Skip to main content

L’unico luogo sicuro è un luogo umano

L’unico luogo sicuro è un luogo umano

Su questi altri approfondiamo in un altro momento, però constatiamo che l’agenda la scrivono loro e che noi siamo qua a rincorrergli dietro con mezzi sproporzionatamente inferiori su tutti i piani.

Proviamo dunque almeno a ribaltare la prospettiva. Formiamo tutti i comitati possibili “No al Riarmo” (per ora abbiamo aderito con Pressenza a questo https://stoprearm.org/) coordiniamoci il più possibile con tutte le realtà che chiedono la stessa cosa e chi se ne importa se uno lo chiede con un accento su un tema e un altro su un altro: viva le motivazioni di tutti ma facciamolo insieme perché la partita inizia con un punteggio truccato.

Però la domanda che dovremmo farci e a cui rispondere  è: quale paese, quale continente, quale città, quale quartiere è un posto sicuro. Dalla risposta a questa domanda possiamo formulare una proposta e, per quanto questa proposta sia utopica, sarà un seme da germogliare, il cammino verso il futuro a cui pensava Galeano quando parlava di utopia,

Se pensiamo in questa direzione sembra evidente che un posto sicuro non sia un posto dove dominano le armi. Basterebbero le periodiche stragi negli Stati Uniti o la situazione nei luoghi di guerra dove l’unica sicurezza è la distruzione e la morte. Basterebbe una gita turistica tra i check point della Cisgiordania. Basterebbe una visita a quei luoghi, sparsi purtroppo per il mondo, dove una mafia o un esercito privato “regolano” la vita delle persone.

Qualcuno dirà a questo punto che esiste un uso legale delle armi e che, ragionevolmente, forze armate di vario tipo proteggono le nostre case, i nostri confini, le nostre case. Non bande armate ma Forze di Polizia, Eserciti difensivi che appoggiano la loro azione sulla legalità.

Va bene, possiamo riconoscere la necessità di forze moderatamente armate per difendersi dal crimine ma già, per esempio per l’Italia, non comprendiamo perché paghiamo un Esercito per difendere i nostri confini da francesi, svizzeri, sloveni, sanmarinesi e Guardie Svizzere vaticane, in sintesi dai nostri cugini, o forse fratelli. Vorremmo ricordare le funzioni che l’Esercito svolge senza uso di armi e che  sono un contributo alla nostra sicurezza: Protezione Civile, Previsioni del Tempo, ricerche sottomarine, Guardie Forestali (ora per altro in parte smilitarizzate). Ovviamente queste funzioni potrebbero essere perfettamente organizzate in modo civile e dunque non rientrare in nessun piano di riarmo.

Dobbiamo anche chiarire un equivoco (ma sarà un equivoco o una manipolazione?) secondo cui alcuni sostengono che il Piano di Riarmo proposto in sede europea non sia per finanziare acquisto di armi ma piuttosto tecnologia di vario tipo. In realtà nessuno ha scritto a cosa destinare questi soldi: si sta dicendo di metterli a disposizione perché, all’improvviso, ci vuole più sicurezza in Europa e si stanno discutendo come trovare questi soldi e come metterli a disposizione di chi vorrà spenderli.

Allora sarebbe buono che facessimo, noi pacifisti nonviolenti, antimilitaristi alcune semplici proposte.

Quando penso a queste cose sempre mi salta in mente una frase semplice che disse anni fa Silo, il fondatore del Movimento Umanista: “l’unico quartiere sicuro è un quartiere umano”; disse questa frase nel contesto di una grande campagna che negli anni ’90 del secolo scorso gli umanisti fecero in tutti i quartieri del mondo dove fu possibile: era una campagna di ricostruzione del tessuto sociale che si andava distruggendo e che si articolava in numerose attività di prossimità, lotte e attività sociali, apertura di Centri di Comunicazione Diretta e Giornali di Quartiere e campagne di appoggio al piccolo commercio di prossimità come garanzia di quartieri umani, vivibili e sicuri.

Sappiamo come è andata a finire e come quel nobile tentativo sia fallito, come i nostri quartieri siano diventati sempre più invivibili e più brutti. Pensiamo forse che con protezione elettronica e truppe alle frontiere i nostri quartieri saranno più sicuri?

La Sicurezza Sociale in senso amplio è la possibilità di vivere una vita degna e umana, con diritti e possibilità: investire in sanità, istruzione e qualità della vita sono le più efficienti forme di realizzazione di un luogo sicuro perché umano e, in questo campo, sarebbero da investire ben più di 800 miliardi. In questo momento poi l’emergenza climatica costituirebbe una priorità ben maggiore della ridicola possibilità che i Russi ci invadano (che sembra la motivazione sottintesa di tutta questa manovra).

Esiste in realtà un movimento sommerso di cittadini che già si autorganizzano per avere una diversa qualità della vita senza aspettare che arrivi qualcosa dall’alto: reti di cittadini, ecovillaggi, esperienze ispirate dal Transition Town, gruppi di autoaiuto, le human week, gruppi di acquisto solidale, reti di educatori, esperienze di ripopolazione di paesi abbandonati ecc. I nostri partner di Italia che Cambia ne fanno un eccellente resoconto. Questo per dire che già esperimenti di un nuovo paradigma sono in marcia.

Ma è evidente che dovrebbe essere la politica, sempre più succube di interessi finanziari, a decidere di cambiare direzione e a farlo con coerenza: perché quel che si propone oggi a chi ci vota non può essere diverso da quello che si farà quando si sarà al governo.

Per cui alla politica chiediamo con chiarezza e con coraggio di rispondere sul serio alla domanda “come rendo un posto sicuro”? Con le armi? con il controllo elettronico? Con la paura? Con il ricatto? E chiediamo un conseguente cambio radicale di priorità.

A ognuno di noi possiamo, con affetto, chiedere “cosa posso concretamente fare per rendere il mio intorno più umano, con più diritti, più empatia, più comprensione, più accoglienza”? E risponderci, nell’intimo del cuore, ed agire di conseguenza.

Nota: questo articolo è già uscito nei giorni scorsi su pressenza

per leggere tutti gli articoli di Olivier Turquet su Periscopio clicca sul nome dell’autore

 

Convegno sulla ripubblicizzazione del servizio rifiuti: 27 marzo ore 17,30, c/o Factory Grisù

#liberiamoFerraraDaHera

Convegno sulla ripubblicizzazione del servizio rifiuti
27 marzo ore 17,30
Factory Grisù – Ferrara

Come potete vedere (volantino più sotto) al dibattito, dopo la nostra introduzione, parteciperanno:
Natale Belosi,
coordinatore della Rete regionale Rifiuti Zero ER
Gianluca Tapparini,
direttore dell’azienda ALEA di Forlì.

Dopo la campagna di comunicazione che stiamo sviluppando  “liberiamo Ferrara da Hera” e il flash mob che abbiamo tenuto il 22 febbraio scorso, con questo convegno intendiamo approfondire le ragioni che sostengono la nostra opzione per la ripubblicizzazione del servizio rifiuti.
Vi preannunciamo, che, dopo lo svolgimento del convegno, intendiamo anche lanciare una petizione online, per la quale vi chiederemo un impegno importante per sostenerla.

#liberiamoFerraraDaHera

La festa di Linda.
Un racconto quasi fantastico

La festa di Linda

Un racconto quasi fantastico

Mancava poco a domani, solo una notte, e magari anche quella notte avrebbe fatto il suo sogno. Domattina sarebbero arrivati tutti, da ogni angolo della terra, e in tre dalla nuova stazione di Marte, perché quello era davvero un evento speciale. E qual era l’evento? L’evento era lei, la cosa la faceva sorridere ma, inutile negarlo a sé stessa, si sentiva agitata come non le succedeva da tantissimo tempo. Ecco, quando aveva otto o dieci anni, era spesso agitata così, non ricordava più per cosa. Ma ora, dopo tutto quel tempo, adesso che era arrivata quasi alla fine, doveva ammettere di essere più agitata di allora.

Linda, la nonna Linda, la nonna di tutti, si alzò con un po’ di fatica dalla sua poltrona e si avviò zoppicando verso la sala da pranzo. Niente bastone, ce la faceva ancora, lei non aveva bisogno di un bastone. Aveva tre figli, e ognuno e ognuna le avevano regalato un bel bastone da passeggio. Eccoli lì, mica li aveva buttati, li teneva a dormire nel portaombrelli. La grande tavola era già apparecchiata, la tovaglia bianca di lino misto canapa, il bordo con un ricamo semplice, senza fronzoli, perché lei i fronzoli li odiava, e invece come adorava quella tovaglia antica. Con il pollice e l’indice provò il tessuto ruvido, così vero e bello, avvicinò il viso e aspirò il profumo del tessuto e del pulito. Sul tavolo mancavano solo i fiori, ma quelli li avrebbe aggiunti domani, all’ultimo momento.

Pensò ancora ai figli e ai bastoni, uno aveva addirittura l’impugnatura d’argento, e i figli non li aveva nemmeno ringraziati. Non si era comportata molto bene, ma insomma, non erano stati molto originali – Linda sorrise a quel pensiero impertinente – fosse stato ancora al mondo lo zio Checco, per il suo Moltianni le avrebbe regalato uno skateboard, non un bastone da passeggio. E poi, glielo aveva chiesto lei di regalarle delle stampelle?  Per lei i regali non servivano a nulla, ci si amava benissimo senza quella stupida idea di confermare e sventolare in pubblico il proprio amore con un regalo. Se li facessero fra loro i regali. Intanto era entrata nella camera del grande camino di terracotta e si era accostata al tavolo ovale di pioppo bianco dove erano ammonticchiati una trentina di grandi pacchetti.

Bel discordo Linda, abbasso i regali, ma allora i tuoi pacchi di biscotti? Non sono regali anche quelli? No e poi no, protestò contro se stessa, quelli sono un segnale, un messaggio, sono un lascito testamentario.  Proprio una bella eredità un pacco di biscotti…  Un momento,  ora  Linda era infuriata: “Ma i miei non sono semplici biscotti, sono biscotti rotti”. Ed eccole qua le generose confezioni da chilo della premiata ditta Malandrini. Era stata una geniale trovata di Alessandro Malandrini di Saronno,  pioniere della biscotteria italiana e fidanzato di sua nonna Clelia, no, forse era il fidanzato di sua bisnonna Maria Cecilia. Ha poca importanza,  fatto sta che il Cavalier Malandrini cuoceva biscotti nel suo forno industriale e ne uscivano tanti rotti,  spezzati, storti, difettosi. Invece di buttarli, Malandrini li mise in grandi sacchetti con sopra una scritta onestissima: Biscotti rotti.  Costavano la metà della metà dei biscotti di prima scelta e andarono a ruba. Funzionavano come il cilindro di un illusionista, ci infilavi dentro la mano e non sapevi mai che biscotto pescavi, un frollino, un wafer, un krumiro, una ofella, un amaretto. Più del  biscotto valeva la sorpresa. Ma alle sorprese bisognava allenarsi, ecco perché avrebbe distribuito ai discendenti il pacco degli impareggiabili biscotti rotti Malandrini.

Fece un’altra volta il giro della tavola da pranzo e contò ancora le grandi sedie di faggio, diciotto, un bel numero, più il seggiolone per Catina, l’ultima arrivata. Catina aveva quasi due anni e nonna Linda non l’aveva ancora vista toccata baciata. In cuor suo Catina, ma quella cosa non avrebbe mai compiuto il tragitto dal cuore alla bocca, nel suo cuore Catina era la preferita. Perché era l’ultima arrivata, perché aveva una malattia grave e fastidiosa, perché si chiamava Catina, Caterina, come sua madre. Linda non si vergognava delle sue preferenze, anzi, pensava alla preferenza come alla forma più perfetta dell’amore. Se ami molto, preferisci molto, e preferisci tutti, così era puntualmente capitato a lei con tutti e tre i suoi figli.

Il mese prima le era arrivata una foto di Catina, le aveva subito trovato una cornice. “No, niente argento per carità, che pacchianata!”, e l’aveva subito aggiunta al suo bosco famigliare. Accanto alla sua poltrona c’era un tavolino, nemmeno tanto piccolo, lì sorgeva una piccola foresta. Sul tavolino, senza un ordine preciso, senza gerarchie o cronologie, si affollavano alla rinfusa tutte le foto, dai bisnonni ai nipotini.

Il ritratto che attirava per primo il suo sguardo era  sempre quello, un adorabile gruppo di famiglia in un interno, anche se non si capiva di che interno si trattasse, forse la grande casa rossa di via Terranuova. Più che un gruppo sembrava un mucchio di famiglia, perché i cugini – le femmine di bianco vestite, indossando le vecchie camicie da notte del Milleottocento – stavano abbracciati e ammonticchiati uno sull’altra sul divano. In posa ma scomposti c’erano tutti e sette, con l’aggiunta di Hola, il pastore catalano perennemente abbaiante ma per l’occasione placidamente spalmata sulle ginocchia di zia Martina. La foto era virata seppia e trasmetteva un sapore di antico, anche se non era poi così vecchia, non era tanto più vecchia di lei, era stata scattata, Linda rifece i calcoli, la vigilia di Natale del 2008, o forse un anno dopo. Erano quelli gli ultimi anni della famosa nonna Caterina, detta Caterina non de’ Medici per la sua avversione verso la categoria, o Pasionaria per la sua passione anticonformista e protocomunista, o Baronessa Mamuska per i suoi nobili e disconosciuti natali, la nonna Caterina detta e ricordata in molti modi e maniere da figli nipoti e pronipoti.

Stava facendo buio, accese l’abat-jour omeostatica (faceva una luce azzurrina, tagliente e provò nostalgia della luce calda dell’energia elettrica), ripose la foto sul tavolino e prese il bicchierone con tutte e due le mani. Lo beveva sempre tutto in un fiato, senza staccare la bocca nemmeno una volta. “E con questo fanno undici”, disse a sé stessa. L’acqua era la sua migliore amica.

Riprese in mano il ritratto. Dei magnifici sette era rimasta solo zia Miriam, nata a cavallo del millennio, ingegnere (ingegnera, avrebbe chiosato sua sorella Clelia) e innamorata dei numeri. Dal fondo della Patagonia, dove si era trasferita trent’anni prima insieme al quartier generale della grande azienda fondata dal bisnonno Serafino, l’aveva avvertita che non avrebbe potuto essere presente alla sua festa di compleanno. Zia Miriam aveva solo 95 anni e puntava a doppiare il secolo e senza ricorrere ai trattamenti eugenetici. Non era proprio il tipo da spaventarsi per un viaggetto del genere: si sarebbe messa al volante del suo ovulo di ultima generazione e avrebbe digitato sul display: Europa-Italia–Ferrara–Quartesana. Ma chi avrebbe badato ai suoi cani (5), e ai gatti (11), ai pinguini (3 coppie), alle stupidissime oche Adelina e Guendalina, e al ciuchino Lucignolo? E poteva abbandonare le 14.000 preziose pecore aziendali, e proprio ora, in piena stagione della tosatura? No, mi spiace piccola (zia Miriam si ostinava a chiamarla piccola), non riesco proprio muovermi, è fuori discussione.

Va bene, le aveva risposto in simultanea Linda,  ma senza poter evitare un commento segreto e malizioso. Che poteva farci se oltre a essere intelligente era anche maliziosa? Non è cattiveria, si scusò da sola, la malizia è solo una conseguenza naturale, una innocua deviazione dell’intelligenza. Così pensò che zia Miriam, titolare del glorioso e pluripremiato Allevamento Incico spa e direttrice dell’ultima filanda del pianeta Terra, aveva un altro e più valido motivo per disertare la sua festa. Semplicemente, a Miriam non piaceva essere la seconda più vecchia del gruppo.

Si concentrò sulla faccia bambina di zio Tato, il più piccolo del gruppo. A quel tempo passava molte ore del giorno in compagnia di un pallone da calcio. Sarebbe di sicuro diventato un buon giocatore campione se a 17 anni, quando poteva finalmente fare il salto verso una grande squadra, dopo una settimana di febbre altissima, non fosse stato rapito da un insospettabile amore per la cultura. Appese le scarpette al chiodo e guardò per la prima volta in vita sua la parete del salotto fitta di volumi. Lui che fino ad allora aveva letto un libro e mezzo in tutto, affrontò di petto la grande libreria. In quaranta giorni e quaranta notti si mangiò e digerì alla bell’e meglio la biblioteca del padre. Poi senza indugio si mise all’opera e scrisse ininterrottamente per svariati decenni. Il suo romanzo fiume raggiunse le 14.000 pagine distribuite in 22 volumi, rimanendo purtroppo incompiuto.

Secondo la critica più attenta, il suo ciclopico “Adesso vi spiego com’è andata” inaugura (e chiude definitivamente, forse per stanchezza) la corrente del ipeultrarealismo. Avere in casa quei 22 tomi con la copertina gialla uovo marcio era subito diventato un must, un marchio di status sociale. Così la fatica letteraria di Tato aveva venduto qualcosa come 30 milioni di copie in tutto il mondo, contando però solo una traduzione, vista l’impossibilità di capirci alcunché. L’unica che, per amore e per mestiere, ci aveva provato sul serio – a leggerlo fino in fondo e a tradurlo – era stata sua sorella Clelia che però, intervistata sulla tellurica quanto labirintica trama di “Adesso vi spiego com’è andata”, aveva dovuto confessare di non aver capito del tutto com’era andata veramente.

Allo zio Momo era andata peggio. O meglio, secondo i punti di vista. Dopo aver diretto cinque concettosi lungometraggi in formato Quadriprof (quattro dimensioni con l’aggiunta di puzze, odori e profumi assortiti), ottenendo una assai tiepida accoglienza, aveva finalmente traguardato che il pubblico non era ancora pronto per la sua arte. Per fortuna zio Momo disponeva, come tutti in famiglia, di una intelligenza poliedrica e versatile. Si buttò con entusiasmo sul porno sperimentale, raggiungendo un considerevole successo e, particolare non trascurabile, collezionando svariate amanti e concubine.

E la carissima zia Martina? Che strana vita.. La sua piantagione di gangia prometteva successi e denari, se non fosse intervenuta quella dannatissima legge per la liberalizzazione e la promozione commerciale della marijuana e dei suoi derivati. Si trattava senza dubbio di una importante conquista civile, ma segnò una débâcle per la novella contadina. Da un giorno all’altro il fiorente mercato clandestino crollò e zia Martina si trovò nelle pesti. Seguì una fastidiosa crisi esistenziale da cui uscì solo due anni più tardi, risolvendosi a fare domanda per entrare nella Benemerita. Zia Martina avrebbe poi percorso con onore e velocissimamente tutti gli scalini della gerarchia: appuntato, maresciallo, capitano, colonnello, e infine eccola in alta uniforme, prima donna a raggiungere i galloni di generale dell’Arma dei Carabinieri.

Anche zia Clelia aveva contribuito a dar lustro alla famiglia. Imparò alla perfezione tre lingue, poi cinque, poi sette, poi diciassette. mandarino, lao, urdu e thai incluse. Le sue esibizioni pubbliche fecero impallidire le performances della donna cannone e dell’uomo più forzuto del mondo.

Sotto un grande tendone da circo gremito di gente di ogni specie e colore, zia Clelia se ne stava molto tranqui (Clelia aveva il vezzo di rispondere a tutti con quel suo tranqui) al centro di quella baraonda, seduta su una semplice sedia impagliata. La cosa funzionava più o meno come la simultanea di un gran maestro di scacchi. Intorno a zia Clelia, a formare un ampio cerchio, stavano sedute una ventina di persone, e tutte venti  parlavano contemporaneamente, esprimendosi ognuna nel suo idioma natale.  Clelia rispondeva a tutti, passando con sovrana disinvoltura da una lingua all’altra e permettendosi anche qualche battuta di spirito. In quella babele, e dico Babele in senso stretto – Linda era convinta che, se zia Clelia fosse stata nei paraggi, su quella Torre le cose sarebbero andate ben diversamente. Il pubblico in sala non ci capiva un’acca ma mandava urla e si spellava le mani.

Rimaneva zia Olly, lei sì che aveva girato il mondo. Per vent’anni aveva fatto perdere le sue tracce sulle strade che portano in India. Inseguiva una piccola tribù di pigmei albini di cui si favoleggiava da secoli, ma che tutti, geografi e antropologi, ritenevano appunto solo una favola.

Zia Olly si procurò nella biblioteca dell’università di Coimbra l’unica preziosa fonte, il diario manoscritto di un navigatore portoghese del Seicento, noto più per le sue epiche sbronze che per le scoperte geografiche. Nel suo resoconto di viaggio, unto e bisunto, pieno di strafalcioni, macchiato di uovo, pomodoro e vino di Porto, non c’era però nessuna coordinata geografica, nessun indizio utile a rintracciare quel minuscolo scoglio in mezzo all’Oceano Indiano. Ma esisteva veramente? La testardaggine di zia Olly fu alla fine premiata, quando, dopo un pauroso naufragio, approdò per puro caso su un’isola misteriosa quanto inedita.  A quel minuscolo lembo di terra – oggi è segnato sulle carte a 3.483,5 miglia marine a sud-sudest di Colombo (Sri Lanka) – zia Olly volle dare il nome familiare di Isola Tullia. Seguirono i suoi famosi studi sui 27 abitanti albini dell’isola: pacifici, burloni, vegetariani e felicemente dediti a relazioni consensualmente non monogamiche. Quest’ultima scoperta, il fatto cioè che gli albini di Tullia, lontani dal cappio delle religioni monoteistiche, praticassero il poliamore in pace e armonia, provocò un salutare effetto a cascata sulla decrepita morale occidentale.

*     *    *

Il giorno della sua festa Linda si svegliò come sempre qualche minuto prima dell’alba. Si alzò a sedere nel letto e subito riconobbe i rimasugli del suo sogno. Come sempre c’era lei bambina di pochi anni e mamma Caterina attaccata a lei, in piedi, sulla riva di un mare immenso, così diverso da tutti i mari che aveva conosciuto nella sua lunga vita.

Era giorno fatto e il sole bruciava la sabbia e la testa, ma il mare era nero, notturno, calmo eppure carico di insidie. Lei aveva addosso il suo costume rosso a due pezzi, la mamma un costume intero bianco, tutte e due voltavano le spalle a lontani ombrelloni. Erano già entrate in acqua con i piedi ma non si muovevano, guardavano una linea d’ombra laggiù in fondo, dove finiva il mare, piene di paura ma piene di voglia di avanzare in quell’acqua scura. L’acqua era freddissima. Andiamo, avanziamo, ci buttiamo? Ma rimanevano ancora ferme, attaccate l’una all’altra. Poi, dal limite estremo del mare veniva il suono di una sirena di una nave, ora la nave sfilava davanti ai loro occhi, alta come un palazzo, tutte le finestre accese. Con quella visione e quel fischio prolungato di sirena, il sogno si interrompeva.

Che peccato, alla bambina del sogno, ma anche ora, mentre ancora stava seduta sul letto, le sarebbe piaciuto un finale, un finale qualsiasi. Dopo tutti quegli anni credeva anche di meritarselo un bel finale.

Nonna Linda si infilò i suoi vecchi zoccoli, ignorò il bagno e raggiunse direttamente la cucina. Sulla parete bianca di fronte al camino stavano appesi i quattro grandi piatti di ceramica con i quattro re delle carte, nonno Desiderio e i suoi tre fratelli, ognuno con il seme distintivo del proprio carattere; spade, bastoni, coppe e denari. Anche quello era un gruppo di famiglia in un interno. E senza volere scivolò ancora nei pensieri, uno a scavalcare l’altro, perché la grande casa di campagna sembrava vivere solo per quello scopo, chiamare i pensieri e radunare i ricordi.

Trent’anni prima, quando Linda era tornata in Italia dall’Aegentina, aveva subito riaperto la villa. Conosceva bene la sua virtù (paura dei fantasmi? Che idea sciocca: lei li adorava i fantasmi) e aveva preso una decisione, avrebbe usato tutto il tempo rimastole per non perdere una briciola del passato, nemmeno una.

Ora però dal salone d’ingresso sente arrivare la musica allegra del pianoforte. Forse il piano ha imparato a suonare da solo, o forse è lo zio Duccio, il più giovane dei fratelli del nonno Desiderio, che le dedica una canzone e le augura il buon compleanno.  Linda si avvicinò al vecchio frigorifero Elios, uno dei primissimi modelli ESA (Energia Solare Alternata),  l’ultimo ritrovato della tecnica, ma ora era un pezzo di antiquariato, un vero cimelio, un altro ferrovecchio che non aveva voluto rottamare. L’Energia Solare Alternata si era dimostrata abbastanza presto una pessima idea, passabile per scaldabagni, forni e fornelli, ma palesemente inadatta a produrre e mantenere il freddo – E voleva tanto a capirlo? , rifletté  Linda.

Dove eravamo rimasti? A lei davanti al suo frigo solare; ora lo apre e tira fuori una bottiglia d’acqua fredda. Nel frigo non c’è molto posto per le cose da mangiare, quasi tutto lo spazio è occupato da bottiglie, tutte piene d’acqua. Di fianco al frigorifero, sulla credenza verde chiaro con il piano di marmo, ci sono tre vassoi e tanti bicchieri di vetro leggero, grandi e trasparenti, perché Linda odia i bicchieri colorati e non sopporta il contatto delle labbra con un vetro grosso. Se riempi uno di questi bicchieri di vetro sottile, non fino all’orlo, diciamo per tre quarti, la bottiglia si vuota per metà. Un bicchiere è mezzo litro, dodici bicchieri sei litri, che è giusto la dose giornaliera di Linda. Questo che si sta versando ora è il primo bicchierone della giornata, l’ultimo lo berrò verso le sette di sera. L’acqua, devo averlo già detto, è la  migliore amica di Linda , la ragione della mia salvezza, o forse no, ma ilei sentiva che era proprio così.

I reni di Linda erano piccoli come noccioline americane, non crescevano, non volevano funzionare. Aveva le foto di lei intubata in ospedale. I dottori di Lione non sapevano cosa dire e cosa fare, la diagnosi era complicata. Una cosa brutta, tanto brutta che anche a mamma Caterina era andata via la speranza, e lei, Linda, non sapeva più se restare e vivere, oppure tornare indietro, dall’altra parte, dove non sappiamo se c’è il buio o la luce. C’era un video ripreso da un cellulare con la mamma che la tiene sulle ginocchia e la fa cavalcare. Nel video, l’aveva rivisto un milione di volte, lei ha ancora il sondino nel naso, ma ride e fa ciao con la mano. Non ricorda molto altro di quei mesi terribili, ma capita a volte che i ricordi entrino in silenzio sotto la pelle e rimangono con te per sempre.

Era stato un dottore italiano, il dottore era parecchio anziano, Linda aveva quattro anni e cresceva troppo poco, a mamma Caterina il vecchio medico aveva dato un consiglio. Senta signora, è un rimedio antico, forse non farà miracoli, ma certo non potrà far del male alla bambina, l’acqua non fa male a nessuno. Acqua, acqua, tanta acqua, tutti i giorni. Da allora lei aveva seguito fedelmente la dieta acquatica. I suoi reni, sia stata l’acqua o le medicine, le preghiere a Dio o la fortuna, non le avevano più dato problemi. Era solo rimasta, una volta si diceva così, un po’ debole di reni, ma niente di più.

Di Lione aveva ricordi sfocati, l’ospedale, la casa, il parco dove andava tutti i giorni, prima in passeggino, poi sulle sue gambe e sul triciclo – era rosso anche quello, dello stesso rosso del suo costume da bagno a due pezzi – ma Lione le era sempre stata antipatica, forse per via della malattia, o per la faccia triste che i genitori volevano nasconderle, o semplicemente per i francesi, tutti i francesi o quasi tutti. Dopo Lione c’erano stati tanti altri posti, tante città e tante case. Lione era stata coperta da moltissime altre immagini, come un lenzuolo sotto cento coperte.

Questo pensa ora Linda, che non era stato facile essere figlia di due scienziati. Era diventata grande. Abitavano in una bella casa nel quartiere Palermo a Buenos Aires, la casa era piena di sole e di vento, aveva un grande giardino. Quel giorno, erano a tavola, Linda andò subito al sodo  con mamma e papà: Qui mi piace, è il mio posto, non voglio più partire, voglio essere un animale stanziale io. Invece, dopo che a mamma Caterina era stato assegnato il premio, quello per la fisica – ricordava benissimo la compassata cerimonia a Stoccolma – i viaggi si erano moltiplicati, e dopo il secondo premio, questa volta per la chimica, c’erano stati anni in cui mamma e papà non disfacevano mai le valigie.

Colpa di Argon, “l’Inoperoso” secondo la radice greca, l’inafferrabile e inutile gas nobile, detto anche gas inerte, o gas raro. Questo Argon, che non è poi tanto raro, visto che partecipa con un rispettabile uno per cento alla composizione dell’atmosfera terrestre (venti o trenta volte di più dell’anidride carbonica senza la quale però non ci sarebbe vita sul pianeta), non aveva nessuna intenzione di combinarsi o coniugarsi con alcunché. Da sempre, dal principio di tutto, Argon dormiva, fluttuava, oziava, incurante degli altri elementi e del genere umano.

Mamma Caterina – la stampa internazionale l’aveva poi messa sul trono chiamandola la nuova Marie Curie – non era certo una donna da confondersi con le altre. Del resto, la bisnonna Maria Cecilia, la nonna della mamma, andava ripetendo che “In famiglia siamo tutti un po’ speciali”, Forse la mamma lo era più degli altri, era speciale in un modo speciale. Fatto sta che grazie a una geniale intuizione, a una perseveranza alfieriana e a uno spericolato esperimento, mamma Caterina era riuscita a far socializzare il placido Argon. Linda aveva gran rispetto per la scienza e gli scienziati, ma aveva una personale teoria al riguardo. Conosceva sua mamma meglio di chiunque altro ed era convinta che con Argon lei avesse giocato d’astuzia, che gli avesse tirato un tiro mancino.  Lo aveva corteggiato, vezzeggiato, adulato (papà Serafino se ne era anche un po’ risentito), lo aveva portato a spasso come si fa con un cagnolino adorato, tenendo il guinzaglio allentato, senza dare strattoni, carezzandogli il muso e lisciandogli il pelo. Poi, in un momento di abbandono, quando l’accidioso e misantropo Argon aveva la guardia abbassata, la mamma aveva stretto all’improvviso il collare e costretto l’Inoperoso – per la prima volta dal Big Bang ai giorni nostri – a darsi da fare e a guadagnarsi da vivere.

Il resto è storia che trovate in qualsiasi enciclopedia. Né l’autore di queste righe né Linda vogliono annoiare il lettore ripetendo quello che i bambini imparano in terza elementare.  Il trionfo della Energia Argonautica è sotto gli occhi di tutti. Chi non sa che senza di lei (e ovviamente senza mamma Caterina) non saremmo arrivati dove siamo adesso? E non ci sarebbero i viaggi interstellari, l’inquinamento zero e ozono quanto basta.

Ma è tempo di tornare alla festa di Linda e di concludere questa storia. Una storia piuttosto ordinaria ma assolutamente vera anche se, lo ammetto, non troppo verosimile. Le piccole licenze, le innocue divagazioni, le strampalate fantasie che l’autore ha voluto concedersi, non sono però frutto di una inveterata tendenza alla menzogna, ma il risultato di un duplice amore. L’amore per l’oggetto, cioè per i soggetti protagonisti del racconto, e l’amore per la finzione letteraria. Non so se qualcuno l’ha già scritto, in ogni caso lo scrivo io: solo percorrendo le strade della finzione è possibile estrarre qualche verità dalla materia inerte del reale. E’ una teoria stramba e non dimostrabile? Ve lo concedo, ma è la mia teoria.

Ora il sole incomincia a scottare e quella mattina, voglio dire questa mattina, la mattina del 18 dicembre 2095, non sembra diversa da qualsiasi altra mattina di caldo inverno di fine secolo. Linda si è vestita e con il vestito della festa, continua a camminare per le stanze della villa, i suoi zoccoli fanno toc toc sul vecchio pavimento di cotto. Come tutte le mattine si emoziona vedendo la luce del sole che invade e accende le pareti bianche. Che ore sono? Sono le otto e mezza, l’ora della prima colazione. Ma prima deve levare i catenacci del portone d’ingresso, afferrare le maniglie, far scorrere e accostare le due ante della porta a vetri.

Un sibilo leggero, prolungato e acuto come una punta di spillo, taglia a metà l’aria tiepida del mattino. Allora Linda riapre le ante della porta finestra che affaccia sul parco, passa con lo sguardo i pioppi secolari e le due Gingo dritte come sentinelle, l’orto ben tenuto, la torre colombaia là in fondo. Sul grande prato verde sta atterrando l’ovulo dei primi invitati. Il buffo velivolo descrive un cerchio quasi perfetto proprio sopra la torre e si posa dolcemente sull’erba. L’ovulo (occorre specificarne il principio motore? Gas Argon ben compresso in quattro pistoni e una biella) brilla nel primo sole; è rosso cromato, lo stesso rosso delle antiche automobili a scoppio Ferrari. Sembra proprio una grossa ciliegia matura. Nonna Linda avanza qualche passo sul pianerottolo della scala di cotto, agita la mano destra per dare il benvenuto ai suoi ospiti. La sua festa di compleanno è incominciata.

(Finito a Ferrara il 30 giugno 2016 – 5° revisione 21 marzo  2025)

 

Per leggere tutti gli articoli e i racconti di Francesco Monini su Periscopio clicca sul nome dell’Autore

Per certi Versi /
Il silenzio del viaggio

Il silenzio del viaggio

Il tempo di partenza
è come il destino di chi è fermo
alla stazione

Il bagaglio straripante
è un movimento
di vaghe mete

è una attesa lunga
il fuggire voluto
dalla propria presenza

è un viaggio fatto di silenzi

Fischia un treno
in lontananza
alla fermata
nessuno sale

Nel 2025 la storica rubrica domenicale di poesia Per certi versi è affidata a Maria Mancino (Maggie) 

Cover: stazione di Oderzo deserta, immagine di flickr.com su licenza Wikimedia Commons

Daniela Carletti: natura e ricerca, dal Centro culturale di Argenta al percorso tra gli atelier ferraresi

Daniela Carletti: natura e ricerca, dal Centro culturale di Argenta al percorso tra gli atelier ferraresi

Opere che si nutrono d’aria e che l’aria valorizza quelle di Daniela Carletti. L’artista ferrarese ha appena concluso una bella personale negli ampi e luminosi spazi del Centro mercato di Argenta e a breve aprirà il suo studio in uno dei percorsi di visita offerti dalla manifestazione Cardini Atelier Aperti (nel weekend di sabato 29 e domenica 30 marzo 2025). Dagli anni Ottanta ad oggi, Daniela si dedica a una pittura fatta prima di tutto di ricerca e di sperimentazione. Tecniche combinate in una fusione armonica di segni, sfumature, colori.

Mito e natura si fondono nelle opere basate su alcune delle metodologie di lavoro che hanno segnato lo stile delle avanguardie artistiche del Novecento e che vengono riprese, rielaborate e utilizzate in maniera personale.

Matrici di foglie
Atelier Daniela Carletti
Studio – foto GioM

Il frottage – che è un metodo di disegno che consiste nel far affiorare sul foglio di carta il rilievo sottostante, utilizzato e rilanciato da uno dei maggiori esponenti del surrealismo come Max Ernst – con Daniela si estende in chiave più pittorica e trasforma le erbe dei campi in matrici di stampo naturalistico, che sovrappongono le loro forme e scabrosità per fare riemergere grandi steli, foglie giganti e altre specie campestri sui fogli e sulle tele.

Daniela Carletti davanti a una sua opera

La tecnica del dripping – che consiste nel lasciar sgocciolare i colori sulla tela senza l’uso di pennelli – diventa per Carletti segno che sintetizza filamenti di origine vegetale e partiture di tela che si contrappongono a parti trattate con procedimenti diversi.

Acrilico su tela di Daniela Carletti

Questo sistema che sfrutta la colatura dei pigmenti è stato anticipato nella forma della scrittura automatica da esponenti del surrealismo per essere poi adottato, a partire dalla metà del Novecento, dall’artista americano Jackson Pollock con il quale nasce una vera e propria scuola dell’action painting. A livello nazionale, la metodologia si ritrova in un pittore come Mario Schifano con un’interpretazione tutta personale che non ha disdegnato rappresentazioni naturalistiche, dai ‘campi di grano’ a certi ‘paesaggi anemici’.

Dripping in un’opera di Jackson Pollock su copertina rivista Taschen
Campo di grano di Mario Schifano, 1970

Daniela fa notare come il paesaggio piano del territorio padano resta per lei una costante. Un orizzonte costellato qua e là da figure di tipo vegetale o umano, di genere prevalentemente femminile. Sulla tela queste figurazioni sono più descrittive e didascaliche. Volti che mi evocano la simbologia delle stagioni – l’Estate gialla di grano di un volto di donna dalla pelle scura e la Primavera rosata e fiorita – ma che il titolo delle opere riporta a una mitologia letteraria diversa.

Daniela Carletti davanti a opera ‘Le vie dei canti’

Il riferimento è quello antropologico della cultura aborigena australiana, recuperato attraverso la lettura dei diari romanzati dello scrittore britannico Bruce Chatwin, Le vie dei canti. Questi lavori – spiega Daniela, che dell’opera di Chatwin ha ripreso il titolo – raccontano le indagini che lo scrittore svolse nelle terre australiane sulla tradizione dei canti rituali, tramandati di generazione in generazione come conoscenza iniziatica, che danno voce contemporaneamente ai miti della creazione e alle mappe del territorio. Un riferimento, quello a Bruce Chatwin, così sentito da ritornare nel titolo stesso scelto da Daniela per questa esposizione: “Il tempo del sogno”. Un tempo che – come riporta lo scrittore britannico nel suo libro-diario di viaggio – è l’epoca che precede la creazione del mondo e che in qualche modo contiene i modelli che poi prenderanno forma nella realtà.

Studio di Daniela Carletti – foto GioM

Il passaggio dall’idea alla realtà è una metafora che si può ritrovare nella forma nelle opere. Il profilo bidimensionale delle tele, per la maggior parte di dimensioni vaste, è predisposto per assumere anche la terza dimensione. Le cerniere, celate sullo spessore laterale dei telai, consentono infatti ai dipinti di essere anche appoggiati a terra. Le opere si trasformano così nelle quinte di una scenografia che può essere considerata il passaggio dall’immagine pura e semplice al suo inserimento nel mondo, che sfuma dalle tinte più calde (giallo, rosa, arancio) a quelle più fredde dell’azzurro e del verde.

Daniela Carletti nel suo studio – foto GioM

Le sculture si caratterizzano, invece, per la totale monocromia. Di tonalità bianca, le statue si compongono di una struttura metallica composta da una rete di fili avvolti nella garza passata nel gesso e protetta da una resina finale con una metodologia specifica messa a punto dall’autrice.

Pieghevole della mostra ad Argenta (FE)
“Il tempo del sogno” di Daniela Carletti

Una tecnica che ancora una volta si nutre d’aria e ingloba l’ambiente intorno, proiettandosi a sua volta nel mondo in un gioco di luci e ombre.

Per leggere tutti gli articoli di Giorgia Mazzotti su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

Il governo Americano vuole un’Europa vassalla, ma la militarizzazione porta solo al fallimento

Il Governo Americano vuole un’Europa vassalla, ma la militarizzazione  porta solo al fallimento

New York City Gli europei sono sotto shock di fronte alle ultime mosse del governo statunitense contro il Continente. Dalla lezione paternalistica tenuta dal vicepresidente J.D. Vance alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera a febbraio (vedi il discorso qui) ai negoziati sull’Ucraina tra Stati Uniti e Russia – escludendo la Comunità europea – l’alleanza transatlantica è messa alla prova come mai prima d’ora.

Devo forse ricordare ai miei colleghi americani che la realtà che condividiamo oggi ha profonde radici europee? Il mondo occidentale è stato plasmato e sviluppato da pensatori, filosofi, artisti, politici ed economisti europei, che hanno tutti contribuito a fondare la moderna civiltà occidentale.

I principi dei diritti inalienabili, la separazione dei poteri e la struttura della Costituzione degli Stati Uniti sono stati ampiamente influenzati da pensatori illuministi come Montesquieu e John Locke. Anche Washington D.C. è stata progettata da un europeo, il francese Pierre L’Enfant, la cui pianta a griglia definisce ancora oggi l’assetto della città.

Senza l’Europa non ci sarebbero gli Stati Uniti d’America come li conosciamo. Alcuni potrebbero addirittura sostenere che gli Stati Uniti rappresentano un’evoluzione generazionale della civiltà europea, emersa nell’era postcoloniale. Oggi, i dati del censimento degli Stati Uniti indicano che circa il 60% degli americani si identifica come di origine europea, con una percentuale che aumenta se si considerano le persone di ascendenza mista.

Dati questi profondi legami culturali e storici, ci si aspetterebbe che Washington trattasse l’Europa come un partner alla pari nel plasmare il futuro.
Invece, gli Stati Uniti continuano a dettare la politica di sicurezza con scarsa considerazione per le prospettive europee, sia nei negoziati con la Russia sull’Ucraina, sia nello spingere i membri della NATO ad aumentare le spese per la difesa.

Questo approccio tratta l’Europa come un subordinato, non come un alleato. L’Europa ha passato decenni a cercare di superare il nazionalismo militarista che ha portato a due guerre mondiali, eppure Washington sta facendo pressione sull’Europa per rimilitarizzarla. Spingendo un nuovo aumento degli armamenti, gli Stati Uniti stanno guidando il continente all’indietro, non in avanti.

Gli Stati Uniti hanno ripetutamente dimostrato i fallimenti della militarizzazione, dalla Corea (1950-1953) e dal Vietnam (1955-1975) alla Baia dei Porci (1961), al Libano (1982-1984), alla Somalia (1992-1994), all’Afghanistan (2001-2021), alla Libia (2011) e all’Iraq (2003-2011, con una ripresa nel 2014-2017).

Si potrebbe aggiungere che i conflitti in corso in Ucraina e in Palestina sarebbero molto diversi senza i finanziamenti, le armi e il supporto logistico degli Stati Uniti. Questa spinta al riarmo non sta portando solo l’Europa, ma il mondo intero nella direzione sbagliata.

La vera sfida per gli Stati Uniti non è quella di dominare il mondo con la forza, ma di ridefinire la leadership per il XXI secolo. La vera influenza si basa sul partenariato, non sulla coercizione. Invece di aggrapparsi a lotte di potere ormai superate, gli Stati Uniti dovrebbero essere il partner fondatore della prima comunità umana universale, guidata dalla diplomazia, dalla cooperazione economica e dalla sicurezza condivisa. Qualsiasi cosa di meno è irrilevante nel mondo moderno.

Traduzione di Toni Antonucci

David Andersson è un giornalista, fotografo e autore franco-americano che vive a New York da oltre 30 anni. Dirige l’agenzia di stampa internazionale Pressenza ed è autore di The White-West: A Look in the Mirror, una raccolta di articoli che esaminano le dinamiche dell’identità occidentale e il suo impatto sulle altre culture.

Questo articolo è stato pubblicato con altro titolo su Pressenza il 20 marzo 2025
Quest’articolo è disponibile anche in: IngleseSpagnoloFranceseTedesco

Cover: America ed Europa, America Europa,, immagine Depositphotos

«Impronte», l’ultima opera del poeta Cheyenne Lance David Henson

«Impronte», l’ultima opera del poeta Cheyenne Lance David Henson.

Lance David Henson è uno dei più rappresentativi poeti della cultura dei Nativi d’America, oltre ad essere una delle grandi voci della letteratura nativa americana contemporanea. Nato a Washington DC, è cresciuto vicino a Calumet nell’Oklahoma dove i suoi nonni lo hanno cresciuto secondo le tradizioni della tribù Cheyenne. Henson pubblicò il suo primo libro di poesie, Keeper of Arrows , nel 1971, quando era ancora uno studente all’Oklahoma College of Liberal Arts. Ora ha all’attivo più di 50 volumi di poesie che sono stati tradotti in 25 lingue.

Henson fece parte del programma Artist in Residence del State Arts Council of Oklahoma, attraverso il quale tenne laboratori di poesia in tutto lo stato per 10 anni. Da allora, ha viaggiato in tutto il mondo tenendo conferenze e leggendo le sue poesie. Oggi Henson vive tra gli Stati Uniti e l’Italia, a Bologna, con la moglie Silvana, ed è membro dell’AIM – American Indian Movement, della Native American Renaissance insieme a nomi del calibro di N. Scott Momaday, Vine Deloria Jr.e Joy Hario, e della Dog Soldier Society, una società militare Cheyenne.

Per quanto abbia avuto, in parte, una formazione militare, Lance Henson ha combattuto ottanta anni a fianco della resistenza indigena usando sempre la sua poesia come arma per smuovere le coscienze.

E’ proprio “Impronte. Imprints”, la sua ultima opera pubblicata dalla Mauna Kea Edizioni, a celebrare i suoi 80 anni con una selezione di poemi dal 1970 al 2024. In edizione bilingue italiano e inglese, l’opera include i lavori più significativi del grande autore insieme a nuovi poemi e a quelli in lingua Cheyenne (tsististas).

Attraverso uno stile minimalista senza maiuscole, punteggiatura, rima o metro (tipico della letteratura Cheyenne), le poesie di Henson riescono a descrivere la connessione ecologica del suo popolo alla Natura e al mondo vivente, attingendo all’ancestrale spiritualità Cheyenne e incorporando parole dalla lingua Cheyenne, la filosofia Cheyenne e un forte commento socio-politico.

Le immagini della Natura e delle stagioni figurano in modo prominente nelle opere di Henson, commentando anche la situazione dei popoli indigeni nordamericani, la loro oppressione storica e le minacce moderne alle loro culture, oltre al degrado etico segnato dal consumismo e dalla società industriale di massa che ha avuto la pretesa di occidentalizzare il mondo: purtroppo, riuscendoci. Centrale è la critica al denaro, al potere e all’essenza politica e suprematista degli Stati Uniti: l’unica nazione artificiale creata da europei al mondo nata dal sistematico etnocidio di milioni di persone indigene.

L’essenza suprematista degli USA e la critica al potere la esprime proprio in “Impronte” in una bellissima poesia dal titolo in lingua tsististas “maheo na dots houn” (“creatore sto pregando”), dedicata al grande Leonard Peltier – suo compagno di lotte per l’eguaglianza dei Nativi Americani ed aderente all’AIM – arrestato e incarcerato per quasi 50 anni, ricevendo solo a gennaio 2025 la commutazione della pena da Biden, che gli ha concesso i domiciliari.

Che le preghiere di Hanson siano state esaudite proprio nell’anno della pubblicazione del suo ultimo libro? Chi lo può dire, ma ciò che emerge è la grande purezza e fortezza d’animo indigena che non cessa di stupire esattamente come una goccia d’acqua, con costanza, scava la roccia.

Eduardo Duran, psicologo junghiano di origine Apache, scrive di Henson: «Le parole della poesia di Lance sono canti di medicina che parlano del processo di trasformazione dell’anima. È attraverso il viaggio all’ombra della morte che possiamo ritrovare la nostra umanità che è stata a lungo dimenticata. La sua immaginazione poetica è la medicina compassionevole di cui abbiamo profondamente bisogno per risvegliare l’anima del guerriero».

Eric Harrison nell’Encyclopedia of American Indian poetry, scrive: «Lance Henson, Cheyenne, esplora il rapporto intimo ma spassionato del suo popolo con il mondo naturale e le sue cerimonie. Henson si affida a immagini potenti per “sondare gli strati dell’inconscio” in modo simile a Freud e Jung, ma anche per esprimere la concezione nativa del sé».

Io credo che “Impronte” sia una questione di “vibrazioni”. Le poesie contenute in questo libro hanno un gusto diverso dalle altre e si captano nello stesso modo in cui si percepiscono parole di verità: hanno una vibrazione diversa da tutte le altre. Nulla hanno di caotico e roboante. Nel leggerle sembra quasi ascoltarle riecheggiare nel silenzio di una prateria. Piccole poesie in grado di colpire in profondità, scalfire ed arrivare dritte al cuore lasciando “tracce/impronte di consapevolezza”.

“Impronte” è una cura terapeutica all’accelerazione dell’Occidente storico, riportandoci all’importanza delle piccole cose e del quieora che abbiamo dimenticato e continuiamo a dimenticare.

“Impronte” è un’occasione, non solo per riscoprire la profondità della letteratura nativa Cheyenne, ma anche per prenderci del tempo per noi, per lasciarci attraversare da parole che (ci) curano e ci portano a guardare la realtà in modo diverso. Soprattutto ci permettono di chiederci: dove stiamo andando?

In copertina:  Lance David Henson,  foto da premiostana.it/poesia

Per leggere gli altri articoli di Lorenzo Poli clicca sul nome dell’autore.

Safari tra gli alberi giganti di Palermo, dall’orto botanico alla città

Safari tra gli alberi giganti di Palermo, dall’orto botanico alla città

VAI ALLA GALLERIA PER VEDERE TUTTO IL SERVIZIO FOTOGRAFICO

Palermo è di per sé un giardino botanico diffuso. Arrivata nella ex capitale del Regno delle Due Sicilie per la prima volta, nonostante le alte aspettative, è stata tutta una meraviglia. Basta una passeggiata in centro sulle tracce di una rivendita di cibo, per incappare nelle Magnolie tentacolari gigantesche di quella che sarebbe altrimenti una normale piazzola, in San Francesco di Paola.

Ficus nella piazzola San Francesco di Paola (foto GioM)

In piazza Verdi, davanti al Teatro Massimo, il marciapiede è costellato da Ficus microcarpa dai fusti bitorzoluti e rigonfi, sotto ai quali sostano i carretti trainati da cavalli.

Ficus davanti al Teatro Massimo
Piazza Verdi con Ficus microcarpa (foto GioM)

Un grande esemplare di ficus magnolioide è all’ingresso dei Giardini Reali, nel parco aperto a tutti di Villa Garibaldi, per non dire delle Palme grandi e rigogliose che spuntano un po’ dappertutto.

Giardini Reali, Palermo (foto GioM)

Il giardino botanico vanta un esemplare ancora più grande di ficus magnolioide a colonne (tecnicamente ficus macrophyilla columnaris). Credevo fosse il grande, doppio, esemplare che accoglie il visitatore all’ingresso. Niente affatto. L’albero monumentale è quello che ti si para davanti all’improvviso, verso la fine del giro del giardino. È stato portato qui dall’isola di Lord Howe, in Australia. Messo a dimora 185 anni fa da Vincenzo Tineo, uno dei primi direttori dell’Orto botanico, ora supera i 14 metri di larghezza.

Il ficus magnolioide

Originario degli stati australiani del Queensland e del Nuovo Galles del Sud, questo tipo di magnolia è stato introdotto in Italia attorno all’anno 1840, quando è stato piantato il primo esemplare nell’orto botanico di Palermo. La pianta rappresenta quindi il capostipite dei grandi Ficus dei giardini di Palermo, della Sicilia e dell’Italia meridionale. La sua struttura è formata da più fusti che si affiancano a un corpo centrale, creato dalla saldatura di propaggini arboree e da radici aeree che, nel complesso, gli conferiscono una forma sinuosa a raggiera.

orto botanico
Le colonne portanti del ficus (foto GioM)

Lo sviluppo avviene in tutte le direzioni: il corpo centrale svetta sì verso l’alto, ma si prolunga anche lateralmente. Le ramificazioni vanno in su e le radici aeree colonnari si appoggiano al suolo, sorreggendo i rami della pianta come zampe elefantiache. La pianta appoggia sulla superficie della terra con le sue radici esterne, a forma di grandi lame che emergono dal suolo verticalmente, estendendosi sul terreno e consolidando l’ancoraggio. L’albero, grazie a queste lamine e alle colonne che autoproduce, riesce a sostenere un peso che sarebbe altrimenti spropositato.

Le radici tabulari del Ficus macrophylla

La scheda del ficus dell’Orto botanico palermitano enumera ben 44 fusti. I più grandi di questi hanno una circonferenza di oltre tre metri e mezzo, e sostengono l’allungamento di undici grosse ramificazioni principali, a sviluppo quasi orizzontale, da cui partono i rami di ordine inferiore.

Il capostipite dei grandi Ficus di Palermo

Il sentiero d’ingresso conduce poi sul viale degli Alberi bottiglia. Tecnicamente, queste piante dal fusto panciuto che si va affusolando verso l’alto – tutto costellato di spine durissime – sono esemplari di “Ceiba speciosa“.

Alberi bottiglia (foto GioM)

L’albero è chiamato anche falso kapok o falso cotone, perché le grosse capsule dei suoi frutti si aprono, liberando una morbida lanugine bianca.

La Dracaena draco (foto EG)
L’albero (foto Orto Botanico – UniPa)

Più avanti, sulla destra, si incontrano strisce verdi ordinate. E qui appare l’Albero del drago (Dracaena draco).

Passarci sotto mette davvero inquietudine, con quei rami scuri e grifagni. Le sue propaggini sono nere come membra mostruose, che sembrano allungare inquietanti, piccole manine verso il basso e verso chi osa passarci sotto. Rasserena scorgere il passaggio di una più tranquillizzante e comune gallina, dalle piume rossastre, che becchetta lì intorno.

Una gallina a sorpresa sotto l’albero del drago

In fondo, verso la palazzina ai margini del giardino, spiazza ancora la tracotanza botanica di una Monstera Deliciosa.

Monstera rampicante (foto GioM)

È la pianta che di solito dà un tocco graziosamente esotico a salotti e hall di palazzi e alberghi, con quelle sue foglie grandi e forate, che formano grandi dita verdi simmetriche. L’esemplare della raccolta vegetale palermitana serpeggia invece con il suo tracotante fusto scaglioso, arrotolato come un’edera giunonica intorno al grosso tronco del Pecan (la Carya illinoensis), che appartiene non a caso alla famiglia delle Junglandaceae. È infatti l’albero che produce quelle forme grosse di noce, da cui deriva il nome della specie, che significa Ghiande di Giove (Jovis =Giove e Glans =ghianda).

Abituati all’aloe dei nostri vasi, qui le piante grasse si fanno tentacolari nella forma di Agave salmiana, che supera i 4 metri, incurante di essere stata lasciata in un’area completamente scoperta.

Agave salmiana

Protetto dai vetri della Serra delle succulente, l’esemplare di Cactacea si dipana pallido e spinoso come un serpente apparentemente immobile.

Cactacee nella serra delle succulente

Nel Boschetto di bambù si sente un rumore sinistro: cigolii, lamenti degli alti fusti che oscillano col vento come porte di un antico maniero. Un gatto grigio fa eco al lamento con un verso stridulo di rimando che si fatica ad attribuire a un mammifero.

Bambù dell’orto botanico
Cigolii si alternano a miagolii

Quest’area è particolarmente popolata di felini. Un micio bianco a chiazze scure posa tranquillo, mentre quello grigio si muove inquieto emettendo suoni inquietanti e un altro, di colore rosato, si muove silenzioso mimetizzandosi nella stessa gamma di tonalità di canne, foglie secche e muretti.

Il gatto mimetico (foto GioM)

Le possibilità di godere dello spettacolo di una natura spropositatamente rigogliosa si moltiplicano nei giri per la città. Il giardino della Cattedrale di Palermo offre la vista geometrica dei bossi squadrati, in contrasto con l’arricciamento dei cactus e delle forme rotondeggianti delle palme dai fusti longilinei.

Giardini del Duomo di Palermo (foto GioM)
Bosso e cactus

Bella come un centrotavola monumentale la palma a sei zampe del Chiostro dei Benedettini, che affianca il Duomo di Monreale. Una proliferazione di tronchi, che si moltiplica nelle variegate colonne – tutte diverse – che circondano l’area verde.

Palma del chiostro di Monreale (foto GioM)

Non c’è quindi da stupirsi che quando l’antico re Ruggero decise di farsi decorare una stanza all’interno dello stupefacente e luccicante Palazzo dei Normanni, le piante tornassero così frequenti e rigogliose. Nei mosaici di sapore orientale le palme, gli aranci e altri alberi da frutto trionfano accanto a gattopardi e leoni, pavoni e cigni.

SAFARI TRA GLI ALBERI GIGANTI DI PALERMO
Sala di Ruggero a Palazzo Normanni PA (foto GioM)

Perché, a Palermo, la natura ha questa forza esotica, felina e ferina, che non si contiene. Una natura che sprizza rigogliosa, ovunque la si posi.

In copertina: Le radici verticali, colonne portanti del Ficus Macrophylla – ph Giorgia Mazzotti.
Tutte le foto del servizio che corredano l’articolo sono di GioM e EG e per un’immagine dell’albero Drago concessione crediti Orto Botanico – Università di Palermo.

VAI ALLA GALLERIA PER VEDERE TUTTO IL SERVIZIO FOTOGRAFICO

Per leggere tutti gli articoli di Giorgia Mazzotti clicca sul nome dell’autrice.

SAFARI TRA GLI ALBERI GIGANTI DI PALERMO

Alberi tentacolari quelli che si incontrano ad ogni angolo di Palermo. Un’aiuola cittadina in piazza San Francesco di Paola sorprende come una giungla per le liane che penzolano dagli esemplari di Ficus magnolioide. Palme, albero di drago e ancora ficus magnoloide costellano i Giardini Reali, aperti al pubblico, e il parco urbano di Villa Garibaldi. All’orto botanico si trova il principe di questa specie. È il ficus magnolioide a colonne (ficus macrophyilla columnaris) piantato nel 1845, quando è stato introdotto in Italia il primo esemplare del genere. A sorreggere un peso spropositato, il ficus provvede da sé. Ha radici terrene esterne, a forma di grandi lame, e radici aeree che fungono da zampe elefantiache. Le emozioni continuano sul viale degli alberi bottiglia (Ceiba speciosa) e davanti a un mostruoso Albero del drago (Dracaena draco). La Monstera Deliciosa assale i tronchi in veste di edera gigante. Le piante grasse serpeggiano. Natura geometrica alternata ai ricci di palme e di cactacee davanti alla Cattedrale di Palermo, mentre una palma a sei zampe sta al centro del chiostro del Duomo di Monreale. Non sorprende quindi che palme, aranci e alberi da frutto trionfino anche nei mosaici di sapore orientale accanto a gattopardi e leoni.

Storie in pellicola /
Questi fantasmi! Di padre in figlio

Questi fantasmi! Di padre in figlio

Alessandro Gassman prende il testimone dal padre Vittorio che si era cimentato con Questi Fantasmi! nel 1967, firmandone la regia di un bell’adattamento per Rai Uno, oggi visibile su Rai Play. Un classico da rivedere, senza esitazione.

La divertente e, a tratti, amara commedia di Eduardo de Filippo è girata interamente a Napoli e vede Massimiliano Gallo nel ruolo di Pasquale Lojacono e Anna Foglietta in quello della moglie Maria.

Lojacono è un vinto, un uomo che vive di espedienti, che, nel tentativo di salvare le sue finanze e il suo matrimonio, si trasferisce in una casa lussuosa che gli viene affidata gratuitamente perché si pensa infestata dai fantasmi.

In cambio di quella sua magnifica presenza, dovrà sfatare la credenza popolare secondo cui tanti spiritelli irrequieti passeggerebbero per quelle eleganti stanze.

Mentre dalla finestra dell’appartamento di fronte, il professor Santanna, che si intravvede solo di spalle, osserva tutti questi strani avvenimenti. Quasi un grillo parlante.

Pasquale è un uomo ambiguo ma è anche un puro, che crede ai fantasmi e alle persone. Fa forse finta di non vedere, o forse ha solo paura di guardare in faccia la dura realtà.

Maria, dal canto suo, tradisce il marito con quello che Pasquale scambia – o vuole scambiare – per un ricco fantasma benefattore. Rispetto alla Maria originale del 1946, donna docile, sopraffatta e manovrata, quella di oggi è invece volitiva, sensuale, sicura, padrona delle situazioni e pertanto vincente. Pur con le sue tante fragilità.

Massimiliano Gallo, diretto da Alessandro Gassmann, in “Questi fantasmi!”, foto ufficio stampa

La commedia mette in scena un gioco delle parti che fa riflettere. Una relazione fra i due coniugi fatta di cose non dette e di tradimenti. Di debolezze e di timori. Di dubbi e rimorsi.

Allo spettatore resta però sempre il dubbio su quello strano scambio …

Perché, come dirà Pasquale, “I fantasmi non esistono, li abbiamo creati noi, siamo noi i fantasmi…”.

E perché bisogna dimenticare di avere paura. Sempre.

Questi fantasmi! di Alessandro Gassman, con Massimiliano Gallo, Anna Foglietta, Alessio Lapice, Maurizio Casagrande, Gea Martire, Viviana Cangiano, Tony Laudadio, Lello Serao, Italia, 2024, 102 mn

Foto ufficio stampa Rai

Per leggere gli articoli di Simonetta Sandri su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Anna Foglietta in una scena di “Questi fantasmi!”, foto ufficio stampa

Cosa dice veramente il Manifesto di Ventotene

Cosa dice veramente il Manifesto di Ventotene

Il MANIFESTO fu scritto da Altiero Spinelli (1907-1986), politico, deputato italiano, scrittore e fondatore del Movimento federalista europeo, ex comunista ed espulso dal partito per aver criticato Stalin. È uno dei “padri” dell’idea di Europa.

L’altro autore è Ernesto Rossi (1897-1967), economista e giornalista e dirigente del Partito d’Azione e militante del movimento Giustizia e Libertà fondato dal teorico del socialismo liberale Carlo Rosselli. Lo scrissero nel 1941 mentre erano rinchiusi con altri 500 antifascisti nell’isola del Tirreno di Ventotene.

Una introduzione fu fatta da Eugenio Colorni nel 1944. È la prima idea di una Europa unita, seppure federale (cioè con una forte autonomia dei singoli Stati nazionali) e una rappresentanza diretta dei cittadini negli organismi centrali. È un breve documento che va ovviamente contestualizzato in quei momenti storici, e che contiene alcune ingenuità, come ammise lo stesso Spinelli nelle sue memorie, ma in cui è chiara l’idea (visionaria per quei tempi) di una integrazione europea degli Stati nazionali, dopo due tremende guerre mondiali e fratricide.

Gli autori socialisti (e del Partito d’azione) criticavano sia l’esperienza reale del comunismo dell’URSS, sia quella di un capitalismo deregolato. Il testo si presenta, dopo oltre 80 anni, di grande attualità, anche se non mancano ingenuità, come quella citata dalla Meloni e forse la frase più infelice, cioè la dittatura dello Stato.

In realtà tutta l’impostazione economico-sociale del Manifesto non è statalista, come la premier ha cercato di far credere, sottolineando la frase più infelice, ma quella poi assunta dalla nostra Costituzione, che prevede la difesa della proprietà privata ma anche la sua limitazione, qualora ciò sia utile all’interesse pubblico, come del resto avvenne con la nazionalizzazione dell’energia elettrica e, aggiungo io, sarebbe necessaria ancora in altri settori come salute ed erogazione del gas.

C’era la critica al comunismo sovietico, “un regime in cui tutta la popolazione è asservita alla ristretta classe dei burocrati gestori dell’economia”, ma cercava anche di individuare una via economica che non fosse solo subalterna agli interessi privati se non monopolistici.

E soprattutto l’idea di una Europa federale la ”unica concepibile garanzia che i rapporti con i popoli asiatici e americani si possano svolgere su una base di pacifica cooperazione” e l’idea di una forza armata comune (indipendente dagli anglosassoni) “al posto degli eserciti nazionali”.

C’era anche una impostazione socialista, che chiedeva a questa Europa di perseguire “la lotta contro la disuguaglianza e i privilegi sociali, le successioni non tassate, una proprietà privata corretta e limitata, nazionalizzazioni per evitare che la grandezza dei capitali investiti possa ricattare gli organi dello Stato…”.

Un’idea visionaria ma concretissima di una Europa che unita lavora per “condizioni di vita più umane, liberata dagli incubi del militarismo o del burocratismo nazionale… non lasciando ai privati attività monopolistiche che sfruttano i consumatori”.

Il Manifesto era quindi a favore delle nazionalizzazioni di quei settori che avrebbero portato vantaggio ai cittadini ed era favorevole a gestioni non solo private “alle cooperative e all’azionariato operaioe a remunerazioni medie che fossero press’a poco uguali per tutte le categorie professionali”. Segnato quindi da un forte egualitarismo.

C’era poi la proposta di un forte rafforzamento del welfare fino a dare un “minimo di conforto per conservare il senso della dignità umana e la solidarietà umana verso coloro che riescono soccombenti nella lotta economica…non con la carità… ma con provvidenze pubbliche” (una sorta di reddito per i poveri ante litteram), ma anche di salario minimo “… senza però ridurre lo stimolo al lavorocosì nessuno sarà più costretto dalla miseria ad accettare contratti di lavoro iugulatori”.

In sostanza un testo non solo visionario, ma di grande attualità che individua una via originale (tutta da ancora da percorrere) di una Europa unita (seppure federale, cioè con forte autonomia dei singoli popoli) e terzo polo nella vita economico-sociale, al centro (virtuoso) di due polarità entrambe viziate (sbagliate):

  1. il comunismo nella sua forma reale realizzatosi in URSS;
  2. un capitalismo deregolato dove “dei plutocrati, nascosti dietro le quinte, tirano i fili degli uomini politici per dirigere tutta la macchina dello stato a proprio esclusivo vantaggio, sotto l’apparenza del perseguimento dei superiori interessi nazionali”.

Un testo fortemente ispirato dal silenzio di quegli interminabili giorni di prigionia, pieno di fratellanza ed etica, in polemica con la “potenza del denaro”, che già allora si intravvedeva e come tale pieno di spiritualità, che vuole anche dare sicurezza all’Europa con un suo esercito, ma anche lontana dalle “esigenze del militarismo, che hanno confluito con le reazionarie aspirazioni dei ceti privilegiati nel far sorgere e consolidare gli stati totalitari”.

Infine profetico là dove si dice che “è probabile che i dirigenti inglesi, magari d’accordo con quelli americani, tentino di spingere le cose per riprendere la politica d’equilibrio dei poteri, nell’apparente immediato interesse dei loro imperi”.

In copertina: Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi autori del Manifesto di Ventotene, foto del Comitato Fiorentino per il Risorgimento.

Per leggere gli articoli di Andrea Gandini su Periscopio clicca sul nome dell’autore.

Germogli /
Trasformare il sangue in denaro

 Trasformare il sangue in denaro.

Già 2550 anni fa Erodoto scriveva: “Solo un pazzo può preferire la guerra alla pace perchè in tempo di pace sono i figli a seppellire i padri, in tempo di guerra sono i padri a seppellire i figli. Eppure con le bugie si riesce a far credere ogni volta che c’è una ragione per la guerra.”.
(Gino Strada)
“‘Nessuna guerra ha l’onestà di confessare: io uccido per rubare.
Le guerre invocano sempre motivi nobili, uccidono in nome della pace, in nome di Dio, in nome della civiltà, in nome del progresso, in nome della democrazia, in nome della sicurezza.
Se tante menzogne non bastano, Se sorgono dubbi, ci sono i grandi media pronti a inventare nemici immaginari per giustificare la conversione del mondo in un grande manicomio e in un enorme mattatoio.
In Re Lear, Shakespeare aveva scritto che in questo mondo gli stolti conducono i ciechi e quattro secoli dopo, i padroni del mondo sono pazzi innamorati della morte che hanno trasformato il mondo in un luogo dove ogni minuto 10 bambini muoiono di fame o di malattie e ogni minuto 3milioni di dollari sono spesi per l’industria militare che fabbrica morte.
Le armi richiedono guerre e le guerre richiedono armi.”.
(Eduardo Galeano)
Dopo lettura sequenziale o inversa di Gino Strada e di Eduardo Galeano ci si chiede: per quanto tempo ancora? Fino a quando la pace sarà un ostaggio nelle mani di alchimisti dell’economia neoliberale della guerra che trasformano il sangue in denaro?

Parole a capo
Sara Ferraglia: «Lasciare» e altre poesie

Sara Ferraglia « Lasciare» e altre poesie

«La poesia condensa in una metafora l’aurora della parola e la sua traiettoria»
(Giuseppe Pontiggia)

Una guerra

Chissà se son migrati anche gli uccelli
là dove il cielo esplode, rosso fuoco
Dove faranno i nidi a primavera?
E stormiranno al vento foglie e fronde
o alla corrente d’aria delle bombe?
Si salveranno solo scarafaggi
sopravvissuti ad altri cataclismi?
Si scalderanno al sole o ad altri raggi
prodotti dalle armi nucleari?
Si salveranno gli Umiliati e offesi,
Le notti bianche, Il maestro e Margherita?
E torneranno le api agli alveari
dopo che la tempesta le ha smarrite?
Sguardi senza parole dei bambini
Promesse di futuro disattese
E noi a guardare, inermi, piccolini,
chiusi ciascuno nelle proprie chiese,
distratti ed impegnati a parteggiare
in finte guerre dai nostri divani
La sera ci possiamo rilassare,
che i colpi di mortaio son lontani

 

*

 

Lasciare

Lasciare, lasciar scorrere le cose
Scivolare sul tempo con lentezza
Seminare, dissodare dolcezza
Aspettare. Fioriranno le rose

Pianissimo. Avvicinarsi al fiore
come farebbe l’ape laboriosa,
o meglio, la farfalla silenziosa
Non toccare. Lasciarsi inebriare
Immergersi in questa primavera,
perdersi e perdere l’orientamento
Ascoltare i sussurri e il fermento
Come Gazania chiudersi di sera
Cedere al sonno che il sogno profuma,
Belle di notte danzano alla luna

 

*

Lo sguardo

Mai perderò lo sguardo
per i sepolti vivi,
per i precipitati
dai tetti, nei cortili
giù dalle impalcature
vittime designate
di appalti scellerati.
Mai perderò lo sguardo
per gli affogati in mare,
per chi è scampato al viaggio
per chi gli cura i piedi,
per quelli che non vedi,
per il loro coraggio.
Mai perderò lo sguardo
per chi non ha più niente,
la miseria che affama
chi ruba una scamorza
per sette euro in croce,
nuda disperazione
che anche l’onestà spegne
e lascia senza voce.
Mai perderò lo sguardo
per i manganellati,
ragazzi della scuola,
operai ai picchetti
di fabbriche svendute
e loro licenziati
con un messaggio crudo.
Così lunga è la notte,
anche l’alba è in ritardo.
Speranzoso il mio sguardo
vola oltre l’orrore,
in pindarico volo.
Senza fare rumore
si allontana dal suolo.

 

*

Per volare

Tu dimmi, angelo mio
dove tieni nascoste
le tue piccole ali di cera.
Sotto le scapole, certo,
che non le sciolga il sole.
Quando le sentirai vibrare
saprai che sarà l’ora.
Ti mostreran gli specchi
tutta la tua bellezza
pulita, senza trucchi.
Tu sola con te stessa
ti ascolterai parlare
e la tua voce nuova
un giorno sarà cielo,
un altro giorno mare.
Eccole le tue ali.
Tu, pronta per volare.
*

Analfabeta emozionale

Sono un analfabeta emozionale
uno dei tanti.
Chiedimi cosa provo
ed io metto una croce.
Ogni mio giorno al precedente uguale
Infilo istanti
come perline e provo
a volte a cambiar voce,
l’intonazione almeno.
Sono un analfabeta emozionale
un bravo attore
che indossa sentimenti
al cambio di stagione
ed ha una collezione personale
di maschere d’autore
per affrontar gli eventi,
pronto in ogni occasione
a non esser me stesso.
(Questa poesia è stata pubblicata nella raccolta “Voglio una danza“, Ladolfi Editore – 2023)
(Foto di 愚木混株 Cdd20 da Pixabay)
Sara Ferraglia è nata in provincia di Parma e vive in questa città da molto tempo. È stata finalista e vincitrice in numerosi premi nazionali.
Sue opere sono presenti in diverse antologie poetiche, riviste e e blog letterari fra cui Di sesta e di settima grandezza di Alfredo Rienzi, Circolare poesia di Mattia Cattaneo e Parole a capo di Pier Luigi Guerrini. Molte sue poesie sono state inserite in vari spettacoli teatrali, letture poetiche e mostre multimediali. Collabora con il Magazine online P4W per la rubrica di poesia.
Voglio una danza – Ladolfi editore – 2023 è la sua prima pubblicazione che ha vinto una menzione d’onore al Premio La ginestra di Firenze – aprile 2024 e il 1° premio nella sezione libri editi del Premio Giovanni Pascoli L’ora di Barga, 11^ edizione – ottobre 2024. Tutte le sue poesie sono raccolte nel blog personale Sarapoesia.blogspot.com.

 

 La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 276° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.
E’ possibile inviare proprie poesie all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica.

Poesia in scena: Mancino e Guerrini alla Biblioteca Popolare Giardino

Poesia in scena: Mancino e Guerrini alla Biblioteca Popolare Giardino

E’ con grande piacere che la redazione di Periscopio annuncia un piccolo grande evento. Due collaboratori di questo giornale, Maria Mancino (tutte le domeniche scrive Per certi Versi) e Pier Luigi Guerrini (responsabile della storica rubrica Parole a capo) presentano le loro raccolte poetiche fresche di stampa. Maggie e  Gigi (chiamiamoli col loro nome amicale) fanno parte del Collettivo Poetico Ultimo Rosso, un’associazione culturale che crede nel potere pacifico e sovversivo della poesia. Periscopio la pensa ugualmente.

La Poesia in scena: Mancino e Guerrini alla Biblioteca Popolare Giardino

La presentazione è fissata venerdì 21 marzo alle ore 17.30 presso la Biblioteca Popolare Giardino, interamente autogestita da un folto gruppo di volontarie e volontari, la location ideale per ospitare poesie e poeti.

 

Il mio Delta

Il mio Delta

Da sempre  sono innamorato dei nostri paesaggi padani e in particolare della vita nel delta del Po. Mi è sempre piaciuto raffigurarli,  trasmettere con la pittura ad olio o con la fotografia queste nostre meraviglie naturali.

L’attrazione per quella Terra & Acqua era forte, prendevo l’auto e andavo verso la foce, in estate e in inverno, all’alba o al tramonto. Non riesco a contare le volte in cui mi sono trovato a faccia a faccia con il Fiume, la valli, gli uccelli, i pescatori. Arrivavo in posizione e scattavo fotografie naturalistiche, i primi anni con fotocamere analogiche, per poi a casa riprodurre le inquadrature  sulla tela con colori e pennelli. Ultimamente con l’avvento del digitale, ho abbandonato un po’ la pittura per concentrarmi sul linguaggio della fotografia. Oggi come ieri, appena posso imbraccio la fotocamera e parto per nuove avventure verso il nostro Delta e le Valli. Valli vissute spesso in prima persona, anche a bordo del mio kajak, a Scardovari, Goro, Volano …

In kajak, per ovvie ragioni, era impossibile portare con me una fotocamera, sono quindi esperienze non espresse in pixel ma impresse per sempre nella mia memoria. Non si finisce mai di scoprire il Delta: un luogo sconosciuto, una nuova luce, un cielo diverso, uno stormo di Cavalieri d’oro. E soprattutto, se avete l’accortezza di andarci in solitudine, di vivere la bellezza e la pace di una natura ancora incontaminata. Spero che il mio reportage riesca a trasmettere tutta questa ricchezza.

E l’ottavo giorno Dio creò il teatro

E l’ottavo giorno Dio creò il teatro

Questa frase l’ho sentita da Massimiliano Piva regista, attore e direttore del Teatro Cosquillas di Ferrara (Vedi una sua intervista su Periscopio, Ndr).  Non ho trovato la fonte originaria, ma ho scoperto che ormai è una frase diffusa, ci sono Associazioni e Progetti con questo nome ma, per me, in cerca di una chiave di lettura, è sembrata straordinaria.

Il settimo giorno Dio si è riposato ed il giorno dopo ha sentito la necessità di creare una rappresentazione dell’universo.

Non appartengo al mondo del teatro, ma poiché ogni forma espressiva è psicologicamente importante, pur variando lo strumento attraverso il quale si esplicita: pittorico, poetico, danza, prosa, musica e tanto altro, ho pensato che anche il teatro è “Arte che cura”.

Che il teatro faccia bene lo hanno detto addirittura anche al festival di San Remo di quest’anno. Vox populi, vox dei!  Nel corso della terza serata di Sanremo 2025, infatti, si è dato spazio ad un progetto importante, il Teatro patologico, una compagnia formata da attori con disabilità psichiche che smantella lo stigma e favorisce l’inclusione. 1)

Basaglia con Marco Cavallo 2) aveva già intuito come  il teatro può diventare denuncia, agitazione politica, formidabile comunicazione.

Ma anche la nostra città non è da meno, come ci insegnano le esperienze del Teatro Nucleo nato nel 1978, propulsore poi del progetto del Teatro Comunitario a Pontelagoscuro, il Teatro Carcere e le altre esperienze attuali: Balamos, CPA – Centro Preformazione Attoriale, CTU – centro teatro universitario, Ferrara Off, Il Baule Volante – Ass. Teatrale Otiumetars, Officina Teatrale A_ctuar, Teatro Bianco che propongono, oltre ai loro spettacoli, corsi di formazione professionale per operatori civili e sociali,  progetti pedagogici, attività in ospedali psichiatrici, attività in quartieri emarginati, e iniziative rivolte ai bambini, ai giovani, alle scuole.

Molti illustri psicoanalisti, a partire dallo stesso S. Freud, si sono cimentati nell’indagine sull’arte teatrale e, in modo diretto o indiretto, il teatro è sempre stato presente, nella storia del pensiero psicoanalitico. Cominciando dalla lettura psicoanalitica delle tragedie greche allo psicodramma moreniano, il teatro è strumento di comprensione dell’animo umano e di trasformazione. 3)

La rappresentazione teatrale aiuta ad esplorare e risolvere conflitti interiori, permette di rivivere esperienze, esprimere emozioni e ottenere nuove prospettive sulle situazioni personali. L’obiettivo non è imparare a recitare, ma entrare in contatto e prendere consapevolezza di sé stessi.

Ma non voglio dilungarmi, lascio a Massimiliano e alla sua esperienza l’aspetto metodologico ed artistico con i suoi attori disabili e non.

 

Mi prendo un piccolo spazio, quello osservato nel back stage di Permettiti che io ti aiuti 4)

Vi racconto la mia esperienza dietro le quinte. Lo scorso anno, come cantante del Coro Femminile SonArte partecipo ad un evento nel quale il nostro canto è di supporto allo spettacolo, i veri protagonisti sono gli attori di Cosquillas.

Il coro Femminile Sonarte in scena

Quello che si percepisce subito è l’attenzione all’altro, vedo, a profusione, abbracci, carezze, strette di mano, sento frasi come “sei stanco”? “ te la senti?” “cambiamo?” e sono travolta da questa modalità, “Ci fermiamo un po’?”, “Bravo, ci sei riuscito.”, “Sì, così!”.

Alcuni attori del Teatro Cosquillas

Penso: ma quando e quanto poco noi “ abili” siamo così attenti, motivanti, validanti? Amore carezze abbracci fiducia quanto ne avremmo bisogno tutti?

abbracci tanti, sempre
… e baci

Non vi descrivo le disabilità degli attori e neppure le abilità, non è importante.

Il mio è un resoconto di quello che ho provato.

Siamo alla prova generale G. è stanco, è dalla mattina che proviamo, non gli riesce bene il suo ballo: girarsi su se stesso, in terra, senza la carrozzina attraversare il palcoscenico. Nessun rimprovero, ma dalle quinte entra in scena, leggera, una delle attrici, si stende vicino a lui e lo guida al movimento dimenticato, sta al suo fianco e lo accompagna. Nessuna parola. G. supera l’empasse e rotola rotola rotola…il sorriso felice per il gesto ritrovato.

F. è rabbuiato, non ha dato il meglio di sé. Poche indulgenze. Si ritira, si siede da solo, le braccia conserte, la faccia buia. La compagnia lo conosce e non dà spazio a questo suo perfezionismo, la prova continua ed ecco F. riemergere, non resiste a partecipare, c’è un risultato da ottenere, c’è un gruppo da sostenere.

Ancora F., durante la recita, una scena buffa, surreale, non si attiene alla parte e l’effetto esilarante che trascina sempre tutti viene meno. “Perchè ridono” chiede, forse con una sensazione orribile che ridano di lui. Cerca di dare un tono al suo personaggio, ma si perde tutta l’intenzione della scena. Dalla regia una voce come l’ex machina comincia a parlare con il protagonista, ora è un’altra cosa questa messa in scena, ma nessun rimprovero, nelle defaiance ci si aiuta.

E poi c’è L. una bambolina in miniatura che balla aerea come una libellula. Cerca la costumista, non riesce ad indossare l’abito di scena o non lo trova. Non è pensabile! Si agita! Ma la costumista arriva, tranquilla, la veste e lei entra in scena concentrata e serena.

Il pas de deux tra i più belli e commoventi. L’entrata dei due interpreti, un adagio eseguito da entrambi, qualche variazione e il ricongiungimento per il finale danzato insieme. Le carrozzine sono estensioni dei loro corpi, non sono un impedimento costruiscono una nuova elegante coreografia. Il metallo brilla come pallettes, le ruote girano in un virtuosismo poetico.

Il sipario è chiuso. La prima scena ci vede tutti presenti, attori, musicisti, cantanti. È il risveglio. Da terra man mano ci alziamo, cominciamo a muoverci, la musica ci accompagna.

Sono, per fortuna, in fondo. Da giorni ho male alle ginocchia, (implacabile, il mio tempo avanza!) riesco goffamente a chinarmi con lamenti soffocati ma, soprattutto, non riesco ad alzarmi da sola. Alla prova mi hanno aiutato le amiche del coro ma, vedo con spavento che, adesso, non c’è nessuna di loro vicino a me.

Si apre il sipario, che fare? Sono accoccolata per terra e devo levarmi in piedi. Sento già il dolore che mi aspetta, ma mi terrorizza soprattutto la brutta figura. Mi guardo sgomenta intorno, tutti troppo lontano e non posso chiamare: lo spettacolo è iniziato.

Poi mi accorgo che G. è vicino, un passo dietro di me. Lo guardo, gli sussurro aiutami!. G. si guarda intorno, poi incredulo indica se stesso “Chi Io?”, gli spiego, bisbigliando, che non riesco ad alzarmi, capisce, controlla il freno della carrozzina, sposta la mano per lasciare posto alla mia e voilà un appoggio sicuro e sono in piedi. G. mi guarda complice, io gli rispondo con gli occhi, riconoscente.

Non finisce qui ho l’onore anche quest’anno di partecipare ad un nuovo spettacolo con la compagnia Cosquillas, ERGO SUM, sarà nuovamente emozionante, straordinario, terapeutico.

Note 

1) Il Teatro patologico è nato nel 1992 per un’intuizione del regista Dario D’ambrosi.

2)  Marco è il nome del cavallo in carne e ossa che trasporta il carretto della biancheria sporca, del manicomio di Trieste, è molto vecchio, è destinato al macello. Gli internati, i teatranti, gli artisti, gli psichiatri, gli infermieri, i ragazzi della città mettono su un comitato per chiedere all’Amministrazione provinciale di tenere vivo il cavallo e fargli finire i suoi giorni da pensionato in una fattoria in Friuli. Il cavallo stesso scrive una commovente lettera al presidente della Provincia per avere salva la vita. Nasce un’azione teatrale

3) Psicoanalisti e pazienti a teatro, a teatro di Cesare Musatti, ed. Mondadori, 1988

4) Teatro comunale Claudio Abbado di Ferrara, mercoledì 13 marzo 2024 Permetti che io ti aiuti, regia di Massimiliano Piva, con la collaborazione di SonArte, Quintetto Folk, Live Looping; una produzione di Cosquillas Theatre Methodology con il Patrocinio del Comune di Ferrara

Per leggere gli articoli di Giovanna Tonioli su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

Jeeg Robot, porcospino d’acciaio

Jeeg Robot, porcospino d’acciaio

Che brutta immagine quella utilizzata dalla Presidente della Commissione Europea!

Ursula von der Leyen spera che gli europei lavorino per (eccola!) “trasformare l’Ucraina in un porcospino d’acciaio, indigesto per i potenziali invasori“. Lo ha dichiarato ai giornalisti uscendo dall’ultimo vertice londinese sulla sicurezza dell’Ucraina.

Ecco dove siamo improvvisamente (?) ripiombati; a quelle immagini e parole che ci auguravamo di non dover più risentire: “spezzeremo le reni a…”; “abbeverare i cavalli nelle fontane di S. Pietro”; “offriremo agli alleati lo scudo nucleare”…

D’altra parte come scriveva Henry Miller  nel suo saggio su Arthur Rimbaud, Il tempo degli assassini, noi stiamo “…ancora adoperando il linguaggio dell’Età della Pietra…”; parliamo come se “… l’atomo di per sé stesso fosse il mostro, come se fosse lui e non noi ad esercitare il potere… L’uomo non ha nemmeno cominciato a pensare…” ed, infatti, sembriamo volere delegare questa capacità alla Intelligenza Artificiale, anzi vorremmo effettivamente assistere a questo ‘miracolo eretico’ della comparsa di coscienza in una macchina, fosse anche un semplice drone o un chatbot.

Procediamo, continua Miller, “… ancora a quattro zampe… barcollando nella nebbia, con gli occhi chiusi e il cuore che [ci] martella di paura… All’uomo è stata data una seconda vista perché potesse discernere attraverso ed oltre il mondo dell’apparenza. Il solo sforzo che gli è richiesto è che apra gli occhi dell’anima…”, e invece…

Invece si continua ad aprire il portafogli.

La partita sul riarmo dell’Europa che Von der leyen vede come «urgente» richiederebbe 800 miliardi di euro! Ecco il suo punto di vista: «Dopo molto tempo di investimenti inadeguati, è arrivato il momento di aumentare gli investimenti per la Difesa a lungo respiro, per la sicurezza dell’Unione europea, visto l’ambiente geo-strategico nel quale viviamo. Dobbiamo prepararci al peggio, dobbiamo aumentare le spese militari».

Questa dichiarazione mi ha fatto venire in mente una storiella, presumibilmente autobiografica, che Iosif Brodskij racconta in uno dei suoi saggi dal titolo Per citare un versetto (da I. Brodskij, Il canto del pendolo, Adelphi, 1987):

“…in una delle numerose prigioni della Russia settentrionale, avvenne la scena seguente. Alle sette del mattino la porta di una cella si spalancò e sulla soglia apparve una guardia che apostrofò i detenuti. «Cittadini! Il collettivo delle guardie carcerarie vi sfida tutti, voi detenuti, a una competizione socialista: si tratta di spaccare la legna ammassata nel cortile».

Da quelle parti e nei tempi in cui Brodskij fu rinchiuso quale dissidente in uno di quei famigerati gulag, non c’era il riscaldamento centrale e la polizia imponeva una “tassa” alle aziende forestali, facendosi consegnare un decimo della loro produzione.

Così i cortili delle prigioni si riempivano di enormi cataste di legname e dunque, continua Brodskij “…bisognava spaccare un po’ di legna…”  facendola passare per una competizione socialista. “…«E se io mi rifiutassi?» S’informò uno dei detenuti. «Be’, in questo caso vai a letto a pancia vuota» rispose la guardia”.

Furono distribuite le asce ai detenuti, e il lavoro cominciò. Prigionieri e guardie ci si misero d’impegno, e a mezzogiorno erano tutti stremati, specialmente i prigionieri, per via della loro denutrizione cronica. Fu annunciato un intervallo, e la gente si sedette a mangiare: tranne il tipo che aveva fatto quella domanda. Lui continuò a menare colpi d’ascia…”

E l’ascia di quello continuò ad andare su e giù, su e giù, anche quando alla fine della giornata gli altri gli gridarono di piantarla. Glielo dissero le guardie, e i suoi compagni di prigionia, ma lui, niente “…agli occhi degli altri era diventato quasi un’automa…. guardie e detenuti seguivano ogni suo gesto e sulle loro facce, a poco a poco, la smorfia sardonica lasciò il posto a un’espressione di stupore e poi di terrore”.

Quando l’uomo decise di fermarsi, a tarda sera, si avviò barcollando verso la sua cella, vi entrò e si buttò sul letto.

Per il resto del suo soggiorno in quella prigione non fu più indetta nessuna gara socialista tra guardie e detenuti, sebbene il legname continuasse ad ammucchiarsi”.

Adesso calandoci nell’attuale situazione potremmo provare a identificare “quel prigioniero” in …un ucraino? Oppure in un russo? O ancora in un europeo? Non saprei davvero.

Ma quello che so è che quel prigioniero, allora così giovane, sicuramente conosceva meglio di qualunque ucraino, russo ed europeo di oggi il testo del Discorso della Montagna. Poiché il figlio dell’Uomo aveva l’abitudine di parlare per triadi, il giovane Brodskij sicuramente ricordava che dopo il versetto

ma se uno ti percuote sulla guancia destra, porgi a lui anche l’altra

non c’è una pausa ma il testo aggiunge subito

e se uno vuole chiamarti in giudizio e toglierti la tunica, cedigli anche il tuo mantello. E se uno ti forza a fare un miglio, va’ con lui per due miglia”.

Il significato di questi versetti è tutt’altro che passivo poiché come sottolinea Brodskij “…vi è l’implicita idea che il male può essere reso assurdo per eccesso; vi è implicito il suggerimento di rendere assurdo il male sminuendone le pretese con una condiscendenza pressoché illimitata che svaluta il danno…”. L’eccesso a volte stupisce e impaurisce.

E così anche pensare di affrancarsi dal “male” eccedendo nel “bene”, è altrettanto pericoloso tanto da rendere persino più assurdo “… l’aumento dell’accumulo di legname nei cortili delle prigioni…” per riscaldarci durante l’inverno.

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

Per leggere gli articoli, i racconti e le poesie di Giuseppe Ferrara su Periscopio clicca sul nome dell’autore

IL CINETRUMPANETTONE

IL CineTrumPanettone

Dopo la lista di parole vietate, bandite dai siti e dai documenti ufficiali della Pubblica Amministrazione e delle Università americane, Donald Trump è già al lavoro, assieme al fido Elon Musk, per epurare anche il mondo del Cinema. Ecco in anteprima la lista dei ritocchi previsti per le pellicole sin qui esaminate.

  • Il film Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975), poiché contiene nel titolo italiano un’innominabile parte del corpo, nella nostra penisola sarà ribattezzato: Qualcuno volò sul nido del cucù, e ambientato in Svizzera.
  • Il titolo del film Biancaneve e i sette nani (1937), contenente un esplicito riferimento alla cocaina, sarà modificato in Biancaneve e le sette nari, rafforzandone poi il contenuto con la proiezione aggiuntiva, dopo i titoli di coda, del documentario di Elon Musk: Ketamina is my Gasoline.
  • Il film di Luchino Visconti, Rocco e i suoi fratelli (1960), considerato l’argomento tabù dell’emigrazione, sarà interamente rigirato in un hotel a Las Vegas, con un plot più moderno ed il nuovo titolo di: Rocco e le sue sorelle, interpretato dall’omonimo pornoattore italiano.
  • Il film di Nanni Loy: Vado, sistemo l’America e torno (1974), poiché considerato lesivo dell’immagine del paese, sarà rigirato negli Emirati Arabi, senza partecipazione europea, dallo stesso Donald Trump, con il titolo di: Vado, sistemo l’Ucraina e torno (con qualche migliaia di tonnellate in terre rare).
  • Tutti i Cartoons di Paperino (Donald Duck), vista la pericolosa assonanza con il nuovo presidente – nonché l’ambigua presenza dei tre nipotini, di padre e madre ignoti – saranno sostituiti dai filmini amatoriali in Super8 di Elon Musk, che mostrano le peripezie da bambini, dei suoi due figli segreti: C1-P8 e D-3BO. A questo proposito, l’intera saga, che li vede coinvolti da adulti, cambierà nome, da Star Wars a SpaceX, ed avrà un finale diverso: le astronavi dell’Impero esploderanno tutte in volo nei cieli del Texas.
  • Il film Easy Rider (1969), manifesto della propaganda pacifista e sovversiva degli anni Sessanta, verrà proiettato ripetendo in un Loop continuo, della durata di 8 ore, soltanto il finale, rigirato per l’occasione in modo quasi fedele all’originale, con un membro dei Proud Boys che ammazza a fucilate i due Bikers dal suo Pick Up, rigorosamente americano (su quelli esteri, si sa, ci sono oramai troppi dazi di reazione).
  • Infine, anche la scena finale di Avengers: Endgame (2019), verrà riscritta. Il guanto con le gemme dell’infinito, sarà sottratto a Thanos da un nuovo supereroe: Iron Trumpet – grazie ad uno dei suoi discorsi da trombone a tiro sfiatato – che poi, schioccando le dita e pronumciando le parole: “America First”, farà riapparire soltanto i veri Americani. Si ritroverà così, suo malgrado, circondato da migliaia e migliaia di Pellirossa inca…ti e farà la fine del generale Custer a Little Big Horn, indomabile scalpo compreso.

That’s All Folks!

Sentieri in libertà:
proiezione del docufilm “Flora”, Bologna, cinema Galliera, 13 aprile ore 16

#sentieridilibertà

Proiezione del film di Martina De Polo “FLORA”

DOMENICA 13 APRILE ORE 16,00 

Bologna – Cinema Galliera (Via Matteotti 27)
La rassegna Sentieri di Libertà – trek ed eventi dedicati all’80° anniversario della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo – prosegue con la proiezione del film di Martina De Polo Flora, che racconta la storia di Flora Monti, la più giovane staffetta partigiana della Resistenza italiana.
Flora Monti – foto da Famiglia Cristiana
Flora ci racconta la Storia dagli occhi di una bimba, una storia di sofferenza e di terrore, ma anche di speranza e libertà.
La narrazione fatta in prima persona da Flora, che oggi ha 94 anni, intervallata dalla ricostruzione degli eventi, ci restituisce un racconto originale ed artistico.
Saranno presenti: gli autori Martina De Polo e Alex Scorza, Hilde Petrocelli (ANPI Provinciale Bologna), Flora Monti (la protagonista).
Costo del biglietto 6 €, ridotto 4 € per soci e socie di Trekking Italia.
Domenica 13 aprile ore 16
Bologna – Cinema Galliera
Via Matteotti 27
Chiusura iscrizioni: 4 aprile
Flora. Un film di Martina De Polo. Con Flora Monti, Deina Palmas, Italia, 2024, 71’.
Trekking Italia – Emilia-Romagna
In copertina: Marzabotto, in memoria della strage – foto di Arvhivio duepuntozero

Perché Trump mette i dazi?

Perché Trump mette i dazi?

Lo slogan di Trump “Make American great again significa che sia gli americani che lo hanno votato, sia Trump non credono che l’America sia davvero così forte oggi. E’ vero che controllano gran parte della finanza, ma Cina e Russia possiedono gran parte delle materie prime e terre rare che sono decisive per le tecnologie del futuro; e tra soldi e tecnologia/manifattura, in caso di conflitto, vince la seconda. Draghi & c. si sono sentiti dire dal Pentagono, a metà 2023, che l’intero Occidente non era in grado di rifornire l’Ucraina delle munizioni necessarie, mentre la Russia si, nonostante fosse 30 volte inferiore come PIL e sparasse molto di più. Il motivo è che la manifattura è stata delocalizzata nei paesi poveri.

L’occupazione statunitense cresce da sempre più dell’Europa perché loro attraggono immigrati. Ciò spiega la continua crescita demografica, a differenza dell’Europa. Sono passati da 249 milioni del 1990 agli attuali 334, e non certo per la fecondità delle donne americane che è prossima a quella europea; ma se si considera il Tasso di Occupazione, cioè quanti sono gli occupati sugli abitanti dai 16 anni in poi, è inferiore (62% rispetto al 70% dell’Europa). I redditi sono maggiori ma, se confrontati in termini di potere d’acquisto (PPP), sono di poco superiori a quelli europei e la società americana è molto più diseguale (41,5% indice di Gini; Italia 35% tra i maggiori in Europa con Germania e Paesi del Nord a 29-28%). Lo sanno bene i 70 milioni di americani poveri che non possono accedere alla sanità, o i nostri amici americani che vengono in Europa per far studiare all’Università i loro figli e curarsi nei nostri ospedali, vista la mancanza di un welfare di tipo europeo che fa la differenza, per chi non è ricco.

Ma ci sono soprattutto fattori sociali e macroeconomici che rendono fragile l’America.

1) negli ultimi 25 anni il saldo commerciale è diventato da positivo a negativo per un cifra enorme; 2) il debito pubblico americano è diventato quasi come quello dell’Italia, passando dal 54% del Pil del 1999 al 122% del 2024 e pure il risparmio privato in deficit (le vendite a rate sono una invenzione Usa); 3) si è ridotta di 2 anni la speranza di vita (caso unico al mondo nei paesi avanzati); 4) la società è divisa come non mai e in via di disgregazione sociale con altissima mortalità per droga, suicidi e omicidi.

Una nuova Yalta

Trump vuole farla finita con i regime change ed il soft power nel mondo e, a quanto pare, concentrarsi solo sull’America e i suoi interessi continentali: chiudere con le guerre e definire una Nuova Yalta in cui ciascuno abbia una sua sfera di influenza, ricominciando a fare affari con tutti. Il vero avversario rimane la Cina e quindi conviene dialogare il più possibile con la Russia, mentre l’Europa rimane quello che è: un ricco vassallo che non preoccupa. Per Trump il riarmo europeo è benvenuto. Per un esercito comune operativo ci vorranno 10 anni e per decidere chi comanda bisogna rifondare l’Europa come vera statualità, nel frattempo può essere utile per vendere armi americane (il 63% delle armi europee è acquistato in USA).

Così si spiega anche l’interesse di Trump per la Groenlandia (regione autonoma della Danimarca, 57mila abitanti  al 90% inuit, che con un semplice referendum possono diventare indipendenti), le mire su Canada e Panama e il dialogo con la Russia, la quale dovrà convincere l’Iran sciita a lasciar ricostruire Gaza dagli arabi sunniti (con un porto, caso mai, dell’Arabia Saudita sul Mediterraneo) e con 50 miliardi, sistemando i palestinesi e pacificando il Medio Oriente.

L’America ha un grosso problema nella competizione con la Cina: la globalizzazione degli ultimi 25 anni ha visto spostarsi all’estero gran parte della sua manifattura, in Cina (ora in Vietnam, etc.) con stratosferici profitti per le imprese (sfruttando i bassi salari) ma causando l’attuale gigantesco deficit commerciale USA (1.210 miliardi nel 2024, +14% sul 2023; nei servizi l’avanzo è invece di 293 miliardi e nel complesso la bilancia dei pagamenti è in deficit per 917 miliardi), con una perdita di competitività del mercato interno.

E qui nasce la questione dei dazi. L’iva all’importazione (un dazio per le regole del WTO), “sales tax” nei singoli Stati USA varia dall’1% all’11% (media 8%), mentre nei paesi europei dal 17% al 27% (Italia 22%; media UE 21%). I dazi all’import sono quindi negli Stati Uniti metà di quelli in Europa e per le auto 4 volte più bassi (2,5% per Usa, 10% per Europa). Per Trump questo squilibrio deve essere superato.

Il libero commercio non esiste

Tutta la retorica mainstream sul libero commercio è fuffa, perché da sempre il libero commercio non esiste. Oltre alle barriere tariffarie ci sono infatti quelle non tariffarie (ad esempio gli standard sui processi e prodotti) e, in alcuni casi, sono (a mio avviso) positive. Per esempio: Italia e Francia non vogliono l’accordo col Mercosur (UE invece si) per non importare agricoltura con pesticidi, OGM e altre schifezze, sia per tutelare i nostri contadini sia per salvaguardare un’alimentazione sana e locale che ha grande impatto sulla salute. Ma vale anche per lo sviluppo di imprese nascenti. Nella boxe nessun peso piuma combatte contro un peso massimo: così nessuna economia debole/nascente apre tutti i suoi mercati al libero commercio se non vuole essere rasa al suolo da una economia più forte.

E’ vero che senza libero scambio i prezzi possono essere più alti, ma è anche vero che si tutelano di più i propri prodotti e lavoratori. E’ anche il tema che affronta l’Europa col riarmo. Un conto è un esercito comune che sia tecnologicamente indipendente, altro è riarmarsi acquistando tecnologie da altri (potenziali avversari).

Non sono quindi stupito se Trump introduce dazi con l’obiettivo di riportare la manifattura in patria, accrescere gli occupati, ridurre il deficit commerciale, a costo di aumentare l’inflazione a scapito dei consumatori americani. Del resto la Federal Reserve Usa ha come mandato non solo la difesa dell’inflazione ma anche quella dell’occupazione e gli americani su questo sono più avanti degli europei in quanto la BCE (Banca Centrale Europea) invece ha solo l’obiettivo di contenere l’aumento dei prezzi. Come mai Draghi non si è battuto per cambiare questa regola e introdurre la difesa dell’occupazione quando era lui a capo della BCE? Perché non si discute di questa importante questione?

Introducendo i dazi l’import degli Stati Uniti calerà e il dollaro, dicono i liberisti mainstream, si rivaluterà. Come è possibile allora che si stia svalutando? E’ a 1,09 sull’euro, quando era 1,04 subito dopo eletto Trump. Cresceranno poi i tassi di interesse, ma ciò avverrà anche in Europa col riarmo a debito, per la gioia di chi ha un mutuo. Trump sta bypassando molte regole democratiche nel suo paese, ma Von der Leyen col riarmo non fa la stessa cosa?  La regola del max 3% in deficit che è valsa per 20 anni all’improvviso non vale più.

Se il deficit delle merci Usa è alto, è invece in avanzo quello dei servizi (sempre più digitali, per esempio prenotazione on line di alberghi e case in Europa). L’OCSE ha in cantiere di tassare questi servizi digitali a favore dei paesi dove risiedono i clienti. Anche prima di Trump però gli Usa hanno fatto muro perché, essendo la maggioranza di queste imprese americane, la tassazione andrebbe a vantaggio dell’Europa, la quale potrebbe rispondere ai dazi Usa non solo con propri dazi, ma tassando i servizi digitali americani che viaggiano on line.

Coi dazi arriverà l’Apocalisse? Non credo. Trump ne ha introdotti già nel 2017, Biden li ha riconfermati e quegli stessi economisti che avevano levato alte le grida (tra cui premi Nobel come Krugman) si sono zittiti. Adesso che Trump ha ricominciato a mettere i dazi ritorna il coro accademico di allarme che tutto ciò porterà al disastro. Così prosegue la narrazione sul “matto” Trump. Stephen Miran, economista, guida il suo staff economico. Sostiene che l’economia americana trarrebbe vantaggi da un aumento dei dazi in quanto:

1) non è vero che esiste il libero scambio. La Cina, per esempio (il maggior competitor degli USA), è retta da un sistema dirigista in cui lo Stato può decidere di sussidiare alcuni prodotti sottocosto (dumping) pur di riuscire ad entrare in certi mercati, dove, una volta entrati, distruggere la concorrenza e infine alzare i prezzi (strategia oggi ampiamente usata dai monopoli big tech);

2) gli Stati Uniti sono uno dei pochi “monopsoni”, cioè un monopolio dal lato della domanda, nel senso che sono un paese che importa tanto ed esporta poco, relativamente agli altri. Il monopolio dal lato dell’offerta significa che c’è un solo o pochi (oligopolio) che vende quel prodotto. Vedi Google tra i motori di ricerca (usato dal 90% in Occidente). I monopoli o oligopoli sono svantaggiosi per i consumatori perché da un lato si accordano sui prezzi (alzandoli) e dall’altro impediscono ai “piccoli innovatori in ascesa” di entrare nel loro mercato, cercando di distruggerli o acquistarli (come hanno fatto per decenni i big tech made in Usa, ma anche i monopoli Usa nella seconda metà dell’Ottocento). L’anti trust serve a contenere queste pratiche sleali. Il monopolio dal lato della domanda si chiama monopsonio. Quando c’è un solo grande cliente com’è, per es., il caso dell’Italia che acquista gas dall’estero, l’unico acquirente potrebbe imporre un prezzo basso ai molti venditori. Invece col libero mercato l’Italia ha permesso a 700 utilities di svilupparsi: ciascuna di esse deve fare profitti sulla pelle dei clienti italiani. Un monopsonio sono anche gli Stati Uniti come paese: sono un gigantesco cliente da 344 milioni di abitanti che importa meno del 10% del suo PIL ed esporta poco. Se raffrontato al suo PIL l’export USA è 11,6%, rispetto al 15,6% dell’Europa, 23% della Cina, 30% dell’Italia, 37% della Germania). Si noti l’ottima posizione dell’Italia nell’export.

Alzando le tasse doganali gli Stati Uniti avrebbero più inflazione, ma vantaggi in termini di:

1) aumento delle tasse pagate dagli stranieri,

2) riduzione del deficit commerciale,

3) più occupati nelle imprese americane e una manifattura più forte.

Inoltre è possibile che le imprese straniere, pur di non perdere le vendite in USA, siano disposte a ridurre i prezzi, per cui i consumatori americani potrebbero essere poco penalizzati dal dover comprare un prodotto alternativo made in Usa a costo maggiore.

Se i dazi funzionano i vantaggi potrebbero essere girati alle imprese e famiglie americane in termini di minori tasse. In sostanza il paese che ha meno danni dal protezionismo sono gli Stati Uniti. Dipende anche se il dollaro si rafforzerà o meno. Se si rivaluta, crescono anche i flussi di capitale negli USA, ma Miran punta anche ad indebolire il dollaro per esportare di più made in Usa, come sta già avvenendo.

I dazi sono anche una forma di pressione per ottenere altro. Dopo l’incontro col primo ministro giapponese Ishiba, Trump ha trasformato quella che era una pericolosa vendita (per l’interesse nazionale USA) della US Steel ai giapponesi della Nippon Steel (per 15 miliardi di dollari), in un enorme investimento in Usa “a favore del lavoro americano e dell’industria manifatturiera USA”. Dopo questo accordo per i dazi contro il Giappone (che ha un avanzo commerciale con gli USA di 68 miliardi annui),  i dazi contro l’Europa servono per convincere gli imprenditori europei a investire negli Stati Uniti per creare lavoro americano e rafforzare la loro manifattura. Infatti John Elkann ha già dichiarato che ci investirà 5 miliardi con Stellantis.

Insomma un argomento più complesso di quello che ci vogliono far credere gli economisti liberisti mainstream e forse così matto Trump non è. Certo è che quando i dazi Usa arriveranno anche per l’Europa le due maggiori economie che saranno colpite saranno quella tedesca e italiana;  tra le aree interne italiane, l’Emilia-Romagna. Una risposta simmetrica (dazi contro dazi) è rischiosa soprattutto per noi europei che non abbiamo né uno Stato, né una visione di lungo periodo, né il dollaro come moneta di riserva mondiale, né le materie prime ed energetiche americane, né il digitale; in più abbiamo manifatture in recessione. Su questo dovrebbe riflettere l’Europa, altro che fare propaganda a manetta e riarmo a vanvera.

Per leggere gli articoli di Andrea Gandini su Periscopio clicca sul nome dell’autore.

Parole e figure / Orso e Uccellina

Con Lapis edizioni, a marzo, tornano in libreria le avventure di Orso e Uccellina, storie di grande e bella amicizia.

Orso è sbadato e credulone, Uccellina è sensibile e un poco permalosa. Sono migliori amici e passano molto tempo insieme. Vivono mille avventure, litigano, si prendono in giro, ma alla fine trovano sempre il modo di fare la pace. Non sempre si capiscono, ma entrambi concordano sul fatto che tutto ciò che vogliono è che il loro amico sia felice.

Le avventure di questi simpatici amici erano iniziate qualche anno fa, con il primo volume della serie, sempre edito da Lapis, Il picnic e altre storie, che si era aggiudicato il Premio Strega Ragazze e Ragazzi 2024 nella categoria 6+. Nei quattro episodi firmati da Jarvis, Orso si destreggia fra un fiore che crede parlante (in realtà, intrappolata nel fiore, c’è Uccellina, scivolata lì dentro mentre era seduta sui suoi petali), un picnic dove si è dimenticato di portare le seggioline pieghevoli e la merenda, tele e pennelli per fare un dipinto e la copertina Dlin Dlon. Per tante risate c’è spazio per tutti.

Sono seguiti Le stelle e altre storie e La grande avventura e altre storie.

In Le stelle e altre storie, del 2023, Orso e Uccellina litigano (stavolta non hanno fatto la pace e Orso cerca un nuovo migliore amico affidando una lettera alla corrente del lago),  Orso mangia tutta la torta che era nascosta sotto alle foglie, vicino a casa di Uccellina e cerca di rimediare, una roccia che si mette a camminare e a nuotare nello stagno (ma quel sasso è una tartaruga…) e i due amici ammirano il cielo stellato, dicendosi non c’è altro che possano desiderare. Salvo che…

In La grande avventura e altre storie, del 2024, Orso è, invece, alle prese con un momento di tristezza e un attacco di gelosia da parte di Uccellina: hanno incontrato Talpa, un nuovo amico che sa raccontare divertentissime barzellette. Uccellina teme di rimanere esclusa, poi capisce di non dover entrare in competizione per avere l’attenzione di Orso. Loro restano pur sempre migliori amici, ma si sta bene anche in tre! Talpa li invita allora per una divertente e inusuale avventura con la sua barchetta. Promette tesori, pirati, bufere e mostri giganti… eppure  la barca non si muove di un centimetro. Talpa è mortificato, ma Orso e Uccellina accendono l’immaginazione. Eccoli impegnati in una caccia al tesoro durante una terribile tempesta… Dopo aver giocato a lungo, i tre si addormentano sognando nuove, incredibili avventure!

Oggi, i due inseparabili amici tornano con Il rametto e altre storie, 64 pagine di allegria.

Anche questo volume è composto da quattro divertenti episodi, in cui i due affrontano situazioni buffe, strane e imprevedibili: una foglia appiccicata sulla guancia di Orso diventa una moda inaspettata tra gli abitanti del bosco, un mercatino degli scambi si trasforma in una rocambolesca caccia alla palla rimbalzina, un rametto scatena un’esilarante contesa e l’orologio di Orso sembra proprio non segnare l’ora giusta… o forse sì? Un’ironia delicata, qualche scaramuccia ma soprattutto tanto tanto affetto.

Parole e sentimenti per tutti. Letture che fanno bene al cuore, di piccini e meno piccini.

Jarvis
Graphic designer e animatore digitale, ha all’attivo diversi albi di cui è autore e illustratore. Tra i suoi libri più amati, il pluripremiato Alan, coccodrillo tuttodenti Il bambino con i fiori nei capelli, Oscar Book Prize 2023 e finalista al Premio Nati per Leggere 2023, sezione “Crescere con i libri”. Il primo volume della serie, Orso e Uccellina. Il picnic e altre storie, ha vinto il Premio Strega Ragazze e Ragazzi 2024 nella categoria 6+.

Il Manifesto di Ventotene parlava degli “Stati Uniti socialisti d’Europa”

Il Manifesto di Ventotene parlava degli “Stati Uniti socialisti d’Europa”

(Foto di Istituto Spinelli)

L’arcano dell’ipocrisia europeista

Ventotene era un’isola dove il regime fascista aveva predisposto un carcere a cielo aperto su cui si affacciavano le celle dei confinati politici antifascisti consentendo ai carcerieri di osservare ogni loro mossa. In questa prigione ossessivamente inquisitoria Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, con l’aiuto essenziale di Eugenio Colorni, redassero Il Manifesto di Ventotene, ovvero un programma politico per una nuova “Europa libera e unita” elaborato nell’agosto 1941 e diffuso con l’aiuto di Ursula Hirschmann.

In questi anni spesso e volentieri si è sentito parlare del Manifesto di Ventotene come del documento teorico-fondativo dell’Unione Europea ed è spesso stato cavalcato da alcune forze neoliberali in Italia (Radicali Italia, +Europa di Emma Bonino, Italia Viva di Renzi, sindacati come la CISL e da molti altri), come il punto di riferimento del “federalismo europeo”, dell’europeismo e del progetto degli “Stati Uniti d’Europa” su modello degli Stati Uniti d’America. Purtroppo in molti, anche in buona fede, ritengono che sia un manifesto federalista, ma non è così.

Il giornalista Michele Serra ultimamente, dalle pagine de La Repubblica, ha invitato a scendere in piazza il 15 marzo il partito unico europeista della guerra solo con le bandiere blu dell’Unione Europea per un “Europa più forte” che faccia tesoro dei “valori fondativi” dell’Europa sostenendo che sia, ora più che mai, urgente pensare agli Stati Uniti d’Europa esplicitati nel Manifesto di Ventotene.
Il 4 marzo, la Vicepresidente del Parlamento europeo ed eurodeputata PD Pina Picierno, ha lanciato l’Appello “Per un’Europa Libera e Forte” che – secondo le premesse – “nasce dall’urgenza invariata che il Manifesto di Ventotene tracciò durante il secondo conflitto mondiale, per un’Europa federale e per un nuovo europeismo in difesa delle democrazie liberali e delle libertà dei popoli”. Un appello che, al pari di quello di Michele Serra, ha riscosso successo proprio tra gli europeisti “più atlantisti” come il “socialista” francese Raphaël Glucksmann, Vittorio Emanuele Parsi, Alessandro Alfieri, Filippo Sensi, Lia Quartapelle e Nathalie Tocci.

Queste affermazioni – se vi capita di sentirle in telegiornali o talk show – non sono solo fuori contesto, ma definiscono con chiarezza che chi le sta pronunciando non ha mai letto il Manifesto di Ventotene e porta avanti una falsificazione ed una distorsione più o meno consapevole dei suoi contenuti.

I contenuti del Manifesto di Ventotene

Il Manifesto di Ventotene non è un manifesto “federalista” nè tantomeno “neoliberale” come i Radicali Italiani, Emma Bonino, Magi, Renzi, Michele Serra e tutti i neoliberali e neoliberisti possano minimamente pensare o dire. Il Manifesto di Ventotene nasce come manifesto scritto da intellettuali socialisti antifascisti, che credevano nella «definitiva abolizione della divisione dell’Europa in Stati nazionali», così da cancellare «la linea di divisione fra i partiti progressisti e i partiti reazionari».

Per fare questo, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni proponevano una confederazione (non una federazione) di Stati europei su base socialista per un’Europa sociale, democratica e dei popoli: questo intendevano con l’espressione “Per un’Europa libera e unita”.

Il Manifesto di Ventotene – basta leggerlo – si esprimeva chiaramente contro tutti i totalitarismi (nazismo e stalinismo), l’egemonia della Germania, il liberismo in tutte le sue forme, i nazionalismi sciovinisti, l’imperialismo e l’uso strumentale della geopolitica per giustificarlo, il militarismo e qualunque forma di corporativismo sia esso industriale o sindacale (afferma: “Il corporativismo non può avere vita concreta che nella forma assunta degli stati totalitari, per irreggimentare i lavoratori sotto funzionari che ne controllano ogni mossa nell’interesse della classe governante.”).

Il Manifesto di Ventotene sanciva assolutamente l’autodeterminazione dei popoli europei in un’ottica particolare: abbandonare la teoria evoluzionista del “pacifismo passivo” incarnato dalla dottrina liberale (per cui le società erano naturalmente portate a svilupparsi verso forme superiori di convivenza), per delineare un “pacifismo attivo” fondato sull’interdipendenza tra Stati sovrani “fratelli” solidali e non più sull’equilibrio di potenza tra gli Stati dipendente dalle controversie nazionalistiche.

Qui sta la vera differenza tra confederazione, che prevede unione di Stati sovrani indipendenti ed interdipendenti sotto stesse politiche economiche e sociali, e federazione, unione di Stati che cedono le loro quote di sovranità ad un governo centrale federale sovrastatale su modello USA.

Spinelli, Rossi e Colorni credevano fortemente in un’Europa alternativa (mi verrebbe da dire, soprattutto da quella attuale), in cui fosse necessario il superamento dei privilegi corporativi e delle disuguaglianze sociali.

Scrivevano nel Manifesto: Un’Europa libera e unita è premessa necessaria del potenziamento della civiltà moderna, di cui l’era totalitaria rappresenta un arresto. La fine di questa era sarà riprendere immediatamente in pieno il processo storico contro la disuguaglianza ed i privilegi sociali. Tutte le vecchie istituzioni conservatrici che ne impedivano l’attuazione, saranno crollanti o crollate, e questa loro crisi dovrà essere sfruttata con coraggio e decisione. La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi l’emancipazione delle classi lavoratrici e la creazione per esse di condizioni più umane di vita.”

Secondo loro la “rivoluzione europea” poteva essere solo socialista e guidata da un’organizzazione partitica sovranazionale che si faceva portatrice di “riforme economico-sociali in chiave continentale”:
“Il principio veramente fondamentale del socialismo (…) è quello secondo il quale le forze economiche non debbono dominare gli uomini, ma – come avviene per forze naturali – essere da loro sottomesse, guidate, controllate nel modo più razionale, affinché le grandi masse non ne siano vittime.”

Il Manifesto di Ventotene prefigurava la necessità dell’istituzione di una confederazione europea con un parlamento europeo eletto a suffragio universale e un governo democratico con poteri reali nell’economia e nella politica estera. Un “partito rivoluzionario” di stampo socialista su scala europea avrebbe dovuto sostituire i partiti tradizionalmente intesi per consentire l’inveramento di questa prospettiva:

“Il partito rivoluzionario non può essere dilettantescamente improvvisato nel momento decisivo, ma deve sin da ora cominciare a formarsi almeno nel suo atteggiamento politico centrale, nei suoi quadri generali e nelle prime direttive d’azione. Esso non deve rappresentare una coalizione eterogenea di tendenze, riunite solo transitoriamente e negativamente, cioè per il loro passato antifascista e nella semplice del disgregamento del totalitarismo, pronte a disperdersi ciascuna per la sua strada una volta raggiunta quella caduta.

Il partito rivoluzionario deve sapere invece che solo allora comincerà veramente la sua opera e deve perciò essere costituito di uomini che si trovino d’accordo sui principali problemi del futuro. Deve penetrare con la sua propaganda metodica ovunque ci siano degli oppressi dell’attuale regime, e, prendendo come punto di partenza quello volta sentito come il più doloroso dalle singole persone e classi, mostrare come esso si connetta con altri problemi e quale possa esserne la vera soluzione.

Ma dalla schiera sempre crescente dei suoi simpatizzanti deve attingere e reclutare nell’organizzazione del partito solo coloro che abbiano fatto della rivoluzione europea lo scopo principale della loro vita, che disciplinatamente realizzino giorno per giorno il lavoro necessario, provvedano oculatamente alla sicurezza, continua ed efficacia di esso, anche nella situazione di più dura illegalità, e costituiscano così la solida rete che dia consistenza alla più labile sfera dei simpatizzanti.”

Secondo gli autori, per questa “rivoluzione sociale europea”, era di vitale importanza il coinvolgimento in prima istanza degli intellettuali e della classe lavoratrice perché, oltre a un lavoro politico era necessario un lavoro culturale dedito alla solidarietà, alla pace e al welfare state:

“Pur non trascurando nessuna occasione e nessun campo per seminare la sua parola, esso deve rivolgere la sua operosità in primissimo luogo a quegli ambienti che sono i più importanti come centri di diffusione di idee e come centri di reclutamento di uomini combattivi; anzitutto verso i due gruppi sociali più sensibili nella situazione odierna, e decisivi in quella di domani, vale a dire la classe operaia e i ceti intellettuali.

La prima è quella che meno si è sottomessa alla ferula totalitaria, che sarà la più pronta a riorganizzare le proprie file. Gli intellettuali, particolarmente i più giovani, sono quelli che si sentono spiritualmente soffocare e disgustare dal regnante dispotismo. Man mano altri ceti saranno inevitabilmente attratti nel movimento generale.
Gli intellettuali di Ventotene erano consapevoli del fatto che se questa missione non fosse andata in porto, tutto il progetto sarebbe stato un fallimento.

Solo con un “partito rivoluzionario” che sapesse mobilitare tutte le forze per far sorgere il nuovo organismo politico si sarebbe potuto costituire uno Stato confederale ed in seguito disporre una “forza armata europea” al posto degli eserciti nazionali, porre fine alle autarchie economiche “pur lasciando agli Stati stessi l’autonomia che consente una plastica articolazione e lo sviluppo della vita politica secondo le peculiari caratteristiche dei vari popoli”.

Colorni, Rossi e Spinelli ebbero la forza di scrivere nero su bianco che, per avanzare riforme sociali importanti, bisognava rivedere in modo cauto anche il concetto di “proprietà privata” ed analizzarlo in ogni suo caso, qualora sia oppressivo per la collettività e quando invece abbia ragione e diritto d’esistere:

“La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa, caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio. Questa direttiva si inserisce naturalmente nel processo di formazione di una vita economica europea liberata dagli incubi del militarismo e del burocraticismo nazionali. In essa possono trovare la loro liberazione tanto i lavoratori dei paesi capitalistici oppressi dal dominio dei ceti padronali, quanto i lavoratori dei paesi comunisti oppressi dalla tirannide burocratica. La soluzione razionale deve prendere il posto di quella irrazionale anche nella coscienza dei lavoratori.”

Queste riflessioni non sono mai state prese in considerazione nella nostra Europa tanto acclamata dalla retorica europeista e dall’attuale retorica neoliberale sugli “Stati Uniti d’Europa”, ma addirittura storicamente abbiamo vissuto il contrario: la centralità della proprietà privata, dell’iniziativa privata vista proprio come sacra ed intoccabile ed un progressivo laize faire neoliberista a discapito del pubblico.

Addirittura, nel 2001, l’Italia con Prodi ha velocizzato i processi di privatizzazione delle perle industriali pubbliche come l’ILVA, l’IMI e l’IRI, con la scusa che fosse necessario per entrare in Europa, dimenticando che gli autori del Manifesto di Ventotene chiedevano espressamente il mantenimento dei settori strategici sotto l’industria pubblica:

“non si possono più lasciare ai privati le imprese che, svolgendo un’attività necessariamente monopolistica, sono in condizioni di sfruttare la massa dei consumatori (ad esempio le industrie elettriche); le imprese che si vogliono mantenere in vita per ragioni di interesse collettivo, ma che per reggersi hanno bisogno di dazi protettivi, sussidi, ordinazioni di favore, ecc. (l’esempio più notevole di questo tipo di industrie sono in Italia ora le industrie siderurgiche); e le imprese che per la grandezza dei capitali investiti e il numero degli operai occupati, o per l’importanza del settore che dominano, possono ricattare gli organi dello stato imponendo la politica per loro più vantaggiosa (es. industrie minerarie, grandi istituti bancari, industrie degli armamenti). È questo il campo in cui si dovrà procedere senz’altro a nazionalizzazioni su scala vastissima, senza alcun riguardo per i diritti acquisiti;”

L’Europa tecnocratica e finanziaria di oggi non è quella pensata a Ventotene

È certo che la Carta di Ventotene abbia dei punti controversi e non chiari, ma resta comunque un tentativo interessante di teoria politica per un’Europa dei popoli. A differenza del Progetto Pan-Europa del filosofo e conte Coudenhove Kalergi, che ebbe una grande diffusione tra le élite finanziarie e diplomatiche del tempo e che auspicava un’Unione Europea a guida tecnocratica, il Manifesto di Ventotene fece ben pochi proseliti anche nel carcere.

Fece scalpore l’atteggiamento di Sandro Pertini (1), il quale, dopo aver sottoscritto il documento mentre era confinato proprio a Ventotene, venne espulso dal PSI per la sua posizione “eterodossa”, per poi ritirare la firma per obbedienza al partito. Era la prefigurazione della scarsa fortuna dell’idea confederale a base democratica, solidale e socialista.

Quella che nacque storicamente fu l’Europa di oggi, ovvero un’unione (né una federazione né una confederazione) nata sul modello funzionalista di Jean Monnet, secondo il quale bisogna “togliere sovranità ai popoli senza che se ne accorgano”.

Un’unione che non ha una Costituzione; non ha una legittimità democratica in quanto la maggioranza dei cittadini degli Stati membri non l’ha voluta (vedasi il referendum in Francia del 2005); un’unione che è stata imposta dall’alto e che tassa i cittadini europei senza rappresentarli (2) (il Parlamento Europeo ha solo la funzione di proporre direttive e non leggi, mentre le leggi le fa la Commissione Europea che è composta da nominati e non eletti); un’unione ispirata:

  • al concetto di “Europa tecnocratica” e di “integrazione europea” del conte Richard Coudenhove-Kalergi (3) che portarono alla costituzione del Progetto Pan-Europa e alla fondazione dell’Unione Paneuropea a Vienna nel 1924 secondo i principi della dottrina di James Monroe da cui «Europa agli europei», escludendo potenze mondiali come Russia e Gran Bretagna e mettendosi in guardia da nuovi centri di potenza quali Stati Uniti, Giappone e Unione Sovietica;
  • all’idea dell’integrazione monetaria dell’economista Francois Perroux (4) del 1943 con il dichiarato intento di “togliere agli Stati la loro ragion d’essere” impedendogli di poter di gestire la moneta;
  • alla sconfitta delle teorie economiche di Keynes, l’economista secondo cui l’interesse della collettività viene sempre per primo, che avvenne alla conferenza per gli assetti monetari internazionali di Bretton Woods del 1944, ove decollerà il progetto devastante di Lippmann, Berneys, Schuman, Monnet e Perroux per la distruzione della sovranità degli stati e al trionfo di grandi oligarchi delle corporate rooms, che finanziano le scuole di economisti e di classi dirigenti secondo l’ideologia del monetarismo e dell’economia neoclassica di Milton Friedman, facendo credere che sia l’unica economia esistente (un esempio l’Università Bocconi, che non fa teoria economica e non insegna politica economica);
  • al “Piano Schuman” del 1951 che porterà alla nascita della Ceca (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio);
  • al dominio egemonico della Germania che, con i Trattati di Maastricht del 1992, ha sancito la “l’economia sociale di mercato” come sistema economico europeo, ispirato ai principi folli dell’ordoliberismo tedesco, teoria economica che sostiene che il problema non sono gli investimenti, ma il debito pubblico.

Un’Europa del commercio, delle banche e della finanza che grazie alle lobbie di grandi capitalisti ha smantellato la sovranità degli stati europei per salvaguardare i loro profitti. Nel 2001, plasmato su modello del marco tedesco, viene introdotto l’Euro: la prima “moneta senza Stato” a regime di cambi fissi che provocò una grande reazione tra grandi teorici economisti.

L’Italia, a detta di Romano Prodi, quando entrò nell’euro, svalutò la lira del 600% (5). Nel gennaio 2002, nei 16 Stati più ricchi d’Europa avanza l’idea di creare corpi sovranazionali col potere di imporre le regole. Ecco quindi l’Unione Europa, il Trattato di Lisbona, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, i Mercati dei Capitali d’Investimento. Idea che vinse allora e vince in questa Europa nella quale viviamo in cui l’economia, purtroppo, domina la politica.

Questa verità è sotto gli occhi di tutti ed è emersa in tutta evidenza anche di fronte alle questioni squisitamente politiche, culturali, etiche come: la “Fortezza Europa” in termini di immigrazione; l’americanizzazione della difesa, in termini di sudditanza dell’Europa alla NATO; la guerra ai confini asimmetrici dell’Europa, in Nord Africa e in Ucraina e l’attuale riarmo da 800 miliardi di Ursula Von der Leyen.

«L’Europa di oggi non c’entra nulla con quella tratteggiata da Spinelli», spiegava Giulio Sapelli, grande storico ed economista docente ordinario di Storia Economica presso l’Università degli Studi di Milano. «Il sistema è diverso, la forma istituzionale è diversa», affermava Sapelli, e parlare di Ventotene si può fare, ma solo se si ha in mente una rifondazione totale dell’Europa. Spinelli, quando lavorava in Europa, disse chiaramente che l’Europa doveva nascere su base socialista e non sul libero mercato neoliberista.

Gli “Stati Uniti d’Europa” di cui si parla saranno neoliberali su modello atlantista

“Il Movimento Federalista Europeo non risponde ad altro che al migliore consolidamento della dittatura del Capitale americano sulle varie regioni europee e, al tempo stesso, della interna dominazione sul proletariato americano, le cui vane illusioni di prosperità hanno per sicuro sbocco l’austerità che oggi la più ipocrita delle borghesie fa inghiottire alla classe operaia d’Inghilterra”.
United States of Europe in Prometeo n. 14 del 1950.

Gli “Stati Uniti d’Europa” di cui parlano tutti gli europeisti più sensazionalisti e i federalisti europei come Emma Bonino, Matteo Renzi e Michele Serra, non sono un progetto di democrazia socialista europea, ma bensì un consolidamento di una post-democrazia di stampo neoliberale su modello statunitense, ispirandosi al federalismo statunitense e al vero padre del federalismo europeo che è il liberale Luigi Einaudi (6).

Einaudi pensava ad una organizzazione come un Super-stato con sovranità diretta sui cittadini, avente il diritto di stabilire imposte e dotata di un esercito, sostenendo che solo con la diminuzione della sovranità assoluta degli Stati Europei e un’unione federale europea si sarebbe potuta superare l’anarchia internazionale, ed evitare nuove guerre.

Einaudi basava la sua teoria sullo studio fatto dal The Federalist, da cui trasse l’assetto politico per cui il federalismo poteva eliminare la guerra fra gli Stati membri . Nelle sue idee era molto chiara la distinzione dei concetti tra confederazione, federazione ed unione, basata sulla limitazione o meno della sovranità. Einaudi era un grande critico del concetto di confederazione e criticò la Società delle Nazioni che, in quanto tale – a detta sua – non era una struttura in grado di garantire una pace duratura.

In sostanza, il mantra degli “Stati Uniti d’Europa” oggi è un tentativo di perfezionare l’Unione Europea per quello che già è, proseguendo verso la via dell’espropriazione della sovranità agli Stati.

L’idea neoliberale che sta passando è una forzatura culturale: parlare di “Europa agli europei” senza che esista un sentimento di coesione europea. “L’Europa non è mai esistita. Ora si tratta di crearla davvero” – diceva Jean Monnet nel 1950.

Oggi in Europa non esiste – e non può esistere, come sosteneva l’antropologa Ida Magli – il “cittadino europeo”, né tantomeno il cittadino italiano, tedesco, francese, inglese o spagnolo che si sente o si definisce “europeo”. Questo perché l’Europa non è paragonabile agli Stati Uniti d’America, una nazione artificiale creata da immigrati europei, senza una cultura unitaria se non quella del denaro e della american view of life fatta di consumismo, ipertrofica libertà individuale e mercato.

Forse il destino pensato dalle classi dirigenti europee per l’Europa è livellare le sue diverse culture ed identità sul piano del mercato come negli USA. Così avremo una classe dirigente che non solo tifa per il default economico, ma anche per il default culturale.

Come già aveva compreso Vladimir Lenin nel 1915, “gli Stati Uniti d’Europa in regime capitalistico non possono che essere impossibili o reazionari”, ed oggi siamo nel pieno di questa ipotesi. Un’Europa unita progressista non può dunque nascere dall’iniziativa della classe dominante, come accaduto con l’odierna Unione Europea, ma deve essere frutto dell’azione rivoluzionaria delle classi dominate.

Come ricordava Trostky“Il fine del proletariato europeo non è la perpetuazione dei confini ma, al contrario, la loro abolizione rivoluzionaria, non lo status quo, bensì gli Stati Uniti Socialisti d’Europa!”. C’è chi sostiene, in modo più o meno veritiero, che gli intellettuali di Ventotene fossero d’ispirazione trotkista (7), sottolineando ancora una volta come il Manifesto fosse un progetto neanche lontanamente paragonabile all’Europa bancocratica di oggi.

Nel frattempo, dovremo accontentarci di opporci a quest’Unione Europea e di lottare per il recupero della sovranità nazionale di ciascuno Stato, non già per fomentare la competizione tra questi, ma per stimolarne la cooperazione ed il rispetto reciproco, in attesa di tempi migliori.

Note

(1) Nel settembre 1935 Pertini esce dal carcere e viene condotto al confino di Ponza. Nel 1939 é disposto il suo trasferimento al confino, prima alle Tremiti e poi a Ventotene. Riacquisterà la libertà, dopo oltre 14 anni, nell’agosto del 1943, un mese dopo la caduta del fascismo. https://www.comune.cinisello-balsamo.mi.it/pietre/spip.php?article297 https://www.consiglio.regione.toscana.it/upload/eda/pubblicazioni/pub4164.pdf

(2) Principio del costituzionalismo inglese: no taxation without representation

(3) R. Coudenhove-Kalergi, Paneurope: Un grande progetto per l’Europa unita, Rimini, Il Cerchio pp.60-61

(4) Il 20 dicembre 1943, veniva pubblicato sulla Revue de l’économie contemporaine un saggio di François Perroux su La monnaie dans une économie internationale organisée 

(5) https://unilira.altervista.org/valore-della-lira-e-la-sua-svalutazione/?doing_wp_cron=1741438126.4091989994049072265625

(6) Il The Federalist è una raccolta di saggi che fu pubblicata dall’Independent Journal di New York 1787, scritti da Alexander Hamilton e John Jay. Furono scritti per sostenere la ratifica della costituzione americana, in essi sono definiti i concetti di federazione. C. G. Anta, Padri dell’Europa, cit., p.100

(7) Forum Pulire 2018 | Etica e Ambiente | Dibattito https://www.youtube.com/watch?v=PkoJsww2pEE

Per leggere gli articoli di Lorenzo Poli pubblicati su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Il crollo di Tesla e l’impero di Musk che potrebbe cominciare a vacillare

Il crollo di Tesla e l’impero di Musk che potrebbe cominciare a vacillare

di Marco Arvati
articolo originale su Valigia blu del 13 marzo 2925

Qualche giorno fa Donald Trump si è seduto al posto di guida di una Tesla modello S rossa, nel cortile della Casa Bianca. Per prassi consolidata, il presidente degli Stati Uniti non può guidare una macchina su strade pubbliche, né durante né al termine del mandato, dato che la sua sicurezza è affidata per intero al Secret Service. Lo ha fatto, però, per cercare di sostenere pubblicamente Elon Musk, uno dei suoi principali finanziatori nonché guida di DOGE, il dipartimento che si occupa di tagliare budget a gran parte delle agenzie federali: il magnate, infatti, sta vivendo un periodo di forti crisi aziendali.

Nell’ultimo mese, complice anche la congiuntura economica sfavorevole negli Stati Uniti e il crollo delle borse dovuto all’annuncio dei dazi di Trump, Musk ha perso quasi 120 miliardi di patrimonio netto, di cui 29 nella sola giornata di lunedì, una delle peggiori della sua vita imprenditoriale. Intervistato da Larry Kudlow per FOX Business, Musk ha detto che da quando è a capo di DOGE gestisce le sue aziende “con grande difficoltà”, e mentre parlava sembrava prossimo a piangere.

Il tracollo finanziario del magnate sudafricano, però, non si può spiegare soltanto con una discesa generale dei titoli a Wall Street, ma si innesta in una crisi che sta vivendo la sua azienda più conosciuta nel mondo, la leader nella costruzione di auto elettriche Tesla. L’azienda ha subito una caduta vertiginosa, dimezzando il proprio valore nell’arco di tre mesi, e le motivazioni afferiscono sia al quadro economico che a quello politico.

Dopo la vittoria di Trump alle elezioni, Elon Musk è diventato un riferimento politico della destra radicale: lui stesso non ha fatto nulla per evitare che venisse percepito come tale, in quanto, oltre ad assumere un ruolo di peso nell’amministrazione, ha elargito endorsment alle formazioni di estrema destra in molti paesi europei, tra cui Germania e Regno Unito. A partire da questo fatto, Tesla è diventata preda di boicottaggi e proteste: chi possiede un’auto dell’azienda di Musk e si identifica come progressista vuole rimarcarlo, appiccicando al veicolo sticker che recitano “l’ho comprata prima che Elon impazzisse” o “Anti-Elon Tesla Club”. Altri, addirittura, vendono l’automobile velocemente,a meno di quanto sarebbe il prezzo consigliato, generando una discesa del valore medio del modello.

Delle venti macchine usate che hanno visto la maggior caduta verticale nell’arco dell’anno, quattro sono Tesla, tra cui le prime due della classifica. Per di più, l’odio nei confronti di Musk si è acuito con le proteste contro l’amministrazione di questi primi mesi, che si sono indirizzate per la maggior parte contro il piano di DOGE di tagliare dipendenti ritenuti inutili alla produttività del governo americano. Inoltre, Musk e le sue aziende sono tra i più grandi beneficiari della spesa pubblica governativa: circa 38 miliardi totali di contratti firmati, di cui 6 solo l’anno scorso. È paradossale che il miliardario che più si sta spendendo per tagliare sussidi, posti di lavoro e intere agenzie sia il più dipendente di tutti dalla politica industriale federale.

Se negli Stati Uniti l’attacco a Musk è indirizzato principalmente alla sua volontà di eliminare posti di lavoro sicuri per i cittadini americani, in Europa è disprezzato negli ambienti progressisti per il tentativo di sostenere apertamente i partiti di estrema destra. In Germania, dove Musk si è speso molto per la leader di Alternative fur Deutschland Alice Weidel, le proteste sono state molteplici: davanti alla gigafactory dell’azienda, che si trova a Berlino, è stato riprodotto il momento in cui Musk ha fatto un saluto fascista il giorno dell’inaugurazione di Trump, accompagnato dalla didascalia “Non comprare Tesla”. Anche in Italia, il negozio Tesla di piazza Gae Aulenti a Milano è stato preso d’assalto da attivisti, sia di sinistra, come il centro sociale Lambretta, sia di Extinction Rebellion, gruppo ambientalista radicale che lotta contro il cambiamento climatico.

Entrambe le proteste avevano come focus l’attacco alla democrazia che Trump e Musk stanno compiendo negli Stati Uniti e le politiche che l’amministrazione porta avanti in campo ambientale. Tesla è passata da essere un brand di valore e contrasto alla crisi climatica, apprezzato da un certo progressismo, a un marchio tossico che rappresenta visioni fasciste della società: il riallineamento politico di Musk ha generato un divario incolmabile col mondo progressista, che però non è stato sostituito da quello conservatore. Le persone di destra, infatti, per quanto apprezzino Musk, sono meno interessate all’acquisto di vetture elettriche in quanto sostenitrici dei combustibili fossili.

Il crollo delle vendite anno su anno di Tesla è stato considerevole, in tutti i mercati: a livello esemplificativo, in Germania è salita del 30 per cento l’immatricolazione di veicoli elettrici mentre è scesa del 70 quella di Tesla; anche in Australia Muskha subito una caduta del 72 per cento sull’anno precedente.

Le motivazioni, chiaramente, non sono solo politiche, anche se la massiccia presenza sui social di queste proteste ha certamente aiutato: i potenziali compratori di elettrico hanno iniziato a riorientarsi sul mercato cinese, che sta iniziando a produrre su larga scala vetture meno costose di Tesla. Proprio nel paese asiatico si celano i principali problemi economici dell’azienda di Musk: il mercato dell’elettrico in Cina è stato per anni dominato da Tesla, in quanto unico brand a promuoverlo. Negli ultimi anni, i capitali cinesi hanno generato una forte competizione e l’azienda locale BYD offre macchine di tecnologia migliore a minor costo. Le quote di mercato di Tesla in Cina diminuiscono, anche perché il paese è in crisi economica e si immatricolano meno macchine, e si preferisce comprare veicoli di un’azienda locale.

La crisi delle imprese dell’impero di Musk non si identifica, però, solo con Tesla. In Europa si sta discutendo se affidarsi per le telecomunicazioni al sistema satellitare Starlink, anch’esso di proprietà dell’imprenditore sudafricano. Il punto che ne fanno molti governi è di fiducia: Musk si è spesso rivelato inaffidabile, come nel caso ucraino, in cui prima ha fornito la copertura satellitare all’esercito di Zelensky per combattere i russi e poi ha minacciato varie volte di staccare il sistema, su cui Kyiv fa affidamento.

La Polonia, Stato confinante con l’Ucraina e molto vicina alle posizioni di Zelensky, ritiene che Musk sia del tutto inaffidabile: il ministro degli esteri polacco, Radoslaw Sikorski, ha apertamente asserito che il suo paese contribuisce a fornire Starlink all’Ucraina, e che se Musk decidesse di staccare farebbero in modo di trovare un altro sistema. Tutto questo mentre in Italia c’è un acceso dibattito parlamentare se sia il caso di dotarsi di Starlink per coprire le aree più remote del territorio della penisola.

Il resto dell’impero di Musk è ancora più in crisi: Solar City, azienda nel campo dell’energia solare, è stata salvata da un’acquisizione di Tesla; Neuralink e The Boring Company non hanno portato profitti; lo stesso X, che sicuramente è stato importante per diffondere il pensiero del magnate a grande velocità, è un buco finanziario. La distanza tra la figura di businessman che Musk si è costruito e il successo finanziario che ha realmente ottenuto è ampia.

Elon Musk, negli anni, è diventato infatti il leader di un culto tecnologico, che prometteva svariati obiettivi, dalla totale elettrificazione del parco auto alla colonizzazione di Marte. Come per ogni credo, ha ammantato sé stesso di eroismo, ha cementato il suo stato sui social e ha attaccato per anni le persone ree di non capire la sua idea di mondo. Le sue aziende, però, hanno risentito della scelta di campo in senso repubblicano: al di fuori dei suoi adepti, le persone che davano fiducia al progetto di Musk si sono ritrovate velocemente a far parte dell’”Anti-Elon Tesla Club”.

In copertina: immagine da auto.it 

Per certi Versi /
Che era notte

Che era notte

 

Ho sentito il dolore

squarciarmi dentro

come un aratro che

affonda il terreno

 

Ho annusato il sangue

l’ho assaporato

come fosse cibo

 

Ai piedi della morte

ho seppellito la paura

e dal suo ventre

sono rinata

 

Che era notte

 

Nel 2025 la storica rubrica domenicale di poesia Per certi versi è affidata a Maria Mancino (Maggie) 

Cover: alba a Brest,  foto flickr.com su licenza Wikimedia Commons