LA VIGNETTA
Le leggende inglesi
illustrazione di Carlo Tassi
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Scritto da Carlo Tassi il . Pubblicato in IL QUOTIDIANO, In Evidenza, La vignetta di Cart.
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Scritto da Nicola Cavallini il . Pubblicato in OPINIONI, IL QUOTIDIANO, In Evidenza, Schei.
Gkn allo stabilimento di Campi Bisenzio, Whirlpool nello stabilimento di Napoli. Nel primo caso, 422 persone. Nel secondo, 356 persone. Licenziate con un tratto di penna, che nell’era della tecnologia cheap diventa un messaggio whatsapp, o una pec. Sono solo due esempi dell’alluvione che sta per allagare il tessuto sociale dopo la fine del blocco dei licenziamenti decretato a causa dell’epidemia di Covid-19. Un provvedimento tampone, seguito da un “avviso comune” Confcooperative, Cna, Confapi e Confindustria da una parte, sindacati dall’altra, con l’egida del Governo, che recita: le parti “si impegnano a raccomandare l’utilizzo degli ammortizzatori sociali che la legislazione vigente ed il decreto legge in approvazione prevedono in alternativa alla risoluzione dei rapporti di lavoro. Auspicano e si impegnano, sulla base di principi condivisi, ad una pronta e rapida conclusione della riforma degli ammortizzatori sociali, all’avvio delle politiche attive e dei processi di formazione permanente e continua” . Raccomandazioni, nient’altro che raccomandazioni. Con le quali infatti alcune multinazionali si sono già spazzate il didietro, procedendo a comunicare i licenziamenti con modalità che ricordano le ferriere dell’800.
La debolezza ormai storica della rappresentanza politica di quella parte del mondo produttivo che è lavoro salariato si misura in tutta la sua profondità in questa fase di “ritorno alla normalità”, la peggiore per chi si ritrova senza tutele nel momento in cui il blocco dei licenziamenti termina: evento che produce lo stesso effetto di quando togli un tappo ad una falla senza che nel frattempo sia stato creato un recipiente in grado di contenere tutta l’acqua che uscirà.
“L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con la utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.” Sembra una dichiarazione burlesca, calata dentro la situazione di fatto dell’industria italiana. Invece è il testo dell’art.41 della Costituzione. La legge che dovrebbe determinare “i programmi e i controlli opportuni perchè l’attività economica possa essere indirizzata a fini sociali” nel caso di specie è la disciplina sui licenziamenti collettivi, contenuta nella legge 223 del 1991, da coordinare con la legge Fornero e poi con il Jobs Act, che non hanno fatto che accentuare il suo carattere antisociale. Faccio un’affermazione così perentoria perchè la ratio che ispira questa disciplina è l’assunto secondo il quale è l’impresa stessa, in piena autonomia, a decidere quando uno “stato di crisi” giustifica l’apertura di una procedura di riduzione del personale. Non ci sono correttivi o interventi esterni all’impresa che possano realmente mettere in discussione la fondatezza delle ragioni della chiusura o della ristrutturazione, al punto che una multinazionale che complessivamente aumenta i profitti può permettersi di dichiarare la decisione di chiudere un “ramo secco” della propria produzione senza che alcuna regola o sanzione ne possa condizionare o scoraggiare la scelta. Le uniche regole imposte riguardano il rispetto di modi e tempi della procedura di discussione con la controparte sindacale: elementi formali, burocratici, il mancato rispetto dei quali tra l’altro non comporta nemmeno la reintegra di quei lavoratori illegittimamente selezionati per il licenziamento, ma solo una tutela indennitaria (nemmeno risarcitoria: quindi, un piatto di lenticchie). Per il resto, nella migliore delle ipotesi si finisce in mobilità, con un trattamento economico che dopo 24 mesi finisce. Per chi come il sottoscritto svolge attività sindacale, questa cornice legislativa è una palla al piede, che costringe a giocare costantemente di rimessa, a inseguire gli eventi senza poterne minimamente influenzare la genesi, potendo alfine solo negoziarne gli effetti su alcuni (da salvare) rispetto ad altri (da condannare). Come corollario arriva il disprezzo bipartisan per il ruolo del sindacato, chiamato a difendere i lavoratori con armi spuntate in partenza, che ne riducono la funzione a gestore del meno peggio. Come accennavo prima, questa situazione di cornice legislativa gravemente contrastante con il dettato costituzionale è il frutto di decenni di abbandono di una cultura politica che ha trasfuso il conflitto sociale e l’idea di uguaglianza sostanziale dentro leggi cardine come lo Statuto dei Lavoratori, che infatti è vecchia ormai di cinquant’anni. Questo abdicare alla propria funzione, che avrebbe dovuto essere un imprinting della propria stessa ragion d’essere, è una gravissima responsabilità della sinistra storica scagliata nel mondo globalizzato del post 1989, topos nel quale ha mostrato una inadeguatezza di aggiornamento ideale e di comprensione dei mutamenti tumultuosi dei fenomeni sociali che l’ha resa subalterna alle logiche economiche non tanto capitalistiche, ma liberistiche; con un cedimento al liberalismo che, applicato alla vita economica e sociale, produce effetti opposti rispetto al progredire del libertarismo nel campo dei diritti civili. Un liberismo, sia detto per inciso, che non esclude affatto l’intervento dello Stato nell’economia, purchè l’intervento serva a sovvenzionare le imprese con strumenti di sostegno (La Cassa Integrazione) completamente svincolati da qualunque reale impegno dell’impresa stessa in termini di investimenti per la riqualificazione degli impianti. L’impresa prende i soldi dallo Stato e quando decide di delocalizzare lo fa, e basta. Questo, in brutale sintesi, è il risultato della libera circolazione dei capitali. Questo, in brutale sintesi, è il frutto della “iniziativa economica privata” riguardo alla quale il legislatore ordinario degli ultimi trent’anni(di destra, di centro e di sinistra) si è ben guardato dal coniugare libertà e rispetto della dignità umana e sociale, con buona pace del dettato costituzionale.
Una soluzione a breve termine non c’è, in tasca non ce l’ha nemmeno Draghi, a prescindere dalla considerazione sul suo più o meno elevato tasso di keynesismo (sopravvalutato, a giudicare dalla scelta degli uomini in settori cardine della macchina economica dello Stato). Esiste solo la possibilità di perseguire, dentro una cornice asfittica, una serie di interventi di riqualificazione professionale che non possono, ovviamente, essere disgiunti da scelte di politica industriale che pianifichino attività di riconversione (pensiamo al settore dell’energia) prima che le decisioni di chiusura dispieghino i loro nefasti effetti sociali.
Scritto da Gianni Venturi il . Pubblicato in Diario in Pubblico, IL QUOTIDIANO, In Evidenza.
Mentre la parete di alberi col suo fiato profumato mi avvolge fino dentro la camera, qui a Vipiteno, penso e constato che ormai la mia ricerca per capire l’umore degli italiani medi, le loro richieste, i loro idoli, le loro preferenze, ormai è finita.
Non più a sentire l’umidore dei pensieri di zia Mara, non più a contemplare le unghie laccate delle mani tozze di Al Bano nella sua divisa pseudo chic tra cappello, sciarpetta, e giacchetta vip; non più la seriosità esibite nelle dichiarazioni calcistiche nel frattempo sconfessate dall’urlo bestiale dei tifosi; non più a contemplare l’abbraccio decisamente non odoroso degli idoli d’oggi, convulsamente attenti a reiterare gli scaramantici gesti della loro avventura milionaria.
Si tenta di spacciare il fisico di Maldini con riferimenti erotici non indifferenti. Perfino il capo di Stato si piega al rito e al mito del calcio. Ed io alle 11 di sera, assistendo alla cerimonia di chiusura del premio Strega, mi commuovo ancora sentendo la serenità raggiunta, la qualità altissima del pensiero di Edith Bruck [Qui], la sua immensa umanità espressa in parole; quegli occhi che hanno visto e condiviso l’orrore e hanno saputo trasformarlo in dialogo, in una totale trasformazione in eticità e amore.
Ma qualcosa succede. Incuriosito dalla frettolosa cena di gala, che di solito conclude la settimana nell’hotel Zum Engel, dal frettoloso sparire degli ospiti, risalgo in camera e spingo il pulsante e m’immergo nei momenti conclusivi della partita del secolo. Non l’avessi mai fatto! Mi lascio trascinare dalle prodezze dei campioni e, per la prima volta in vita mia, vengo travolto dall’eccitazione comune.
Guardo intanto con altrettanto ribrezzo le scene mostruose che accompagnano e commentano la vittoria; sghignazzo a più non posso agli osceni strafalcioni, che vengono propinati dai commentatori. Uno per tutti. A piazza del Popolo a Roma l’eccitatissimo cronista urla come sia commovente accompagnare assieme le note “dell’inno dei Mameli” tutti assieme!
Nella Repubblica di lunedì 12 luglio l’editoriale di Ezio Mauro così commenta: “Ancora una volta scopriamo che lo sport veicola ed esalta il sentimento nazionale come se fosse diventato l’unica espressione ancora capace di generare e legittimare democraticamente lo spirito patriottico”.
Da questo spunto invece di elaborare la recensione attesa e complessa dell’ultimo volume della scrittrice ebraica Natasha Solomons [Qui], I Tunderbaum, mi dedico all’analisi dei festeggiamenti e degli inviti al Quirinale e a Palazzo Chigi dedicati da Mattarella e Draghi alla nazionale vittoriosa e al fascinoso Matteo Berettini. E capisco che ormai senza lo sport è impossibile governare. Mi si stringe il cuore; ma così sembra debba intendersi la funzione dello sport nella totalità dei governi d’ogni tipo.
Mentre di ritorno dal Castello di Ambras ad Innsbruck [Qui], travolto dalle meraviglie guerriere di Ferdinando II, dalla Wunderkammer con le sue mostruosità fascinose, dai personaggi della nostra storia tra cui lo splendido ritratto del duca ferrarese Alfonso II e della sua sposa Barbara d’Austria, dal giardino segreto e dal pavone che urla la sua bellezza passeggiando tra le aiuole, capisco che ‘forse’ lo sport ha sempre dominato come esercizio del potere (e si veda il Gigante di Ambras che, novello Gigio Donnarumma, imponeva le sue mostruose fattezze nelle collisioni tra eserciti).
Peter e Delberta sono contenti del mio stupore e questa giornata speciale si conclude con il più spaventoso temporale a cui abbia mai assistito, mentre lo scenario delle abetaie e pinete che alzano la coda del meraviglioso abito da ballo che indossano e che indolentemente rivela cime e montagne che lasciano senza respiro.
Per leggere gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca [Qui]
Scritto da Guido Dell'Acqua il . Pubblicato in STORIE, Fantasmi, IL QUOTIDIANO, In Evidenza.
GIOVEDi’6 dicembre, ore 11.58
Riprendo coscienza mentre cado da un palazzo di sette piani, brancolo nell’aria e d’istinto mi aggrappo al collo di questa donnona che mi squadra tra il preoccupato e l’infuriato. Cado dal sesto piano mentre mi sveglio, brancolo nell’aria e mi appiglio al collo di questa donnona immensa che mi guarda stupefatta e rabbiosa.
Chi è, che vuole, chi sono io, dove mi trovo, perché non mi ricordo, niente di niente, ce l’avrò una famiglia, una casa, magari anche un lavoro… Tabula rasa, una vasta prateria in mezzo al vuoto cosmico. E questi post-it. Sono dappertutto. Sulla giacca del pigiama, sulla testiera del letto. Alcuni sono caduti tra le lenzuola. Sulla lavagnetta di fianco alla finestra qualcuno ha scritto LEGGI I POST IT. La scrittura è familiare, forse è la mia?
“Non ti fidare di lei”. Lei chi? “Ricordati le pillole”. Che pillole?
La faccenda non quadra. Perché ho scritto delle pillole? Di chi non mi devo fidare? “Tua figlia è a Boston, numero nel primo cassetto”.
Maledizione, qui ci sono vari numeri di telefono, Anne, Edith, Bonzo. Bonzo? Chi diavolo si fa chiamare Bonzo? Vabbè, ne scelgo uno a caso. Clara.
La signora Maria arriva come una furia, mi strappa il telefono, lo mette giù e inizia a trascinarmi verso il bagno. C’è qualcosa di rudemente antico in tutto quello che fa, come se fosse ordinato da Matusalemme in persona e quindi inevitabile, vista l’autorevolezza del mandante.
Sono perduto. E’ vero, non mi posso fidare di lei. Devo stare al gioco.
La signora Maria smette di insaponarmi. Mi guarda a lungo in silenzio e poi si alza. Sembra che si accorga solo ora delle decine di post-it attaccati sulle piastrelle, sugli specchi, per terra. Il caldo della vasca intanto contribuisce a staccarne altri che cadono pigramente a terra, dimenandosi un po’ durante la caduta.
Ho un flash che mi porta indietro, indietro, sono seduto sui gradini di una casa sul bordo di un bosco e dalla grande quercia del giardino le foglie morte si staccano dopo ogni folata di vento, cadendo con quel moto tipico delle foglie che cadono, come fossero pesi di un pendolo anch’esso in caduta lenta e inesorabile. Poi mi rianimo e vedo la mia badante che raccoglie con una scopa i post-it e li mette nel cestino del bagno.
Suonano alla porta. Mentre va a vedere chi è, sbuffando e imprecando, ho forse il tempo di dare un’occhiata ai post-it nel cestino. “100.000 $, non uno di meno!”, “Cioccolato fondente, non al latte”, “Aiuta Clara a scappare”. Perso, sono sempre più perso.
La signora Maria va a riferire. Subito le voci salgono di tono e si fanno concitate. Rumore di lampada che cade sbriciolandosi e porta sbattuta. Un uomo enorme entra in bagno quasi sradicando la porta.
Si avvicina, attacca il phon alla presa e lo avvia, avvicinandolo all’acqua.
La signora Maria lo guarda terrorizzata, poi guarda me, poi di nuovo lui. Inizia a balbettare:
Si avvicina alla finestra del bagno, spintona via la signora Maria che cade a terra frignando e lamentandosi e apre la finestra che dà sulla strada.
Ecco. Ora arrivano i rinforzi. Mi guardo intorno, la mia stessa nudità sta diventando intollerabile, come tutta questa situazione in fin dei conti. Ora basta. Mi alzo, il pisello mi sballonzola davanti e suscita la curiosità dell’omone, che scopro intento a fissarlo.
Poi succede. La catarsi. La porta abbattuta. La polizia che fa irruzione. Gli spari. Dopo pochi minuti è tutto finito. Bilancio, 3 morti: io, la signora Maria, un poliziotto. Un ferito grave, l’omone intruso.
MERCOLEDI’ 5 dicembre, ore 22.31
L’aereo per Boston partiva a mezzanotte e un quarto, era l’unico che avevano trovato quando erano stati avvertiti dal marito di Edith che a sua figlia si erano rotte le acque e stava per entrare in sala parto. Chissà se sarebbero riusciti a salvare il nascituro, dopo appena 7 mesi di gestazione. John Morris chiuse il beauty case con al sicuro le benzodiazepine di cui da un paio d’anni, dalla morte della moglie, non poteva fare a meno. Sarebbe diventato nonno! Forse, vacci piano, si disse. Forse. Se i dottori riusciranno a salvare capra e cavoli. Ma perché non dovrebbero, con tutte le diavolerie che si sono inventati al giorno d’oggi? Vuoi che non riescano a fare uscire quello sgorbietto urlante?
Un quarto d’ora dopo erano in taxi in direzione Newark-Liberty. Ovviamente senza aver fatto gli auguri alla signora Maria.
La signora Maria era stata l’insegnante di inglese di John durante le scuole superiori ed era lei che aveva spinto i suoi genitori, con pressioni oltre l’immaginabile, a tentare l’iscrizione alla Rutgers University per studiare letteratura. Il che poi gli avrebbe aperto la strada per diventare uno scrittore di successo, con milioni di copie vendute in tutto il mondo. Ora lei era l’unica cosa che restava in vita della sua giovinezza.
Mentre stava fissando un aereo in atterraggio, John sentì una improvvisa vampata di calore e un leggero stordimento. Si girò verso la sua compagna ma non riuscì a metterla a fuoco.
Furono le sue ultime parole. Il venerato scrittore John Morris fu ricoverato dopo meno di un’ora al Saint Michael’s Medical Center e non riprese più conoscenza. Il giorno dopo il suo elettroencefalogramma, prima di diventare piatto, mostrò i segni di una intensa attività, che cessò come se si fosse improvvisamente staccata la corrente ad un concerto di hard rock.
Il nipote di Morris è nato e, anche se prematuro, sta benissimo.
Racconto inedito, proprietà dell’autore.
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Scritto da Corrado Oddi il . Pubblicato in IL QUOTIDIANO, In Evidenza.
E’ stato denominato nei giorni scorsi dal Commissario dell’UE Paolo Gentiloni “ritiro selettivo degli interventi di sostegno”, un modo pudico per dire che si uscirà dalle politiche di parziale attenuazione della crisi scaturita dalla pandemia, sulla base del fatto che, sempre lo stesso, in modo decisamente azzardato, legge la prevista crescita attorno del 5% del PIL per il 2021 con una sorta di nuovo boom economico, invece che un’inversione di tendenza rispetto alla pesante caduta di quasi il 9% nel 2020.
Da qui, ad esempio, il ritiro del blocco dei licenziamenti, certamente non surrogato dal pannicello caldo dell’avviso comune tra sindacati, Confindustria e governo, ma, probabilmente anche una misura, di cui si sta parlando troppo poco, che prevede l’innalzamento delle tariffe del gas e della luce a partire dal 1° luglio, rispettivamente del 15,5% e del 9,9%. Un aggravio considerevole, che è stato stimato di più di 200 € su base annua per una famiglia media, e che sarebbe stato ancor più forte senza uno stanziamento in proposito di più di 1 miliardo da parte del governo.
Il punto è, però, che scelte di questa natura aggravano la situazione che ci sta consegnando la pandemia, e cioè quella di un Paese ancora più povero e diseguale. Altro che “ne usciremo tutti meglio” e “nessuno rimarrà indietro”, di cui favoleggia la retorica sparsa a piene mani da governo e media mainstream.
Che, ahimè, non sia così, ce lo dicono ormai tutti gli studi che sono già usciti sugli effetti nella distribuzione del reddito durante la pandemia: dall’Istat che certifica che nel 2020 il numero di persone sotto la soglia di povertà assoluta è arrivato a ben il 9,4% rispetto al 7,7% del 2019, raggiungendo il livello più elevato dal 2005, ad un recente approfondimento uscito nelle pubblicazioni di Bankitalia che mette in luce come “la pandemia ha colpito più duramente le famiglie a basso reddito da lavoro, dove si concentrano gli occupati che hanno minori possibilità di lavorare da casa, che svolgono lavori più instabili e in settori maggiormente esposti alla crisi”.
Né si può semplicemente sostenere che questa è la situazione del punto di massima crisi e che adesso essa evolverà positivamente, se, appunto, si prendono provvedimenti che, anziché ridurre le disuguaglianze, sono invece destinate ad acuirle.
Gli incrementi tariffari, infatti, colpiscono maggiormente, in termini relativi, le famiglie a reddito medio-basso e, peraltro, non si fermano alla ‘stangata’ su luce e gas. Per quanto riguarda la tariffa sui rifiuti, il nuovo regolamento per il 2021 introdotto da ARERA, l’Autorità nazionale di regolazione per energia, reti e ambiente, stabilisce che la cosiddetta “remunerazione del capitale”, cioè il profitto garantito ai soggetti gestori, raddoppia dal 3% al 6% e, inoltre, sempre ai gestori, viene riconosciuto un ulteriore ricavo legato all’incremento della raccolta differenziata (della serie: i cittadini sono invitati ad avere comportamenti virtuosi e le imprese private guadagnano sul loro impegno).
Non parliamo poi delle vicende relative alla tariffe dell’acqua, aumentate, secondo la CGIA di Mestre, del 90% tra il 2007 e il 2017, anche grazie alla scandalosa decisione, sempre di ARERA, di contraddire l’esito del referendum del 2011 che aveva cancellato la remunerazione del capitale, ripristinandola semplicemente con un’altra dizione (riconoscimento degli oneri finanziari).
A quest’impennata delle tariffe, poi, si associano tutta una serie di recenti decisioni che spingono verso un’ulteriore privatizzazione dei servizi pubblici locali: l’art. 177 del Codice degli appalti penalizza fortemente le aziende che sono concessionarie dei servizi di distribuzione del gas, dell’energia elettrica e dei rifiuti senza essere passate attraverso una gara, obbligandole, entro la fine del 2021, ad esternalizzare l’80% dei propri lavori; per il servizio di raccolta dei rifiuti, viene introdotta la possibilità per le utenze non domestiche di sganciarsi dal servizio pubblico, rivolgendosi al mercato libero purché i rifiuti siano avviati al recupero, determinando un ulteriore diminuzione del gettito del servizio pubblico; per quanto riguarda il servizio idrico, nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza c’è un’indicazione esplicita di completare i processi di privatizzazione, consegnando, nella sostanza, anche il Mezzogiorno alle grandi multiutilities quotate in Borsa.
Il tutto in attesa della ‘riforma’ della concorrenza, annunciata dal governo Draghi entro la fine di questo mese, che ha proprio il compito di rendere residuale il ruolo delle aziende pubbliche anche nel settore dei servizi pubblici locali.
Del resto, non c’è da stupirsi più di tanto, visto che tutta l’azione del governo e il PNRR sono esattamente ispirate da una logica di ‘modernizzazione’, che si pensa possa essere guidata esclusivamente dal mercato. Anzi, l’idea lì dominante, per certi versi ancora più regressiva dei canoni ‘classici’ del neoliberismo, è che sia proprio l’intervento pubblico a diventare servente del mercato: un rovesciamento del ruolo dello Stato, piuttosto che la sua limitazione e, men che meno, la sua sparizione.
Le risorse significative del PNRR vengono finalizzate proprio alloscopo di creare e costruire nuovi mercati, da quello delle piattaforme digitali a quello di una presunta ‘economia green’, in realtà viziata sin dall’origine dall’obiettivo di garantire buoni profitti ai grandi soggetti protagonisti del ricorso alle fonti fossili, in primo luogo ENI e ENEL.
Per evitare, però, di cadere semplicemente nell’elencare le decisioni sbagliate, che, alla fine, diventa una pratica autolesionista, provo ad indicare 3 questioni su cui si dovrebbe intervenire e sulle quali va costruita la mobilitazione necessaria per farlo.
La prima è l’abrogazione di ARERA, non solo perché, a partire dalla materia tariffaria, assume i parametri del mercato e della redditività aziendale come punti di riferimento fondamentale nella propria azione. Ancor prima, però, viene il fatto di aver demandato ad un’agenzia ‘tecnica’ il ruolo di determinare scelte importanti di politica tariffaria, sottraendole alla sfera della decisione politica.
Non a caso, tale orientamento è stato consolidato dal governo Monti, fulgido esempio del primato della tecnocrazia sulla politica, di una supposta ‘neutralità’ della tecnica, in questo buon predecessore dell’attuale governo Draghi, che ha fatto di ciò una delle cifre deteriori della sua impostazione.
Poi, andrebbe completamente riscritto il PNRR: qui il ragionamento sarebbe lungo e meriterebbe un approfondimento specifico. Mi limito a dire che occorre rivederne a fondo le priorità e assumere, al posto del rilancio della crescita quantitativa e del mercato, gli indicatori della creazione di buona e piena occupazione, di un nuovo welfare della cura e dei beni comuni e della fuoriuscita rapida dal modello di sviluppo basato sull’energia fossile come quelli su cui misurare le scelte da effettuare.
Infine, bisogna rilanciare la battaglia per la ripubblicizzazione dei beni comuni e dei servizi che li erogano.
Per stare vicino a noi, ad esempio, a fine anno scade la concessione del servizio idrico a Bologna affidato a Hera. A Ferrara, la concessione del servizio di raccolta dei rifiuti urbani, sempre affidata a Hera, è scaduta alla fine del 2017 e da allora Hera continua a gestirlo in proroga.
Bene, la scadenza della concessione è il momento più favorevole, in assenza di una legge nazionale, per procedere alla ripubblicizzazione del servizio, dando vita ad aziende pubbliche partecipate dai lavoratori e dai cittadini, visto che non ci si può trincerare dietro l’alibi dei costi eccessivi per andare in tale direzione. E allora, quali ostacoli si frappongono a farlo, da parte delle Amministrazioni Locali di riferimento, se non una pregiudiziale e ideologica volontà di affermare il primato del mercato e delle grandi multiutilities, come Hera, anch’esse votate alla sua logica?
Per fortuna, movimenti e cittadini hanno già sollevato con forza, a Bologna e Ferrara, tale tema. Vale la pena che questa voce salga ancora più forte e che si allarghino le forze e i soggetti in campo. In modo tale che chi ha la responsabilità politica delle scelte non volti la testa da un’altra parte, esca dall’ormai abituale silenzio, abbia il coraggio di dire da che parte vuole stare.
Cover: Mario Draghi al World Economic Forum Annual Meeting, 2012 (Wikimedia Commons)
Scritto da Roberto Dall'Olio il . Pubblicato in IL QUOTIDIANO, In Evidenza, Per certi Versi.
SI E’ BUTTATO SOTTO IL TRENO
Si è buttato sotto il treno
Nella morte più disperata
Che straccia
La vita di un giovane
Con un viso
Da cerbiatto
Diciotto anni
Di insulti
Di chissà quali
Colpe ingoiate
Nella più sola innocenza
Di essere gay
Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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Scritto da Andrea Zerbini il . Pubblicato in IL QUOTIDIANO, In Evidenza, Presto Di Mattina.
La notizia arriva proprio a ridosso del 13 luglio 1984, ricorrenza annuale della morte di padre Marcello dell’Immacolata, che coincide peraltro con l’inizio del triduo in onore della Beata Vergine del monte Carmelo: il 25 settembre prossimo ci sarà la chiusura della fase diocesana del processo di canonizzazione di padre Marcello, carmelitano della chiesa di san Girolamo in cui è sepolto. È amico silente ancora in ascolto delle tante voci narranti i nodi della vita, i groppi alla gola, i pesi del cuore.
Anche ora che il convento e la chiesa sono chiusi per lavori (ma a fine ottobre sarà riaperta), mi fermo all’esterno del muro che confina con la sua tomba per raccogliermi in preghiera. Tocco con la mano le pietre, ora qua ora là, come se toccassi il lembo del suo scapolare o il mantello bianco per dare una «svolta del respiro» (Paul Celan), inspirando un poco del suo spirito ‒ quella sua umanissima spiritualità ‒ col desiderio di restituirlo ed espirarlo poi nella quotidianità del vivere.
La spiritualità è un soffio raggiante e irradiante, un fiato trattenuto dentro, come la luce nel cristallo, prima di uscir fuori di nuovo, senza lasciarsi imprigionare dai margini e dalle forme. È pure come una “svolta” tra la fine di una frase e quella successiva; travalica i bordi di una pagina, passando ad un’altra. È pausa di respiro nell’andare a capo a fine riga; pausa di un silenzio che trasforma e risana, che fa grazia e permette un altro respiro, un respiro dopo un altro, un altro passo ancora.
Nessun tempo e spazio possano fermarne il ritmo, così è la vita secondo lo spirito. Esperienza di apertura al mondo, che ricrea le parole interiori attingendo alla realtà dell’Altro, degli altri, delle cose e degli eventi. Solo allora la spiritualità è generativa e riparatrice, ospitale e perdonante: è proprio come la preghiera e la poesia, sempre risorgente e spirante, come a pasqua essa è più forte della morte.
Prima di riprendere la bici e ripartire da san Girolamo, nascondo simbolicamente tra le pietre dei foglietti di “fiato” come fece a Gerusalemme, al muro del pianto, Giovanni Paolo II. Alito non solo i miei respiri, ma pure quelli dei fratelli e delle sorelle, sospiri che raccolgo ogni giorno strada facendo. E così, in quella compagnia silenziosa con padre Marcello, d’improvviso da dentro a fuori, la sua parola risorta attraversa quel muro che sembrava impenetrabile, massiccio e muto e fessurando la pietra sussurra sorridendo: «Avanti! Andate avanti, dillo a tutti quelli che incontrerai per via. Ricorda poi: ‘l’obbedienza fa miracoli, scioglie i nodi’».
Scioglie i nodi sì perché obbedire è contrazione della liberà in ragione della libertà stessa come amore, quella che decide di fare spazio, di aprire uno slargo e fare credito alla parola e all’esistenza dell’altro. Essa germina dall’ob-audire, ovvero dall’ascoltare paziente che si fonda sulla fiducia. L’obbedienza della fede, di cui parla anche il Concilio Vaticano II, è un ascoltare che prende sempre più la forma del credere all’affidabile Parola dell’Altro, e ad essa, quando si crede nel profondo, ci si abbandona tutt’interi e liberamente, con mente e cuore (Dei Verbum, 4).
Vita Carmelitana, vita “scalzata” quella di padre Macello. L’ordine carmelitano deriva dalla riforma scalza introdotta nel 1562 nel monastero femminile di San Giuseppe d’Ávila da santa Teresa di Gesù [Qui], nel quale si voleva nuovamente rivivere la forma apostolica delle comunità cristiana, contemplativa e missionaria. Una riforma poi estesa al ramo maschile dell’ordine carmelitano [Qui] ad opera di san Giovanni della Croce [Qui] nel 1568.
Scalzati per distinguersi dai calzati, che non accettarono la riforma e reagirono in modo turbolento. Scalzati come Mosè al Roveto ardente (Es 3,1-10); simbolo dell’alterità accogliente ed ospitale, inviolabile della dignità e santità altrui, a cui si può accedere solo togliendosi i sandali nella forma della donazione e non del possesso. Restare scalzi di fronte all’altro dice la relazione di intimità, il legame di amicizia l’unione amante nella differenza capace di compiere la diversità dell’altro salvaguardandola. Di più. Il Roveto ardente lascia uscire un flebile fiato, un flatus vocis, che promette di ribaltare le sorti della soffocante situazione di schiavitù in cui si trovava Israele sotto il dominio del dio Faraone. Ancora una “svolta del respiro” per il popolo senza più fiato; un divino respiro che, dirigendosi verso l’altro, si fa umano umanizzando, una condivisione nel patire che muta il destino.
Mosè parlava con Dio faccia a faccia; lui che era balbuziente, bocca a bocca con Dio (Es 4,10; Num 12, 8). Soffi cospiranti, verso una beatitudine promessa per chi decide nel suo cuore il santo viaggio: «Beato chi trova in te la sua forza avendo le tue vie nel suo cuore. Passando per la valle del pianto la cambia in una sorgente» (Sal 83).
Un uscire senza ritorno è la vita nello spirito, verso un dove che non si sa e a cui ci si affida e così si è afferrati e spinti in avanti, disposti a non cedere, continuando ad aver fede nel proprio desiderio, che è un desiderio di vita promessa, perché fedele è colui che ha promesso; un uscire non senza rimpianti, litigi e batticuori; ma avanti, sempre avanti e ancora avanti.
Fu questa anche la spirituale umanità di padre Marcello, un incessante esodo verso l’altro, un fidarsi restando accanto, accompagnando, insieme salendo al monte che è Cristo, per trovare e ricevere la sua dolce amicizia.
Mi raccontava nonna Iris che una volta con la sua nipotina passò per san Girolamo. Era d’inverno e c’era la neve. Al vedere i piedi rossi dal freddo di padre Marcello la piccola lo guardò e gli chiese perché non si mettesse le calze, che starebbe stato più caldo certamente e la risposta fu: «mi metterò le calze quando tu ti metterai un sacchetto sul naso perché vedo che anche il tuo naso è tutto rosso dal freddo». Si misero a ridere tutti e tre.
Ma quale semplicità in parabola per far capire che, al pari del volto scoperto ‒ epifania di umanità, immediatezza di presenza all’altro, invito al dialogo di un volto che parla già prima di aprire bocca, soglia di incontro, principio di riconoscimento nella reciprocità degli sguardi che si mostra in dignitosa nudità e in povertà bella ‒ così i piedi scalzi erano pure epifania della vita interiore, il rendersi visibile di come tutta la persona dentro e fuori stia e viva alla presenza del roveto ardente, in ascolto di una parola che ti fa partire come Mosè per riscattare dalla schiavitù i fratelli, per servire e prenderti cura delle ferite di umanità, nella forma di una intercessione e donazione, di un accompagnamento e condivisione.
Il primo giuramento delle monache e monaci buddisti è: «Giuro di soccorrere il maggior numero possibile di persone ed esseri viventi oppressi dalla sofferenza». E così ripenso a padre Marcello dell’Immacolata che fu anche padre Marcello dei ferraresi. Il genitivo specifica la modalità di presenza; non circoscrive uno spazio, ma il modo di abitarlo. Il genitivo è allora generativo di un ambito, di un particolare modo di esercitare il proprio modo di stare nella vita e di ciò che si vuole fare della propria vita. Penso allora al suo ministero nell’ospedale, in cui si curava la talassemia, di fronte a San Girolamo, all’insegnamento nella scuola poi e al confessionale.
“Dell’Immacolata” specifica la condizione di integrità, di innocenza annunciata da Dio nella Genesi, dopo la rovinosa caduta dei primogenitori. Innocenza che non è andata perduta ma preservata in una donna, quale segno posto da un Dio che non ha chiuso con l’umanità, ma intende percorrere un’altra strada per rigiocare la sua alleanza in un modo nuovo: la via di una reale incarnazione in umanità del Figlio amato, l’Innocente Agnello che sconfiggerà alla radice, facendosene carico, l’empietà sanguinaria che abita il mondo.
Dell’Immacolata specifica così un’integrità germinale che permetterà un nuovo inizio, il dono di una nuova innocenza. Ma non è stata singolarmente questa la condizione di padre Marcello, la sua vocazione a servizio di Nostra Signora del monte Carmelo? Egli infatti nel sacramento della riconciliazione, attingendo alla sorgente della grazia perdonante, riapriva sempre la strada dell’innocenza, restituiva l’integrità della vita battesimale, come levatrice accompagnava la rinascita nel Cristo, affinché coloro che lo avevano incontrato potessero riprendere la via e la vita buona del Vangelo.
Vita carmelitana è una «umanità contemplativa». Anche qui il genitivo “del monte Carmelo” specifica il modo d’essere di questa vita, una pienezza promessa a questa via: «il deserto diventerà un Carmelo e il Carmelo diventerà una foresta. Il diritto dimorerà nel deserto e la giustizia abiterà nel Carmelo», (Is 32,15-20). In Isaia (35 1-2) ritorna la stessa immagine per descrivere la gloria della Gerusalemme ritrovata, così bella che diventa quasi un riflesso della gloria di Dio: «Si rallegrino la steppa e la terra arida e fiorisca il deserto di gioia. Come fiore di narciso fiorisca, canti di gioia ed esulti: le è data la gloria del Libano, lo splendore del Carmelo e di Sharon. Essi vedranno la gloria del Signore, lo splendore del nostro Dio».
«Umanità contemplativa» a immagine della umanità nuova del Figlio, che patì e pianse nell’orto degli ulivi; morì trafitto sul monte, appeso ad una croce e in un giardino il suo spirito e il suo corpo furono liberati dalla morte.
In quello stesso giardino occhi di donne lo contemplarono e amarono gioiosamente risorto; e per l’intreccio e la complicità amorosa di quegli sguardi si generò l’invio missionario, nacque l’annuncio della buona notizia ai fratelli e alle sorelle, quella di un vangelo per l’umanità.
«Ardo di zelo per la causa di Dio» che è l’umanità dice il motto carmelitano. Lo stesso del profeta Elia che dovette imparare, ridiscendendo dal monte sul quale aveva visto Dio solo di spalle, a contemplare il suo volto, faccia a faccia questa volta, praticando l’umanità dei poveri di Jahvé, degli orfani e delle vedove, abitando fra di loro come accadde a Zarepta di Sindone. Così padre Marcello contemplò il volto soffrente dell’uomo della croce nascosto nei volti dei sofferenti che incontrava.
«Umanità contemplativa» per dire la vita carmelitana è figura che ho imparato leggendo il discorso tenuto da Rowan Douglas Williams vescovo anglicano, teologo e poeta, al Sinodo dei vescovi della Chiesa cattolica nel 2012 sul tema della Nuova evangelizzazione. «Essere pienamene umani significa essere creati nuovamente a immagine dell’umanità di Cristo; e quell’umanità rappresenta la perfetta “traduzione” umana del rapporto dell’eterno Figlio con l’eterno Padre, un rapporto di donazione di sé nell’amore e nell’adorazione, una reciproca effusione di vita. In tal modo, l’umanità in cui cresciamo nello Spirito, l’umanità che cerchiamo di condividere con il mondo come frutto dell’opera redentrice di Cristo, è un’umanità contemplativa».
Con sorpresa ho poi scoperto, continuando nella lettura dell’intervento del vescovo anglicano Rowan, che tale espressione egli l’aveva imparata da un santa carmelitana, filosofa e mistica e martire di origine ebraica, vittima della Shoah: Edith Stein, Teresa Benedetta della Croce [Qui], (Breslavia, 12 ottobre 1891 – Auschwitz, 9 agosto 1942).
Così egli ne esplicita il pensiero: «Santa Edith Stein ha osservato che iniziamo a comprendere la teologia quando vediamo Dio come “Primo Teologo”, il primo a parlarci della realtà della vita divina, poiché “tutto ciò che si dice su Dio presuppone che Dio abbia parlato”; in modo analogo possiamo dire che iniziamo a comprendere la contemplazione quando vediamo Dio come il primo contemplativo, l’eterno paradigma di quell’attenzione generosa verso l’altro che porta non la morte ma la vita. Tutto il contemplare da parte di Dio presuppone la propria assorta e gioiosa conoscenza di sé di Dio e la contemplazione di sé nella vita trinitaria».
E continua: «Essere contemplativi come lo è Cristo significa essere aperti a tutta la pienezza che il Padre vuole effondere nei nostri cuori. Con le nostre menti rese silenziose e pronte a ricevere, con le fantasie che noi stessi abbiamo generato su Dio e su noi stessi ridotte al silenzio, abbiamo finalmente raggiunto il punto in cui possiamo cominciare a crescere. E il viso che dobbiamo mostrare al nostro mondo è il viso di un’umanità in incessante crescita verso l’amore, un’umanità così incantata e impegnata dalla gloria di ciò a cui tende, che siamo pronti a intraprendere un viaggio senza fine per trovare la via che ci conduce più profondamente nel cuore della vita trinitaria. San Paolo dice (2 Cor 3, 18) come “a viso scoperto, (a piedi scalzi, p. Marcello) riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore”, siamo trasfigurati da una luce sempre più forte. Questo è il volto che cerchiamo di mostrare ai nostri fratelli nell’umanità. Lo cerchiamo non perché siamo alla ricerca di una qualche privata “esperienza religiosa” che ci farà sentire sicuri o santi. Lo cerchiamo perché in questo sguardo dimentico di sé, rivolto verso la luce di Dio in Cristo, noi impariamo a guardarci l’un l’altro e a guardare tutta la creazione di Dio». [Qui]
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Scritto da Roberto Paltrinieri il . Pubblicato in IL QUOTIDIANO, In Evidenza, STORIE, STORIE & RACCONTI.
-Apri la porta al nonno; dai sbrigati è già qui ,ed è un po’ di tempo che sta aspettando!- disse mia mamma. Corsi velocemente al portone e, appena aperto, buttai le braccia al collo del mio nonno.
-Piano ,piano, attento sono ormai un vecchietto, così mi butti per terra…dai fammi entrare che qui fa freddo!- disse sorridendo .
E io con un occhio rivolto al suo viso e con l’altro al borsone di pelle scura, cercavo di indovinare già il contenuto del mio regalo!
-Dai andiamo su al caldo, lo so che hai una fretta indiavola di vedere cosa ti ho portato-continuò a dire sempre sorridendo il nonno.
-Ooh, finalmente, dai siediti qui …vedi? Ho già gli occhi chiusi-, dissi protendendo le mie braccia in avanti per accogliere il dono tanto atteso. -Dai non ce la faccio più!-
Il nonno estrasse dal borsone un grosso pacco di forma quadrata legato con un fiocco rosso e lo appoggiò sulle mie gambe.
-Non sarà mica un libro!- dissi fingendo un certo disappunto.
-No ,no, tranquillo; anche per quest’anno rimarrai il solito somarello-
-Ma se a scuola ho tutti otto e nove!- protestai
-Se lo dici tu… apri il pacchetto adesso-
Le mie manine da bimbo lottarono col nastro rosso finché intervenne il nonno per dare lo strappo definitivo e immediatamente la carta regalo cedette lasciando intravvedere…
-Ma cosa è?-,sussurrai sorpreso
Sembrava una specie di libro, ma molto più grande e con pagine molto più spesse.
-Dai sfoglialo – mi incoraggiò il nonno.
Girai la copertina in cuoio marrone scuro e allora capì che si trattava di un album; sì proprio un album di fotografie. Ero abituato ai regali insoliti del nonno; erano regali che non si capivano subito è vero, insomma non erano i soliti giochi, ma questa volta proprio non mi capacitavo :un album di foto come regalo di compleanno per un bambino?
Il nonno questa volta non aspettò neppure un attimo, prese l’album, lo mise sulle sue ginocchia e cominciò a raccontare.
“Mancavano a pochi giorni al Natale; ero molto più giovane di adesso, diciamo circa l’età di tuo papà ,e stavo facendo la mia solita lunga camminata ad un ritmo abbastanza sostenuto come del resto facevo tutti i giorni. Ero completamente immerso nei miei pensieri quando, ad un certo punto, mi sentii investire alle spalle da non so bene che cosa. Fatto sta che mi trovai col sedere per terra. Mi girai di scatto per vedere cosa mi aveva colpito e vidi un ragazzone grande e grosso vicino a me anche lui disteso per terra come un salame.
Prima di poter aprire bocca sentii una voce dietro di me che diceva:
“Signore, signore, mi scusi, si è fatto male? Oh, mi dica che non si è fatto nulla, la prego! Rimanga fermo sto arrivando ad aiutarla!”
E immediatamente un distinto individuo di una certa età si chinò verso di me e mi allungò una mano per aiutarmi a rialzarmi.
-Mi scusi ancora, ma si è fatto male? E tu Ale come stai?- disse rivolgendosi al ragazzo che intanto si era messo comodo, seduto sul terreno umido.
-E’ mio nipote ed è un testardo, vuole fare tutto da solo, io sono vecchio e non riesco più a stargli dietro; lui all’inizio mi sta vicino, ma poi si stanca di andare piano e …parte lui! Crede di poter andare dappertutto con quei suoi bastoncini, ma vai a farglielo capire che può essere pericoloso, niente un mulo non vuol sentire ragione!-
-Sa- riprese abbassando improvvisamente il tono della voce- non ci vede, non vede nulla dalla nascita…-
Allora compresi tutto.
Il ragazzo che mi era venuto addosso in quel momento si alzò e mi disse con voce gentile e ferma:
– Scusi signore, non l’ho vista, io non…-
-Ma certo, certo-, mi affrettai a rispondere ,- non è successo nulla Ale…ti chiami Ale vero? Sbaglio o sei anche tu un gran camminatore?-
Nacque da quell’incontro, anzi sarebbe meglio dire, da quello scontro, una bella amicizia. Io andavo quasi ogni giorno a prendere Ale a casa sua e insieme macinavamo diversi chilometri raccontandoci durante il tragitto di tutto.
Lui voleva sapere ogni cosa di me, che lavoro facevo, se ero sposato, come era la mia casa, e così via finchè un giorno dissi:
-Ale, domani passiamo da casa mia così ti faccio vedere dove abito…e tutto il resto-
Il giorno dopo quindi, come promesso, al termine della solita camminata ci fermammo in via del Corso, dove c’era la mia abitazione.
-Ecco io abito qui. Ti piace?-
-Non so- rispose- fammi vedere-
E allora Ale cominciò a toccare i mobili, a seguire le pareti con la mano, insomma esplorò piano piano tutta la casa senza alcun timore.
-Dal profumo questa deve essere la cucina! – esclamò soddisfatto Ale.
-Certamente, e sta attento poichè ho messo intanto a cuocere una torta di mele nel forno! –
– Ok ,ma qui non ci sono mobili!- disse Ale entrando in cucina.
-Eh già non ci sono i mobili, c’è solo il tavolo, il frigo e il forno-,
-E…come mai?- chiese stupito il ragazzo.
-Vieni andiamo in salotto che ti faccio vedere una cosa, sono convinto che capirai-.
Entrammo in salotto e Ale si accomodò sul piccolo divano e io vicino a lui.
Quindi appoggiai sulle sue ginocchia un gran librone.
-Cosa è? – chiese Ale incuriosito
-Aprilo-
-Ma è un album mi sembra, ma sì queste sono fotografie!- disse immediatamente-e di chi sono?-
-Sono fotografie di Ferrara, sono fotografie bellissime. grandi, in bianco e nero. Ritraggono i punti più belli della città; sono prese da angolazioni inconsuete, e con una luce che conferisce alle immagini una tonalità quasi magica, sicuramente fuori dal tempo…adesso te le faccio vedere una ad una-
E presi così a raccontare ogni ritratto: quello del duomo in una giornata di pioggia, quella del castello coperto di neve; quella del parco Massari attraversato da un uomo in bicicletta come si vede nel film Il giardino dei Finzi Contini …Insomma una dopo l’altra le sfogliai tutte mentre Ale mi stava ad ascoltare, osservando attraverso le mie parole ogni singolo particolare.
-Sono bellissime…grazie- ,disse .
-Vedi Ale mi hai chiesto prima perché nella cucina non ci sono i mobili –
-Sì mi è sembrato strano infatti, neppure un pensile…-
-Bene, stai ad ascoltare un altro minutino-dissi proseguendo con il racconto
– Dunque eravamo sposati da poco io e mia moglie, e stavamo proprio andando a Bologna a comprare la cucina in un negozio vicino alla basilica di Santo Stefano. Come ogni primo lunedì del mese quella mattina c’era il mercato delle pulci e decidemmo di darvi una occhiata . Ci divertivamo infatti a girar per mercatini alla ricerca di cose vecchie con cui arredare con poca spesa la nostra casa. Passammo così vicino ad un banco su cui notammo subito un album di fotografie molto particolare.
Chiedemmo di poterlo osservare più da vicino. Appena aperto uscì immediatamente da entrambi una esclamazione di meraviglia.
-Ma è bellissimo!- dissi e cominciai a sfogliarlo pagina dopo pagina. Ricordo molto bene come se fosse oggi che ero completamente rapito da quelle immagini.
Mia moglie mi osservava intanto con una espressione ricca di tenerezza. Si avvicinò al proprietario di quell’oggetto così unico, e chiese il prezzo per quell’album.
-Eh signora questo album costa molto…sono fotografie di Ferrara, uniche , sono state fatte con una macchina particolare…pensi le ha volute un regista per studiare bene l’ambientazione del film… del film …beh ora non ricordo il titolo…ma…-
-Bene, ma quanto chiedete?- tagliò corto mia moglie
-Guardi ,siete così giovani…posso farle novecentomila lire, non una lira di meno- disse il venditore.
Erano gli anni sessanta e per quel periodo quella era sicuramente una bella cifra, ma mia moglie non si scompose, aprì la sua borsetta e prese la busta con il denaro messo da parte per la cucina e la consegnò a quell’uomo.
Io mi precipitai verso di lei per fermarla e dissi subito:- Ma cosa stai facendo? e la cucina?-
-Abbiamo già il tavolo, due sedie, il frigo e i fornelli ..abbiamo tutto quello che ci serve…questo è il mio regalo di Natale- e mi diede un bacio sulla guancia.
A questo punto al posto del racconto la stanza si riempì di un silenzio commosso.
Allungai la mia mano per abbracciare il mio nonno, incontrando alcune lacrime scendere piano dal suo viso.
-Abbiamo vissuto insieme dieci anni- riprese il nonno- poi un incidente…io mi salvai… mia moglie no…I mobili della cucina non li abbiamo più comprati, ci bastava il piano dei fornelli con il forno a gas …ci piaceva così…di sera vicino al camino spesso parlavamo delle nostre cose guardando le fotografie di quell’album…-
Il nonno smise il suo racconto ,mi guardò con un sorriso , io strinsi la sua mano, e lui la mia.
-Papà… ma è pronto!- gridò la mamma a gran voce- è la terza volta che vi chiamo, -dai ..lavarsi le mani che i cappelletti sono già nel piatto, e poi… ma cosa avete sempre voi due da raccontarvi…-
-Sì, sì, veniamo subito- disse il nonno dandomi il mio regalo …un album di fotografie in bianco e nero.
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Scritto da Benini & Guerrini il . Pubblicato in IL QUOTIDIANO, In Evidenza, Parole a capo.
“I poeti non si redimono, vanno lasciati volare tra gli alberi come usignoli pronti a morire.”
(Alda Merini)
I giocatori di scacchi
I giocatori di scacchi se ne stanno fermi per ore
Chiedevo a un ragazzino di guardare gli alberi
Ma non avevo mai guardato fin dentro di noi
Mercoledì guardavo i satelliti impazzire
e il giorno dopo di nuovo a lavorare
senza nemmeno trasalire
per qualche regola biologica
rido dallo stesso posto da dove poi piango
Cadono milioni di foglie
e il tragitto è sempre dall’alto in basso
le foglie non ritornano
svaniscono come gli anni piccoli
e solo qualche volta in maniera occasionale
gli occhi percorrono la stessa distanza
in cerca di qualcosa di cui non vergognarsi.
Ricchezza
(Discorso dall’interno)
Proprio ieri davano un film su come prepararsi
a tutte queste cose che accadranno
Le carte dei regali fanno già parte del passato
e il futuro si mischia a quel poco che rimane dei dolci
solo che così mentre tutti parlano
su dove è andata la letteratura
l’odore del caffè spazza via ogni cosa
“e se la scala la facessimo all’esterno”’?
Un’altra voce distante
e altre che insieme chiudono il coro
o forse il corpo
una vecchina è caduta e dopo qualche giorno per via della luce accesa in pieno giorno
Qualcuno ha telefonato alla figlia per dirgli che forse era morta
dalla finestra si vedeva bene distesa lì in cucina
Sempre meglio che parlare della frollatura della carne
o se per caso qualcuno conoscesse willi mentz
altrimenti detto Lo sparatore
era operaio ausiliario in una segheria poi mungitore
Si è raccontato dei nostri viaggi
e una voce ha chiesto sei mai stato a Babi Yar?
C’è una spiaggia bianca
me lo ricorderò
Era solo un modo di dire
che so, parlare degli ultrasuoni
delle farfalle azzurre
di quando mai trovi un lavoro
di quando allo stadio (c’eri e) hai visto Maradona
mettere la palla in rete da centrocampo
quelle cose che ti capitano
perlopiù una volta sola nella vita
Chissà perché poi mi son chiesto nessuno ha fatto un commento definitivo
magari sulla tomba del tuffatore
avremmo dovuto conoscerla bene
quasi che ci abitiamo dentro
È ciò che dice una poesia
mentre nel corridoio color ocra
ci facciamo gli auguri
senza pensare più agli indiani delle riserve
alle cose a portata di mano
ai bei tempi
Fuori nevica
gli alberi restano verdi
L’ho saputo fin dall’inizio
L’ho saputo fin dall’inizio
cosa volevi tu:
un tuo personale Burning Man
e una croce di regole e abitudini
la limpidezza del carbone, la genetica.
Cerchi con lo sguardo le torri di una città
la formula magica per sperimentare nuove forme di velleità
le torture dell’ordine dei Primates, gli alcolisti che corrono nel buio.
Le api bucano i pensieri cercando un unico punto amaro
e tu un certo disgusto,una vecchia fotografia ingiallita, un deposito di auto dell’infanzia
e tutta una serie di piccole insignificanti cose che sembra non debba finire mai:
elenco 1: rugiada sogno memoria
elenco 2: oceano aurora rispettabili occhi al mattino
elenco 3: amarezza scomparsa moscerino
elenco 4: verdetto supplica germoglio.
Fermati qui, non oltre
L’elenco potrebbe durare anni o asciugarsi al sole
Desidera la sola cosa che ti faccia provare gioia senza un perché
un amore prepotente
o soltanto uno sguardo rimasto oltre i vetri con gli ospiti andati via
un treno fermo sul viadotto, la stessa nave senza più equipaggio.
(inedito)
Carmine Vitale (Salerno,1965). Nel 1999 ha vinto il premio internazionale Emily Dickinson.
Sue poesie racconti e prose brevi sono state pubblicate su riviste italiane e internazionali. Tra le principali:
Il Reportage; Sud –rivista europea; Romboid; π pi greco: Trimestrale di Conversazioni Poetiche / Conversation International Poetry Project; Montparnasse Revue; La Poesia e lo Spirito; “Nazione Indiana“.
Tra le numerose pubblicazioni, segnaliamo: “Un giorno strano” – plaquette Premio Internazionale Emily Dickinson, Maggio 2000; “Quello che possediamo” – plaquette – Infinite Soluzioni editore – a cura di studio Oblique,
Maggio 2010; “Parigi strade e sogni di una città“, Petit Cahier di Viaggio – Historica editore, Maggio 2011 (nuova edizione riveduta e ampliata uscita nel novembre 2016); Litoranea, Xy editore, Aprile 2019 (da qui verrà fuori un piccolo film del quale si sta ultimando la sceneggiatura) è attualmente in corso di traduzione in greco e in francese.
Scritto da Franco Ferioli il . Pubblicato in STORIE, Controcorrente, IL QUOTIDIANO, In Evidenza.
El Alamein, una località desertica segnata sulle carte come piccolo scalo ferroviario egiziano posto a un centinaio di chilometri dal confine libico, è divenuta uno degli scenari di guerra più spaventosi della storia dell’uomo e uno dei cimiteri più grandi del mondo.
Qui nessuno mi ha confermato la veridicità dell’origine – certamente profetica anche se riduttiva – del suo nome, che significherebbe “le due bandiere”.
Due, furono infatti le bandiere degli stati europei che diedero inizio alla guerra, ma a combattere ferocemente tra loro non furono solo i reparti degli eserciti italiani e inglesi; in quella che viene ricordata come l’atto finale della ‘Campagna d’Africa’ presero parte molti altri contingenti stranieri e sventolarono bandiere provenienti da ogni parte del mondo: Australia, Nuova Zelanda, India, Sud Africa, Francia, Marocco, Senegal, Libia, Grecia, Polonia, Yugoslavia, Stati Uniti.
Attorno a quelli che furono i capisaldi e le postazioni strategiche tenute dagli schieramenti, emerse l’immane costo delle battaglie: oltre 60.000 caduti.
I primi ad occuparsi della raccolta dei propri caduti furono i vincitori. Dopo quattro anni di ricerche avviate subito dopo la fine del conflitto, nel cimitero britannico di El Alamein venne data definitiva sepoltura a 7.367 combattenti della coalizione del Commonwealth Inglese che perirono per la vittoria.
Successivamente e a poca distanza, venne innalzato un mausoleo a forma di castello normanno in cui trovarono eterno riposo 4.200 soldati tedeschi e sorse un cimitero ortodosso per i caduti di nazionalità greca.
I resti dei soldati italiani sconfitti, vennero invece lasciati insepolti per anni e anni direttamente sui campi di battaglia o interrati frettolosamente in quattordici cimiteri provvisori dislocati in un territorio vastissimo e pericolosissimo, non bonificato da centinaia di migliaia di ordigni bellici innescati o inesplosi.
Le misere tombe, perlopiù cumuli di pietre che recavano nomi storpiati o un laconico ‘italian unknown’, vennero inizialmente allestite lungo quei settanta chilometri di prima linea del fronte che aveva visto l’impressionante dispiegamento di duemila carri armati e di un cannone ogni dieci metri.
Poi raggiunsero le posizioni più avanzate, le “quote” 33, 216 e 105 dei rilievi del Naqb Rala, del Qaret el Himeimat e della depressione del Qattara, dove i soli italiani innescarono 170 mila mine anticarro, in media due per ogni metro quadrato, trasformando questa remota landa egiziana in una delle zone più minate della terra.
Oggi, a distanza di 79 anni, molti campi di battaglia non sono stati ancora risanati e nonostante sia vietato l’accesso a vaste zone interdette, le esplosioni si succedono ininterrottamente e hanno causato centinaia di vittime tra i beduini locali.
L’ecatombe e le mutilazioni patite da oltre ottomila civili ignari e innocenti, molto spesso bambine e bambini, ha portato alcune organizzazioni egiziane ad avanzare richieste di aiuti e indennizzi per danni di guerra, ma soltanto nel novembre 2016 il Governo Egiziano con il sostegno dell’ONU, dell’Unione Europea e grazie a un finanziamento di 4,7 milioni di euro, è riuscito a istituire un centro specializzato per le protesi a Marsa Matruh, maggiore nucleo urbano dell’area contaminata e capoluogo del governatorato.
L’eco di quella battaglia non si spegnerà mai più in questa terra martoriata e a ben poco servono i cippi segnaletici posti lungo la strada litoranea, per indicare la presenza di solo alcuni dei tanti ‘giardini del diavoloì, come venivano chiamati in gergo militare i campi minati.
Molti di quelli rimasti tuttora innescati e segreti, vennero approntati in fretta e furia, di nascosto, nella frenesia di rischiose operazioni, senza una mappatura chiara che ne precisasse le esatte ubicazioni, in un territorio privo di punti di riferimento fissi o facilmente identificabili.
Da El Alamein:
La stazione di El Alamein ha mantenuto il suo aspetto abbandonato e nessun treno è in arrivo o in partenza. L’unico a partire lungo l’estensione dei binari che si allungano ai due lati dell’orizzonte come una cerniera impressa sulla superficie pietrosa del deserto, sono io, con lo sguardo. La doppia linea d’acciaio corre a fianco della strada che fiancheggia la costa e sulla quale si affacciano numerosi villaggi turistici di recente costruzione con schiere di villette che si allineano senza l’ombra di un solo albero.
Il mare mediterraneo sembra la superficie piatta e calma di un gigantesco lago e in alcuni punti il bagnasciuga è una lingua di sabbia bianca che fronteggia chiazze di colore azzurro turchese e verde smeraldo.
Dal momento che sono l’unica persona presente a parcheggiare l’unica auto in un vasto parcheggio, mi rimane il dubbio che il Sacrario Italiano di El Alamein sia chiuso fino a quando oltrepasso a piedi il portico dell’entrata principale e leggo le parole scolpite nella prima lapide:
CONSACRATO AL RIPOSO DI 4.800 SOLDATI, MARINAI ED AVIERI D’ITALIA
IL DESERTO ED IL MARE NON RESTITUISCONO I 38.000 CHE MANCANO
Un’alta torre ottagonale bianca racchiude alla base una galleria semicircolare illuminata da cinque grandi vetrate che si affacciano sul mare, al centro della quale si trova un altare, sovrastato da una grande croce lignea.
Di fronte, le pareti di due padiglioni di marmo custodiscono i resti dei soldati italiani.
Sulla prima metà delle nicchie è scritto il nome, cognome e grado del soldato caduto, le rimanenti recano una sola scritta: IGNOTO.
In nessuna lapide viene riportata l’età o la data di nascita dei soldati caduti, ma gli studi storici e le testimonianze dei reduci hanno appurato che furono tutti ragazzi giovanissimi, di età compresa tra i sedici e i diciannove anni.
A quell’età, e ai loro tempi, la politica coloniale del governo fascista, che si vantò di avere conquistato in Africa vasti e ricchi possedimenti, non poteva che essere vista come un’avventurosa occasione di sviluppo e di progresso. Secondo i dettami imposti dalla propaganda del potere, questa terra veniva proposta come la nuova frontiera oltremare, il territorio delle nuove opportunità offerte a tutti coloro che audacemente ne volessero prendere parte e cogliere l’occasione.
Ma le colonie italiane d’oltremare si rivelarono ben presto uno scenario diverso e funesto, teatro infine di una tragica ultima guerra persa.
Il sacrificio di questi soldati è stato volontario, nel senso che volontariamente, essendo giovanissimi, si arruolarono nei corpi di spedizione militare che vennero inviati a combattere.
Il loro gesto deve giungere accompagnato dalla conoscenza delle condizioni reali nelle quali si vennero a trovare questi combattenti italiani che vennero lasciati soli, senza cibo, acqua e munizioni, abbandonati a sé stessi, del tutto isolati nel deserto, per quasi tutta la lunga durata del conflitto.
I paracadutisti della Folgore, con il loro mito della morte che piomba dal cielo, raggiunsero questo fronte via mare e via terra, e non vennero nemmeno riconosciuti come parà ma bensì come “cacciatori del deserto”.
Mai nome di copertura si rivelo più azzeccato, dal momento che per continuare a sopravvivere cacciarono viveri e acqua; per continuare a combattere cacciarono rifornimenti e forniture militari sottraendole ai nemici.Scritte dal Ten.Col.Paracadutisti Alberto Bechi Liserna, leggo sulla seconda lapide queste sue parole:
FRA SABBIE NON PIU’ DESERTE SON QUI DI
PRESIDIO PER L’ETERNITA’ I RAGAZZI DELLA
FOLGORE
FIOR FIORE DI UN POPOLO E DI UN ESERCITO
IN ARMI CADUTI PER UNA IDEA SENZA
RIMPIANTI, ONORATI DAL RICORDO DELLO STESSO
NEMICO, ESSI ADDITANO AGLI ITALIANI NELLA
BUONA E NELL’AVVERSA FORTUNA IL CAMMINO
DELL’ONORE E DELLA GLORIA
VIANDANTE ARRESTATI E RIVERISCI
DIO DEGLI ESERCITI ACCOGLI GLI SPIRITI DI
QUESTI RAGAZZI IN QUELL’ANGOLO DI CIELO
CHE RISERBI AI MARTIRI E AGLI EROI
La analoga triste condizione dei Bersaglieri e in generale di tutte le forze armate italiane, conferma il tragico destino di ogni soldato, quello cioè di essere prima considerato un eroe, poi carne da macello, e a volte, come in questo caso emblematico, carne e ossa nemmeno degne di essere sepolte e ricordate con il proprio nome, con il nome proprio dell’assurdità della guerra o a nome di ogni presunto dio degli eserciti.
Al mondo non c’è soldato che non sia stato innanzitutto vittima della propria ignoranza e del proprio fanatismo e che dopo essere stato imbevuto e illuso con gli ideali sacri ed eroici della filosofia e del marketing della guerra, non abbia assaporato il sapore amaro della più crudele delle menzogne e del più infausto dei destini: quello di trovarsi abbandonato ad uccidere e a morire dimenticato, disilluso e tradito dalla propria patria.
Uccidere per niente.
Morire solo e lontano.
Giacere a terra insepolto, dimenticato e ignoto.
Leggi la Prima Parte del reportage storico [Qui],
la II [Qui],
la III [Qui],
la IV [Qui],
la V [Qui],
la VI [Qui]
la VII [Qui]
la VIII [Qui]
la IX [Qui]
Franco Ferioli, l’inviato di Ferraraitalia nel tempo e nello spazio, è il curatore della rubrica Controinformazione. C’è un’altra storia e un’altra geografia, i fatti e misfatti dell’Occidente che i media preferiscono tacere, che non conosciamo o che preferiamo dimenticare. CONTROINFORMAZIONE ci racconta senza censure l’altra faccia della luna,
Cover: Sacrario Militare Italiano di El Alamein, particolare
Scritto da Liliana Cerqueni il . Pubblicato in Fantasmi, IL QUOTIDIANO, In Evidenza, STORIE.
‘Silenzio assordante’ è un ossimoro che non vale per la breve attenzione che i media hanno dedicato ai recenti fatti che riguardano i nativi del Canada.
E’ invece ‘silenzio e basta’, senza eco né conseguenze, che rischia di far cadere nell’oblio una tragedia che meriterebbe ben più interesse.
Una notizia di cronaca che ha occupato le pagine di tutti i giornali per un giorno solo per poi passare ad altro. Quattro chiese cattoliche che bruciano subito dopo i ritrovamenti dell’orrore, una serie di tombe di bambini senza nome, raccapriccianti fosse comuni con ciò che rimane di giovani corpi, e i fantasmi che tornano dal passato, da una lunga storia di soprusi, violenze, nefandezze.
Con 761 poveri resti nella provincia di Saskatchewan, altri 215 in quella di British Columbia, si sono riesumati anche i ricordi di fatti abominevoli e si è scatenata una reazione devastatrice come, si presume, l’incendio dei luoghi di culto di Kamloop, Chopaka ed altri.
Il collegamento tra i fatti del passato e quelli di cronaca attuale sono al vaglio della polizia, che indaga anche sulle cause e i tempi dei decessi. Un passato pesante e scomodo che affonda le sue radici nel 1800, quando ebbe inizio la pratica di sottrarre i figli dei nativi alle famiglie, per inserirli coercitivamente nelle boarding schools, scuole residenziali, volute dal governo e affidate in gestione ai religiosi cattolici per oltre il 70% delle strutture.
Lugubri pensionati sovraffollati in cui vennero iscritti 150.000 giovani e bambini indigeni delle etnie Inuit, Metis ed altre minoritarie, come racconta il giornale Montreal Star agli inizi del 1900. Lo stesso quotidiano riportava come il 42% di essi morisse prima di aver compiuto 16 anni per malattia, privazioni, maltrattamenti, stenti, abusi sessuali, denutrizione e assenza di cure. Molti i bambini intorno ai 3 anni di età.
Tra le malattie che imperversavano, dominava la tubercolosi che trovava terreno facile in condizioni di tale degrado. Non solo gli ammalati non venivano curati o venivano assistiti in modo insufficiente, ma venivano deliberatamente mescolati ad essi anche bambini sani con effetti di morte diffusa. Questa rete di collegi aveva la funzione di ‘rieducare’ le giovani generazioni native alla nuova cultura coloniale e proseguirono il loro operato per buona parte del XX secolo (l’ultima scuola a chiudere i battenti lo farà nel 1978, dopo numerose proteste e manifestazioni di piazza).
Un’operazione di acculturazione violenta, di assimilazione strutturata e pianificata da una legge, la Federal Indian Act del 1874 che ribadiva l’inferiorità legale degli indigeni e istituiva le scuole residenziali di rieducazione, rigettando ogni responsabilità obbligando le famiglie a firmare per la tutela dei figli. Un sistema che permetteva impunità e lasciava ampio margine ad azioni di ogni tipo.
Alla morte dei giovani venivano trasferiti all’istituto i loro beni, come i terreni, proprietà che venivano rivendute alle multinazionali del legname. Nel 1933, la Sterilization Law diede l’avvio alla sterilizzazione forzata applicata a molti bambini e bambine delle residential schools, oltre che agli indigeni adulti, legge tuttora in vigore.
Già nel 2008 il Primo Ministro canadese Stephen Harper porse ai nativi le scuse ufficiali del governo e lo ha fatto ai giorni nostri il premier Justin Trudeau. Una delegazione di Indiani Metis e Inuit partirà dal Canada a dicembre e incontrerà il Pontefice a Roma dal 17 al 20. In quell’occasione inviteranno il Pontefice nelle loro terre di origine, attendendo le scuse della Chiesa. Gesti di riappacificazione, di assunzione di responsabilità, di ammissione di una colpa che la Storia conserverà tra le pagine più buie e vergognose, bagnate dal pianto di quei bambini.
Scritto da Nicola Cavallini il . Pubblicato in OPINIONI, IL QUOTIDIANO, In Evidenza, Schei.
A una giraffa interessa se una giraffa maschio se la intende con una giraffa maschio? A una leonessa disturba il fatto che due leoni facciano sesso tra loro? Francamente non saprei, però sono sicuro che non vengono messi all’indice, insultati, vilipesi, isolati ed emarginati dai loro simili – non per questa ragione, almeno.
Sul web ci sono diversi approfondimenti giornalistici sul comportamento omosessuale nelle specie animali [Vedi qui]. Il fatto che, come sostengono alcuni, il comportamento omosessuale in alcune specie non abbia a che fare con il piacere sessuale ma con la dominanza, dimostra solo che l’atto sessuale, anche nel mondo animale, non è legato esclusivamente alla funzione riproduttiva. Solo nel genere umano sia il gioco di ruolo (dominatore/trice – dominato), sia il piacere legato al sesso tra consenzienti sono considerati socialmente riprovevoli, al punto da essere tuttora un crimine in tantissimi paesi del mondo. Un crimine, capite? Crimen, nel diritto romano, è il delitto pubblico che offende l’ordine sociale e colpisce l’intera civitas, essendo perciò meritevole di una punizione pubblica. Non è purtroppo un caso che i paesi dove i comportamenti omosessuali o, in generale, le identità sessuali non binarie o in movimento (anche se non porteranno ad una trasformazione genitale) sono incriminati/e o comunque oggetto di pesante riprovazione sono paesi teocratici, o nei quali la morale comune è innervata da una religione, pur secolarizzata.
In Italia, la secolarizzazione della Chiesa cattolica è stata giuridicamente cristallizzata nei Patti Lateranensi di epoca fascista, sottoposti a revisione nel 1984. Secondo il nuovo Concordato inserito nei Patti, il cattolicesimo non è più religione di Stato, anche se con l’otto per mille il cittadino italiano deve scegliere di destinare questa percentuale di imposta sui redditi ad una confessione religiosa o allo Stato medesimo, che non pubblicizza la scelta, rendendolo uno dei principali introiti della Chiesa Cattolica (che invece lo propaganda eccome). Ma questo è un dettaglio, rispetto all‘imprinting sociale e psicologico che gli italiani ricevono dal battesimo in avanti. La parte più tragica di questo imprinting è la pervicace censura di peccato che, dalla teologia paolina in avanti, accompagna come un’ombra nera l’idea del piacere sessuale non destinato alla riproduzione. Per capire quanti danni abbia fatto questa sovrastruttura con i suoi derivati (tra cui la castità imposta e fasulla dei membri del Clero), sarebbe sufficiente leggere le statistiche sugli abusi sessuali ai danni di minori all’interno della Chiesa: un fenomeno spaventoso. I danni che investono la popolazione civile non confessionale, però, non si limitano a forgiare personalità come quella di Simone Pillon. Quello è folklore, mentre le conseguenze diffuse sulla popolazione sono come l’effetto di una bomba “intelligente” su un mercato: o creano dei mostri foderati di moralismo, bigotti, frustrati e potenzialmente pericolosi, oppure fanno crescere milioni di persone con il senso di colpa dell’amare uno del proprio sesso, del non sentirsi a proprio agio nel proprio corpo, del piacersi con una spiccata parte femminile, essendo maschi, o maschile, essendo femmine.
Il disegno di legge a prima firma di Alessandro Zan, padovano d’avanguardia come molti padovani, testo sulla bocca di tutti ma letto da pochi, intende punire i mostri che istigano a violenza o discriminazione (anche verbale) o la commettono in proprio contro quelli che i sensi di colpa non li supereranno mai, o quelli che ci convivono a costo di prove quotidiane di sopravvivenza (sociale) e trasformazione (da ciò che gli altri vogliono che tu sia, a ciò che vuoi essere tu). A proposito di questo testo, che è corto e può essere agevolmente letto [Vedi qui], assieme all’art.604 bis del codice penale di cui si propone di costituire una estensione, vorrei fare due preghiere (laiche, ovviamente).
La prima: si tratta di un testo che, alla maniera delle buone leggi sui diritti civili (quella sul divorzio, quella sull’aborto, la legge Basaglia, quella sulle unioni civili), favorisce e promuove la piena corrispondenza tra l’evoluzione della società civile e il livello di riconoscimento e tutela ad opera del legislatore. Detto questo, evitiamo di diventare noi stessi/e degli ayatollah. Evitiamo di distribuire patenti di traditori tra le nostre fila, evitiamo di fare le lesbiche dure e pure o le femministe doc, evitiamo gli integralismi, che dovrebbero essere esattamente ciò contro cui combattere. Ho già colto i germi di questa mentalità in certe assurde incursioni nel mondo dell’arte. Film, libri e autori rivisitati in nome del politicamente corretto. Tutto questo è folle. L’arte non deve educare nè essere educata, l’arte è il regno della libertà totale. Prendersela con Nabokov per aver scritto Lolita o con Celine per aver scritto Viaggio al termine della notte, o con Bukowski per i suoi taccuini di un vecchio sporcaccione non è progressista, è oscurantista e prefigura, per dirla con Walter Siti, il temibile futuro in cui, ad esempio, la letteratura “… si crede depositaria del bene già dall’inizio, e pensa che l’unico suo compito sia diffondere questo bene”.
La seconda preghiera è: la sinistra non si divida anche sui diritti civili fino a far saltare tutto. Già lo ha fatto sui diritti sociali, creando una spaccatura verticale all’interno stesso del corpo più caldo della propria gente (pensiamo al Jobs Act). Per una volta gli schei non c’entrano (o non dovrebbero, per quanto certe manovre parlamentari puzzino sempre di soldi e posti). Mettetevi d’accordo sui dettagli, ma salvate la sostanza. Negoziate sulla giornata di promozione nelle scuole, ma salvate la tutela delle persone transgender (mi piacerebbe sapere cosa ne pensa Lucia Annibali di Italia Viva, prima firmataria dell’ attuale art.1 della legge, della giravolta del suo capo che lo vuole togliere di mezzo perchè “divisivo”). Le persone più responsabili e illuminate dell’arco che ha sostenuto e scritto questa legge facciano uno sforzo per non delegittimarsi a vicenda, per evitare i settarismi (specialità nella quale la sinistra è maestra) e i politicismi (specialità nella quale purtroppo Renzi suppone di eccellere). Se in effetti c’è bisogno di cambiare qualcosa per mettere al sicuro il voto fatelo, e agite in buona fede. Mettetevi d’accordo per favore, e portiamola a casa.
Scritto da Ranieri Varese il . Pubblicato in IL QUOTIDIANO, In Evidenza.
Di cosa Parliamo:
Il pittore Giuseppe Ghedini lascia, alla sua morte nel 1791, alla Biblioteca, oggi Ariostea, un taccuino contenente 31 disegni eseguiti per l’edizione veneziana del Ricciardetto. Il taccuino scompare e riappare nel 2020 sul mercato antiquario.
Alcune associazioni culturali cittadine chiedono alla Amministrazione di farsi carico del suo recupero. L’Assessore alla Cultura, geometra Marco Gulinelli, dichiara il proprio impegno, ma intanto segnala la presenza dei disegni alla Fondazione Cavallini Sgarbi che li acquista.
In data 19 maggio 2021 le consigliere comunali Ilaria Baraldi (dem) e Roberta Fusari (Azione Civica) depositano una interrogazione nella quale chiedono perché l’Assessore ha favorito una Fondazione privata invece di operare perché il taccuino ritorni nella sede destinata.
Per regolamento la risposta è pubblica, merita di essere conosciuta (ci scusiamo per la lettura difficoltosa del pdf ndr,)
Alcune osservazioni alla risposta dell’Assessore Gulinelli:
Già la Consigliera Comunale Ilaria Baraldi ha puntualmente ricordato alcune delle carenze della risposta dell’Assessore Gulinelli.
La Consigliera osserva che l’Assessore non spiega perché non ha immediatamente avvertito gli organi della tutela affinché un bene pubblico, illecitamente trafugato, fosse restituito all’ente proprietario. Gulinelli mente alle interpellanti parlando di un autonomo interesse della Fondazione Cavallini Sgarbi. Il Presidente della Fondazione, Vittorio Sgarbi, ha pubblicamente dichiarato che è stato l’Assessore a chiedergli di intervenire: “Gulinelli mi ha fatto una richiesta”.
La Baraldi nota infine: “Che un bene pubblico (lo era, doveva tornare a esserlo) finisca ad arricchire una collezione privata anziché tornare al suo legittimo proprietario (il Comune e la Biblioteca Ariostea) proprio grazie all’azione di un assessore non credo sia solo sconveniente”. Opinione che implicitamente ipotizza la necessità di verificare anche responsabilità più gravi.
Vorrei aggiungere che la Fondazione Cavallini Sgarbi non raccoglie solo opere per volontà di collezione ma ne fa anche mercato. Lecitamente perché autorizzata dall’art. 3 comma i del proprio statuto. Sorprende che l’Assessore neghi la possibilità di acquisire in antiquariato, dimenticando che l’Amministrazione lo ha fatto in passato, e favorisca chi a quel mercato partecipa.
L’Assessore dimentica di avere scritto che la Fondazione avrebbe “donato” il taccuino alla Biblioteca. Lo smentisce il Presidente della Fondazione il quale, del tutto legittimamente, dichiara che i disegni seguiranno le sorti della raccolta; non saranno donati ma potranno essere esposti al pubblico, temporaneamente, nella sede di Palazzo Schifanoia.
Visto che non vi è alcun rapporto con il palazzo e le sue raccolte è lecito chiedersi cosa ne pensa la direzione di quel museo; come, formalmente, si giustifica l’intervento di una istituzione esterna alla amministrazione.
L’assessore parla della necessità di rivolgersi a esperti ‘terzi’ per una valutazione. Evidentemente non ha fiducia nelle competenze presenti negli uffici municipali; evidentemente ignora che gli uffici di Soprintendenza svolgono anche questo compito.
L’assessore non conosce o vuole ignorare la legislazione afferente, in particolare quanto prescrive il Codice dei Beni Culturali. L’assessore ignora, o finge di ignorare, il tema del rapporto pubblico-privato: non sa come costruirlo, o non vuole.
Molto altro si potrebbe aggiungere. Resta che la risposta dell’Assessore testimonia la volontà di elusione del problema o la sua incapacità ad affrontarlo. Tutta la gestione della vicenda toglie credibilità e affidabilità ad ogni azione che l’Assessore porrà in essere.
Scritto da Francesca Bonifacio il . Pubblicato in IL QUOTIDIANO, In Evidenza, SESTANTE: LETTURE E NARRAZIONI PER ORIENTARSI.
Il 3 luglio 1883, esattamente 138 anni fa, nasceva Franz Kafka, forse l’autore più grande, sicuramente l’autore più novecentesco del XX secolo.
L’estate rovente non sembra conciliare la lettura di un autore come Kafka che proprio a chi non ha mai osato sfogliare uno dei suoi libri sembra un macigno insostenibile e decisamente fuori stagione. Eppure è questo il macigno che ha il potere di alleggerire i pesi e le fatiche della vita poiché tra le pagine è possibile acquisire una consapevolezza rara in grado di farci prendere le distanze ma allo stesso tempo consapevolezza dei nostri limiti umani. Se la convinzione che le nostre esistenze acquistino consistenza grazie ai traguardi allora non ci si dimentichi che proprio i nostri successi non sono altro che il superamento delle nostre fragilità e dunque l’altra faccia della medaglia che si è tentati di nascondere.
La scrittura di Kafka si può considerare solo in perenne equilibrio precario, esattamente come la medaglia della vita si alimenta tra un fallimento e un successo. È risaputo che in vita Kafka non si considerasse nemmeno scrittore e se non fosse stato per l’amico Max Brod, oggi nessuno lo ricorderebbe come uno dei più grandi scrittori del secolo scorso. È certamente uno scrittore complesso per chi ha passato la vita a tentare di comprenderlo e interpretarlo ma è sorprendente come la potenza della sua scrittura lo renda semplice ai profani. D’altra parte non si potrà considerarla un’opera accessibile, ma non si tratta di competenza o conoscenza dell’autore; in realtà, più ci si addentra e più ci si allontana.
Certo è, che non è facile concepire l’idea di portare uno dei suoi libri in valigia. Eppure proprio così come la stanchezza attende impaziente un viaggio, così questa potrebbe rivelarsi un attivatore fondamentale per avvicinarsi a Kafka, come l’inizio di una vacanza crea le condizioni perfette per un nuovo amore. Proprio mentre le energie vengono meno, la stanchezza tenta di attivare la ricerca di riposo, e se da un lato si rivela vana perché generatrice a sua volta di stanchezza, dall’altro è proprio la mancanza di energie che mette in luce ciò che sfinisce. In particolare, in questo circolo vizioso si apre un vortice, (che la critica individua nel processo di rovesciamento tipicamente kafkiano), che svela almeno in parte uno degli aspetti più affascinanti che si cela nelle pagine esauste di Kafka e cioè il presupposto necessario che i romanzi debbano restare incompiuti di fronte a qualunque tentazione di metterci la parola “fine” perché farebbe svanire l’essenza stessa del romanzo.
In Der Verschollene (Americana), [qui] Karl raggiunge il Nuovo Mondo provato da un viaggio estenuante che tuttavia non inaugura l’inizio del sogno americano, ma rimarca piuttosto la mancanza di una patria, quella di origine e soprattutto l’assenza di una nuova che in principio doveva accoglierlo dopo l’esilio dall’Europa.
Al giovane Karl Roßmann non basterà mostrare umiltà e buona volontà all’Hotel Occidentale per intraprendere l’ascesa sociale; in Kafka questi non costituiscono i requisiti per il successo bensì i presupposti per il fallimento. Il lettore non può che partecipare passivamente alle sventure più che avventure del giovane perdente.
Chi non ha mai incontrato, almeno una volta, un Delamarche o un Robinson che da amici premurosi si rivelano presto i migliori opportunisti sulla piazza, pronti a tutto pur di nutrirsi dei pochi mezzi che l’ingenuo Karl tiene con parsimonia e fatica. Dopotutto il mondo ne è pieno. Tuttavia Karl persegue la sua battaglia per la sopravvivenza conservando l’unica cosa che possiede davvero; il suo buon cuore. Lo conserva sì, ma a caro un prezzo. Il tentativo di realizzare una nuova vita lo spinge lontano da qualsiasi relazione umana, mentre quello di uscire da situazioni critiche lo indebolisce al punto che ogni volta è costretto a ripartire per un altrove sconosciuto; e ancora un volta Karl deve ricominciare da capo. Poi l’occasione della vita è lì, su un manifesto piuttosto inverosimile a dir la verità, ma davanti ai suoi occhi stanchi e increduli, il disperato bisogno di appartenere a qualcosa lo trattiene e a convincerlo bastano poche parole che legge: “tutti sono i benvenuti”.
Se scrivere, per Kafka, significa denudarsi di fronte a se stessi, leggere diventa lo specchio senza il filtro della menzogna. È questa, probabilmente, la ragione che impedisce a Josef K. di iniziare la sua difesa in Der Prozess (Il Processo), o forse la ragione stessa. La necessità di prendere in mano la propria difesa è anche sintomo di sfiducia nei confronti di un Tribunale che intenta un processo su fragili e inconsistenti accuse, ma soprattutto costituisce il desiderio di misurarsi con il più terribile di tutti: il proprio sguardo giudicante. Josef K., brillante dirigente di banca, impeccabile e irreprensibile uomo di mondo tiene a bada l’intero ufficio ma gli basta oltrepassare la soglia di un lurido e insignificante ripostiglio per avere un crollo di nervi.
La lentezza con cui prosegue Der Prozess (Il Processo)[qui] è in netto contrasto con la durata degli eventi che si condensano in pochi attimi. Sembra durare un’infinità la sosta di Josef K. nelle soffitte ma, poco dopo il suo ingresso, la perdita progressiva di forze lo trascina velocemente all’uscita. Il tempo dilatato è palpabile anche nello studio di Titorelli; sembrano migliaia i quadri identici che l’artista mostra uno dopo l’altro al nostro Josef K., ma in questa minuscola stanza senza finestre da aprire e schiacciata dal basso soffitto, si può restare solo pochi minuti a causa dell’aria irrespirabile.
Se il procedimento si evolve inarrestabile questo non vale per l’autobiografia che Josef K. intende scrivere a sua difesa e resta bloccata dall’inizio proprio per la mancanza di energie che il processo stesso gli toglie. La frenesia di chiuderlo in realtà lo allontana da una risoluzione, salvo poi realizzare che non sembra esserci alcun Tribunale, alcun “vero” giudice e nemmeno una sentenza e ciò nonostante il verdetto sarà irrevocabile.
E cosa fare quando un uomo qualsiasi che proviene da un posto qualsiasi riceve la chiamata dal Castello? Dove andare se al Castello non è consentito l’ingresso e al villaggio dove K. giunge non si può restare? Kafka, in Das Schloß (Il Castello), [qui] fornisce una dimensione narrativa priva di qualunque indicazione temporale o spaziale anche se il vero smarrimento della “storia” è affidato al vuoto dei dialoghi disseminati tra le pagine che non permettono una reale evoluzione. Ci si dovrà affidare allo sguardo di K. per procedere a passo lento nella lettura; solo così si potrà, a fatica, voltare pagina.
Lo sguardo di K. è il perno attorno al quale ruotano gli sguardi sospettosi e morbosi delle figurine, più che personaggi, che popolano il romanzo; un continuo cambio di prospettiva che alla lunga indebolisce il lungo e faticoso cammino verso l’irraggiungibile Castello che non lo perde mai di vista. Il bisogno incessante di riposo ritarda o anticipa gli eventi e più ci si convince che la meta è vicina, più si realizza che K. non raggiungerà mai il suo obiettivo. Ma allora cosa spinge a continuare una lettura che sembra girare a vuoto, che sembra portare al nulla? Di fatto nulla, se non fosse che l’insistenza a voler riempire quel nulla ci costringe da un certo punto in poi a non poterne fare a meno.
“Da un certo punto in là non vi è più ritorno. Questo è il punto da raggiungere.” Che Kafka non me ne voglia se sono costretta a tirare in ballo uno degli aforismi scritti a Zürau! (Die Zürauer Aphorismen – Aforismi su Zürau).[qui]
Letture consigliate:
Beschreibung eines Kampfes – La descrizione di una battaglia (1904-1905)
Das Urteil – La Condanna e Die Verwandlung – La Metamorfosi (1912)
Ein Bericht für eine Akademie – Una relazione per un’accademia e Der Jäger Gracchus – Il Cacciatore Gracco (1917)
Der Bau – La Tana (1923-1924)
Scritto da Andrea Zerbini il . Pubblicato in IL QUOTIDIANO, In Evidenza, SESTANTE: LETTURE E NARRAZIONI PER ORIENTARSI.
«La parrocchia, appunto perché è una comunità, non può avere il passo delle élites. Il suo è un passo cadenzato e stanco, misurato sugli ultimi più che sui primi: e dietro l’ambulanza, per chi si lascia cadere sullo zaino a terra; il grosso della parrocchia viene avanti come può, e non è detto che anche lì non ci sia un po’ di quel sale della terra e di quella luce del mondo che serve per far fronte all’anticristianesimo avanzante. Anche una briciola serve, anche una memoria, un’abitudine lontana».
Leggendo queste righe vien da pensare che siano di papa Francesco. E invece no: a scriverle è stato don Primo Mazzolari (La riforma della parrocchia, in Il nostro tempo, 28.8.1948). Un profeta ‒ è proprio il caso di dire ‒ che, già alla metà del secolo scorso, coglieva la necessità di una riforma della parrocchia e l’urgenza di un nuovo stile e di un nuovo e più vivo linguaggio per dire Dio. In breve: una teologia poetica. Del resto, la testimonianza precede le parole; è loro ispiratrice. E come nella poesia, ne costituisce sorgente creativa: «Dobbiamo divenire i poeti del nostro ‘mestiere’ ‒ scriveva per l’appunto don Primo ‒ perché noi creiamo sempre: benedicendo, parlando, consacrando, amando» (Preti così, Bologna 1980, 148-149).
Di qui la necessità vitale di portare «il peso umano del pane», di dover mettersi nei panni delle persone, calcarne le orme, in ascolto del loro cuore, in mezzo a loro come testimoni di un altro “cuore trafitto” al pari del loro: «La fede è vita ‒ e quale vita! ‒ una testimonianza convincente non può esserci data che dalla vita». E pertanto «non si può usare la verità come una clava, un guanto di ferro, una spada. Certe durezze e implacabilità da guardiani gelosi e inintelligenti, certe intransigenze di metodo e certe dubbie amplificazioni presentate come necessarie, non servono la verità, che può essere proposta, senza diminuirla, in tanti modi».
È sempre don Primo che scrive e continua: «La regalità della verità assomiglia a quella di Cristo, che ha per emblema una corona di spine, per trono una croce, per scettro una canna, per strada un calvario, per parabola un pugno di lievito e un granello di senape. Purché venga accolta con libertà e con gioia. La verità, non la nostra verità. Perché la verità non ha padroni. Il mio e il tuo sono sacrileghe incrostazioni. A nessuno Iddio volle affidare il compito di fare trionfare la verità, ma solo di renderle testimonianza nella carità: “veritatem facente in caritate”. Dio non vuole che per accendere una lampada si spenga un cuore» (Della fede, della tolleranza, della speranza, Bologna 1995, 53; 134-135).
Così, ogni tanto vado a rileggermi una pagina del Diario di un curato di campagna di Georges Bernanos [Qui] e subito mi ritrovo tra la gente: «So che la mia parrocchia esiste realmente, che siamo l’un dell’altra per l’eternità, che è una cellula vivente della Chiesa imperitura e non una finzione amministrativa. Ma vorrei che il buon Dio m’aprisse gli occhi e le orecchie, mi permettesse di vedere il suo viso, di sentire la sua voce. È un domandare troppo, forse? Il viso della mia parrocchia! Il suo sguardo! Dev’essere uno sguardo dolce, triste, paziente … Lo sguardo che Dio ha visto dall’alto della Croce», (Diario di un curato di campagna, Milano 1965, 37).
Se per don Primo la vita di una parrocchia è raffigurata dall’“ambulanza” posta in fondo in compagnia degli ultimi, l’intera chiesa di questo nostro tempo ben può essere raffigurata ‒ con le parole di papa Francesco ‒ come un “ospedale da campo” per la «capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo» (Intervista in La Civiltà Cattolica, 3918, 2013).[Qui]
E così dev’essere anche la teologia, espressione della cura e del dono di «una Chiesa che è ospedale da campo, che vive la sua missione di salvezza e guarigione nel mondo. La misericordia non è solo un atteggiamento pastorale ma è la sostanza stessa del vangelo di Gesù. Vi incoraggio a studiare come nelle varie discipline – la dogmatica, la morale, la spiritualità, il diritto e così via – possa riflettersi la centralità della misericordia. Senza la misericordia la nostra teologia, il nostro diritto, la nostra pastorale corrono il rischio di franare nella meschinità burocratica o nell’ideologia, che di natura sua vuole addomesticare il mistero. Comprendere la teologia è comprendere Dio, che è Amore», (Lettera ad decano della Pontificia università cattolica argentina, 3 marzo 2015).
La teologia deve narrare lo sguardo del Crocifisso risorto e del suo farsi prossimo ad ogni persona. Dev’essere in grado di svelare il volto di quel forestiero che si accompagnò ai discepoli la sera di Pasqua: colui che è più intimo a noi di noi stessi, la nostra gioia sorgiva, quella che rende il cuore inquieto in cerca della verità nella vita: «La gioia della verità esprime il desiderio struggente che rende inquieto il cuore di ogni uomo fin quando non incontra, non abita e non condivide con tutti la Luce di Dio. La verità, infatti, non è un’idea astratta, ma è Gesù, il Verbo di Dio in cui è la Vita che è la Luce degli uomini, (cfr. Gv 1,4) il Figlio di Dio, che è insieme il Figlio dell’uomo. Egli soltanto, «rivelando il mistero del Padre e del suo amore, rivela l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione. Uno dei contributi principali del Concilio Vaticano II è stato proprio quello di cercare di superare il divorzio tra teologia e pastorale, tra fede e vita. Oso dire che ha rivoluzionato in una certa misura lo statuto della teologia, il modo di fare e di pensare credente. La teologia, non vi è dubbio, dev’essere radicata e fondata nella Sacra Scrittura e nella Tradizione vivente, ma proprio per questo deve accompagnare simultaneamente i processi culturali e sociali, in particolare le transizioni difficili. Anzi, in questo tempo la teologia deve farsi carico anche dei conflitti: non solamente quelli che sperimentiamo dentro la Chiesa, ma anche quelli che riguardano il mondo intero» (Veritatis gaudium, Costituzione Apostolica su Università e Facoltà ecclesiastiche 2018).
Decisiva e centrale risulta per la comprensione della teologia di Francesco, come per la sua riflessione antropologica e sociale, la cultura dell’incontro e del dialogo mediante un processo “in uscita”. Un processo di attraversamento dei confini capace di situarci in prossimità dell’altro, sino a trasformare la nostra periferia in un nuovo centro. Non più senza di lui: se manca, se ci si sottare alla relazione, le fratture esistenziali generano isolamento, pensiero autoreferenziale e, alla fine, rendono la comunicazione incomprensibile. Il pensiero teologico è allora un pensiero di ricerca, che avanza necessariamente in compagnia, perché intrinsecamente claudicante.
Così come la rivelazione di Dio, la sua Parola, non è senza le parole umane, così la teologia non può vivere senza la relazione alla vita del popolo: «Essere gesuita significa essere una persona dal pensiero incompleto, dal pensiero aperto: perché pensa sempre guardando l’orizzonte che è la gloria di Dio sempre maggiore. E questa è l’inquietudine della nostra voragine; possiamo chiederci se il nostro cuore ha conservato l’inquietudine della ricerca, o se invece si è atrofizzato; se il nostro cuore è sempre in tensione: un cuore che non si adagia, non si chiude in se stesso, ma che batte il ritmo di un cammino da compiere insieme a tutto il popolo fedele di Dio. Bisogna cercare Dio per trovarlo, e trovarlo per cercarlo ancora e sempre. Solo questa inquietudine dà pace», (Omelia, 3 gennaio 2014) [Qui]
Ma uscire verso le periferie e varcare i confini non è solo un problema di aggiornamento pastorale, indispensabile a evitare l’autoreferenzialità e la sterilità culturale. Per papa Francesco, è anche e soprattutto una questione propriamente teologica: l’uscita è una maniera di seguire Cristo e in lui incontrare il mistero di Dio in sé e negli altri: «Nella misura in cui usciamo dal centro e ci allontaniamo da esso scopriamo più cose, e quando guardiamo al centro da queste nuove cose che abbiamo scoperto, da nuovi posti, da queste periferie, vediamo che la realtà è diversa. Una cosa è osservare la realtà dal centro e un’altra è guardarla dall’ultimo posto dove tu sei arrivato», e sappiamo chi incontreremo anche nell’ultimo posto. (Intervista, in www.terredamerica.com).
L’opzione fondamentale attraverso cui Francesco intreccia la sua riflessione teologica è quello della misericordia: «Sono due logiche di pensiero e di fede: la paura di perdere i salvati e il desiderio di salvare i perduti. Anche oggi accade, a volte, di trovarci nell’incrocio di queste due logiche: quella dei dottori della legge, ossia emarginare il pericolo allontanando la persona contagiata, e la logica di Dio che, con la sua misericordia, abbraccia e accoglie reintegrando e trasfigurando il male in bene, la condanna in salvezza e l’esclusione in annuncio», (Omelia, 15 febbraio 2015) [Qui]
Tale interpretazione complessiva nasce, infatti, da una considerazione originaria della sua esperienza che è, nello stesso tempo, teologica e spirituale: «La misericordia eccede, va sempre oltre», (Misericordia et misera, 19). Principio fondativo e punto di convergenza di una retta fede (ortodossia); di una pratica che ispira e nutre la fede (ortoprassi); di un retto cuore: un sentire e un valutare con cuore umano e sensibilità evangelica (ortopatia). La misericordia di Dio dice la sua accondiscendenza: lo scendere e il fermarsi del samaritano, l’abbassarsi verso gli infermi di un medico, il farsi prossimo fino a impregnarsi dell’umano, come il pastore dell’odore delle pecore.
Per questo, nulla meglio del gesto di Gesù che si inginocchia a lavare i piedi ai discepoli è in grado di esprimere il senso teologico della Chiesa e della sua missione nel mondo. A partire dalla lavanda dei piedi si è infatti avviato un processo di conversione, affidato ai discepoli, che attiene al modo di vivere le relazioni nella forma della misericordia originaria del Padre che si è rivelata nel gesto profetico del Figlio: «Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti. Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 43,45).
Il gesto di Gesù, volutamente originario, generativo ed esemplare, dischiude il dono e l’impegno a ricrearlo sempre di nuovo, nel tempo e nello spazio, gli uni gli altri, al modo delle note di uno spartito che, scritte e suonate una prima volta, poi continuano ad essere reinterpretate con sempre nuova creatività, in un processo musicale stupefacente.
In questa prospettiva non sorprende allora che il teologo Pierangelo Sequeri abbia descritto la teologia di Francesco come una «sinfonia incompiuta» in occasione del Simposio su Teologia e magistero nella Chiesa con Papa Francesco tenuto all’Università Gregoriana nel 2019. Non diversamente dalle parole: «Così fate anche voi» nella lavanda dei piedi, Sequeri ricorda come anche Francesco ci affidi suggestioni pastorali come fossero note, che poi tocca a noi interpretare, dando prova di comporre la nostra vita sulle note della Parola di Dio. «Dio se l’aspetta da noi: vuole suscitare risposte, e la musica fa questo lavoro da sempre».
Alla fine ritorno al Mazzolari dell’inizio per ricordare come la teologia di papa Francesco ci insegna a portare «il peso umano del pane»: la vita del popolo; ci invita a tenere insieme «il pane e la mano che lo dona»: la misericordia del pane spezzato, con il sacrificio di coloro le cui mani lo hanno preparato. Così è pure tenere uniti il pane della parola di Dio con i testimoni che hanno trasformato il loro in pane eucaristico, pane spezzato e condiviso: «Io ricevo il mio pane quotidiano da tante mani, da milioni di mani che hanno lavorato per me, sudato per me, rubato il tempo al sonno, al riposo, alla gioia per me. Dio mi serve per mezzo di tante creature, che non conosco».
Il pane non senza le mani, la teologia non senza la vita, le mani della gente: «Cancellando quella mano dal mio pane, cancello i chiarori dell’alba, il fulgore del meriggio, le iridescenze delle rugiade, i muti colloqui delle stelle con le spighe, la sinfonia del vento, il canto degli uccelli, lo zirlio dei grilli, la paziente fatica dei lombrichi, le canzoni dei mietitori, il muggito dei bovi, l’odore dei fieni.
Quale peso di bontà e di poesia in ogni briciola di pane! Il cantico delle creature, segnato su ogni boccone di pane, fa del mio pasto un rito di comunione naturale, che mi prepara a capire il mistero della comunione col corpo e il sangue del Signore. Il sacrificio è il valore del pane: il suo peso umano, che mi sento palpitare tra le mani come qualche cosa che già appartiene a Cristo: un po’ della sua passione, ch’egli “consuma” nel sacramento, stabilendo nell’eterno la preziosità d’ogni lacrima e d’ogni goccia di sudore e di sangue». (La parola che non passa, Vicenza 1966, 96-97).
Papa Francesco? Don Primo direbbe: un cristiano che non ha paura dell’amore sempre più grande: «Chi crede non ha paura, né di quello che tramonta né di quello che sorge, né di quello che crolla né di quello che sotto il sole gli uomini ricostruiscono. Bisogna aver paura di essere travolti con ciò che cade solo perché non ce ne siamo sciolti a tempo, riparando nell’eterno. Bisogna aver paura di non essere presenti nella novità che sorge, perché noi siamo la novità che deve scaturire dalla nostra fede, come “acqua saliente (ascendente) a vita eterna”… Il volto inconfondibile della rivoluzione cristiana è la capacità perennemente creatrice della nostra fede. Il nuovo deve portare qualche cosa di nostro, il nuovo è nostro, generato dalla nostra fede. Sulle strade della giustizia e dell’amore, un cristiano che non sia un «di più» è un perduto. “Non c’è amore più grande…”. L’amore (misericordia) più grande fa la rivoluzione più grande, la sola di cui il mondo ha bisogno» (La rivoluzione cristiana, Bologna 1995, 183-184; 186).
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Scritto da Ciarin il . Pubblicato in Al cantóη fraréś, IL QUOTIDIANO, In Evidenza.
Abbiamo accostato due poesie di Augusto Muratori, poeta e cacciatore, che hanno in comune un elemento che, al giorno d’oggi, desta sentimenti contrapposti: l’attività venatoria.
I sensi all’erta nel maggese o nella valle, la conoscenza del territorio, la pulsione predatoria, contrastano con le riflessioni dell’uomo sulla propria esperienza col fucile: l’instabile equilibrio fra istinto, etica e passione.
Le certezze vengono spazzate via da un improvviso illuminante pensiero della figlioletta.
(Ciarìn)
I tuchìn
E iη s al végar c’al s pèrd
dóv ‘rìva l’òć,
int na scuacióna ad cana
e i stamp intóran
a stava a sptar zìt zìt.
Na buarìna l’era gnuda a bévar
int na rudà d’na màchina lì avśìn.
A santìva al sćifèl sul canalón
d’uη piviér ‘d mar
e int uη mación ad càna
cantàr una spurzlàna.
E pó tut int na vòlta
su i stampìη
cmè tirà da na fiónda
i è arivà
pagnà ad vént, i tuchìn.
I pivieri dorati (traduzione dell’autore)
E sul maggese che si perde / dove arriva l’occhio / in un capanno di canne, scoperto / con i richiami attorno / attendevo in silenzio. / Una cutrettola era venuta a bere / in un solco di ruota di automobile nei pressi. / Udivo il fischio sopra il canalone / di un chiurlo / e in un folto canneto / cantare una gallinella d’acqua. / Poi tutt’a un tratto / sopra i richiami / come scagliati da una fionda / sono arrivati / vestiti di vento, i pivieri dorati.
Tratta da:
Nuove voci della mia terra, premio letterario nazionale “Bruno Pasini”, raccolta antologica 2001-2012, Ferrara, Festina Lente, 2014.
Cumént
Mi ch’am santìva brav, tut pin d’argój,
par sèt òt quàj o du pizacarìη!
Mi ch’am faśéva iηfìη fotografàr
coη n’aliévar iη man o uη maźurìη!
Mi ch’am santìva re dal mónd, iη val,
parché a “sunàva” al sćiòp come uη viulìη!
Mi ch’a mustràva a tuti i mié trofèi
come uη campión dla bici o dal balóη,
ch’am santìva acsì fòrt, acsì cuntént,
e adès santìr mié fiòla dìram séch:
“quant póvar animài cupà par gnént!”
Commento (traduzione dell’autore)
Io che mi sentivo bravo, (tutto) pieno d’orgoglio, / per sette otto quaglie o due beccaccini! / Io che mi facevo persino fotografare / con una lepre in mano o (con) un germano reale! / Io che mi sentivo re del mondo in valle / perché “suonavo” il fucile come un violino! / Io che mostravo a tutti i miei trofei / come un campione della bici o del pallone, / che mi sentivo così forte, così contento, / ed ora sentire mia figlia dirmi senza mezzi termini: /“quanti poveri animali uccisi per niente (inutilmente)!”
Tratta da: Marco Chiarini e Luciano Montanari (a cura di), Al nòstar bel dialèt: antologia degli autori de Al Tréb dal Tridèl, Ferrara, 2G Editrice, 2012.
Augusto Muratori (Longastrino-Fe 1936)
Cresciuto fino a trent’anni a Jolanda di Savoia e Bondeno, da cinqunt’anni risiede a Imola (Bo). Impiegato di banca, compone poesie e filastrocche in dialetto ferrarese e romagnolo. Ha partecipato a concorsi provinciali, regionali, nazionali, ottenendo premi e segnalazioni. È presente in antologie quali Al nostar bel dialet… e Cento anni di poesia dialettale romagnola (1976). Ha pubblicato: Do sbalistrè imulesi sul disciolto Gruppo Balestrieri Imolesi, Acsè par rìdar dla nostra vècia Cassa satire, Al fotti d’la nona : breve saggio di indovinelli, modi di dire e proverbi dell’Imolese e della Romagna estense (1973).
Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia,
esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca (Qui)
In copertina: Segugi – foto di Marsilio Torzoni, 2020
Scritto da Francesco Minimo il . Pubblicato in Fantasmi, IL QUOTIDIANO, In Evidenza.
A Francesco e Carla
La casa era grande e fatta di pietre. Anche la scala che le girava intorno era di pietra e finiva al primo piano in una vasta terrazza. Da tutte le finestre vedevi la montagna di un Appennino né dolce né aspro. Perfetto, come solo in Toscana riesce ad esserlo, quasi per vocazione. I prati, non ancora bruciati dal freddo, erano interrotti dalle ginestre, si alternavano ai castagni, alle farnie, pochi ulivi e isolati alberi da frutto. Vicini o più distanti i paesi medievali dai nomi illustri, non lontano, in mezzo alla piana, ma invisibile dalla casa, Arezzo.
La casa e gli amici erano quanto di più affettuoso si possa immaginarsi. Erano finiti lassù da non molti anni e avevano fatto come le api, avevano curato in ogni minimo dettaglio l’esterno, il prato in pendenza, il viale d’accesso, il taglio degli alberi stranieri e le nuove piantate di alberi autoctoni. E all’interno, a piano terra e al primo piano, diffondendo armoniosamente mobili, stufe, libri e oggetti familiari.
Durante il giorno avevamo vagato per campi e paesi, in macchina e a piedi, verso il crinale della montagna, seguendo il filo della Linea Gotica. A sera, vicino alla stufa economica, si mangiava e si parlava. Di ricordi e cose molto vecchie, e dei ragazzi, così confusi e spaventati, del futuro che vattelapesca cosa mai o molto poco gli potrà riservare. E naturalmente di Piero della Francesca. E della natura che qui ti circonda dai quattro lati. Dei vicini di casa simpatici o strambi, dei tanti inglesi che qui hanno scelto di metter su casa. Ma anche e inevitabilmente, perché siamo a pochi chilometri dalla Linea Gotica, dell’ultima guerra, di quando i tedeschi scappavano e gli alleati risalivano, con molta calma, un’Italia spaccata in due come una mela.
Durante l’ultimo anno di guerra fu il capitano dell’8° Armata Tony Clarke, contravvenendo agli ordini e per amore del bello, a salvare San Sepolcro e le opere di Piero della Francesca. Amava Piero e la sua Resurrezione, o semplicemente era convinto che i tedeschi si fossero già spostati un po’ più a nord, verso Pieve Santo Stefano, là avevano intenzione di attestarsi, resistendo fino a quando fosse pronto quel tratto di Linea Gotica appena qualche chilometro sopra il crinale. Così San Sepolcro si salvò, mentre Pieve Santo Stefano fu rasa al suolo, distrutta non dai bombardamenti americani o dai mortai inglesi della 43° Divisione Corazzata Falco, ma dalle mine che i tedeschi fecero brillare come se il paese fosse una cava di arenaria. Il paese si sbriciolò in ogni sua pietra. Resistere all’avanzata alleata era più facile dietro trincee di macerie piuttosto che scavando buche, e a da quella posizione, da quello che era stata Pieve Santo Stefano e ora era solo un cumulo di sassi, potevano controllare tutta la valle del Tevere. Quell’inverno e quella primavera non finivano mai, la Linea Gotica fu abbandonata solo nell’aprile del 1945. Quando gli abitanti di Pieve Santo Stefano, sfollati nei borghi vicini o nelle campagne, tornarono alle loro case, non ne trovarono in piedi nemmeno una.
Mi raccontano gli scontri a fuoco, le rappresaglie, gli eccidi di cui trovo nomi, date, croci e distratta memoria in tante lapidi, nei crocicchi, ai bordi delle strade, nelle piazzette delle contrade, nei paesi più grandi, magari accanto alle statue o ai ricordi del passaggio vero o presunto del generale Garibaldi. Gli eccidi, le rappresaglie, le hanno fatte i tedeschi ormai allo sbando e in affannosa ritirata, con i panzer senza più nafta e riadattati con rudimentali caldaie a legna, improvvisamente spaventati della loro stessa paura, per la prima volta dubbiosi di poter tornare a casa.
La strage più vicina? E’ appena dietro quel monte, a pochi chilometri, dove una volta c’era e ora non c’è più il borgo di Val Lucciole, un nome così incongruo per una storia così atroce. All’alba del 13 aprile ’44 la famigerata Divisione Hermann Goering eliminò per rappresaglia tutto il paese, 107 persone in tutto. Ma in tutta la valle, e nelle valli vicine, è morto un numero impressionante di persone. Civili, e soldati tedeschi, partigiani, inglesi, tantissimi pakistani in forza alle forze alleate e che i comandanti britannici mandavano ad aprire le vie e a prendersi le pallottole. Questa terra ha avuto sangue e concime per molti secoli a venire.
I racconti, le parole e il vino sono finiti, almeno per questa sera. I cari amici mi accompagnano nella mia stanza, con un ultimo scherzoso avvertimento: “Se questa notte senti un rumore infernale in giardino, fin sulle scale della terrazza, non spaventarti, sono solo i cinghiali che scorrazzano. Sono loro i padroni della montagna, bisogna farci l’abitudine”.
Leggo per pochi minuti, la mano che tiene il libro spunta appena dal piumino. Provo ad ascoltare le voci del bosco, un ultimo gioco fra me e me, e sento che per vincere a quel gioco mi basterebbe una sola foglia contro il vetro, un cane dalla collina di fronte, ma c’è un silenzio compatto, primitivo. Il libro fa un volo leggero dall’altra parte del lettone, mi addormento di colpo come un bambino piccolo.
Cerco con qualche affanno il cellulare seppellito nelle pieghe del piumino, buio pesto, sono le tre e mezza. Ora sono seduto ritto sul letto, perfettamente sveglio e ascolto quel rumore tremendo, sfacciato, infinito, infernale come ha detto il mio amico la sera prima. Cerco di localizzarlo nel buio. Si sta avvicinando alla casa, diventa più forte, si frange in molti suoni e toni discordanti, nemici tra loro ma che si sommano in un unico ringhioso muggito. Il branco di cinghiali padroni della montagna.
Ora sono davvero vicini, salgono la scala esterna, raspano contro la porta finestra. Ma non sono cinghiali, e neppure lupi, in un attimo ne ho la certezza. Dentro quel rumore sento cose che con i cinghiali non possono accordarsi in nessun modo. Sento una risata, un battere di mani e alcune parole, frasi concitate, altre risate. Sento gridare Schnell Schnell. E in dialetto toscano: Siamo arrivati prima noi. In uno strano inglese: Very well. come one, let’s do it again. Un’altra voce italiana ha un accento del Sud, forse calabrese: Sì, però ora tocca a noi nasconderci.
Mio dio, non sono cinghiali. Sono i civili trucidati e i fantaccini innocenti, i mille morti della valle che giocano fra loro a nascondino o a moscacieca. Possono giocare, finalmente l’orrore è finito. Mi alzo di scatto, afferro la maniglia della porta finestra, apro il vetro, ascolto ancora dietro le persiane. Ora stanno ripartendo di corsa, si allontanano, le voci sono inghiottite dal buio.
Dalle persiane della mia stanza filtra la debole luce invernale dell’alba. Mi alzo e vado in cucina. Dentro tutte le finestre c’è un muro di nebbia. Bevo un bicchiere d’acqua. Non si sente più alcun rumore.
Racconto inedito, proprietà dell’autore.
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Scritto da Costanza Del Re il . Pubblicato in IL QUOTIDIANO, In Evidenza, Le storie di Costanza.
Io sono nata in città, ma vivo a Pontalba da molti anni. La gente di Pontalba è la mia gente. Il rapporto che ho con alcuni pontalbesi è quasi-quotidiano, ci vediamo sempre. Vado da Camilla a prendere il pane ogni giorno, poi a prendere il giornale e poi la frutta. Il giro è sempre lo stesso, le persone che incontro anche.
A Pontalba ci sono i miei vicini di casa, le mie amiche e i miei parenti. C’è il cimitero con i miei cari morti e ci sono i tre figli di mia sorella che rasserenano il mondo. La gente di Pontalba è gente di pianura. Gente di paese. Siamo in Lombardia, tra i campi e lungo le rive del Lungono, il fiume che accompagna l’esistenza di tutti i pontalbesi. Pontalba fa parte del parco del Lungone Nord e i vincoli paesaggistici fanno sì che l’area abitata resti pressochè immutata, compreso la forma e il colore delle case. Basse e spesso bianche. Sono vecchie case di campagne ristrutturate, oppure villette di nuova costruzione. Quasi tutti qui hanno l’orto, il cortile, il garage. Pochissimi pontalbesi vivono in appartamenti, nessuno paga l’affitto. Le case sono di proprietà, ereditate dai nonni contadini che abitavano la zona prima di noi.
Il Lungono fa parte della nostra vita, della vita di questo paese che cammina piano e sicuro come la sua acqua. L’acqua del Lungone è verde, piatta, profonda. Diventa molto più bassa quando viene incanalata per irrigare i campi di granoturco d’estate. Poi si rialza e, durante l’autunno e l’inverno, scorre lenta e sicura verso la foce.
Camminare lungo il Lungono rende la mia vita sempre uguale e sempre diversa, una sorpresa al giorno, la certezza di sempre.
Mi sono chiesta spesso che rapporto ci sia fra il nostro desiderio di novità e il nostro bisogno di conferme. E’ un rapporto simbiotico, in continuo mutamento. Quando siamo saturi di certezze desideriamo ardentemente qualche novità e quando arrivano importanti novità che ci destabilizzano veniamo presi da una profonda nostalgia per il consueto, per il già dato che in quanto tale, rassicura. Non ci sono margini di imprevedibilità in ciò che è sempre uguale. Non c’è possibilità d’errore in una aspettativa corrisposta nel modo che sappiamo pensare. La storicizzazione degli eventi li cristallizza definitivamente nel marmo del tempo che fu. Nel tempo che è già passato c’è la radice di ogni nostra certezza. Nel fiume la cui acqua sembra sempre quella ed è sempre diversa, c’è ciò che ogni giorno proviamo ad essere in questo angolo di mondo. C’è la certezza della vita che prosegue, c’è la memoria di una storia lineare, c’è una buona aspettativa per il futuro garantita dall’origine di ciascuno di noi. Dal fiume dal quale veniamo e al quale torneremo viene una conferma. Come terra che si depositerà sul fondale e perché no, ritornerà definitivamente al suo pianeta, così siamo noi, futura terra. Questa è la certezza di fondo, la prevedibilità del nostro esistere, lo scorrere lento e regolare del nostro fiume. Questa sicurezza, non spaventa nessuno, accompagna.
Lungo le sponde del fiume si trova anche la novità, si ha un ritorno molto forte del tempo che passa. Le stagioni cambiano, spuntano i fiori, crescono, si seccano, marciscono. Spuntano i funghi, crescono velocemente, qualcuno li raccoglie, alcuni non li trova nessuno e diventano concime. La vegetazione è una sorpresa quotidiana, è una scoperta che accompagna, che evidenzia il tempo così come lo conosciamo, che annulla l’idea di tempo così come l’accelerazione mediatica e consumistica propone. Non c’è accelerazione lungo il fiume. C’è novità. Non esiste un buon rapporto tra novità ed accelerazione. Ciò che viene trovato, consumato e archiviato subito non è naturale, è un artificio pericoloso che porta al disintegrarsi di qualsiasi desiderio. Un fuoco che brucia tutto, impressiona, ma muore subito. Un fuoco morto è triste. Lascia molta desolazione. E poi si ricomincia con una nuova novità che diventa un bisogno impellente e che deve essere bruciata subito. Come il fumo di un bellissimo calumet. Finisce subito. Nell’accelerazione innaturale di questo povero mondo c’è l’invecchiamento brutto. Quello che non anela a novità perché le conosce tutte, che non cerca la pace perché non la riconosce più.
Chi vive lungo un fiume sa che il fiume riporta a una dimensione primordiale. Si torna ad un sentire che, accompagnando il corso dell’acqua, è sempre uguale, sempre diverso, sempre in mutamento, sempre fermo. Il fiume non accelera niente, rallenta, rallenta, rallenta ancora, fino a fermarsi. Il fiume sa sospendere l’incedere inesorabile delle ore. Lungo il Lungone il tempo è contemporaneamente fermo e in movimento e sorprende per la sua grande capacità di rallentare, rallenta il tempo, rallenta la vita, rallenta le preoccupazioni, rallenta le necessità artificiali. Facendo questo è fisico e metafisico insieme, è la nostra storia e il nostro presente, è quel poco di futuro che serve per guardare al domani con fiducia. Possiamo camminare con la consapevolezza che potremo tornare al fiume e lui sarà ancora lì con la sua pace ad aspettarci sempre, a rallentare sempre. Nell’acqua che scorre lenta c’è lo spazio per la riflessione, ma anche per il sentire, per un sentire che basta a se stesso. Come la sensazione del sole sulla pelle e del vento tra i capelli che sa autocompiacersi, sa portare lontano, non brucia subito, non necessita di alcun artificio, basta per quel che è, garantisce sempre la sua persistenza, il suo stare dentro e fuori di noi, così noi possiamo sospendere il tempo guardando il fiume che pervade tutto, aldilà e aldiquà delle sue sponde. In una dimensione piccolissima e che può dilatarsi a dismisura, in un tempo fermo e lentissimo che cambia e si muove sempre, possiamo ritrovare noi stessi. Possiamo ritrovare un punto d’incontro tra il nostro necessario bisogno di novità e il nostro incessante ritorno alla prevedibilità quale fonte di tranquillità. Possiamo essere nuovi e tranquilli, nuovi e sospesi, dentro il tempo, dentro l’acqua.
Noi che siamo gente di fiume sappiamo tutto questo, nessuno lo dice, ma lo sa la nostra pelle, lo sanno le nostre mani e lo sa il nostro cuore. Ciò che davvero sappiamo non è ciò che diciamo, è ciò che sentiamo. Il sentire è una forma autentica di percepire noi stessi all’interno del mondo. Una forma molto poco mediata, poco condizionata, senza spigoli. Il sentire ci permette di percepire noi stessi in un tempo lento, sempre uguale e sempre diverso, accompagnato dal fiume e dalla certezza che la sua presenza diffonde.
Spero che Pontalba non cambi mai, che la presenza del Lungono renda l’esistenza migliore, che la pace che da lui deriva e che si irradia sulle vite che lo circondano, sia duratura, permetta a noi di invecchiare ai bambini di crescere. Non c’è storia vera senza la possibilità di fermare il tempo, di rallentarlo, di renderlo adatto alle persone e al loro sentire, al loro essere in questo momento e in questa vita. Il fiume toglie molto necessità impellenti, toglie il consumismo che l’accelerazione sostiene, riapre a un tempo che a volte riesce perfino a sospendere se stesso. Galleggia vuoto e bellissimo nel silenzio. Come una fata di primavera che vestita di tulle bianco dondola su un altalena e non ha più bisogno d’altro perché basta a se stessa per quello che è in quel momento, per quello che sente, così potremo essere noi: leggeri, sospesi, dentro un tempo che sa guardare se stesso e che diventa sorprendentemente trasparente.
Costanza e il suo mondo sono solo apparentemente diversi e distanti dal mondo che usiamo definire “reale”, quasi sovrapponibili ad ogni mondo interiore. Per far visita agli articoli-racconti di Costanza Del Re, può farlo cliccando [Qui]
Scritto da Gianni Venturi il . Pubblicato in Diario in Pubblico, IL QUOTIDIANO, In Evidenza.
Una bellissima foto del raduno dei grandi in Cornovaglia per la foto ufficiale [Qui], con in mezzo the Quenn Elizabeth dà la visione plastica dell’importanza dei partecipanti. A lato della sovrana sulla destra del riguardante Johnson e dopo di lui Biden. A sinistra Macron e accanto a lui la Merkel. In piedi tra questi due Ursula von der Leyen e alla sua destra il ministro giapponese Yoshihide Suga. Quasi dietro la regina l’altissimo Justin Trudeau per il Canada quindi Mario Draghi e infine per l’Ue Charles Michel. La regina si è lasciata andare a un bon mot tipico della tradizione inglese “dobbiamo fare finta di divertirci?” che molto ci dice sullo spirito inglese.
Quale è stata la scelta delle posizioni?
Probabilmente si tratta di una sottile strategia che dovrebbe mettere in luce in che modo il vertice si rapporta con i maggiori rappresentanti del raduno. E lo dimostra la posizione di Biden (invitato) che siede all’estrema destra della fila di seggiole. Ancora una volta la vista supporta il discorso non detto e i gesti assumono un carisma che probabilmente viene indotto dalla lettura che ne viene fatta.
Tuttavia non sono quelli i rappresentanti del potere, ma lo sono i fantocci che attraverso una serie conosciuta solo a coloro che frequentano il calcio conoscono e apprezzano gesti, sudori, puzze e strofinamenti oltre naturalmente il gioco con le sue regole. L’uomo e la donna di media levatura giù, giù a scendere, s’identificano con questi ragazzotti, il cui potere mediatico e ideologico ha superato ogni confine di dignità e di consapevolezza.
E che nell’ignobile deturpazione della facciata dell’antica chiesa di San Giacomo in via del Carbone a Ferrara si legga “Maradona vive” ce la dice lunga sulla grandezza italiota. Se è vero – ma la leggenda fa parte della verità – che uno qualsiasi di loro abbia fatto una festa a Skorpios, lasciando 30 mila euro di mancia, ci rendiamo conto dove batte il cuore degli sportivi e non solo.
Così tra gesti scaramantici, ululi, asciugamenti di faccia, abbracci, saltelli tutti insieme appassionatamente, ecco dalle cronache sportive riappare il verbo magico: ‘soffrire’. Non appariva nemmeno nelle cronache dei peggiori momenti della pandemia; ma oggi un giornale nazionale così titola la vittoria «Agli europei soffre, lotta e vince 2-1 con l’Austria nei supplementari. Una lezione per il paese che da domani torna alla normalità». E in grandissimo: «L’Italia che ci piace». Però! Il Corrierone scrive «Cuore e grinta» e ancora «Sofferenza e felicità».
Poi a qualche pagina di distanza una delle confessioni più straordinarie del mio carissimo amico Riccardo Muti, su cui tornerò in un prossimo Diario. Qui basti il titolo: «Muti: “Mi sono stancato della vita. I direttori gesticolano e studiano poco» [Qui]. E alla domanda se crede in Dio, ad Aldo Cazzullo che lo intervista, dà questa strepitosa risposta: «Sento che l’universo è attraversato da raggi sonori che arrivano fino a noi; ed è la ragione per cui abbiamo la musica. I raggi sonori che hanno attraversato Mozart sono infiniti». Altro che inseguire una palla e ‘soffrire’! Sono consapevole che queste note amare diminuiranno la stima dei miei cinque lettori. Ma come diceva un grande “Ad ognuno il suo”. Ed il mio non passa attraverso la sofferenza di una palla.
Notizie stimolanti ci arrivano frattanto dal Palazzo. Le lettere, i fatti, gli intrighi dell’odierno governo ferrarese lasciano un sapore di deja vu. Ascolto con interesse anche le proteste della parte avversa, quella che un tempo consideravo mia. Ma non mi convincono. Vedo anche con tristezza consumarsi il ruolo delle associazioni culturali sempre meno incisivo. E mi domando se quel poco o molto che ho fatto per questa città sia un rimprovero o una dimenticanza.
Per leggere gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca [Qui]
Scritto da Francesco Lavezzi il . Pubblicato in ANALISI, IL QUOTIDIANO, In Evidenza.
Il 17 giugno scorso la Sezione per i rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato vaticana scrive una Nota verbale, che l’inglese mons. Paul Richard Gallagher (praticamente il ministro degli Esteri di papa Francesco), ha consegnato ‘informalmente’ all’ambasciatore italiano presso la Santa Sede, Pietro Sebastiani. [Qui]
Il dito è puntato al disegno di legge che porta il nome dell’on. Alessandro Zan del Pd, approvato alla Camera il 4 novembre 2020 e attualmente all’esame del Senato, recante Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità.
Il motivo delle due pagine scarse è duplice.
Fin qui i fatti, su cui è bene fare una prima sosta perché già motivo di un ampio dibattito.
Si può parlare di un fatto senza precedenti, di un passo compiuto senza, o addirittura contro, il consenso del papa, o di ingerenza sullo Stato italiano?
Innanzitutto “non è un caso eccezionale – scrive il direttore de Il Regno, Gianfranco Brunelli (22 giugno) -, tantomeno è la prima volta”. Per quanto, scrive Avvenire (23 giugno), “è un passo diplomatico piuttosto raro”.
Sul punto, però, ci sono anche i dietro le quinte raccontati dai bene informati.
Massimo Franco (Corriere della Sera 21 giugno), scrive che da tempo, fra curia e gerarchia, sarebbero in atto forti pressioni per una presa di posizione netta e dura, rispetto a una linea giudicata di eccessiva timidezza dei vescovi e del suo presidente, card. Gualtiero Bassetti. “Esponenti come l’ex presidente della CEI Camillo Ruini – scrive Franco – hanno dato voce a chi voleva un atteggiamento di netta contrarietà”.
Lo stesso Brunelli allarga l’analisi con altri elementi di preoccupazione: “qualcuno maldestramente pensa di conseguire un qualche obiettivo o interesse nell’innescare uno scontro e non modificare il DDL”. “O qualcuno nel Pd, – conclude Brunelli – partito sempre più in crisi politica, pensa di trovare la propria identità facendo di questa materia una battaglia ideologica, invece di disinnescarla, conseguendo un obiettivo equilibrato; o qualcun altro ha immaginato di utilizzare la partita di uno scontro con la Chiesa per mettere ulteriormente in difficoltà il Pd”.
Se le cose stanno così, si delinea uno scenario – diremmo di stampo statunitense – in cui la polarizzazione degli opposti prevale sullo spazio delle soluzioni: “Lo scontro salirà – avverte Brunelli – e una cosa è certa: ci faremo male un po’ tutti”.
Pare fuori luogo, poi, pensare che la Nota sia stata scritta senza il consenso di papa Francesco o, peggio, che non ne fosse a conoscenza.
Sull’ingerenza, invece, la pensa così Luca Maria Negro, presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Nev.it): “Una vera e propria interferenza del Vaticano”.
Secondo Vincenzo Pacillo, ordinario di diritto ecclesiastico e canonico all’Università di Modena e Reggio Emilia (Huffington Post 23 giugno), “è più che un’interferenza, perché perturba il dibattito pubblico e mina il principio della laicità dello Stato”.
Tema sul quale è intervenuto in Senato lo scorso 23 giugno il presidente del Consiglio, Mario Draghi, con parole che andrebbero imparate a memoria: “Laicità non è indifferenza dello Stato rispetto al fenomeno religioso, è tutela del pluralismo e delle diversità culturali”. Lo ha detto precisando di non voler entrare nel merito della discussione, che è prerogativa del Parlamento.Non sono sembrate solo parole di rispetto istituzionale.
In effetti, c’è stato chi – come la vaticanista Lucetta Scaraffia (QN 23 giugno), o Cesare Mirabelli, costituzionalista e oggi consigliere generale dello Stato della Città del Vaticano (Avvenire 23 giugno) – invece dell’ingerenza ha preferito porre un problema di libertà di pensiero e parola. Principio che non riguarda solo Chiesa e cattolici nel caso specifico.
E qui il problema si complica, a causa di almeno due ordini di considerazioni.
Ammesso che ci sia ancora spazio per una serena discussione (visto lo scenario di scontro che sembra delinearsi), l’obiezione vaticana sul DDL Zan, a quanto pare, non è solo questione di difendere posizioni all’insegna del conservatorismo o, peggio, di un oscurantismo anacronistico.
Siccome l’articolo 25 della Costituzione dice che le fattispecie di reato devono essere tassative e determinate, se le circostanze in cui si commetta violenza in ambito sessuale sono sufficientemente chiare, così non parrebbe per la fattispecie dell’istigazione.
“Mi pare – commenta l’esperto – che in questo modo si crei una sorta di labirinto nel quale dovrà muoversi il giudice chiamato a risolvere casi concreti: con qualche dubbio sulla tassatività e determinatezza – costituzionalmente necessarie – della fattispecie incriminatoria”.
Con l’aggravante che, visto il clima italico, se anche una denuncia non dovesse approdare a una condanna, “l’effetto mediatico – conclude Rossi – potrà consentire di raggiungere l’obiettivo di condanna sociale”. Tema noto nel dibattito giuridico come: “uso simbolico-espressivo del diritto penale”.
C’è poi un secondo ordine di considerazioni in ambito ecclesiale, da mettere su uno dei piatti di questa complicata bilancia.
Il riferimento è al caso scoppiato lo scorso 15 marzo, con la pubblicazione del Responsum che la Congregazione per la dottrina della fede ha dato a un dubium sulla benedizione delle unioni di persone dello stesso sesso.
Sorvolando sulle critiche al documento vaticano (come ha fatto l’arcivescovo di Vienna, card. Christoph Schönborn, con il suo “non essere contento” per la risposta negativa partorita dalle Sacre Stanze), il teologo Andrea Grillo (Il Regno 8/2021), ha messo in fila alcuni temi che dentro la Chiesa toccano un nervo scoperto. Fra questi, è sempre meno sostenibile continuare a considerare il tema dell’omosessualità con sole argomentazioni teologiche, prescindendo dalle acquisizioni del mondo scientifico.
In secondo luogo, è ormai forte nel dibattito ecclesiale il bisogno di mettere mano, ad esempio, al numero 2357 del Catechismo (gli atti di omosessualità sono intrinsecamene disordinati e contrari alla legge naturale): la scienza moderna esclude che sia una malattia.
Per tornare alla Nota vaticana, l’affermazione di “una prospettiva antropologica non disponibile” in realtà da tempo è messa in discussione dalla teologia, perché progressivamente ne comprende i condizionamenti storici oltre al fondamento sulla Rivelazione divina.
Come si vede, ci sarebbe molto lavoro da fare sul tema in tutti i fronti, se solo prevalesse la volontà di cercare soluzioni, rispetto all’irrigidimento ideologico delle posizioni, ciascuno in nome della propria verità.
Cover: foto da nexquotidiano.it (licenza Wikimedia Commons)
Scritto da Nicola Cavallini il . Pubblicato in IL QUOTIDIANO, In Evidenza, NON CI STO, Schei.
Una delle vicende di folklore che accompagnano la storia degli imperatori romani riguarda Caligola, che fu ad un passo dal nominare console il suo cavallo prediletto, Incitatus. Si narra che Incitatus fosse nutrito a frutti di mare e pollo, coperto di porpora e pietre preziose e che dei servi si dedicassero esclusivamente a lui; che vivesse in stalle di marmo con mangiatoie d’avorio. Che mangiasse spesso alla stessa tavola dell’imperatore e, quando Caligola brindava in suo onore, il resto dei commensali dovesse fare lo stesso se non voleva essere ucciso.
Del vice sindaco di Ferrara avevo scritto una volta sola su Ferraraitalia [Vedi qui]
Mi ero ripromesso di non farlo più, per non alimentare nel mio piccolo l’amplificatore mediatico di vaccate che ha condotto la fama di costui fino alle pagine della cronaca anglosassone e transalpina. Una trappola, un cortocircuito dell’informazione nel quale sono caduti tutti, ognuno conferendo il proprio mattoncino nella costruzione del personaggio di Naomo, in una ingenua, dissennata e collettiva eterogenesi dei fini.
Ho cambiato idea. Il potere consegnatogli a Ferrara non ha solo a che fare con una (abile) strategia di comunicazione, basata sullo spregiudicato sfruttamento del potenziale dei social media, evoluzione trash ma poderosa della “società dello spettacolo” di Guy Debord. Ero convinto di questo, fino a quando l’imbarazzante sequela di fatti che lo coinvolgono non è diventata direttamente proporzionale all’accumulo crescente di cariche e deleghe amministrative nelle sue mani. Anzi, più aumentano le magagne che lo vedono protagonista, più aumenta il credito ed il potere che il Sindaco stesso gli concede. E’ per questo che, rispetto a un anno fa, la mia visione è cambiata: fino a un anno fa, potevo pensare che le mille preferenze ricevute per la sua cafona ma efficace strategia comunicativa fossero un credito politico che Alan Fabbri dovesse saldare; che saldarlo facendolo diventare vice sindaco fosse anche una mossa astuta, secondo la regola per cui, se dai una carica importante al clown del paese, negli spettacoli farà ridere per te: se lo tieni fuori, negli spettacoli potrebbe far ridere contro di te.
Invece mi sbagliavo. Non è solo questo, non può essere solo questo. Il curriculum del soggetto in questione, notorio al punto da renderne stucchevole la ripetizione, si è arricchito di due nuove recenti tacche. La prima: ha minacciato di togliere ad una storica cooperativa di servizi alla persona la possibilità di continuare a lavorare con il Comune di Ferrara, se la Coop stessa non si fosse liberata di un suo dipendente, reo di avere pubblicamente criticato la figura di Lodi. La seconda tacca è sulla bocca di tutti da alcuni giorni: le lettere anonime di minaccia arrivate a Lodi erano scritte in casa, fabbricate e spedite nientemeno che dalla sua fedelissima Rossella Arquà, (ex) responsabile organizzativa della Lega provinciale, alla quale, dopo la scoperta (divenuta immediatamente una ammissione perchè le indagini della Digos, evidentemente, mostravano già l’inequivocabile), un solerte presidente del Consiglio Comunale, tal Poltronieri, fa firmare delle precipitose dimissioni da consigliera comunale “in itinere”, lungo la strada, vicino ai bidoni della spazzatura di via Spadari.
A questo punto ci sono diversi derivati giudiziari del filone principale di indagine, compresa la liceità di dimissioni carpite in tale modo. E possiamo stare certi che sul fronte giudiziario ne vedremo delle belle, visto che la Arquà ha appena nominato come suo avvocato Fabio Anselmo, legale anche dell’altra ex consigliera della Lega Anna Ferraresi, la prima ad essere imbrattata dalla macchina del fango leghista in salsa ferrarese. Peraltro, Arquà stessa ha affermato: “Finché il vicesindaco Naomo Lodi continuerà a mantenere il suo ruolo istituzionale, non vedo il motivo per cui io debba lasciare il Consiglio comunale”, frase che non ha bisogno di essere interpretata.
Dell’aggiornamento dei casellari si occuperanno il Tribunale, gli avvocati ed i cronisti di giudiziaria. Un cittadino ha invece il diritto di occuparsi del rapporto tra il Sindaco e il suo vice, quando rileva che l’anomalia supera il livello di guardia. Sul sito del Comune [Vedi qui] è possibile leggere quante e quali sono le deleghe conferite a Lodi, di professione barbiere: Sicurezza, Protezione Civile, Frazioni, Mobilità, Urbanistica, Edilizia, Rigenerazione Urbana, Palio. All’atto del conferimento delle due ultime deleghe all’edilizia e all’urbanistica, il Sindaco Alan Fabbri ha spiegato: “poiché Lodi è già incaricato per la mobilità e le frazioni, potrà aggiungere a queste due settori coerenti, che gli consentiranno di avere una visione di insieme sugli aspetti riguardanti la progettazione ‘logistica’ dell’intero territorio”. Il Sindaco di Ferrara ha fatto questo nella città di Biagio Rossetti: sarebbe come se la municipalità di Barcellona affidasse la manutenzione delle opere di Gaudì ad un venditore di tapas.
Nemmeno per se stesso Alan Fabbri ha riservato deleghe di tal numero e rilievo: ha infatti Sanità, Agricoltura, Affari Generali, Affari Legali, Relazioni Istituzionali, Comunicazione. Nemmeno Vittorio Sgarbi, assessore alla cultura di fatto, presidente di Ferrara Arte, l’uomo al quale, piaccia o non piaccia, si deve la attuale politica culturale di Ferrara, ha in mano tanto potere quanto Nicola Naomo Lodi. La domanda sorge spontanea: perchè?
Alan Fabbri aveva una sua reputazione. La sua figura di amministratore, assoggettabile a critiche come quella di chiunque faccia quel mestiere, era però ben distinta da quella del suo vice sindaco, un’altra categoria in termini di capacità amministrativa e decoro della funzione. Le elezioni sono ormai abbastanza lontane per considerare assolto un debito di gratitudine nei confronti del (piccolo) accumulatore di preferenze Lodi, il cui modo di interpretare il ruolo sta travolgendo la reputazione di Alan Fabbri. Eppure lo stesso Fabbri non solo non se ne cura, non solo non ne prende le distanze, ma addirittura continua ad assommare poteri in capo al suo vice, oltre a mostrare un palese nervosismo nei rapporti con la stampa (non riesco a definire in maniera più eufemistica la condotta di un sindaco che, parole del direttore di estense.com Zavagli, gli telefona di notte per insultarlo).
Alan Fabbri non sembra libero. Ormai lui e il suo vice sono accomunati dalla medesima reputazione istituzionale, ma lui non fa nulla per liberarsi del fantasma che lo sovrasta, e che sta trasfigurando anche la sua immagine. Credo che i cittadini ferraresi abbiano il diritto di sapere come stanno le cose. Non c’è bisogno di arrivare al commissariamento di un Comune per fare strame del decoro di un’istituzione, e questo purtroppo sta già avvenendo. Ci auguriamo che Fabbri non voglia essere ricordato, come successe a Caligola, per l’idolatria verso il suo cavallo.
Cover: elaborazione di Carlo Tassi
Scritto da Carlo Tassi il . Pubblicato in IL QUOTIDIANO, In Evidenza, La vignetta di Cart.
illustrazione di Carlo Tassi
(tutti i diritti riservati)
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Un’altra genialata del governo! Prima l’obbligo della mascherina all’aperto non c’era e andava messa solo in caso di prossimità o assembramento… Oggi annunciano che l’obbligo della mascherina all’aperto è stato tolto e si deve indossare solo in caso di prossimità o assembramento! E c’è pure gente che tutta contenta esclama: “Finalmente, era ora!” E’ ormai evidente che questa pandemia ci ha fatto diventare davvero tutti imbecilli (almeno è quello che credono al governo… parrebbe)!
Scritto da Roberto Dall'Olio il . Pubblicato in IL QUOTIDIANO, In Evidenza, Per certi Versi.
NELLA CASBAH
Non chiedermi perché
Non lo so
Mi ha preso
Una gioia
Intrappolata
Di stare in una Casbah
Con te
Per i profumi
Quei colori
Che gocciano
Lungo la pelle
E la seta
Mentre si gira
E rigira
Golosi
Di odori
Senza meta
Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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Scritto da Andrea Zerbini il . Pubblicato in IL QUOTIDIANO, In Evidenza, Presto Di Mattina.
Cerco il tuo felice volto,
Ed i miei occhi in me null’altro vedano
(Ungaretti, Vita d’uomo, 206).
A questo ermetico verso, che ci ricorda come il linguaggio degli occhi sia il più istantaneo, ‘primordiale’, nel riflettere l’altro e il suo mistero, è sembrato a me fargli eco un’espressione non meno ermetica e profonda, «Nei tuoi occhi è la mia parola», di quel “pastore degli sguardi” che è papa Francesco, specie quando sollecita la chiesa ad essere capace di tessere sguardi di attenzione, di prossimità e tenerezza. Egli infatti è convinto che «lo sguardo di Gesù ridoni dignità ad ogni sguardo. Gesù li aveva guardati e quello sguardo su di loro è stato come un “soffio sulla brace”; hanno sentito che c’era “fuoco dentro” e hanno anche sperimentato che Gesù li faceva salire, li innalzava, li riportava alla dignità», (Santa Marta, 21/09/2013).
E lo sguardo d’altri poi.
Dai loro occhi silenziosi scaturiscono parole nuove, vere. Un incontro di sguardi che fa rinascere le nostre parole logore; che feconda le nostre parole sterili, ripetitive, senza gioia, rendendole parole di affezione, prossimità e condivisione: e dunque credibili per annunciare la gioia del vangelo. Lo stesso che si cela nello sguardo altrui: un vangelo nascosto dentro la vita degli altri, come un tesoro nascosto una perla preziosa, dal quale occorre lasciarsi evangelizzare.
Uno sguardo evangelico lo riconosci subito. Non è uno sguardo anonimo: vive in relazione all’altro, da persona a persona, tramite sguardi di reciprocità, che si voltano quando chiamati per nome. Da loro passa la grazia e il mistero della Parola e delle parole nostre, quelle capaci di generare. Non per caso Nei tuoi occhi è la mia parola è il titolo di un libro che raccoglie le omelie di Bergoglio quando era vescovo a Buenos Aires. Ed esprime l’attenzione di papa Francesco a cercare negli occhi dell’altro le parole da rivolgergli, affinché esse ne riflettano la realtà e non già l’idea che abbiamo di lui. Più grande dell’idea che abbiamo di lui, infatti, è la realtà che parla attraverso i suoi occhi.
Questo sguardo inclusivo, che alimenta e trattiene la presenza dell’altro dentro di noi, è capace di generare parole così autentiche da diventare ‘preghiera di intercessione‘. Tanto che, anche quando non hai più l’altro davanti agli occhi, o perché egli e lontano, o perchè non lo vedi da tanto tempo, quelle parole ne ricordano la presenza accanto a te. Quando chiudi gli occhi nella preghiera, come se chiudessi, evangelicamente, la porta della tua stanza, si apre uno sguardo interiore, che continua a vedere i luoghi, i volti, gli sguardi; a sentire le parole di coloro che hai incontrato nel tempo e nello spazio. E proprio lì non si è più soli, ma vi è anche il Padre tuo che vede nel segreto ed ascolta. L’intercessione, in tutte le sue molteplici forme ed espressioni, situa te e gli altri nella sorgente della preghiera di Gesù al Padre – nei tuoi occhi di Padre le parole mie – e quelle ascoltate fermandosi con le persone incontrate lungo la via.
Durante la discussione sul documento finale di Aparecida alcuni vescovi volevano inserire all’inizio del primo capitolo l’espressione “con uno sguardo crudo sulla realtà”. Fu invece approvata la mozione di Bergoglio che sottolineava la dimensione contemplativa del discepolo missionario di fronte al mondo. Quello che non affronta in modo anonimo la realtà, che si affida a uno sguardo generalizzato privo d’anima e di relazionalità con i volti e persone reali e situazioni concrete, ma ascolta nel profondo le narrazioni delle storie di ciascuno.
Lo sguardo della fede è sguardo in relazione, che nasce dalla contemplazione. Cresce ogni volta contemplando la Parola e praticandola nell’intreccio, o meglio nell’abbraccio con le parole altrui. Contemplativa e poetica insieme, la parola della fede si origina negli occhi del vangelo e si incarna nelle parole e negli sguardi della gente per poter “vedere”, “discernere” ed “agire” nella realtà, nella storia, aprendo strade per la condivisione dell’annuncio.
«Lo sguardo che voglio condividere con voi è quello di un pastore che cerca di approfondire la propria esperienza di credente, di uomo che crede che “Dio vive nella propria città”. Perché lo sguardo di fede scopre e crea la città. Le immagini del Vangelo che più mi piacciono sono quelle che mostrano ciò che Gesù suscita nella gente quando la incontra per la strada. Lo sguardo della fede ci porta ad uscire ogni giorno e sempre di più all’incontro del prossimo che vive nella città. Ci porta ad uscire all’incontro, perché questo sguardo si alimenta nella vicinanza. Non tollera la distanza, perché sente che la distanza sfuma ciò che desidera vedere; e la fede vuole vedere per servire e amare, non per constatare o dominare. Uscendo per strada, la fede limita l’avidità dello sguardo dominatore e aiuta ogni prossimo concreto, al quale guarda con desiderio di servire, a focalizzare meglio il suo “oggetto proprio e amato”, che è Gesù Cristo fatto carne».
Lo sguardo della fede che spera «non discrimina né relativizza perché è misericordioso. La misericordia crea la maggiore vicinanza, che è quella dei volti e, poiché vuole davvero aiutare, cerca la verità che più fa male – quella del peccato – ma per incontrare il vero rimedio. Questo sguardo è personale e comunitario. Si traduce in agenda, segna tempi più lenti di quelli delle cose (avvicinarsi ad un ammalato richiede tempo) e genera strutture accoglienti e non repulsive, cosa che esige anch’essa del tempo».
Lo sguardo della fede che ama «non discrimina né relativizza perché è sguardo d’amicizia. Gli amici si accettano così come sono e gli si dice la verità. È anche questo uno sguardo comunitario. Porta ad accompagnare, a riunire, ad essere qualcuno in più al fianco degli altri cittadini. Questo sguardo è la base dell’amicizia sociale, del rispetto delle differenze, non solo economiche, ma anche ideologiche. È anche la base di tutto il lavoro del volontariato. Non si può aiutare chi è escluso se non si creano comunità inclusive. Lo sguardo dell’amore non discrimina né relativizza perché è creativo», (Incornare Dio nella città, Omelia, 2011).
Papa Francesco riprenderà questo tema anche nell’Esortazione Evangelii gaudium del 2013: «In una civiltà paradossalmente ferita dall’anonimato e, al tempo stesso, ossessionata per i dettagli della vita degli altri, spudoratamente malata di curiosità morbosa, la Chiesa ha bisogno di uno sguardo di vicinanza per contemplare, commuoversi e fermarsi davanti all’altro tutte le volte che sia necessario, per rendere presente la fragranza della presenza vicina di Gesù ed il suo sguardo personale».
“Arte dell’accompagnamento”, la chiama Francesco nello stile di Mosè che si toglie i sandali di fronte a quel roveto ardente, che è ogni persona. Uno sguardo, dunque, «rispettoso e pieno di compassione ma che nel medesimo tempo che sani, liberi e incoraggi a maturare nella vita cristiana», (EG 169).
Così Francesco riconosce ammirato come innumerevoli siano le risorse offerte dal Signore e i carismi suscitati dallo Spirito, per dialogare con il suo popolo e renderlo partecipe della missione e del Regno: «Credo che il segreto si nasconda in quello sguardo di Gesù verso il popolo, al di là delle sue debolezze e cadute: “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno” (Lc 12,32); Gesù predica con quello spirito. Benedice ricolmo di gioia nello Spirito il Padre che attrae i piccoli. Il Signore si compiace veramente nel dialogare con il suo popolo e il predicatore deve far percepire questo piacere del Signore alla sua gente» (EG 141).
A una chiesa in stile sinodale e in riforma missionaria Francesco chiede anzitutto una “conversione dello sguardo”, capace dire sì alla realtà e riconoscerla come più importante dell’idea. Sì al tempo come superiore allo spazio. Sì all’unità che non si rassegna alle divisioni, ma cerca vie per ricomporre i conflitti. Sì alle diversità sapendo che le parti formano e vivono nell’orizzonte e nell’interesse del tutto che è superiore alle parti, il bene comune al di sopra degli interessi di parte.
Alla conclusione del Sinodo sulla famiglia nel 2015, che ha determinato una discussione libera tra i vescovi e per questo non priva di contrasti e conflittualità, è seguita l’esortazione di Francesco Amoris laetitia del 2016. Che si prefigge di portare avanti un processo di riforma pastorale capace di guardare con realismo alla situazione delle famiglie nel mondo attuale, così da ridare ai pastori uno sguardo e tempi lunghi per continuare ad approfondire con libertà le questioni ancora aperte. Nel documento si chiede una “conversione dello sguardo” sulle abitudini familiari, sulla dottrina matrimoniale, sul conseguente agire pastorale. Lo stile di questo discernimento è all’apparenza molto semplice: occorrerebbe adottare lo stesso sguardo che Gesù riservava alle persone che incontrava in Palestina. Ma farlo con coerenza è tutt’altro che semplice, esigendo una conversione del cuore e della vita al vangelo.
Anche per il recente sinodo regionale Pan-amazzonico del 2019, l’esortazione apostolica di Francesco, Querida Amazonia del 2020 [Qui] riprende lo stesso stile aperto, proprio di chi è consapevole di esser di fronte a un processo di coscientizzazione delle questioni problematiche emerse. La sua è un’esortazione, che incoraggia a proseguire un cammino. Non si pone come chiusura del documento finale dei vescovi, quasi fosse l’ultima parola, ma si mette accanto ad esso. È lo sguardo del Papa sull’Amazzonia, che si unisce ad altri sguardi anche non coincidenti.
Scrive: «Tanti drammi sono stati legati ad una falsa “mistica amazzonica”. È noto infatti che dagli ultimi decenni del secolo scorso l’Amazzonia è stata presentata come un enorme spazio vuoto da occupare, come una ricchezza grezza da elaborare, come un’immensità selvaggia da addomesticare. Tutto ciò con uno sguardo che non riconosce i diritti dei popoli originari o semplicemente li ignora, come se non esistessero, o come se le terre in cui abitano non appartenessero a loro. Persino nei programmi educativi per bambini e giovani, gli indigeni sono stati visti come intrusi o usurpatori. La loro vita, i loro desideri, il loro modo di lottare e di sopravvivere non interessavano, e li si considerava più come un ostacolo di cui liberarsi che come esseri umani con la medesima dignità di chiunque altro e con diritti acquisiti», (QA 12).
Francesco invita così ad una mistica degli sguardi e delle relazioni che faccia entrare nei propri occhi il mistero di Dio rivelato negli occhi dell’altro. In contemplazione dei volti delle persone concrete, che incontriamo ogni giorno. Esorta al senso della contemplazione che per lui è senso “sinodico”, che cammina insieme e insieme si intona “sintonico al senso della poesia.
«Poesia: intendendo con questa bella parola proprio il senso della contemplazione, del fermarsi e donarsi un momento di apertura verso se stessi e gli altri nel segno della gratuità, del puro disinteresse. Senza quel “di più” della poesia, senza questo dono, senza la gratuità, non può nascere un vero incontro, né una comunicazione propriamente umana. Gli uomini “comunicano” non solo perché si scambiano informazioni, ma perché provano a costruire una comunione. Le parole devono essere quindi come dei ponti gettati per avvicinare le diverse posizioni, per creare un terreno comune, un luogo di incontro, di confronto e di crescita». In Fratelli tutti si afferma la possibilità di un cammino di pace tra le religioni perché «il punto di partenza dev’essere lo sguardo di Dio. Perché Dio non guarda con gli occhi, Dio guarda con il cuore» (FT 281).
Nello sguardo poetico e contemplativo di papa Francesco, la profezia del Regno e la realtà storica devono nuovamente incontrarsi come narra il salmo 85: «La sua salvezza è vicina a chi lo teme e la sua gloria abiterà la nostra terra. Misericordia e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno». L’incontro inizia sempre di nuovo quando donne e uomini alzano lo sguardo per vedersi l’uno nell’altro.
Querida Amazonia ha anche inserito nel testo parole di poeti e scrittori; Francesco è convinto che l’arte della parola poetica abbia la capacità di comunicare una più alta visione del reale. «Le parole devono divenire come dei ponti gettati per avvicinare le diverse posizioni, per creare un terreno comune, un luogo di incontro, di confronto e di crescita», (Nei tuoi occhi è la mia parola, Rizzoli Milano 2016).
Dove abitò la tortura
Molti sono gli alberi
dove abitò la tortura
e vasti i boschi
comprati tra mille uccisioni.
(Ana Varela Tafur, Timareo, in Lo que no veo en visiones, Lima 1992)
Esiliano i pappagalli
I mercanti di legname hanno parlamentari
e la nostra Amazzonia non ha chi la difenda […].
Esiliano i pappagalli e le scimmie […]
Non sarà più la stessa la raccolta delle castagne.
(Jorge Vega Márquez, Amazonia solitária, in Poesía obrera, Cobija-Pando-Bolivia 2009).
Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]
Scritto da Elena Buccoliero il . Pubblicato in STORIE, CONTRO VERSO / RUBRICA CESSATA, IL QUOTIDIANO, In Evidenza.
13 anni
Le forze dell’ordine lo sanno bene. Qualche volta la richiesta di fermare la violenza in famiglia non arriva dalle donne o dai vicini di casa: sono i figli o le figlie a chiamare, spinti dalla paura, affrontando il senso di colpa che inevitabilmente li seguirà per aver denunciato un genitore. Questa ragazzina di 13 anni me lo ha raccontato sgomenta per non essersi sentita protetta.
Io, sono stata
quella che ha fatto
la telefonata.
La polizia
-sia benedetta-
è qui a casa mia.
Era infuriato,
in quel momento
ci avrebbe ammazzato
Un magistrato
sconsiderato
me l’ha scarcerato.
Senza fiatare
temo il momento
di ricominciare.
E poi si dice: perché non l’hanno tenuto dentro?
Ma se resta dentro si dice: come fanno a dire quel che farà domani?
Entrambe le eccezioni sono fondate, e nessuna delle due scende dal livello teorico e incontra le caratteristiche reali di quella specifica vicenda.
Nella giustizia si gioca con i dilemmi, perché nulla è perfettamente prevedibile nel comportamento umano. Per fortuna c’è chi ci capisce e per formazione, per esperienza, è in grado di valutare cose come la pericolosità sociale, o almeno arriva a buone approssimazioni. Bisognerebbe provare ad averne fiducia.
CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia il venerdì. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]
Scritto da Riceviamo e pubblichiamo il . Pubblicato in COMUNICATI STAMPA, IL QUOTIDIANO, In Evidenza.
Venerdì 25 giugno alle ore 10 una delegazione del Gruppo cittadine e cittadini a difesa delle biblioteche pubbliche si recherà presso gli uffici dell’assessore Gulinelli per chiedere di riprendere il confronto sul futuro del sistema bibliotecario cittadino.
Infatti, dopo la manifestazione che abbiamo tenuto il 22 maggio scorso, un ulteriore lettera inviata al sindaco e all’assessore con cui chiedevamo un confronto pubblico con gli stessi e le rassicurazioni da parte dell’assessore che si sarebbe ripresa la discussione, dando vita ad un percorso partecipato, tutta la vicenda è tornata in un cono d’ombra e in un silenzio che ci preoccupa.
Ci tocca constatare che le dichiarazioni di volontà di voler svolgere un confronto con le associazioni e i cittadini vengono contraddette da fatti che vanno in altra direzione, con un’idea povera di democrazia e certamente non conseguente alla partecipazione che, a parole, si dice di voler perseguire.
Da parte nostra, insistiamo sulle proposte che abbiamo avanzato, a partire da quella di costruire un reale percorso partecipativo, che veda impegnata tutta la città, per costruire il futuro del sistema bibliotecario cittadino e proveremo a ribadirlo anche con la richiesta di incontro che inoltreremo di persona all’assessore Gulinelli nella mattina di venerdì.
GRUPPO CITTADINE E CITTADINI A DIFESA DELLE BIBLIOTECHE PUBBLICHE
Scritto da Benini & Guerrini il . Pubblicato in IL QUOTIDIANO, In Evidenza, Parole a capo.
“La poesia è come il canto dei delfini. Non tutte le orecchie possono percepirla.”
(Valeriu Butulescu)
Ho sciolto i capelli
Ho sciolto i capelli
È tempo di vita.
Scenderò da sola
senza darti il braccio
le scale tortuose di noi.
Avrò il mio equilibrio
anche tra le edere sospese
delle tue battute.
Traboccano troppe parole
sicure ma chiuse
in pennellate secche di tempo lontano.
Sarò tutto quello che sono
senza occhi rampicanti sulla mia persona.
Ho sciolto i capelli:
è tempo di vivere.
(da “Ho sciolto i capelli, Abbracciami Frida“, La ruota ed., 2018)
Porto in giro un nome
Porto in giro un nome
E niente più
nel sottobosco
i fiori gemono e vogliono
rimanere boccioli.
I fiori coperti di neve
hanno freddo e
io sono solo un passeggero,
uno dei tanti
di questo mondo.
Fuori passano
lampi di ciglia
li scorgo dai finestrini
al ritorno.
Chi ero.
Non sono già
alla fine del verso
vado a capo senza sapere.
Passeggero e paesaggi
li porto dentro.
Ero. Imperfetto. Prospettiva.
Rimane ancora dentro
la paura di scendere
Mi sono persa
tra viali di inchiostro e
pagine pregne di fumo
tra la tempera
mi sono persa
io che ho sempre avuto
ben chiara la strada e
la porta con un mazzo di chiavi
(da “Specchi“, Il raccolto dei poeti ed., marzo 2019)
Io sono Frida
Usa l’accetta, Amore,
affila le parole
con le mani potresti solo
accarezzare la corteccia dura
del tuo cuore
sotto l’armatura appari indifeso
io nuda nella forza.
Aspettava a capo chino un fiore
il bacio della pioggia.
(Ma tu baciavi tutte con tenera forza)
Il legno già narrava del carico
di sabbia e sale.
Io so che il mare si sa amare.
Ho rotto anche oggi una parola
Ho rotto anche oggi
una parola
è un giorno di festa.
Ascolta il rumore
del guscio spaccato di noi.
Tintinnano le mani
alla ricerca di te.
Tentativo vano
di erbosa luce di campo
(da “La sete della sera” , Ed. La vita felice, Gennaio 2021)
Agnese Coppola (Nola – NA). Laurea in Lettere classiche nel 2004. Vive in provincia di Milano dal 2006 dove insegna presso l’Istituto Alessandrini di Abbiategrasso. Curiosa, appassionata e vorace lettrice scopre il mito di Lilith che determina un’esplosione poetica e il coinvolgimento dei suoi studenti nel progetto “Io sono Lilith”. È co-fondatrice della Rivista internazionale «Tam tam bum bum» e attiva organizzatrice di eventi culturali – poetici e artistici come NaviglioInVersi e Ric-amati. Pubblicazioni: Mario, in Vacanze milane (Guerini e Associati, 2012); Ho sciolto i capelli, abbracciami Frida (La ruota edizioni, 2^ ed., 2018); Strisce pedonali, L’Erudita, 2018 ( romanzo); Specchi (dialogo poetico) con Gianni Bombaci (Raccolto, 2019); La sete della sera, Ed. La vita felice (gennaio 2021).
Scritto da Francesco Minimo il . Pubblicato in Fantasmi, IL QUOTIDIANO, In Evidenza.
Parte 2
Dal primo giorno, tutti i giorni a partire dalle sette di sera quando la biblioteca chiude al pubblico, Rosa Wolfe, che mi ha preso in grande simpatia, mi racconta un mucchio di storie interessanti. Interessanti non dice abbastanza, perché Rosa diventa ogni giorno più misteriosa, quindi profetica, infine apocalittica. Su Truro, questa sarà la sua conclusione, si sta addensando un “cataclisma psichico”. Usa proprio questa espressione, impropria, disturbante. Secondo lei, da forestiero e da giornalista, io solo posso fare qualcosa per evitarlo. La cosa mi imbarazza, sarà anche un po’ eccentrica, o una spostata, ma Rosa mi piace. E sento confusamente che “non è solo matta”, che c’è qualcosa di troppo strano a Truro per non portare a un qualche male.
Ma ora è ancora la mia prima sera, la bibliotecaria incaricata mi accompagna fino all’uscita. “Se ti va di ascoltare altre frottole, io domani sono sempre qui”, ride, forse mi prende solo in giro, come si fa con chi arriva da fuori. Sono le dieci e mezza, senza rendermene conto sono rimasto in biblioteca quasi quattro ore; è buio pesto, e domattina comincia il campionato. Alle 7 in punto.
Capisco l’impazienza del lettore, sempre che il campionato pareidolico abbia suscitato in lui un qualche interesse. Forse mi sono disperso troppo, ho imboccato viottoli laterali, ho divagato, sono andato fuori dal seminato. Mi succede, mi succede spesso, ma come dice il mio caporedattore, alla fine il cerchio si chiude sempre. E quando si chiude? Ora si chiude. Infatti, ecco che vi presento i sette concorrenti e le loro precipue caratteristiche e straordinarie abilità.
Numero uno: Il Polacco, quello con gli occhi bianchi che avevo intervistato al mio arrivo. Circa sessant’anni, un aspetto da profugo dell’est, voce stridula, sguardo allucinato. La specialità del polacco sono i felini. Lui nelle nuvole vede, immagina – millanta? – solo rappresentanti della famiglia dei felini, dal gattino miagolante fino al leone rampante in varie pose e maniere.
Poi c’è l’Inglese, le sue pareidolie si concentrano su treni, locomotive e vagoni di ogni marca, epoca e fattura. Il numero 3, il Gallese, nelle nuvole vede animali mitologici, preferibilmente divinità olimpiche e costellazioni.
Veniamo all’Irlandese: la sua specialità sono le figure della mitologia silvestre e celtica in particolare (quelle sopra elencate ed altre ancora).
Il Bretone invece è specializzato in grandi personaggi storici; al precedente Campionato Mondiale fece scalpore la sua performance: in una settimana vide 43 volte Napoleone in diverse fogge e posture. Perché questa ossessione per Napoleone? Gliel’ho chiesto, e la risposta mi ha spiazzato: “Perché Napoleone Bonaparte non è Corso, in realtà è nato in Bretagna”.
Che potevo dirgli? Nulla, ho girato l’angolo e ho cercato il sesto concorrente, l’Islandese, un tipetto scontroso, spigoloso, irsuto, non privo però di una asprigna eleganza: le sue nuvole sono popolate da foche giocherellone e da orsi polari. Bianchi naturalmente, e proprio su quel bianco Il Bretone aveva avuto in passato da eccepire e aveva protestato con la giuria. La tesi bretone era che vedere un orso bianco su una nuvola bianca significava un vantaggio indebito per il concorrente islandese. Lui, sosteneva, faceva cento volte più fatica a vedere il Bonaparte di quanto non ne facesse il piccolo Islandese con un semplice orso bianco.
Dopo averne discusso per tre ore, i tre vecchietti del comitato organizzativo, che funge anche da Giuria inappellabile, aveva respinto il ricorso. Come a dire: uno nelle nuvole ci può vedere ciò che più gli aggrada: “Perché, senza attenersi a un’assoluta libertà, ogni pareidolia si dissolve nell’aria”, leggo nel verdetto.
Manca solo il settimo, Il Praghese, nazionalità ceca ma di lingua tedesca e mamma ebrea (“lo sa, sono un lontanissimo cugino di Franz Kafka”). E’ lui il fuoriclasse, il campione in carica, il vincitore di due delle tre edizioni già disputate. Si chiama Laszlo Hazek e decido di passare con lui la prima giornata di gara. Di lui mi aveva parlato malissimo la bibliotecaria. Quando aveva pronunciato il suo nome, avevo visto un tremito percorrere la signorina Wolfe dall’alto al basso, dalla cima della testa bionda cotonata agli stivaletti neri senza tacco.
Laszlo mi da dà appuntamento alle 7 precise davanti alla cattedrale, munito di bicicletta, borraccia e qualche sandwich. È vestito in abiti scuri e assurdamente pesanti, in cima alla testa a pera un cappellaccio nero a larga tesa.
Il polacco mi stava ancora esponendo la sua teoria sul Triangolo Magico, ma arriva lo sparo del presidente della giuria, allora mi congedo in fretta e per accodarmi alla bicicletta di Laszlo che punta deciso verso la campagna e il mare.
È una giornata di mezzo sole e vento leggero. Superiamo un piccolo dosso, basse sull’orizzonte ecco le prime nuvole. Laszlo si ferma, le osserva per qualche minuto, scuote la testa e riprende a pedalare. Anche se sono solo un neofita, mi sto appassionando al tema, punto il naso in alto e nel cielo vedo chiarissimamente un treno a vapore, con tanto di locomotiva sbuffante e tre vagoni al seguito. Ma intanto il Ceco mi ha già staccato, forse l’ho perso in quell’intrico di stradine; finché lo ritrovo fermo dietro una doppia curva, lo sguardo assorto, in una mano un taccuino, nell’altra una piccola matita. Non sembra un tipo molto socievole questo Laszlo, ma io devo fare il mio lavoro, e allora domando: “Sta annotando il suo primo avvistamento?”. Mi risponde in un inglese stentato, e mi accorgo che la sua voce è cambiata, assomiglia a qualcosa di inanimato, a una frana di pietre che rotola nella pioggia, o a un rantolo affannoso, al sibilo di un asmatico. Laszlo smette di scrivere e si volta verso di me: “Oggi si comincia bene, sono già al numero 9, e se la fortuna continua a assistermi…”.
Rifletto… 9 pareidolie, dico NOVE, e in meno di mezz’ora! Ma chi controlla la regolarità degli avvistamenti?
Non vedo nessun giudice all’orizzonte, nel raggio di chilometri ci siamo solo io, Laszlo e le nostre biciclette. Con tutto il rispetto per il campione, mi sembra che Lazlo l’abbia sparata grossa, come Giovannino senza paura che stermina le mosche posate sul cacio fresco: Sette in un colpo! Allora anche io potrei dire di aver visto in cielo non un treno ma un’intera stazione, un deposito ferroviario, una fabbrica di treni.
Devo assolutamente chiarire la cosa con la giuria. Ma intanto Laszlo è ripartito in direzione sudest, e io dietro, mentre il vento rinforza e il cielo si affolla di nubi. Lazlo sembra instancabile. Solo dopo una quantità non numerabile di strade, stradine, viottoli, andate e ritorni, curve, salite e discese, e nuvole naturalmente, alle sei e mezza del pomeriggio prendo congedo da Laszlo (lui andrà avanti fino al tramonto) per tornare in Truro e infilarmi in biblioteca.
Non so come sia andato il primo giorno di caccia degli altri concorrenti, ma la performance venatoria di Laszlo fa impressione. O bisognerebbe chiamarla pesca miracolosa? Devo credere o diffidare? Entro in biblioteca e mi butto sopra una sedia, stanco da morire. stanchissimo. Alla mia amica Rosa Wolfe, tenutaria della biblioteca e depositaria della memoria loci, ho però alcune domande da porre. La giornata in compagnia del praghese mi ha ingarbugliato i pensieri. Le chiedo se devo credere a tutti gli avvistamenti, e cosa avvista questo misterioso Laszlo, animali, piante o persone? “Non l’ha ancora capito? Lui nelle nuvole vede le persone che se ne sono andate”. Ancora non capisco. Rosa abbassa il tono della voce: “Lui vede quelli che non ci sono più, quelli che se ne sono già andati dall’altra parte”; e in un sussurro: “Lui vede i morti”. Perché, mi spiega, il praghese non è solo un esperto di nuvole presenti e viventi, lui è un evocatore, un tramite, una specie di medium. “Per questo Laszlo è pericoloso, molto pericoloso. Lui gioca col fuoco, capovolge il mondo.”.
La paffuta Rosa Wolfe sembra improvvisamente spaventata, mi correggo, Rosa Wolfe è in preda al terrore. terrorizzata: “Dobbiamo sperare solo che non succeda…”. Allora mi ribello a quel dire e non dire: MA SUCCEDA COSA? COSA CAZZO DEVE SUCCEDERE? Questo Rosa non me lo dice, forse perché nominare una cosa può contribuire a farla accadere.
Mi è passata la fame, non ho nemmeno sonno, penso a Laszlo e a Rosa; le loro parole, gli sguardi, i silenzi mi hanno messo una pietra sullo stomaco. Come Primo Giorno può proprio bastare. Raggiungo la locanda, è una notte chiara illuminata da un miliardo di stelle, ma questa volta non riesco a sentire nessun incanto, nessuna emozione davanti a quella esibizione di infinito. C’è qualcosa di strano, e anche le stelle non mi sembrano le solite stelle. A Londra sono abituato a vederne una ogni tanto, qui invece si esagera.
Attraverso la piazza notturna di Truro a piedi, lentamente, tengo la bicicletta con la mano destra, come un cavallo alla briglia. In una frazione di secondo tutto si illumina a giorno, dal campanile all’ultimo granello di ghiaia. Accecato, lascio cadere a terra la bicicletta, e prima che raggiunga il selciato mi raggiunge un tuono spaventoso, e subito dopo un vicinissimo schianto, come se i tedeschi avessero minato la Torre di Londra.
Di quel fulmine a ciel sereno vedrò gli effetti la mattina dopo. La quercia secolare alle porte della cittadina è stata squarciata da una bomba di fuoco. I resti del suo tronco enorme e nero continueranno a fumare per tutta la settimana.
continua …
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