Nel salone centrale sono riuniti da una settimana i più grandi sapienti della terra, vecchi dai capelli bianchi, due donne anziane e tre uomini più giovani seduti pensosi intorno a un grande tavolo di quercia. Non sono venuti a capo del Problema: nel corso di una settimana hanno proposte migliaia di nuove idee, hanno riassunto milioni di pagine, hanno enunciato migliaia di verità e altrettante opposte certezze. Adesso sono sfiniti. Manca l’uscita dal labirinto, manca il nesso tra queste infinite verità: resta il Problema.

Il tempo a disposizione è scaduto, fra poco sarà giorno e i popoli non sono più disposti ad attendere. Il Presidente, uno dei più anziani, si alza in piedi e pronuncia il tanto temuto discorso di abdicazione:
“Signori – declama con aria grave, la fronte solcata da una profonda ruga verticale – il nostro compito si è esaurito. Le parole da voi pronunciate in questi giorni di lavoro appassionante resteranno per sempre nella memoria della Storia, ammesso che in futuro si conservi questa facoltà. Ma bisogna farsi coraggio: non siamo stati all’altezza del compito, anche se ci siamo impegnati al limite delle nostre forze. Non abbiamo nulla da rimproverarci, però so bene che non sarà questo a risarcirci della delusione. Anche se il tempo a nostra disposizione fosse stato di un mese e non di una settimana il risultato non sarebbe cambiato, questo ormai è chiaro: non siamo stati e non siamo in grado di risolvere il Problema.
Le nostre conoscenze, il nostro intuito, la nostra immaginazione, per quanto vasti e vividi, hanno avuto come risultato solo frammenti di verità, ipotesi infondate e intuizioni vaghe. Tutti i tentativi di spiegazione e soluzione globale del Problema si sono rivelati fallaci. Sospettavamo che simili soluzioni non esistevano, che si trattava di chimere, ma avevamo il dovere di tentare. Non per presunzione – spero che in futuro le nostre vere intenzioni non verranno fraintese – ma perché agli uomini tutti era necessaria questa soluzione. Un solo risultato abbiamo ottenuto, un risultato che finora nessuna comunità scientifica o accademica aveva mai raggiunto: abbiamo ragionato ascoltando le idee degli altri senza mai accapigliarci o cercando di prevalere con la prepotenza o i sofismi sulle opinioni altrui. Già questo è un successo sovrumano. Ma naturalmente non basta a risolvere il Problema. Possiamo dire che abbiamo agito per il bene dell’umanità, ma abbiamo fallito: la soluzione del Problema richiedeva altri uomini, uomini che probabilmente non esistono.
Signori, con dolore rassegno le mie dimissioni e mi assumo tutte le responsabilità del fallimento. Sono pronto a pagare il prezzo dovuto e nella mia veste di Presidente darò inizio al sacrificio.”

Appena pronunciate queste parole il vecchio sollevò le mani all’altezza del viso e con un solo, debole gemito si strappò dalle orbite i grandi occhi celesti. In un silenzio solenne li depone sul grande tavolo di quercia. La dignità e la calma con cui compie il rito ultimo, l’estremo gesto di rinuncia e di umiltà, contengono un invito, un obbligo morale al quale nessuno può sottrarsi. Tutti i presenti, in ordine di età, dal più anziano al più giovane, seguono il coraggioso esempio. Alcuni, i più deboli, sono scossi da brividi e singulti di pianto, ma non le due donne: si sottopongono al sacrificio con la stessa composta dignità del Presidente.

Dal tavolo di quercia occhi attoniti, tra lacrime e rivoli di sangue, osservano le orbite vuote che un tempo li ospitavano. Alla fine del sacrificio il Presidente raccoglie gli occhi con gesti incerti da cieco e li lega intorno a un filo di nailon fino a formare una collana. Poi la solleva e se la fa passare dietro la nuca: il rito è compiuto, adesso la collana è appesa al collo del Presidente. Sui volti dei presenti si può leggere adesso un’espressione di sollievo, come se fossero felici di essersi liberati di un grande peso.

Si prendono per mano fino a formare un cerchio e barcollando scendono le scale per raggiungere il portone che si affaccia sulla strada principale del paese. Al sorgere del sole escono dal palazzo ancora illuminato – qualcuno ha dimenticato di chiudere l’interruttore della luce che ora illumina il salone deserto – gesticolando goffamente, inciampando sulle proprie gambe e su quelle altrui. Poi timidamente sorridono e poco per volta cominciano a ridere, in modo sommesso prima e poi rumorosamente, come una comitiva di ubriachi. Tenendosi sempre per mano proseguono nel loro girotondo e si allontanano per le vie deserte, seguiti dal gatto grigio che continua a scorrazzare per le strade e a miagolare.

Dall’alto un falco pellegrino comparso all’improvviso li tiene d’occhio e volteggia sulle loro teste. Forse è attratto dalla collana del Presidente. La giovane donna prosegue il suo cammino danzando nella nebbia col viso rivolto al cielo.
Ma qualcuno si aggira furtivo tra i vicoli e gli angoli delle case di pietra: è uno dei sapienti, il più giovane, l’ultimo. Nessuno poteva più vederlo e lui, più furbo degli altri, ha deciso di non sacrificare i suoi occhi. Adesso con i capelli neri scompigliati, lacero come un vagabondo fugge da tutti, sospettoso, perseguitato dal rimorso di Giuda, dal timore della vendetta e da un’idea che lui solo conosce. Un’idea che non potrà raccontare a nessuno perché nessuno gli crederà.

banche

Fusioni tra banche e “Fusione” dei bancari:
trova le differenze

In questi mesi e nei prossimi assisteremo in Italia ad un tumultuoso succedersi di fusioni e acquisizioni bancarie. Esse hanno tutte lo scopo dichiarato di rafforzare i valori patrimoniali degli istituti, di migliorare il margine operativo lordo, di ottimizzare il rapporto tra utile netto e mezzi propri. Una impresa che incrementa il proprio patrimonio, che produce un risultato operativo in utile, che accresce la propria quota di mercato è il sogno di chiunque in quella impresa ha messo soldi, ed è anche un presupposto necessario (almeno sul medio-lungo periodo) affinché quell’impresa possa essere dichiarata profittevole, visto che le imprese (quelle bancarie in particolare) hanno tra i propri scopi istituzionali la creazione di valore per i soci – nemmeno le banche “etiche” fanno eccezione, sotto questo profilo. Milton Friedman, economista divenuto consigliere di Reagan, affermò nel 1970 che “lo scopo principale di un’impresa è quello di massimizzare i profitti per i suoi azionisti” . Due anni dopo, disse testualmente: “i grandi dirigenti, all’interno della legge, hanno responsabilità nei loro affari al di fuori di fare il più possibile soldi per i loro azionisti? E la mia risposta a questa domanda è: no, non ne hanno”.

Molti economisti venuti dopo Friedman hanno criticato questa visione, affermando che i portatori di interessi di un’azienda sono molti di più, e addirittura alcuni di essi si pongono al di fuori dell’azienda stessa: da queste considerazioni ha preso le mosse l’affermazione del concetto di “responsabilità sociale” dell’impresa. Responsabilità nei confronti dei propri dipendenti, dei propri clienti, ma anche dei cittadini, dei territori, dell’ambiente. L’ Unione Europea definisce la Responsabilità Sociale d’Impresa come la “integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”. E’ possibile affermare che l’impresa bancaria assolve a questa responsabilità sociale finanziando, ad esempio, qualche iniziativa economica di riconversione energetica, o di sviluppo di energie alternative? Non è forse vero che il primo agglomerato sociale direttamente correlato all’impresa è quello della sua società “interna”, costituita dai suoi dipendenti e dai suoi clienti, siano essi risparmiatori o prenditori di danaro? Non è forse vero che l’etica dei comportamenti si misura anzitutto nel rapporto che si instaura nelle proprie relazioni, con le persone care, gli affetti e gli amici, prima che con le dichiarazioni di solidarietà verso il mondo? Credo sia vero. Altrimenti si cade nell’antico vizio di predicare bene e razzolare male.

Nei fatti, le fusioni bancarie appaiono ispirate molto più alla visione di Milton Friedman che a quella dei suoi critici successori. Una visione anni settanta trasportata senza troppi scrupoli nell’anno 2021. In apparenza, i portatori di interessi “interni” sono tre: i soci, i dipendenti, i clienti. Nei fatti, i dipendenti e i clienti al dettaglio sono portatori di interessi che appaiono strumentali alla massimizzazione del profitto dell’azionista. Non esiste pari dignità tra questi “stakeholders”. Se li mettessimo su un podio, il gradino più alto sarebbe a distanza siderale dagli altri due. I dipendenti, i tanto vituperati bancari, somigliano a dei corrieri incaricati di portare a destinazione il pacco (il budget, l’obiettivo di vendita) lungo una strada disseminata costantemente di lavori in corso, che ne rendono il percorso lastricato di ostacoli e di imprevisti che però non contano e non devono contare  – per qualche capo area degli affari non conta nemmeno il fatto di essere in una pandemia, figuriamoci il resto.
Così aumenta lo stress correlato al lavoro, l’ansia della domenica sera, il vomito del lunedì mattina, la caduta di motivazione e la perdita del senso di appartenenza alla propria azienda. Lavorare per obiettivi, in un’azienda contemporanea, dovrebbe essere un’altra cosa: motivare i collaboratori e consentire loro di ottenere risultati grazie alla conoscenza dei loro clienti, che implica una concessione di autonomie decisionali, un riconoscimento di dignità professionale e umana. Invece la vita di moltissimi bancari, specialmente di rete, è fatta di report incessanti per dimostrare non già di avere raggiunto un obiettivo, ma di avere “fatto qualcosa”: telefonate, appuntamenti, contatti.
Una impostazione che si giustifica solo partendo dall’assunto che il proprio personale sia fatto di potenziali lavativi che hanno bisogno dell’occhiuto superiore per darsi da fare. Una concezione infantile del rapporto tra azienda e dipendenti, circondata da una organizzazione paramilitare all’italiana, dove anche le inefficienze e le sacche di parassitismo ricordano certi uffici dei marescialli dell’esercito, intenti a portarsi i prosciutti della mensa a casa mentre la truppa sgobba e mangia pasta scotta (chi ha fatto la leva sa di cosa parlo).

I clienti non sono tutti uguali. C’è quell’ uno per cento di “classe dirigente” ammanicata col potere politico, per cui un Ennio Flaiano conierebbe anche oggi alcune delle sue fulminanti definizioni, che ha causato l’ottanta per cento dei crediti a sofferenza, spesso concessi da banche-bancomat. Poi c’è il restante novantanove per cento che si vede negare il credito per merito del dissesto provocato dall’uno per cento precedente, oppure che deve sperare nel bancario corretto che cerca di soddisfare le sue esigenze reali di risparmio, anzichè incappare nel fenomeno in carriera che cerca di vendere cappotti all’equatore e ghiaccio agli esquimesi, e sapete perché? Perché la struttura lo premia. Premia la quantità di pezzi venduti, non importa come. Il controllo di qualità è una cosa che in banca arriva quando un giudice o un’autorità si occupano delle polizze decorrelate vendute come condizione di concedibilità di un finanziamento, si occupano di un derivato capestro, o di una polizza index linked venduta ad un ottantenne.

Il risiko bancario cui assistiamo ed assisteremo contribuirà a migliorare i rendimenti ed il valore dell’investimento dei soci e degli azionisti? Di sicuro ci proverà. Contribuirà a migliorare le condizioni di lavoro e la qualità del servizio? Non ci proverà nemmeno. Non sono obiettivi, questi ultimi, che rientrano tra gli scopi del risiko. Proprio questo quadro impone una inedita ma necessaria alleanza tra i risparmiatori e i dipendenti, perchè solo una saldatura tra gli interessi degli stakeholders più deboli potrà costituire un argine allo strapotere dei padroni delle ferriere.

PER CERTI VERSI
Via Arianuova

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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VIA ARIANUOVA

Una foresta di silenzi
Aperta
Da vie di luce
I dedali
Della certosa
La radura
Delle arti
Le dolci mura
Un amore
Una dea
Armoniosa
Per il mio
Chagall
La prima volta
Che vidi Ferrara

Ci sono tornato
Per dissodare
Menti
Con la vanga
Della filosofia
E le scarpe
Di Van Gogh
In via
Arianuova
Lenta
Paesana
La foresta già
Un po’
Ristretta
Poi la crisi
Poi mille ragioni
La fretta
La pandemia
Lo so
Chiuse le copisterie
L’edicola
Le pizzerie
Altro ancora
Auto dappertutto
Arianuova
Dove ti sei perduta?

L’età dei Lumi e l’era dei vaccini

 

Oltre 400 milioni di dosi di vaccino anti Covid-19 somministrate nel mondo e un dibattito sempre aperto tra favorevoli e no-vax, tra coloro che ne riconoscono l’unica via d’uscita per una svolta alla stagnazione in cui ci troviamo, rafforzando la memoria immunitaria dell’intera collettività, e quelli che ritengono improbabile la cosiddetta ‘immunità di gregge‘, optando per l’dea di una condizione di malattia che perdurerà e diventerà endemica. Pensieri, convinzioni e dichiarazioni, non solo appannaggio della gente comune, ma anche di epidemiologi e virologi, esperti e addetti ai lavori.

La lunga strada dei vaccini percorre intere epoche della nostra Storia e non sempre occupa un posto di rispetto nei nostri ricordi. Eppure ha salvato l’umanità dalle grandi catastrofi sanitarie, ha conquistato enormi traguardi nel contrasto alle epidemie, ha fornito un contributo decisivo alla lotta alle malattie infettive e aperto le conoscenze su fenomeni scientifici sconosciuti. Intuizioni, ricerca e sperimentazioni coraggiose hanno salvato più volte l’umanità.

Era il 1796 quando Edward Jenner inocula il vaccino a un bambino ammalato di vaiolo, dimostrando scientificamente l’efficacia di quel prodotto che ribattezzò ‘vaccino’, cioè derivato dalla mucca. Infatti, lo scienziato e i suoi colleghi avevano notato come i mungitori risultassero immuni al devastante vaiolo umano, se sulle loro mani fossero comparse delle piaghe, le stesse presenti sulle mammelle delle mucche. Intuì che il vaiolo bovino era meno aggressivo di quello umano e poteva costituire un punto di partenza per un deterrente a una orribile malattia, che mieteva 40.000 vittime l’anno nella sola Inghilterra. Jenner decise di innestare il materiale prelevato dalle pustole di una mungitrice affetta da vaiolo bovino su James Phipps, il figlio di otto anni del suo giardiniere. Dopo un po’ di febbre, il ragazzino guarì in due giorni e due mesi dopo, quando Jenner – forse in modo oggi eticamente discutibile – lo risottopose al vaccino, James non sviluppò nessun sintomo. Era nata ed era stata confermata l’idea alla base dei vaccini: un agente infettivo indebolito scatenava la reazione difensiva del corpo.

Da allora studi e sperimentazioni prolificarono. Nel 1885 Louis Pasteur testa con successo il suo vaccino antirabbico su un bambino morso da un cane idrofobo e nel 1890 Emil Roux, parallelamente a Emil von Behring, mette a punto il siero antidifterico (la difterite, causata da un batterio che produceva una tossina in grado di gonfiare la gola fino al soffocamento), a cui seguirà il vaccino nel 1923, per merito di Lèon Gaston Ramon, il quale ne produrrà poco dopo anche uno contro il tetano. La prima grande vaccinazione di massa avviene nel 1962, con il vaccino antipolio di Albert Sabin, ponendo fine – non senza resistenze alle somministrazioni da parte della gente – alle epidemie da poliovirus, che colpiva il sistema nervoso centrale. La poliomielite uccise o paralizzò 28.500 persone all’anno tra il 1951 e il 1955, ma già qualche decennio prima aveva manifestato i suoi devastanti effetti; si arriverà al 2002 per dichiarare l’Europa libera dalla malattia.

Nel 1957 si scatenò un’epidemia di influenza asiatica da Virus A Singapore/1/57 H2N2, che uccise circa 2 milioni di persone nel mondo. Negli Usa le vittime non superarono i 69.000 perché Hilleman riuscì a creare un vaccino e a distribuirne 40 milioni di dosi in tutta fretta, con un’incredibile accelerazione. E non fu neanche il primo, per l’illustre microbiologo americano, padre dei vaccini contro oltre 40 agenti infettivi (morbillo, orecchioni, rosolia, epatite B, meningite…). Negli anni 2000 si perfezionano i vaccini tetravalenti (2005) contro pertosse, rosolia, varicella, il vaccino anti-hpv contro il papillomavirus responsabile del carcinoma al collo dell’utero (2015), nel 2016 quello esavalente e nel 2018 il vaccino con virus vivo attenuato Ebola Zaire che viene distribuito “per uso compassionevole” in Congo e altri Stati africani.

Oggi come ieri, molta gente è scettica, critica, negazionista sul tema dei vaccini: tante vite salvate non erano e non sono sufficienti per convenire sulla necessità e validità del vaccino. Manca la fiducia. Nell’Età dei Lumi, il 1700, il ‘favoloso innesto’ di Jenner non fu solo una conquista della medicina, ma anche uno spartiacque tra due schieramenti ideologici contrapposti: da una parte gli oscurantisti che consideravano le conquiste della scienza un’offesa al Creatore, blasfemia vera e propria, dall’altra gli illuministi, a favore di una pratica ‘figlia della ragione’ e nemica della cieca ignoranza.

Oggi  siamo più informati, acculturati, aperti a nuove soluzioni che diano risposte a nuove necessità, tuttavia permane lo scetticismo e il rifiuto a priori di quegli interventi medico-sanitari che la pandemia sollecita, a dimostrarci che la scienza ha fatto grandi progressi, le tecnologie sofisticate permettono traguardi insperati, la medicina ha varcato limiti e confini inimmaginabili, ma l’atteggiamento umano rimane controverso, a volte irrazionale, schiavo di paure ataviche e retro pensieri giustificati o gratuiti che siano. La difficile strada della prevenzione e della cura contro i peggiori virus e batteri in circolazione è ancora in salita.2

PRESTO DI MATTINA
Il pastore, gli agnelli e il pungitopo

 

«Considerato nella sua spirituale preparazione, il concilio ecumenico, a poche settimane dal suo radunarsi, sembra meritare l’invito del Signore: “Vedete tutti gli alberi, quando già rimetton le foglie, voi conoscete da voi stessi, solo a guardarli, che s’appressa l’estate; e allo stesso modo anche voi, quando vedrete avverarsi queste cose, sappiate che è vicino il regno di Dio”», (Lc 21,29-31). In questo testo del settembre del 1962 papa Giovanni XXIII vede il concilio e la chiesa radunata in esso, come una primizia e un segno dell’approssimarsi del regno di Dio. L’averlo desiderato ardentemente ‒ “giorno desiderato” lo chiama ‒ diviene pure invocazione, fiducia nello Spirito che sempre opera nella storia umana attraverso gli uomini e le donne di buon volere; ma anche un dono pasquale alla chiesa perché ritorni ad amare con cuore pastorale e s’avvicini alla vita della gente.

Un analogo desiderio, quello di fare Pasqua con i suoi, arde in Gesù lungo il cammino verso Gerusalemme: «“Desiderio desideravi. Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione» (Lc 22, 15). La Pasqua è la brama più intima di Gesù, desiderio di prossimità e di comunione con il Padre e con noi, ciò che lo spinge ad annunciare il Padre, il suo avvicinarsi all’uomo nella storia tramite la sua giustizia: «Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei. Alzati quindi gli occhi, Gesù vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: “Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?”», (Gv 6, 4-6). Scrive Agostino: «Il desiderio è il recesso più intimo del cuore. Quanto più il desiderio dilata il nostro cuore, tanto più diventeremo capaci di accogliere Dio». (Io. Evang., tr., 40, 10).

S’avvicina la Pasqua è pure il titolo, ripreso ogni volta come fosse un unico titolo, delle lettere pastorali di mons. Luigi Maverna, vescovo di Ferrara-Comacchio dal 1982 al 1995. Tornava ogni anno su quel versetto di Giovanni 6,4 come fosse un cristallo dalle molteplici sfaccettature. E tutte le volte riusciva a illuminarne un aspetto diverso, certo com’era, nell’approssimarsi della Pasqua, di «trovarla sempre nuova».

Pasqua: culmine e fonte in cui convergeva a da cui si irradiava il suo desiderio, accompagnato dal pensiero e dall’azione pastorali. Non per caso, alla messa in cui si congedò dalla diocesi fu salutato con il canto dell’Exultet pasquale, avendo egli confidato poco prima, alla vigilia di Pasqua, che gli sarebbe piaciuto morire mentre la Chiesa intonava quell’inno. Ci lasciò nel 1998 ai primi vespri della festa di Pentecoste: discesa dello Spirito santo su Maria e gli apostoli nel cenacolo, compimento della Pasqua nella chiesa, suo inizio e germe nel mondo attraverso l’annuncio del vangelo alle genti.

Se il vescovo Filippo Franceschi, suo predecessore (1976-1982), aveva introdotto e traghettato la nostra chiesa nella recezione del concilio, lui lo aveva declinato nella ferialità del suo cammino, promuovendo e attuando le strutture partecipative e di condivisione conciliari nel popolo di Dio, senza trascurare di animare il mistero nascosto in esso con una attiva partecipazione alla liturgia, che riteneva, unitamente ai poveri, il cuore della chiesa: «Una Chiesa povera per i poveri. Privilegiare i poveri, nella pastorale, è compiere opera di evangelizzazione». Timido e risoluto al contempo, nel testamento aveva scritto: «La Chiesa non è nelle grandi cose. La Chiesa è preparata dalla voce e dall’azione dei ministri e dei fedeli, la Chiesa è dove è, dove sono i cuori umilmente aperti, accoglienti, concordi con Cristo. “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono in mezzo a loro”. Lì, ad ascoltarlo; lì, a riamarlo; lì, a gustarlo e pregustarlo, lì per l’eternità. Di lì, la fecondità di un amore che raggiunge, spiritualmente, invisibilmente, soprannaturalmente, ma concretamente, i confini del mondo». Da lui appresi la sinodalità, quel camminare insieme così caro a Papa Francesco. Con lui la praticai anche nella comunità parrocchiale e diocesana. Un “vescovo fatto desiderio” scrissi commentando allora il suo testamento, perché così deve essere lo stile di chi si avvicina alla Pasqua: lui si apprestava all’incontro con il Cristo pasquale con il ‘massimo desiderio’, ‘desiderio bruciante’, appunto «Desiderio desideravi» (Lc 22,15).

Commentando il salmo 37 il vescovo d’Ippona Agostino scrive: «Sia dinanzi a lui il tuo desiderio; ed il Padre, che vede nel segreto, lo esaudirà. Il tuo desiderio è la tua preghiera; se continuo è il desiderio, continua è la preghiera. Il desiderio è la preghiera interiore che non conosce interruzione. … Se dentro al cuore c’è il desiderio, c’è anche il gemito; non sempre giunge alle orecchie degli uomini, ma mai resta lontano dalle orecchie di Dio (Enarr. in Ps., 37, 14). Il desiderio prega sempre, anche se la lingua tace: se desideri sempre, sempre preghi. Quando sonnecchia la preghiera? Quando si raffredda il desiderio, (Serm., 80, 7)».

Il desiderio di un possibile cambiamento e trasformazione affretta e avvicina la Pasqua, che ci viene incontro e risveglia il ricordo di ciò che in essa è accaduto: un ribaltamento delle sorti. Un inno della liturgia della settimana santa canta: «Trafissero (perforarunt) quel mite corpo e ne uscì sangue e acqua! La terra, il mare, il cielo, il mondo da quale fiume vengono purificati!»; ed Ambrogio: «In lui è risorto il mondo, in lui è risorto il cielo, in lui è risorta la terra; vi sarà infatti un cielo nuovo e una terra nuova», (De excessu fratris. Orazione funebre, II,102).

S’avvicina la Pasqua, avvicinati anche tu.

Avvicinati allora per ritrovare quella prossimità che nessun distanziamento potrà mai ostacolare: perché essa è il luogo della memoria vissuta, cresciuta con noi nella forma di una responsabilità: quella del continuare a fare memoria della dignità umana ogni volta tradita, venduta per un paio di sandali o per trenta denari, spogliata, crocifissa, ma ogni volta liberata dall’amore più grande, quello di chi dà la sua vita per farla nascere di nuovo. È questa la coscienza che Gesù ha avuto di sé nell’approssimarsi della Pasqua: «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12, 24). Null’altro che questo è la Pasqua: la debolezza vittoriosa di un amore.

Avviciniamoci io e voi insieme, allora, per fare memoria dell’Ecce Homo e di ogni uomo e donna del nostro tempo che, essendo senza bellezza e apparenza per attirare gli sguardi, incarnano nel presente Colui che Pilato presentò alla folla. Non potrei descrivere meglio questa condizione, con più verità e drammaticità, delle parole incise da Primo Levi nell’esergo del suo libro più noto: Se questo è un uomo: Voi che vivete sicuri… Considerate se questo è un uomo/ Che lavora nel fango/ Che non conosce pace/ Che lotta per mezzo pane/ Che muore per un sì o per un no./ Considerate se questa è una donna,/ Senza capelli e senza nome/ Senza più forza di ricordare/ Vuoti gli occhi e freddo il grembo/ Come una rana d’inverno», (Einaudi, Torino, 2014, 2 e 177).

Anche se questo testo ‒ come sottolinea Cesare Segre nella postfazione ‒ riecheggia lo Shemà Israel (Ascolta, Israele) tuttavia «l’atto di fede manca; al contrario, si sviluppa il tono esortativo, dal Voi iniziale, ripreso anaforicamente nel terzo verso, agli imperativi Considerate (due volte), Meditate, Scolpitele, Ripetetele (in particolare i vv. 16-19 sono traduzione fedele del testo ebraico: «queste parole/ scolpitele nel vostro cuore/ stando in casa andando per via,/ coricandovi alzandovi»); e si conclude con una specie di maledizione per chi non obbedirà. A che cosa? All’obbligo del ricordo».

Esattamente quello stesso ricordo cui la Pasqua ci esorta. Il ricordo del mistero più alto di tutti, come lo chiama papa Leone Magno: «Quanti desiderano arrivare alla Pasqua del Signore, devono prepararsi a celebrare il mistero più alto di tutti, il mistero del sangue di Gesù Cristo che ha cancellato le nostre iniquità, facciamolo con i sacrifici della misericordia. Al Signore infatti nessun’altra devozione dei fedeli piace più di quella rivolta ai suoi poveri, e dove trova una misericordia premurosa là riconosce il segno della sua bontà», (Disc. 10 sulla Quar., 3-5; PL 54, 299-301)

C’è una poesia di Umberto Piersanti che mi ricorda il buon pastore che dà la vita come pure il Cristo, mite agnello, rialzato dalla morte, sanguinante ma vivo: l’Agnello mansueto che s’avvicina a noi proprio a Pasqua.

Cade la neve
larga, mesi e mesi,
gela fossi e fonti,
schianta querce e olmi,
sotterra case
e stalle, l’erbe gialle,
cancella gli stradini
fino a Viapiana
e muoiono gli agnelli
uno alla volta,
stridono nella stalla fredda,
fanno pena,
il pastore li guarda
desolato,
alza il falasco
fradicio, dissolto,
non c’è più un ceppo d’erba
la più gelata
venne una luce chiara
sulla neve,
l’aria fredda e liscia,
senza tempesta
restano tre agnelli,
li porta fuori,
storcono quelli il muso,
le zampe magre dentro
il nevone stanno incatenate,
belano i disperati,
soffiano forte
nella macchia li spinge
il buon pastore,
e con un ramo scava,
con le due mani
il pungitopo appare,
i frutti rossi
brillano colmi
e intatti, i cespi
freddi trapassano la neve
fitti e aguzzi
quando gli agnelli giungono
stremati,
brucano foglie e frutti
buttano sangue,
sugli spini lasciano la lana,
queti colmano i ventri
senza belare.

(Nel tempo che precede, Torino 2002, 71-72)

 

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Il misoneismo e le mistificazioni macroeconomiche

Le vicende del 2020 hanno costretto gli stati ad un’inversione ad U in merito ai deficit e al debito. Oggi è possibile spendere, condonare cartelle esattoriali, dare benefit a imprese e famiglie senza incappare nei soliti strali delle autorità europee e dei paladini del pareggio di bilancio. La pandemia, purtroppo, ci sta dando la possibilità di un osservatorio inedito sulle faccende macroeconomiche e si affermano, o semplicemente vengono rispolverati, due concetti fondamentali:
– le banche centrali devono supportare l’opera dei governi perché gli obiettivi sono comuni, l’indipendenza è relativa e deve essere confinata a specifiche finalità di politica monetaria;
– quando c’è una crisi di domanda bisogna creare moneta e far sì che questa venga spesa nell’economia reale senza preoccuparsi di debito o inflazione, fino a quando le cose non migliorano. In altri termini, il bilancio dello stato si indebita spendendo a favore dei cittadini che quindi ricevono la possibilità di un credito (in contabilità quando qualcuno spende un altro incassa).

Banche centrali e moneta, in sintesi, sono al servizio degli stati e non viceversa, la scarsità e la favola delle risorse limitate è una scusa buona per non spendere solo nelle stagioni dell’abbondanza (cioè nei periodi in cui l’economia cresce senza problemi), quando c’è crisi e lo stato non crea debito i cittadini non incassano e quindi soffrono (non c’è credito senza debito).
Queste conclusioni potrebbero essere elaborate da ognuno di noi semplicemente guardando ai fatti e quindi senza bisogno di aggiungere altro ma, come diceva Keynes, “La più grande difficoltà nasce non tanto dal persuadere la gente ad accettare le nuove idee, ma dal persuaderla ad abbandonare le vecchie”. E le vecchie idee in questo caso sono quelle inculcate al pubblico negli ultimi 40 anni di storia per cui la mente è abituata a immaginare alcuni fenomeni prima ancora che questi vengano spiegati. Alcuni di questi sono appunto l’indipendenza delle banche centrali e la scarsità della moneta.
Chi difende queste congetture non ha più bisogno di spiegarle per farle accettare grazie al fatto che sono già radicate nel nostro inconscio, a prescindere dalle implicazioni o tantomeno dalla fondatezza, perché fanno oramai parte del nostro patrimonio cognitivo.
Un esempio per chiarire, il Mario Draghi presidente della Bce, in una delle tante conferenze stampa, risponde alla domanda di un giornalista sulla possibilità che la Bce possa finire i soldi affermando sorridendo che questo è escluso e, aggiunge sempre sorridendo, che la Bce ha tutte le risorse (finanziarie) necessarie per far fronte a qualsiasi evenienza. Il Mario Draghi presidente del consiglio richiama invece alla prudenza perché le risorse (finanziarie) sono scarse.
È ovvio che le due affermazioni siano in contraddizione, ma quale appare alla nostra mente più credibile? Quale la nostra mente accetta senza difficoltà e da quale, inspiegabilmente, ci sentiamo più rassicurati? Ovviamente dalla seconda, cioè per la nostra mente le risorse sono scarse, è meglio non spendere, non fare troppo debito altrimenti la catastrofe è dietro l’angolo. Paura del nuovo o misoneismo, come veniva definito da Carl Gustav Jung, il rifiuto di quell’emozione che ci suggerisce che qualcosa non è al posto giusto, non è comprensibile immediatamente alla nostra mente (ne ho parlato nel mio libro “L’altra faccia della moneta”).
Ma questo ci limita, ci impedisce di crescere e di sviluppare concetti nuovi. Sta peggiorando il nostro modo di vivere il presente e di immaginare il futuro, tutto a discapito delle nuove generazioni.
Eppure è lapalissiano, il sole riscalda, l’evidenza si mostra nemmeno più tanto tra le righe e, rimanendo nel solco dei due argomenti che mi sono prefissato, banche centrali e moneta (quindi debito), andiamo a estrapolarla tra le informazioni disponibili a tutti, normalmente ignorate nel loro reale significato o mistificate nella loro interpretazione. Rimaniamo su Mario Draghi e poi andiamo all’Ocpi di Carlo Cottarelli.
L’11 ottobre 2019 l’attuale Presidente del Consiglio fu insignito della laurea honoris causa in Economia dell’Università del Sacro Cuore ed ovviamente tenne un discorso che è interamente pubblicato qui https://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2019/html/ecb.sp191011~b0a4d1e7c5.it.html e dal quale estraiamo quanto di seguito: “Descrissi una volta l’indipendenza della banca centrale come indipendenza nell’interdipendenza. Intendevo con ciò sottolineare che il contesto istituzionale nel quale operiamo influenza la velocità con la quale raggiungiamo il nostro obiettivo e l’entità degli effetti collaterali delle nostre azioni. È doveroso esprimere con chiarezza quando altre politiche potrebbero rendere il nostro compito più agevole e rapido.
L’indipendenza della banca centrale non è un fine in se stesso. Il suo scopo risiede nel garantire la credibilità della banca centrale nel perseguimento della stabilità dei prezzi e nello scongiurare che la politica monetaria sia succube della politica fiscale; essa assicura così una dominanza monetaria. L’indipendenza della banca centrale non impedisce perciò un dialogo con il governo quando è evidente che esso consentirebbe un più rapido ritorno alla stabilità dei prezzi. Pone soltanto dei limiti ai suoi eventuali effetti. In particolare un coordinamento delle politiche, quando necessario, deve contribuire alla stabilità monetaria e non può ostacolarla.”
Mario Draghi intende dire che deve sempre esistere una collaborazione e un legame chiaro tra uno Stato e la sua Banca Centrale sebbene sia necessaria una linea di demarcazione (indipendenza) tra la politica fiscale e quella monetaria. Entrambi gli strumenti hanno bisogno del proprio spazio di manovra ma l’obiettivo deve essere comune e, in questo caso, l’accento sulla stabilità dei prezzi non è visto come l’odioso principio liberista che impedisce l’allargamento del benessere sacrificato all’arida politica monetaria, ma piuttosto come una necessità legata ad un periodo di stabilità monetaria fuori dai periodi di crisi.
E che Draghi intenda questo diventa ancora più chiaro nella sua intervista al Financial Times https://www.ft.com/content/c6d2de3a-6ec5-11ea-89df-41bea055720b e nelle sue parole riportate dall’Ansa di questi giorni https://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2021/03/19/decreto-sostegni-da-32-miliardi-atteso-oggi-il-via-libera-dal-cdm_fe290451-0755-46c1-981a-a93026219acb.html. I suoi interventi rilanciano spesa e debito “non è il momento di chiedere soldi ma di dare soldi”, cioè è necessario creare moneta e fare deficit attraverso:
– la politica fiscale dello stato, che deve prevedere più spesa e meno entrate ignorando i tetti al deficit e le convergenze sul debito pubblico imposti dai trattati (deficit inferiore al 3% e debito degli stati inferiori al 60%);
– la politica monetaria della banca centrale, la Bce deve continuare ad acquistare i titoli di stato attraverso l’attuazione dei piani pandemici.

Nel momento di bisogno gli intenti di Stato e Banca Centrale devono convergere, l’indipendenza deve essere messa da parte e insieme si combatte la crisi e si corregge la curva. L’ulteriore considerazione è che uno stato ha bisogno di una banca centrale e che se nell’eurozona ci deve essere una sola banca centrale, questa deve essere al servizio degli stati.
Se questo fosse percepito come elemento di verità macroeconomica e di gestione dell’economia al servizio dei cittadini (mettendo da parte la “paura del nuovo” e facendo “spazio alle nuove idee eliminando le vecchie”) sarebbe più facile comprendere l’inutilità del Recovery Fund e magari diventerebbe ovvio il suo essere uno strumento essenzialmente politico e non economico.
Da Draghi passiamo all’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani (Ocpi) e alle arrampicate sugli specchi. Il documento dal quale partiamo è di questi giorni ed è consultabile qui https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-archivio-studi-e-analisi-le-banche-centrali-possono-andare-in-perdita-cosa-ne-conseguirebbe?mc_cid=87cb2aa7db&mc_eid=af47140064. Il tema si può riassumere così: può operare in negativo una banca centrale? Ovviamente sì, ma forse all’Ocpi non studiano le conferenze di Draghi e non guardano tra le righe di quanto scrivono gli esperti economici della Bce.

Traduco: Le banche centrali sono protette dal rischio di insolvenza grazie alla loro capacità di creare moneta e quindi possono operare anche con bilancio in negativo.
Si tratta di una piccola nota alla pagina 14 dell’Occasional Paper nr. 169 di aprile 2016 https://www.ecb.europa.eu/pub/pdf/scpops/ecbop169.en.pdf?f7073b79c2f6f62c79918dc24088dd00 che chiarisce all’uomo della strada, cioè a noi, tutto quanto c’è da chiarire: non può fallire chi crea il denaro e potendolo creare può operare anche con un bilancio in negativo. Questo perché può coprire ogni buco contabile si dovesse presentare, cosa che nessuna società privata, azienda o famiglia potrebbe mai fare. E per questo dire che uno Stato è come una famiglia è ovviamente un’altra congettura che si aggiunge alla lista delle emozioni che dovremmo prima o poi affrontare. Ma perché allora ci sono tanti problemi di spesa ed esiste l’irrazionale paura del debito nell’area euro? Semplicemente perché si sono fatte delle scelte politiche in tal senso, come ci spiegano sempre gli esperti economici della Bce.

Il problema nasce dalla mancanza di relazioni tra l’autorità fiscale (Ministero del Tesoro) e l’autorità monetaria (la Banca Centrale), cioè ad un’errata interpretazione dell’indipendenza delle banche centrali di cui parlava Draghi in uno dei suoi tanti momenti di contraddizione argomentativa. Se le due entità non collaborano, il debito pubblico diventa un problema e quindi agli stati viene reclusa la possibilità di spendere a deficit e alle banche centrali di attuare politiche monetarie in loro soccorso. Chi ci rimette sono ovviamente gli interessi dei cittadini. In altri termini, se la banca centrale rimane collegata alle necessità dello stato allora questi non deve trovare soldi sui mercati per spendere ma semplicemente deve rinnovare i titoli in scadenza che, in ultima analisi, la banca centrale può sempre comprare, senza doversi preoccupare di avere capitale per poterlo fare, perché può operare anche in negativo. Le sofferenze causate dall’austerità non hanno una base economica ma solo normativa.
Ma cosa aggiunge l’Ocpi a tutto questo? Praticamente nulla se non elementi tecnici e contabili che non cambiano di una virgola la realtà di quanto sopra. Segnalo solo questo: “…il Sistema Europeo delle Banche Centrali (Bce + banche centrali nazionali) ha in portafoglio un’enorme quantità di titoli di Stato per via del Quantitative Easing e del Pepp (Pandemic Emergency Purchase Programme) … ad oggi le banche centrali europee hanno conseguito utili elevati. Per esempio, nel 2019, la Banca d’Italia ha registrato un utile di oltre 8,2 miliardi di euro, di cui 7,8 miliardi incassati – direttamente o indirettamente – dallo Stato.”
Cioè quando una banca centrale acquista e detiene titoli, oltre a stabilizzarne il relativo mercato tenendo calma la speculazione (ricordate il whatever it takes?), fa anche guadagnare interessi agli stessi stati che li emettono.
In conclusione, ben venga finalmente l’apertura di un dibattito serio sulla definizione di indipendenza delle banche centrali, sull’importanza dei deficit e sul loro significato, sul ruolo e sulla funzione della moneta in economia, ma aggiungerei la necessità all’auspicio che si possa parlare delle distorsioni presenti nel sistema economico, delle congetture spacciate per verità assolute e della infondatezza degli attuali miti economici.

Al cantón fraréś / Mendes Bertoni:
“Al magh Ciuźìn e l’Urlón dal Barch” (Seconda parte)

 

In versi, Mendes Bertoni continua a narrare le avventure del mago: l’edificazione del Vòlto detto del Chiozzino (1), il pentimento e la conversione di Bartolomeo Chiozzi, il successivo confinamento al Barco del diavolo che, da Fedele Magrino, diventa Urlón. Una leggenda nella leggenda vuole che al Ciuźìn, alla rottura del patto col demonio, entrando dalla porta sud nella chiesa di S. Domenico, riuscisse a schivare il rabbioso calcio del servo contrariato dal mutamento interiore del padrone. L’orma del maligno è ancora visibile nel marmo (2) del portale in piazza Sacrati.
Come ognuno potrà verificare.
(1) A tutt’oggi esistente fra il vicolo omonimo e via Ripagrande, di fianco alla casa di B. Chiozzi,
(2) Colonna destra, a circa un metro da terra.
(Ciarìn)

Al magh Ciuźìn e l’Urlón dal Barch (śgónda part)
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Cuntàr dill maravié dal magh Ciuźìn
am vrìa na stmana, car al mié letór,
ma se ‘d paziéηza ti t’n’avrà uη puchìn,
ascolta questa ch’l’è ‘d divers culór.
T’impararà da chi è stà fat al “VÒLT”
aηcora iη pié e ch’l’aη sarà mai tòlt.

Par divertìr j’amigh più d’uη carηvàl
e dimustràr al màgich so putér,
l’ha dà, iη cà na graη festa da bal,
faśénd gnir źó n’urchèstra ‘d furastiér.
A ‘η zèrt mument, con du tri salt e ‘η pas,
l’ha tirà su cal vòlt ch’l’è luηgh e bas.

L’ha continuà Ciuźìn par darsèt ann,
coη stil truvàd, a imbambanàr la źént,
ma un dì na luś ch’la gnéva da luntàη,
la strada la gh’ha iηsgnà dal pentimént.
“Basta col diàvul!” fra se stés l’ha dit
“Séηza la féd mi a són un òman frit”.

Avénd savù che agh jéra na fuηzión
int al ciśón ‘d San Dménagh, al Ciuźìn
d’andàragh al tòl sùbit decisióη;
ma ‘l diàvul, ch’l’aη vrìa vlèst, al gh’jéra avśìη.
Par libaràrs ad lu e dargh uη smach,
iη cà al la manda a tóragh al tabàch.

Arivà iη céśa al s’buta iη źnoć piaηźénd,
propia davanti al sacr’Altàr Magiór,
po’ ‘l ciama al fra’ e ‘l diś: “Mié reverend,
am vói cuηfsàr e riturnàr al Sgnór”.
I fra’ a pregàr j’as mét ad alta vóś,
faśéndas, ogni tant, al ségn dla cróś.

Dà indré la carta scrita da Ciuźìn,
par penitenza a viéη mandà FEDÉL
int na pusióη col PO ch’pasa d’avśìη,
ciamàda al BARCH. E iη cal brut pòst, ‘des bel,
a stà fiurénd, iη sémpliza strutùra,
uη nóv quartiér iη meź a la varźùra.

Stal diavulàz rabióś, prima ‘d partìr,
l’ha mandà uη zigh putént e pin ad vléη
che a tuti, ogni nòt, l’ha fat santìr,
faśéndagh far tarmàr e gamb e vén.
E ‘d più quand la buràsca la tiràva
o un tempuràl sul BARCH al s’arvarsàva.

URLÓN dal BARCH e ‘l MAGH CIUŹÌN da FRARA
j’è personàģ d’na storia ch’l’è nustràna;
na spèzia ‘d fòla dla nunìna cara
ch’la racuntàva ai ηvud prima dla nana.
L’è aηch “racónt” che ‘s lèź… sì, mi ‘t al digh,
sui lìbar dal setzént. ‘T salùt amigh!

 

Il mago Chiozzino e l’Urlone del Barco (parte seconda)

Riferire delle meraviglie del mago Chiozzino / mi vorrebbe una settimana, caro il mio lettore, / ma se di pazienza ne avrai un poco, / ascolta questa che è di diverso colore. / Imparerai da chi è stato fatto il “VÒLTO” / ancora in piedi e che non sarà mai tolto. /

Per divertire gli amici più di un carnevale / e dimostrare il suo magico potere, / dà in casa una gran festa da ballo, / scritturando un’orchestra di forestieri. / Ad un cert momento, con due tre salti e un passo, / ha costruito quel vòlto che è lungo e basso. /

La chiesa di San Domenico, portale sud, Ferrara, foto di Marco Chiarini

Ha continuato Chiozzino per diciassette anni, / con queste trovate, a imbambolar la gente, / ma un giorno una luce che veniva da lontano, / la strada gli ha indicato del pentimento. / “Basta col diavolo!” fra sé stesso ha detto / “Senza la fede sono un uomo fritto”. /

Avendo saputo che c’era una funzione / nel chiesone di San Domenico, il Chiozzino / d’andarci prende subito decisione; / ma il diavolo, che non avrebbe voluto, gli era vicino. / Per liberarsi di lui e dargli uno smacco, / in casa lo manda a prendergli il tabacco. /

Arrivato in chiesa si butta in ginocchio piangendo, / proprio davanti al sacro Altare Maggiore, / poi chiama il frate e dice: “Mio reverendo, / mi voglio confessare e ritornare al Signore”. / I frati si mettono a pregare ad alta voce, / facendosi, ogni tanto, il segno della croce. /

Data indietro la carta sottoscritta da Chiozzino, / per penitenza FEDELE viene mandato / in una possessione col PO che passa vicino, / chiamata IL BARCO. E in quel brutto posto, adesso bello, / sta fiorendo, in semplice struttura, / un nuovo quartiere in mezzo al verde. /

Questo diavolaccio rabbioso, prima di partire, / manda un grido potente e pieno di veleno /
che a tutti, ogni notte, ha fatto sentire, / facendo tremare e gambe e vene. / E ancor più quando la burrasca tirava / o un temporale sul BARCO si rovesciava. /

URLONE del BARCO e il MAGO CHIOZZINO da FERRARA / sono personaggi di una storia nostrana; / una specie di fola della nonnina cara / raccontata ai nipoti prima della nanna. / È anche “novella” che si legge… sì, te lo dico. / nei libri del settecento, Ti saluto amico!

Tratto da: Mendes Bertoni, Antologia della Divina commedia (Inferno); In zzà e in là, composizioni in vernacolo ferrarese, Ferrara, 1986.

Mendes Bertoni (Ferrara 1905 – 1987)
Vedi le note biografiche riportate nella precedente puntata del 19 marzo 2021 [clicca Qui]

 

 

 

 

Ulteriori informazioni si possono leggere in Werther Angelini (a cura di), Favolosa vita di Bartolomeo Chiozzi detto Chiozzini, di Anonimo ferrarese del XVIII secolo, con illustrazioni di Gabriele Turola, Ferrara, Liberty House, 1987.

 

Cover Ferrara: Volto del Chiozzino, foto di Marco Chiarini

Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui]