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Presto di mattina /
Sperare è prendere posizione

Presto di mattina. Sperare è prendere posizione

Dilexi te/ Ti ho amato non è solo il titolo della prima esortazione apostolica di papa Leone pubblicata il 4 ottobre scorso, festa di san Francesco, una lettera scritta a quattro mani perché sviluppata in continuità su un testo iniziato da papa Francesco. Dilexi te è stata pure una delle espressioni più care di Dorothy Day (1897-1980), conosciuta per le sue campagne di giustizia sociale in difesa dei poveri, delle donne e dei lavoratori.

Fu attivista, giornalista, convertita, oblata benedettina e cofondatrice, negli Stati Uniti dei primi anni Trenta, del primo movimento sindacale e culturale cattolico di lavoratori: il Catholic Worker Movement attivo ancora oggi. Dunque parole non solo scritte nero su bianco, ma già praticate al vivo, incarnate, che hanno preso vita, corpo, spirito, nella carne di questa donna.

Il suo Dilexi te non fu una semplice annotazione spirituale, una citazione in capo a una pagina, ma uno stile permanente, una prassi di vita che univa contemplazione e azione, preghiera e giustizia, tenerezza e coraggio. Papa Francesco l’ha ricordata insieme ad Abramo Lincoln, Martin Luther King e Thomas Merton al Congresso degli Stati Uniti nel 2015, persone che sono di ispirazione anche a donne e uomini di oggi.

Ignazio Silone conosceva Dorothy Day, e ricordava che «dal suo socialismo anarchico si era convertita al cattolicesimo, per continuare a lottare, con una dedizione ancor più spericolata, per la giustizia – in quella casa di New York dove non si chiudevano le porte, chi aveva fame entrava», (M. Pieracci Harwell, Quaderni Satyagraha, 1 2002, 113).

Scrive Jim Forest in Dorothy Day. Una biografia, Jaca Book, Milano; Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2011, 117, «Pacifismo significava per Dorothy il rifiuto generale della guerra, nei fatti nessuna guerra andava bene, nessuna guerra era giusta, nessuna guerra era degna di lode, ogni guerra era una catastrofe. Per lei il termine “anarchico” (letteralmente, una persona senza un re) significava assumersi le proprie responsabilità e non aspettarsi che sia il governo a risolvere tutti i problemi. È meglio fare le cose, spesso ella commentava, “dal basso verso l’alto invece che dall’alto verso il basso”».

E papa Leone, quasi a confermare il legame tra la sua esortazione e la vita di Dorothy Day, l’ha ricorda nella catechesi del 22 novembre 2025 dicendo di lei che aveva “il fuoco dentro”, e che sperare significava, per lei, “prendere posizione”.

Con il fuoco dentro

«Una piccola grande donna americana, Dorothy Day, vissuta nel secolo scorso. Aveva il fuoco dentro. Dorothy Day ha preso posizione. Ha visto che il modello di sviluppo del suo Paese non creava per tutti le stesse opportunità, ha capito che il sogno per troppi era un incubo, che come cristiana doveva coinvolgersi coi lavoratori, coi migranti, con gli scartati da un’economia che uccide. Scriveva e serviva: è importante unire mente, cuore e mani. Questo è prendere posizione.

Scriveva come giornalista, cioè pensava e faceva pensare. Scrivere è importante. E anche leggere, oggi più che mai. E poi Dorothy serviva i pasti, dava i vestiti, si vestiva e mangiava come quelli che serviva: univa mente, cuore e mani. In questo modo sperare è prendere posizione.

Dorothy Day ha coinvolto migliaia di persone. Hanno aperto case in tante città, in tanti quartieri: non grandi centri di servizi, ma punti di carità e di giustizia in cui chiamarsi per nome, conoscersi a uno a uno, e trasformare l’indignazione in comunione e in azione. Ecco come sono gli operatori di pace: prendono posizione e ne portano le conseguenze, ma vanno avanti. Sperare è prendere posizione, come Gesù, con Gesù. Il suo fuoco è il nostro fuoco».

La «piccola grande donna americana», l’ha chiamata papa Prévost, additandola come modello anche per l’oggi. Lei è stata, infatti, una che si faceva gli affari degli altri, fino ad essere incarcerata per la difesa dei diritti civili. Diceva in un’intervista su quell’esperienza:

«Le devo dire la verità: la prigione ci attirava, perché così potevamo venire in contatto con la povertà vera e non si trattava più di gestire una casa d’ospitalità, distribuire cibo e indumenti, occuparci degli ultimi; finalmente eravamo anche noi come loro.

Per me la prigione è stata una seconda casa e nonostante ne uscissi il più delle volte in uno stato di totale esaurimento, perché ti annienta, ti umilia e ti fa soffrire, ho avuto la convinzione che Cristo è sempre presente, non solo nel Santissimo Sacramento; è là dove due, o più di due, sono riuniti nel suo nome, ma anche nei poveri. E chi c’è di più povero e desolato nell’anima e nel corpo di questi fratelli rinchiusi nel carcere?» (in Evangelizzare, 7/ 1995, 12).

Il problema di uno, problema di tutti

Si legge nella prefazione di papa Francesco al libro di Dorothy Day Ho trovato Dio attraverso i suoi poveri, (Lev, Città del Vaticano 2023, 9), curato da Robert Ellsberg, che racconta le ragioni della sua conversione: «Quando Dorothy Day scrive che lo slogan dei movimenti sociali per i lavoratori del suo tempo era “problema di uno, problema di tutti”, mi ha ricordato una celebre affermazione che don Lorenzo Milani, il prete di Barbiana di cui quest’anno si ricordano i 100 anni della nascita, fa dire al protagonista di Lettera a una professoressa: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia”.

Il servizio deve diventare, dunque, politica: ovvero scelte concrete perché la giustizia prevalga e la dignità di ogni persona sia salvaguardata. Dorothy Day, che ho voluto ricordare nel mio intervento al Congresso americano durante il mio viaggio apostolico nel 2015, ci è di stimolo e di esempio in questo arduo ma affascinante percorso».

Io pure mi sono ricordato, riconoscente a don Piero Tollini, mio parroco quando divenni prete, che pure lui sulle pareti di due locali nel cortile della parrocchia della B. V. del Perpetuo soccorso a Borgo Punta, aveva fatto scrivere a grandi caratteri sia il testo di don Lorenzo sia uno di don Mazzolari: «Il problema degli altri è uguale al mio. Risolverlo tutti insieme è la politica. Da soli è egoismo»; «Quando si adorano gli idoli si calpestano gli uomini, e si oscura la verità».

 Dilexi te, una dichiarazione d’amore

Si legge all’inizio della lettera: «“Ti ho amato” (Ap 3,9), dice il Signore a una comunità cristiana che, a differenza di altre, non aveva alcuna rilevanza o risorsa ed era esposta alla violenza e al disprezzo: “Per quanto tu abbia poca forza […] li farò venire perché si prostrino ai tuoi piedi» (Ap 3,8-9). Questo testo richiama le parole del cantico di Maria: “Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili. Ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote” (Lc 1,52-53)

La dichiarazione d’amore dell’Apocalisse rimanda al mistero inesauribile che Papa Francesco ha approfondito nell’Enciclica Dilexit nos sull’amore divino e umano del Cuore di Cristo. In essa abbiamo ammirato il modo in cui Gesù si identifica “con i più piccoli della società” e come, col suo amore donato sino alla fine, mostra la dignità di ogni essere umano, soprattutto quando “più è debole, misero e sofferente” (1-2)».

Non c’è futuro senza farsi piccoli

Nel suo viaggio apostolico in Turchia, nei luoghi del Concilio di Nicea e in Libano (dal 27 novembre al 2 dicembre), visitando le piccole comunità cristiane che rispecchiano al vivo la comunità di Filadelfia nel testo dell’Apocalisse, Papa Leone le indica come punti di riferimento per le altre chiese. In esse, infatti, e soprattutto nella loro debolezza abita la forza di Cristo:

«Questa logica della piccolezza è la vera forza della Chiesa. Essa, infatti, non risiede nelle sue risorse e nelle sue strutture, né i frutti della sua missione derivano dal consenso numerico, dalla potenza economica o dalla rilevanza sociale. La Chiesa, al contrario, vive della luce dell’Agnello e, radunata attorno a Lui, è sospinta per le strade del mondo dalla potenza dello Spirito Santo.

In questa missione, è sempre nuovamente chiamata ad affidarsi alla promessa del Signore: “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di dare a voi il suo regno” (Lc 12, 32). Ricordiamo, in proposito, queste parole di Papa Francesco (Omelia a Santa Marta, 3 dicembre 2019): “In una comunità cristiana dove i fedeli, i sacerdoti, i vescovi, non prendono questa strada della piccolezza manca futuro, […] il Regno di Dio germoglia nel piccolo, sempre nel piccolo”».

Al n. 21 della Dilexi te si legge ancora: «E la Chiesa, se vuole essere di Cristo, dev’essere Chiesa delle Beatitudini, Chiesa che fa spazio ai piccoli e cammina povera con i poveri, luogo in cui i poveri hanno un posto privilegiato (cfr. Gc 2,2-4)».

Un vincolo inseparabile tra la fede e i poveri

Ricordando papa Francesco, ai nn. 35-36, papa Leone scrive: «Tre giorni dopo la sua elezione, il mio Predecessore espresse ai rappresentanti dei media il desiderio che la cura e l’attenzione per i poveri fossero più chiaramente presenti nella Chiesa: “Ah, come vorrei una Chiesa povera e per i poveri!”. Questo desiderio riflette la consapevolezza che la Chiesa “riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo fondatore, povero e sofferente, si fa premura di sollevarne la indigenza e in loro cerca di servire il Cristo”.

Infatti, essendo stata chiamata a configurarsi agli ultimi, al suo interno “non devono restare dubbi né sussistono spiegazioni che indeboliscano questo messaggio tanto chiaro […]. Occorre affermare senza giri di parole che esiste un vincolo inseparabile tra la nostra fede e i poveri”. In merito abbiamo abbondanti testimonianze lungo la storia quasi bimillenaria dei discepoli di Gesù».

Imprescindibile riferimento al concilio, a papa Giovanni e a Giacomo Lercaro

«Giovanni XXIII accese l’attenzione su di esso con parole indimenticabili: “La Chiesa si presenta quale è e quale vuole essere, come la Chiesa di tutti e particolarmente la Chiesa dei poveri”. Fu poi il grande lavoro di vescovi, teologi ed esperti preoccupati del rinnovamento della Chiesa a riorientare il Concilio…

Numerosi Padri conciliari, infatti, favorirono il consolidarsi della coscienza, ben espressa dal Cardinale Lercaro nel suo memorabile intervento del 6 dicembre 1962, che “il mistero di Cristo nella Chiesa è sempre stato ed è, ma oggi lo è particolarmente, il mistero di Cristo nei poveri” e che “non si tratta di qualunque tema, ma in un certo senso è l’unico tema di tutto il Vaticano II”.

L’Arcivescovo di Bologna, preparando il testo di questo intervento, annotava: “Questa è l’ora dei poveri, dei milioni di poveri che sono su tutta la terra, questa è l’ora del mistero della chiesa madre dei poveri, questa è l’ora del mistero di Cristo soprattutto nel povero”. Si prospettava così la necessità di una nuova forma ecclesiale, più semplice e sobria, coinvolgente l’intero popolo di Dio e la sua figura storica. Una Chiesa più simile al suo Signore che alle potenze mondane, tesa a stimolare in tutta l’umanità un impegno concreto per la soluzione del grande problema della povertà nel mondo» (Dilexi te, n. 84).

I poveri, una questione di famiglia

La lettera apostolica di papa Leone interpreta la povertà non come virtù o come azione, ma come elemento costitutivo dell’essere cristiano. Lo si evince già dall’intitolazione dei cinque capitoli che compongono l’opera: “Alcune parole indispensabili”; “Dio sceglie i poveri”; “Una chiesa per i poveri”; “Una storia che continua”; “Una sfida permanente”.

Quello del vangelo dei poveri, scrive papa Leone, «È un messaggio così chiaro, così diretto, così semplice ed eloquente che nessuna ermeneutica ecclesiale ha il diritto di relativizzarlo» (n. 31). E al n. 104 leggiamo «Il cristiano non può considerare i poveri solo come un problema sociale: essi sono una “questione familiare”. Sono dei nostri. Il rapporto con loro non può essere ridotto a un’attività o ad un officio della Chiesa».

Il povero è la carne di Cristo

Nell’esortazione del papa riemergono, in filigrana, espressioni significative di papa Francesco, che rivelano il loro sentire comune per i poveri, la necessità di lasciarsi evangelizzare da loro come “maestri di Vangelo”, “maestri silenziosi” (nn. 78; 198). Una di queste, che intreccia il loro magistero, è l’espressione ricorrente di Bergoglio che indica nei poveri “la carne di Cristo”: «Noi dobbiamo diventare cristiani coraggiosi e andare a cercare quelli che sono proprio la carne di Cristo, quelli che sono la carne di Cristo

Dio, il figlio di Dio, si è abbassato, si è fatto povero per camminare con noi sulla strada. E questa povertà è la nostra povertà: la povertà della carne di Cristo, la povertà che il Figlio di Dio ci ha donato con la sua incarnazione. Una Chiesa povera per i poveri comincia quando si va verso la carne di Cristo. Se noi andiamo verso la carne di Cristo, cominciamo a capire, capire che cosa è questa povertà, la povertà del Signore. E non è facile» (18 maggio 2013).

Ritroviamo questa icona testuale anche nell’esportazione di papa Leone: «Il Vangelo è annunciato solo quando spinge a toccare la carne degli ultimi… La tradizione cristiana di visitare i malati, lavare le loro ferite e confortare gli afflitti non si riduce semplicemente a un’opera di filantropia, ma è una azione ecclesiale attraverso la quale, nei malati, i membri della Chiesa toccano la carne sofferente di Cristo… In quanto è Corpo di Cristo, la Chiesa sente come propria ‘carne’ la vita dei poveri, i quali sono parte privilegiata del popolo in cammino. Per questo l’amore a coloro che sono poveri… è la garanzia evangelica di una Chiesa fedele al cuore di Dio» (nn. 48-49; 103).

La chiesa sente come propria la carne dei poveri

«È in loro, nei poveri, che Cristo continua a soffrire e risorgere. È in loro che la Chiesa ritrova la chiamata a mostrare la sua realtà più autentica» (n. 76). «La Chiesa, quindi, quando si china a prendersi cura dei poveri, assume la sua postura più elevata» (n. 79).

«In quanto è Corpo di Cristo, la Chiesa sente come propria ‘carne’ la vita dei poveri, i quali sono parte privilegiata del popolo in cammino… per questo l’amore a coloro che sono poveri è la garanzia evangelica di una Chiesa fedele al cuore di Dio» (n. 103). E quasi riprendendo parole di Francesco scrive: «La realtà è che i poveri per i cristiani non sono una categoria sociologica, ma la stessa carne di Cristo… carne che ha fame, che ha sete, che è malata, carcerata» (n.110).

La città nuova principia impastando, come i piccoli, sabbia e sogni inarrivabili

Dorothy Day aveva buoni ricordi del nostro paese. Aveva letto e apprezzato le storie degli infelici scritte da Silone, e il Cristo s’è fermato a Eboli di Carlo Levi. Nell’ottobre 1967 Dorothy Day ritornò per la terza volta in Italia, in occasione del Congresso internazionale dei laici a Roma e si incontrò con un altro costruttore di comunità, Danilo Dolci.

Se l’occhio non si esercita, non vede,
se la pelle non tocca, non sa,
se l’uomo non immagina, si spegne.
Quasi ho pudore a scrivere poesia
come fosse un lusso proibito
ormai, alla mia vita…
Nel mio bisogno di poesia, gli uomini,
la terra, l’acqua, sono diventati
le mie parole…
Non contrapporre la città terrestre
alla città del cielo.
Profeti hanno sognato la città
e moltitudini non hanno inteso:
non è sopra le nuvole,
è una città di terra che respira.
La costruisce chi la sa sognare
pur col cuore gonfio di fatica
fin che il miraggio, elaborato in pochi
prima, a ognuno divenga necessario
respiro –
chi ne genera
un embrione – con gli altri concepiti
qui e là per il mondo – radicato
a un suolo.
La città nuova inizia
dove un bambino impara a costruire
provando a impastare sabbia
e sogni inarrivabili.
(https://nido.treccani.it/2024/10/24/poesia-danilo-dolci-tra-realta-e-utopia/)

Cover: Foto di <a href=”https://pixabay.com/it/users/kantsmith-3450568/?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=1717192″>Kant Smith</a> da <a href=”https://pixabay.com/it//?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=1717192″>Pixabay</a>

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Schadenfreude alla vaccinara. A proposito di rosiconi

Schadenfreude alla vaccinara. A proposito di rosiconi.

Dopo aver ascoltato “l’alto discorso da statista” della Presidente Meloni alla Festa di Atreju e dopo aver letto il garbato ”telegramma di condoglianze” dettato dal Presidente Trump per la morte violenta del regista Robert Reiner, mi sono ricordato di un “vecchio” articolo del nostro compianto Gillo Dorfles a proposito della gioia maligna per il male altrui.

[NdA: Benedetta sia la tanto bistrattata Intelligenza Artificiale almeno per quel suo effetto lenitivo e guaritore da farmaco in grado di alleviare i nostri vani sforzi mnemonici o sostenere la nostra imperizia nelle ricerche di fonti e citazioni autentiche e certificate].

In un batter d’occhio sono riuscito a recuperare l’articolo di Dorfles comparso sul Corriere della Sera del 10/5/1998 con il titolo: Da Mozart a Ronaldo: tutti vittime di una gioia maligna.
Qui il nostro amato Professore di Estetica si domandava come mai, in italiano, non esistesse una parola apposita per quella forma di gioia maligna, per la quale invece tanto il russo (zloradstvo) che il tedesco (Schadenfreude) possedevano un termine esatto.

Forse perché da noi questo sentimento è poco diffuso?

Allora leggete qua ( TESTUALE):

“La segretaria del Pd, Elly SHHHHLEIN con il suo nannimorettiano «mi si nota di più se vengo e sto in disparte o se non vengo PE’GNENT’» ha comunque fatto PARLA’ DE noi. Chi scappa dimostra di non avere contenuti”…

”Parlano male di Atreju ed è l’edizione migliore di sempre, parlano male del governo e il governo sale nei sondaggi…Hanno tentato di boicottare una casa editrice ed è diventata famosissima. Si portano sfiga da soli, che manco QUANNO TE capita la carta della pagoda al Mercante in fiera. E allora grazie a tutti quelli che hanno fatto le macumbe rendendo questa edizione di Atreju la più intensa e partecipata di sempre”

Ovviamente il tono era carico come sempre; simile, per capirci, a quello che la Meloni contesta a Landini il quale “… ALZA I TONI perché non ha argomenti validi oppure perché ha verità incontestabili da nascondere” (ipse dixit!).

C’è poi tutto una parte dell’intervento concentrato sui cosiddetti rosiconi che, ahi loro, poi alla fine se la sono cercata e meritata… la fine. Proprio come ha detto con un sottile giro di parole il riferimento politico, strategico e umano della nostra Premier, il Presidente Trump, a proposito di quel rosicone (sore loser) di Robert Reiner.

A me ‘STA parola “rosicone”…ODDIO ME STO  A MELONIZZA’! Scusate.

Dicevo: a me questa parola rosicone, mi ha fatto riflettere su quanto sia diffuso il sentimento di cui parlava Dorfles, nel nostro Paese. E oggi più che mai. Per esempio basterebbe riproporre il suo “vecchio” articolo con questa lieve modifica: Da Sinner a Venezi: tutti vittime di una gioia maligna. Et voilà.

Come diceva Dorfles anche io credo che tutti i nostri compatrioti siano pronti a gioire delle piccole disavventure, dello scarso successo o delle mosse sbagliate del prossimo.

Sicché la presenza di un termine ad hoc sarebbe davvero auspicabile e rosicone, seppure di connotazione prettamente romanesca, potrebbe essere la variante – alla vaccinara – all’altezza del nobile Schadenfreude tedesco.

Ma forse la vera ragione della mancanza, in italiano di un tale termine, è dovuta a questa “semplice”  ragione: “…l’Italia non ha di solito il «coraggio della propria malignità» come hanno tanti altri popoli , appunto il tedesco e il russo, che hanno coniato  vocaboli appositi” [G.Dorfles].

Dove quindi risiede l’essenza di alcuni nostri comportamenti del tutto normali (da una parte politica e dall’altra) e per di più ubiqui, dalle Alpi all’Etna?
Perché esultiamo intimamente se una macchina viene trattenuta più della nostra a una barriera autostradale,
oppure assistiamo con compiacimento al poveretto che insegue l’autobus appena partito dalla fermata
o, ancora, gufiamo per quella squadra o un’altra e godiamo della sua sconfitta?

Dorfles conclude dicendo che si tratta “..senz’altro di un atteggiamento etico: non basta desiderare il male purché vada a scapito proprio e non a quello di un altro prossimo…”. È questa mancanza di coraggio a farci scaricare la gioia maligna sul più antipatico dei nostri competitori (se non sul più temuto).

Ed è questa mancanza di coraggio della propria malignità ad impedirci di concepire, nella nostra lingua, una parola come Schadenfreude e a chiedere di accontentarsi del rosicone della nostra Premier e del suo riferimento umano, strategico e politico.

Cosicché ci sarà sempre il dio di un altro, la patria di un altro, la famiglia di un altro a… DOVE’ ROSICA’!

immagine di copertina: pagina Facebook Rosicone

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Antonio Giolitti e la Patrimoniale del 1963

Antonio Giolitti e la Patrimoniale del 1963 

E’ il 1963. L’Italia è in pieno boom economico.
I salari reali (cioè dopo l’inflazione) sono cresciuti negli ultimi 15 anni ad una media annua del 5%. Cosa mai vista nella storia, che si ripeterà solo nel quinquennio 1969-74 e poi mai più, come sa chi lavora.
Nel ’62 c’è stato anche il primo grande rinnovo dei contratti nazionali e l’aumento dei salari reali sarà nel 1963 addirittura dell’11%, anche perché il PSI è entrato al governo con la DC e c’è il primo governo di centro-sinistra dell’Italia.

Troppo per gli imprenditori che vedono erosi i margini di profitto quasi a zero. Insieme alla destre (fuori e dentro il Governo) e con la complicità della “neutra” Banca d’Italia e di ¾ della stampa (di loro proprietà, più o meno come oggi), lanciano l’allarme rosso: i salari devono essere bloccati. Come? Con una deflazione: ridurre la liquidità monetaria, alzare i tassi di interesse e così bloccare l’ascesa dei salari. Tutti d’accordo anche nel governo tranne il ministro del bilancio, il socialista Antonio Giolitti.

Sentiamo cosa dice: “Il Psi considera i problemi economici emersi nel 1963 come il frutto di una dinamica non semplicemente congiunturale, ma di pecche strutturali dello sviluppo italiano, che investono la natura stessa dello Stato repubblicano e che vanno perciò affrontati con un programma di riforme di ampia portata. Una politica dei redditi richiede una serie di pre-condizioni, cioè impegni del governo atti ad assicurare ai lavoratori miglioramenti nelle condizioni di vita e di lavoro, in termini di redditi reali, di dotazioni civili (scuole, abitazioni, trasporti pubblici, ospedali, ecc.), di sicurezza sociale e un effettivo controllo da parte del governo su profitti e redditi non salariali, tra cui una patrimoniale sui grandi patrimoni. Solo dopo la realizzazione di queste condizioni si potrà realizzare una concreta politica dei redditi”.

Il tentativo socialista di avviare uno scambio di tipo “corporatista” tra moderazione salariale e riforme sociali fu immediatamente silurato. Il governo cade e Giolitti dà le dimissioni nel nuovo governo (sempre DC-PSI), dicendosi indisponibile a fare da «beccamorto» al suo piano.

Anche la Cgil col suo segretario Vittorio Foa poneva la questione del superamento del modello mercantilista in favore di uno sviluppo fondato sui consumi interni. Il tentativo di perpetuare il modello di crescita fondato su bassi salari e alte esportazioni sarebbe stato non solo ingiusto nei confronti dei lavoratori, ma anche sbagliato dal punto di vista dell’interesse generale: “è bene non farsi troppe illusioni sul perdurare d’un volume di esportazioni ad alto livello. È evidente che quando gli sbocchi all’estero diminuissero, il solo fattore di sostegno per l’industria italiana sarebbe la domanda interna. In queste condizioni pensare ad una tregua salariale, ad un contenimento cioè del potere di acquisto delle masse dei consumatori, è un errore di estrema gravità. C’è bisogno esattamente del contrario”.

Giulio Pastore che faceva parte del Governo (già fondatore della Cisl), aveva espresso il suo disaccordo sul destino degli 80 miliardi di maggiori entrate fiscali, arrivati grazie all’accelerazione dei consumi e al contenimento del disavanzo, proponendo di utilizzarli per soddisfare le richieste di miglioramenti economici avanzate da diverse categorie di impiegati statali, piuttosto che per una riduzione del disavanzo e criticò l’allarmismo nella valutazione degli aspetti congiunturali.

La Uil assunse una posizione attendista, salvo poi spaccarsi tra la componente socialista da una parte e socialdemocratici e repubblicani dall’altra, mentre la Cgil criticò senza remore le misure del governo, che tendevano a «redistribuire il carico fiscale a sfavore delle masse lavoratrici e popolari, colpendo indiscriminatamente i consumi». Secondo la Cgil, le risorse per il finanziamento delle riforme avrebbero dovuto venire da una patrimoniale sulla rendita e il plusvalore fondiario e dalla limitazione delle esenzioni, legali e di fatto, di cui godevano le classi più agiate.

La deflazione ridusse i salari, ma covava il ’68 che li rilanciò dal 1969 al ’74. Poi la vera deflazione arrivò e da allora i salari non sono più cresciuti.
Cambiano i tempi ma le questioni (irrisolte) rimangono. Qualcuna dice però che il Paese va bene.

Cover: Antonio Giolitti – immagine dell’Istituto Affari Internazionali

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L’OMBRA DENTRO
Il primo romanzo di Elena Buccoliero arriva alla Biblioteca Popolare Giardino

L’OMBRA DENTRO. Il primo romanzo di Elena Buccoliero arriva alla Biblioteca Popolare Giardino

Amo molto i romanzi nei quali la città in cui si aggirano i personaggi e si svolgono le vicende si fa protagonista. Tra le strade e i palazzi di Ferrara si muove la complessa storia che Elena Buccoliero racconta e affronta nel suo primo romanzo: L’ombra dentro. Racconta, intrecciando sapientemente le matasse dei fili intricati di un omicidio inspiegabile con dietro l’ombra di un suicidio sospetto. Affronta, svelando meccanismi complessi e non sempre trasparenti di una giustizia che cela talvolta scomode quanto necessarie verità.

Ed è dalla città che voglio cominciare, perché essa si rivela, al primo apparire del commissario protagonista dell’indagine principale, lungo “i ciottoli lucidi dopo la pioggia di quella che”, si sa, “è una delle strade più belle d’Europa”, precisamente nello slargo in prossimità della Porta degli Angeli, a pochi metri dalla quale si trova lo studio di un famoso avvocato morto durante la notte.

Delle ambientazioni che Elena Buccoliero presenta a far da cornice alle vicende mi piace il riferimento a siti e ambienti alcuni riconoscibilissimi, come la via del tribunale con i bar frequentati da avvocati e praticanti o le vie strette piene di negozi del centro storico, altri indicati con ‘nomi d’arte’, mi pare, come ad esempio il Blue Moon, un pub fuori città che compare nel secondo capitolo, o un “baretto che niente aveva a che vedere con l’ambiente del tribunale, uno spazio informale a un passo dalle mura gestito da una cooperativa di giovani.”

Luoghi cari, io credo, ai sicuri e possibili lettori nonché amici di Elena (me compresa), come il multisala in cui si rifugia il commissario protagonista “in serate come quella, quando aveva bisogno di stare solo ma in compagnia, o come la piccola galleria d’arte che ben conosceva…che consisteva in due stanze proprio di fronte al multisala” gestita da “una coppia di artisti che lui apprezzava per come coniugavano creatività e rispetto, affidabilità e discrezione” che troviamo nel capitolo 18.

Elena sa poi delineare con taglio quasi affettuoso quelli che sono, per i suoi personaggi, ma anche per chi legge, luoghi speciali, come Sant’Antonio in Polesine, definito dal coprotagonista ispettore di polizia “uno dei luoghi più romantici della città…le vie strette, ciottolate e pressoché deserte…la porta di pietra con la scultura del santo col porcellino…il cortile di un piccolo monastero di clausura…il ciliegio giapponese”.

E sa intrecciare anche riflessioni e osservazioni di carattere urbanistico-sociologico quando ci porta, con la narrazione, in zone periferiche, come il “quartiere nato da una combinazione di povertà, immigrazione e piccola delinquenza e perciò soprannominato “Bronx” in tempi ormai andati…” e le riflessioni sono affidate al commissario protagonista: “l’insicurezza di certi quartieri è una condanna già scritta nel modo in cui vengono progettati e vagheggiò un mondo dove ingegneri e architetti discutono i loro piani con le forze di polizia e le maestre del rione, ma in fondo erano pensieri oziosi, il lusso di un commissario di provincia”.

Ed è ora di passare ai personaggi principali che, oltre alla vicenda investigativa complessa e articolata che ovviamente non svelo, mi hanno colpita particolarmente. Sebastiano Bellabarba è il commissario, Stefano Storti è l’ispettore, suo amico e a tratti confidente. Elena ha delineato due personalità ricche e attraenti.

In particolare Sebastiano, poliziotto e psicologo, che sapeva che “stare nella pelle degli altri era uno dei suoi pochi talenti investigativi… Il sottotetto in affitto dove abitava da solo nel cuore della zona ebraica, per quanto caotico, corrispondeva assai meglio” – rispetto alla zona residenziale della sua famiglia – “al suo bisogno di libertà”.

Sebastiano si mostra preciso e controllato, mai soddisfatto dei primi e più prevedibili risultati dell’indagine; poco alla volta rivela la sua complessità interiore che molto abilmente Elena dipinge, nei momenti in cui Sebastiano è ‘solo con se stesso’, come un affollato e rumoroso condominio interiore abitato da coinquilini caciarosi e interessanti che rappresentano le molte facce della sua personalità: l’accusatore e il difensore, l’aspirante psicologo, l’innamorato, il mediatore, il vanitoso, il disincantato.

Stefano era “il suo compagno di sempre. Fisicamente non potevano essere più diversi. Il commissario era scuro di capelli e di occhi, olivastro di carnagione; l’ispettore invece era un biondastro, i capelli chiari e corti e gli occhi nocciola. Avevano studiato insieme, dalla terza media alla scuola di polizia, con l’intermezzo dell’università in cui avevano scelto strade diverse, lui psicologia, Stefano giurisprudenza, senza interrompere gli allenamenti, le ferrate in montagna, le cantate… ” Stefano è gay, ma solo Sebastiano lo sa, nell’ambiente della questura.

Un posto d’onore, come è d’obbligo in un giallo contemporaneo, occupa la musica. A partire dall’incipit, che riporta un verso di Lindberg, brano che a tratti ritornerà, di Ivano Fossati, con l’apice in un passo conclusivo di una lettera chiarificatrice, in chiusura quasi del romanzo, di un’altra coprotagonista di rilievo: “Come canta il nostro poeta, la voglio fare tutta questa strada, fino al punto esatto in cui si spegne”.

O anche Biancaluna di Gianmaria Testa, “un altro poeta intimo, non abbastanza conosciuto in Italia, che invece Sebastiano amava”. Fino a una curiosa playlist che Sebastiano e Stefano intonano una sera, nel terrazzino del commissario, sui tetti, dopo una scorpacciata di “salame all’aglio, prosciutto, coppie di pane, ciccioli, il tutto accompagnato da una buona bottiglia di clinto, una bevanda fuorilegge che non si poteva propriamente chiamare vino ma lo ricordava tanto. Dr Dobermann per l’avvocato Pennoncini; Pensiero stupendo dedicata alla moglie dell’avvocato; Quello che le donne non dicono all’enigmatica Micaela Bottoni; Cammina cammina al desolante Alfio Zappaterra; Lunaspina alla devota Maria Grazia Benetti; Il mio nemico all’odioso dottor Finelli”.

La vicenda, come dicevo, è complessa e molto articolata e tocca temi e aspetti di vita difficili, potenti, dolorosi. Quello che mi ha colpito particolarmente è la capacità dell’autrice di creare situazioni, a partire dal crimine che dà il via alla storia, che hanno a che fare con terribili episodi di violenze, in famiglia e fuori, di gestione della giustizia in modo apparentemente legale, ma con risultati spesso profondamente ingiusti, soprattutto per soggetti deboli, bambini, donne, ragazzi poco più che adolescenti.

Mi pare riuscita la scelta di delimitare la durata della storia all’interno di una settimana, da lunedì 18 febbraio 2019 a domenica 24 febbraio 2019, con una struttura narrativa particolarmente efficace, scandita in capitoli brevi, in cui chi legge si orienta agevolmente e riesce a cogliere i molti riferimenti e richiami ai fatti, sia quelli più palesemente vicini e legati, che quelli più lontani ma con indubbi collegamenti col presente della vicenda.

Di questo e di molto altro ancora:

sabato 20 dicembre dalle 17,30
Letizia Modena, della Vanderbilt University, Nashville, Tennessee ed io parleremo con Elena Buccoliero

Bibilografia:

  • Elena Buccoliero, L’ombra dentro, SEM Editore 2025

Cover: https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/ (foto di Beniamino Marino)

Per leggere gli articoli di Maria Calabrese su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

Parole a capo
Lidia Calzolari: alcune poesie da « L’amore non è mai stupido»

Parole a capo <br> Lidia Calzolari: alcune poesie da « L’amore non è mai stupido»

«Tutti dicono che l’amore fa male, ma non è vero. La solitudine fa male. Il rifiuto fa male. Perdere qualcuno fa male. Tutti confondono queste cose con l’amore, ma in realtà, l’amore è l’unica cosa in questo mondo che copre tutto il dolore e ci fa sentire meravigliosi»
(Oscar Wilde)

 

Questa settimana propongo alcune poesie di Lidia Calzolari. Sono parole, versi che ti fanno entrare in contatto senza preamboli. Nella prefazione a “L’amore non è mai stupido” (Bertoni Editore, maggio 2025), il poeta Franco Mosca conclude la sua riflessione scrivendo che «i suoi versi scorrono attraverso paragoni e similitudini legati ad una vita quotidiana vissuta e percepita con una sensibilità personale che coglie aspetti reconditi, spesso al di fuori del comune sentire. Si tratta di versi del tutto diversi e inusuali, soprattutto rispetto alla poesia “colta”, “aulica” di tanti poeti conclamati, ma proprio per questo essi risultano unici e nuovi, con una carica di pathos e una capacità di coinvolgimento molto rara anche nella poesia post-novecentesca, spesso troppo cerebrale e ricercata».

Stupidità

Si avvicina invece
alla follia il mio sentire
a ciò che altri chiamano
stupidità
il sorriso che non trattengo
mentre ti guardo.

*

Il potere della neve

Voglio amarti
mentre nevica.
Rimestare i corpi
di granite al vino rosso
Rimboccare il nostro igloo
di anima e lenzuola di flanella
Voglio essere neve
lasciare ondivago il mio sguardo
stravolta da una valanga
infine
stranire.
Fiocchi i miei occhi.
Ogni luogo è il tuo corpo
e io me lo rammento
premo piano
sul bianco che scricchiola
arriverò.

 

*

 

In fondo

 

In fondo basta
solo prendersi cura
di noi degli altri
di chi ha sbagliato
di chi ha capito
di chi non ha raccontato
di chi ha raccolto
di chi ha seminato
di chi è inciampato.
In fondo basta
solo prendersi cura
con pazienza
trattenere quel respiro
d’amore
per noi
fino in fondo.

 

*

 

Credo

 

Credo di amarti da sempre
sì lo credo
Rido troppo quando
sono con te
Rido di me bambina
di me cretina
di me vecchietta.
Sì credo di amarti da sempre
di un amore che senza argini
è esploso in mare.

E io lo amo il mare.

 

*

 

La verità

 

Solo amore
il più possibile vero
per quel che riesco.

 

Lidia Calzolari (Bondeno – FE, 1969). Svolge  il lavoro di insegnante comunale per l’integrazione scolastica e sociale di persone disabili. Diplomata anche come consulente famigliare e coniugale e formatrice metodo caviardage di scrittura poetica creativa. Ha partecipato a diversi concorsi di poesia nella provincia di Ferrara e dintorni. Ha organizzato e partecipato a numerosi readings di poesia.
Ama la poesia come espressione umanizzante delle emozioni e dei vissuti. Incantata e innamorata del suono o dell’etimologia delle parole, si ritiene più un’artigiana apprendista. Su “Parole a capo” sono state pubblicate più volte poesie di Lidia Calzolari. Ne segnaliamo alcune: il 10 giugno 2021; il 20 marzo e il 9 maggio 2024; il 4 dicembre 2025. Da segnalare il progetto/evento PUSH – UP che ha coinvolto sei artiste tra fotografia, scultura, mandala, arti visive, poesia, pittura e installazioni in ferro e materiali di recupero, realizzazione di un video. Per maggiori informazioni rimando all’articolo su “Parole a capo” in Periscopio online dell’11 settembre 2023.

“Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”.

Per rafforzare il sostegno al progetto, invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236
La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su PeriscopioQuesto che leggete è il 316° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

A Ravenna i manifestanti contro le armi a Israele rischiano 2 anni di carcere.
Firma la Petizione

A Ravenna i manifestanti contro le armi a Israele rischiano 2 anni di carcere

di Fulvio Zappatore

Hanno bloccato l’accesso al porto per due ore per protestare contro l’invio di armi e merci dirette a Israele e ora rischiano fino a due anni di carcere per il reato di “blocco stradale”. È l’effetto della stretta voluta dal Governo con il Decreto Sicurezza, che ora colpisce anche gli attivisti di Ravenna che lo scorso 28 novembre si erano ritrovati nei pressi dello scalo cittadino per manifestare “contro la fina

nziaria di guerra del governo Meloni”.

«Un nutrito gruppo di manifestanti – si legge nel comunicato della Polizia – dopo essersi radunato presso il TCR per contestare il transito delle navi dirette a Israele, ha occupato la sede stradale, bloccando per circa due ore l’accesso al Terminal e impedendo ai mezzi pesanti di entrare e uscire per completare le attività di carico e scarico della merce, causando problemi all’ordinaria circolazione». Il risultato è che 32 persone sono state denunciate.

Il reato di blocco stradale è stato reintrodotto dal Decreto Sicurezza lo scorso 5 giugno e prevede una pena fino a 30 giorni di carcere per chiunque, agendo singolarmente, ostacoli anche in maniera pacifica la circolazione o il transito dei mezzi. La condanna diventa invece molto più severa per chi agisce in gruppo, con una multa fino a 4.000 euro e la detenzione da sei mesi a due anni.

Una norma che ha immediatamente suscitato polemiche e critiche da parte di associazioni, sindacati e forze politiche di opposizione, che denunciano un restringimento degli spazi di dissenso e una criminalizzazione delle forme di protesta non violenta. Secondo gli attivisti, l’iniziativa di Ravenna aveva l’obiettivo di richiamare l’attenzione sull’utilizzo dei porti italiani per il transito di materiali bellici e sul coinvolgimento dell’Italia nei conflitti internazionali.

Il tema era tornato al centro del dibattito cittadino in occasione della manifestazione del 17 settembre scorso, quando migliaia di persone avevano partecipato a un grande corteo con lo slogan «La città si ribella, basta armi a Israele». Una mobilitazione ampia e trasversale, che aveva visto insieme portuali, studenti, associazioni pacifiste, realtà sindacali e cittadini, uniti dalla richiesta di fermare il transito di carichi militari attraverso lo scalo ravennate. Una protesta che, secondo gli organizzatori, aveva dimostrato come l’opposizione all’uso del porto per fini bellici fosse condivisa e diffusa nella città. Un concetto ribadito anche dopo le denunce, in un comunicato diffuso dagli attivisti, in cui si respinge ogni tentativo di individuare singoli responsabili: «A bloccare il container il 28 novembre c’eravamo tutti e tutte», si legge nel testo, che rivendica il carattere collettivo dell’azione.

Le denunce, quindi, non riguardano soltanto le 32 persone coinvolte, ma sembrano inserirsi in un contesto più ampio che potrebbe avere effetti sull’intero movimento che a Ravenna, e in tutta Italia, continua a mobilitarsi contro la guerra, il traffico di armi e a sostegno del diritto di manifestare. Una vertenza che, nata attorno al porto, rischia ora di trovare un prolungamento soprattutto nelle aule dei tribunali.

Fulvio Zappatore
Nato a Cesena nel 1984, muove i primi passi nel giornalismo scrivendo articoli per la stampa locale. Dopo la laurea in Storia contemporanea diventa professionista e inizia a dedicarsi anche al giornalismo televisivo. Collabora a L’Indipendente come corrispondente dall’Emilia-Romagna.

Firma la Petizione di solidarietà ai 32 attivisti denunciati a Ravenna
https://c.org/F69KpjjSm7

Cover: Manifestazione contro le armi a Israele, blocco del porto di Ravenna 28 novembre 2025 – foto L’Indipendente

I forti ritardi dei territori italiani sull’Agenda 2030

I forti ritardi dei territori italiani sull’Agenda 2030

I forti ritardi dei territori italiani sull’Agenda 2030

Tra il 2010 e il 2024 le disuguaglianze tra le Regioni italiane in termini di sviluppo sostenibile aumentano o non si riducono, a fronte di una tendenza generale insoddisfacente, che vede oggi il nostro Paese in una posizione simile, se non peggiore, a quella del 2010 per 10 obiettivi sui 17 dell’Agenda 2030.
Dei 14 Goal di sviluppo sostenibile analizzabili a livello territoriale, solo per l’economia circolare (G12) si evidenziano miglioramenti diffusi (18 Regioni e Province Autonome su 21), mentre in quasi tutti i territori si ha un peggioramento per povertà (G1), risorse idriche (G6), disuguaglianze (G10), qualità degli ecosistemi terrestri (G15) e giustizia e istituzioni (G16).

Scendendo a livello di obiettivi quantitativi specifici, in 11 Regioni/Province Autonome gli obiettivi raggiungibili entro il 2030 sono meno di un terzo e dieci Regioni si stanno allontanando da più del 30% degli obiettivi.

Guardando alle Città metropolitane, la situazione migliore si registra a Torino, Milano, Bologna e Firenze (città che sembrano in grado di raggiungere almeno il 43% degli obiettivi), mentre molte altre registrano andamenti negativi o progressi insufficienti per almeno il 50% degli obiettivi, con Venezia, Napoli e Reggio Calabria che mostrano andamenti negativi o insufficienti per oltre il 70% (dieci obiettivi su quattordici).

È quanto emerge dal Sesto Rapporto “I Territori e gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile. Obiettivi globali, soluzioni locali dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS).


Ciò che risulta dal Rapporto è estremamente preoccupante: si confermano le storiche distanze tra Nord e Sud, ma emergono nuove disuguaglianze anche all’interno delle singole aree, con interessanti segnali di dinamicità in alcune regioni meridionali e arretramenti in zone settentrionali. Tra le realtà più avanzate figurano la Provincia Autonoma di Trento, la Valle d’Aosta, la Liguria e l’Umbria, per le quali appare realistico il conseguimento di circa il 43% degli obiettivi considerati.

In primo luogo, si conferma la presenza delle disuguaglianze Nord-Sud: povertà (G1), acqua (G6), qualità degli ecosistemi terrestri (G15) e giustizia e istituzioni (G16) mostrano un peggioramento in gran parte del Paese; mentre il Nord-Ovest e il Nord-Est registrano miglioramenti significativi nell’istruzione (G4), a fronte di una sostanziale stabilità nelle altre aree. Allo stesso tempo, per alcuni Goal un numero significativo di Regioni del Mezzogiorno mostra livelli vicini o superiori alla media nazionale – energia (G7), economia circolare (G12), vita sulla terra (G15) e giustizia e istituzioni (G16), segnalando la presenza di esperienze positive anche nelle aree considerate più fragili.

A pochi mesi dalla conclusione del PNRR, l’ASviS evidenzia ritardi significativi, ma anche la politica di coesione 2021-2027 procede lentamente. Blocchi e ritardi si registrano anche nelle politiche di adattamento climatico e nella prevenzione del dissesto idrogeologico, con interventi che procedono in modo non uniforme e spesso senza un adeguato coordinamento tra i diversi livelli istituzionali, in particolare tra ministeri e i livelli di governo territoriali.

L’ASviS propone in primo luogo di rafforzare le capacità amministrative e progettuali, semplificare i sistemi di finanziamento, adottare indicatori di risultato chiari e favorire la collaborazione tra Stato ed enti locali. L’Alleanza richiama inoltre la necessità di rafforzare i sistemi di monitoraggio e valutazione delle politiche territoriali, adottando indicatori chiari e misurabili per verificarne l’efficacia.

Particolare attenzione va riservata alle aree montane e interne, con incentivi per il lavoro, la residenzialità e il recupero del patrimonio edilizio, sostenendo il “neopopolamento” di giovani e nuove famiglie.

Per le città, ASviS sottolinea la centralità di una rigenerazione delle periferie basata su pianificazione metropolitana, reti ecologiche e governance multilivello, sostenuta da una legge quadro nazionale sul governo del territorio, dal rilancio del Comitato Interministeriale per le Politiche Urbane (CIPU) per la diffusione delle Agende urbane di sviluppo sostenibile.
Va predisposto quanto prima il Piano per l’attuazione della Nature Restoration Law (NRL) europea, la quale impone di preservare e incrementare gli spazi verdi urbani, favorendo la biodiversità e i servizi ecosistemici. Infine, l’ASviS sollecita nuove politiche abitative per contrastare la “gentrificazione” e garantire equità sociale, con fondi stabili per affitti, incremento dell’edilizia residenziale pubblica, sostegno agli studenti e alle studentesse e strumenti per rendere gli immobili abbandonati risorsa per la comunità.

Nel Rapporto è presente una selezione di 30 buone pratiche ispirate all’Agenda 2030, scelte tra le oltre 220 candidature (con un incremento dell’80% rispetto al 2024) valutate positivamente dalla Commissione di valutazione ASviS, alle quali è stato consegnato l’attestato “Buona pratica territoriale per un’Italia più sostenibile – 2025”. Questa crescita dimostra come la transizione sostenibile possa partire dai territori e tradursi in risultati concreti.

Le iniziative – che offrono un repertorio di soluzioni replicabili – spaziano dalla rigenerazione dei borghi e dei centri storici al recupero dei terreni agricoli abbandonati, da modelli di economia circolare territorializzata alla gestione partecipata dei beni comuni, fino a progetti di mobilità sostenibile e servizi di prossimità nelle aree interne. Le iniziative sono state realizzate da Fondazioni, Comuni, enti del terzo settore e aziende, molto spesso lavorando in partnership e in rete.

Articolo uscito su pressenza il 14 dicembre 2025

Per leggere tutti gli articoli di Giovanni Caprio su Periscopio, clicca sul nome dell’autore

Le voci da dentro / Un Giubileo “oltre le grate”

Domenica 14 dicembre il Pontefice, in occasione della messa tenuta nella Basilica di San Pietro per il Giubileo dei detenuti, dopo aver fatto riferimento ai tanti problemi presenti nelle carceri italiane, ha chiesto con forza “forme di amnistia o di condono della pena”.
Il giornalista Diego Andreatta ha scritto un articolo interessante sul Giubileo dei detenuti e, gentilmente, lo ha messo a disposizione anche della nostra rubrica. Ringraziandolo di cuore, lo diffondo volentieri.
(Mauro Presini)

 

Un Giubileo che è passato “oltre le grate”

di Diego Andreatta

Fra le celebrazioni giubilari quella di ieri dedicata al mondo carcerario è risultata per tanti aspetti inedita. A stare dentro la basilica di San Pietro si percepiva – fin dal silenzio d’attesa per l’ingresso del Papa – una presenza forte anche se in gran parte invisibile: quella dei primi protagonisti, i detenuti e le detenute. Oltre a delegazioni dalle carceri italiane ed estere, gli assenti in quanto reclusi erano comunque presenti nella comunione ecclesiale ma soprattutto nel raccoglimento dei loro familiari venuti da lontano, nell’amicizia dei volontari riuniti attorno al loro cappellano, nell’espressione “liberata” dell’ex detenuto che si è dato appuntamento con quanti ha conosciuto “dentro”.

E poi i volti di operatori pastorali provenienti da Paesi in cui la reclusione non rispetta diritti elementari, con tante storie che rigavano di sofferenza pure la domenica d’Avvento ispirata alla gioia e alla figura del “carcerato” Giovanni Battista.
Papa Leone XIV, nell’esprimere fiducia e incoraggiamento, ha voluto anche elencare con realismo i tanti problemi di questo “ambiente difficile” dai “tanti ostacoli”, riconoscendo che “molto resta ancora da fare”, come hanno confermato anche alcuni tragici fatti di cronaca in questi ultimi giorni.
Ponendosi dalla parte dei detenuti ha ricordato  “l’ancora della speranza” lanciata loro  a Rebibbia un anno fa da papa Francesco in apertura del Giubileo e ha rinnovato ai governi l’urgenza di “forme di amnistia e di condono” al termine di questo Anno di grazia.

In alcune case circondariali dove i detenuti hanno potuto seguire in TV il messaggio del Papa quest’appello è stato applaudito così come le tre affermazioni scandite al centro dell’omelia: “Da ogni caduta ci si deve poter rialzare, nessun essere umano coincide con ciò che ha fatto e la giustizia è sempre un processo di riparazione e di riconciliazione”.

Nel programma giubilare è seguita sempre ieri a Roma nel primo pomeriggio – a poche centinaia di metri, sul palco dell’auditorium di via della Conciliazione – una proposta artistica di forte impatto che ha dato indirettamente voce ai detenuti che avevano vissuto il Giubileo “Oltre le grate”.  Proprio così si intitola lo spettacolo allestito da una quarantina di giovani della compagnia d’ispirazione salesiana CGS Life di Biancavilla (Catania) – che ha condensato in intensi dialoghi e vivaci brani musicali i migliori spunti della corrispondenza epistolare fra carcerati italiani e suor Cristiana Scandura.
La clarissa di Biancavilla, nota per il suo impegno, ha collaborato a questo progetto di sensibilizzazione artistica fornendo con i testi delle lettere non solo i vissuti di ansia, frustrazione e rassegnazione di tanti detenuti, ma anche quei “gesti, progetti e incontri unici nella loro umanità” maturati dentro le mura del carcere, come aveva detto Leone XIV nell’omelia.

Con i ritmi e alcuni cliché del genere musical – compresa l’iniziale citazione di “Sister Act” e alcune caricature un po’ stereotipate – questo lavoro collettivo a trazione giovanile è riuscito a far girare la ruota dell’attenzione anche oltre le grate – quelle del convento e quelle del carcere – nel tentativo di diradare la coltre dell’indifferenza. Per questo lo spettacolo merita ulteriori repliche, anche negli ambienti carcerari e soprattutto nelle comunità che non sono ancora stimolate a capire cosa si soffre e si sogna oltre le grate.

Per leggere le altre uscite di Le Voci da Dentro clicca sul nome della rubrica.
Per leggere invece tutti gli articoli di Mauro Presini su Periscopio, clicca sul nome dell’autore

Parole e figure / Canto d’inverno – Strenne natalizie

Uscito da poco in libreria, ‘Canto d’inverno’, di Giorgio Volpe, con le delicate e leggere illustrazioni di Paolo Proietti, ci porta nella magia del Natale.

A Natale si aspetta la neve, quella che ormai non ci rallegra quasi più, se non sulle alte e possenti cime. Quel bianco ci fa sognare, piccoli e grandi, ci rasserena gli animi un poco stanchi che cercano riparo fra caminetti e tavole imbandite. Che nostalgia!

Se poi al bianco della neve che ricopre ogni cosa con una soffice coltre, si aggiunge la magia del bosco, il gioco è fatto.

Ecco allora la storia di Rosso Bel Pelo e Bas che, nel bosco addormentato, trascorrono le giornate rincorrendosi sulla neve. Raccolgono bacche e ramoscelli per colorare l’inverno, ma il pensiero corre sempre a Quik, il loro amico ghiro, immerso nel suo lungo letargo.

Solo arbusti, tronchi scuri e qualche ramo spoglio interrompono quella distesa immacolata.

Rosso Bel Pelo e Bas si rotolano nella neve fresca, cadono e si rialzano, sprofondano fino alle orecchie e riemergono, sbuffando e scuotendosi i fiocchi dal musetto.

Il bosco è silenzioso, si sente solo il fruscio leggero del canto di Allegra, la cincia. Chissà che quel bel canto non riesca svegliare Quik, l’amico ghiro, che se ne dorme beato. Lui è immerso nel suo tiepido letargo e non gioca con loro, che peccato davvero, che malinconia. D’altronde, lui deve riposare. Ma la sua tana va decorata comunque….

Fino alla magnifica sorpresa. Ecco una bella ghianda, da dove arriverà?

Una storia che parla di amicizia e di pensieri gentili. Leggere per credere.

Giorgio Volpe, Paolo Proietti (illustratore), Canto d’inverno, Kite edizioni, Padova, 2025, 32 p.

Giorgio Volpe è nato a Reutlingen, in Germania, nel 1990, è cresciuto in Calabria e dal 2009 vive a Roma dove si è laureato in Lettere e Filosofia presso l’Università di Roma “La Sapienza”. Nel 2014 ha fondato (e da allora dirige) la compagnia di produzione teatrale Giù di Su per Giù – teatro. Al lavoro d’attore, affianca quello di scrittore di letteratura per l’infanzia. È tradotto in più di dieci Paesi, tra cui Cina, USA, Corea, Francia, Spagna, Giappone, Lituania e Germania. Nel 2023, è tra i finalisti del Premio Svizzero del Libro per Ragazzi con Il grande alveare (Caissa Italia Ed., 2022).

Paolo Proietti nasce a Roma nel 1986. Appassionato di manga e anime sin da bambino, dopo il Liceo artistico frequenta un corso di Grafica e Comunicazione visiva presso la Scuola Internazionale di Comics di Roma. Si appassiona alla letteratura per l’infanzia e nel 2016 vince il Premio Scarpetta d’Oro nella fascia di età 0-6 anni. Dal 2017, lavora con diverse case editrici come illustratore per l’infanzia. La sua principale fonte di ispirazione sono le opere del maestro del cinema d’animazione Hayao Miyazaki.

La curva del Grande Gatsby

La curva del Grande Gatsby

“Il Grande Gatsby” è il titolo di un romanzo scritto nel 1925 da Francis Scott Fitzgerald e che ha avuto diversi adattamenti cinematografici. Il protagonista nasce in una famiglia contadina povera e fugge di casa nel tentativo di sfuggire ad un destino miserabile. Seppure in circostanze tutt’altro che limpide, riesce a diventare ricco al punto da organizzare feste sontuose a cui partecipa l’alta società Newyorkese.

Non entrerò nel dettaglio della trama: posso però dire che, dopo la pubblicazione del libro, la storia ha avuto un risvolto sorprendente, che avrebbe stupito lo stesso Fitzgerald. Il Grande Gatsby non avrebbe mai immaginato di diventare un punto di riferimento per valutare le possibilità che un bambino nato in una famiglia modesta possa raggiungere posizioni di prestigio ed il benessere economico.

E’ ciò che ha fatto l’economista Alan Krueger, ex consigliere economico dell’amministrazione Obama, ottenendo un grafico che sintetizza visivamente la possibilità che una persona nata in un paese europeo possa realmente essere arbitra del suo destino, migliorando anche in modo significativo lo status sociale della famiglia d’origine. Volendo semplificare, il grafico misura quello che comunemente chiamiamo “ascensore sociale”, cioè la possibilità per chi è nato nei piani bassi della società di arrivare idealmente a vivere nell’attico.

La “Curva del Grande Gatsby” si basa su due variabili principali: il livello di disuguaglianza economica di un paese e la mobilità intergenerazionale, ovvero quanto la posizione economica dei figli dipenda da quella dei genitori.

Nel grafico le nazioni europee sono ordinate partendo da quelle che consentono la maggior mobilità generazionale per poi scendere via via fino ai paesi nei quali la condizione di nascita somiglia molto ad una condanna, alla quale difficilmente ci si potrà sottrarre.

Nei paesi con diseguaglianza elevata, la curva evidenzia una scarsa mobilità generazionale: questo vuol dire che ricchezza o povertà tendono ad accompagnare la stessa famiglia per generazioni. Al contrario, laddove c’è una minore diseguaglianza esistono molte più opportunità per chi nasce in una famiglia meno abbiente.

Quali sono i fattori che determinano una maggiore o minore disuguaglianza? L’istruzione prima di tutto. Ma anche il sistema di welfare, e la sanità pubblica: tutti settori nei quali l’Italia spende sempre meno, ed il risultato è che il posizionamento del nostro Paese è uno dei peggiori in Europa (peggio ci sono solo Russia, Lituania, Romania e Bulgaria). Non è un caso che in vetta alla classifica ci siano paesi del Nord Europa come Svezia e Danimarca.

Ora proviamo a confrontare questi dati con la retorica del merito con la quale ogni giorno si riempiono la bocca politici e dirigenti d’azienda in Italia. Il messaggio è chiaro: la ricchezza è un merito, la povertà è una colpa. E quindi se sei povero meriti di esserlo, e non puoi pretendere che chi è stato più meritevole di te debba aiutarti. Si spiega così ad esempio l’abolizione del reddito di cittadinanza, presente in varie forme in tutta Europa (ma in effetti esiste anche un’altra ragione. Ci tornerò).

Pensiamo alle famiglie più ricche del nostro paese. Pensiamo a chi occupa cariche pubbliche, ai grandi manager, ai personaggi della politica: salvo rare eccezioni, siamo quasi sempre di fronte a dinastie, a persone che hanno ereditato ricchezze e potere dalle generazioni che le hanno precedute. Nascere nella culla giusta: questo è stato il loro merito.

E allora diventa evidente che, dal momento che le famiglie che detengono il potere sono sempre le stesse, avranno tutto l’interesse a far sì che le diseguaglianze restino invariate, anzi si accrescano ulteriormente. Tanto più se le persone che dovrebbero impegnarsi per cambiare lo status quo non vanno a votare, lasciandogli campo libero.

I tagli alla scuola pubblica ed il sostegno agli istituti privati rappresentano probabilmente lo strumento più efficace in questo senso. Per secoli, a scuola sono andati solo i figli dei ricchi e dei nobili; se facevi il contadino non avevi bisogno di studiare, anche perché poi magari ti potevano venire strane idee. Ad esempio, di non fare più il contadino. Quindi è assolutamente strumentale fare in modo che il livello delle scuole sia sempre più basso, riservando l’eccellenza a quelle private, dove potrà studiare chi ha avuto “il merito” di nascere da genitori che possono pagargli la retta. Ma anche penalizzare la sanità pubblica è utile in tal senso: i “meritevoli” possono curarsi ed avere una qualità di vita migliore. Un modo efficacissimo per alimentare le differenze. Anche per questo il Reddito di Cittadinanza andava abolito: le differenze le riduceva, anziché alimentarle.

Ci piace raccontarci che siamo una nazione civile, all’avanguardia per i valori che esprime, ma la verità è che oggi un figlio di operai si troverà molto spesso a dover scegliere: o si accontenta di un’esistenza modesta, o se ne va in un paese che gli offre più opportunità (cioè praticamente tutti quelli che ci circondano).

Nel 1789, alla vigilia della rivoluzione francese, la stragrande maggioranza delle popolazione costituiva il cosiddetto “terzo stato”. Non essendo nobili o religiosi, non avrebbero mai potuto aspirare a cariche pubbliche: eppure erano loro a pagare le tasse, in quanto nobiltà e clero ne erano esentati. La società italiana del 2025 è così diversa? La principale differenza è che non si intravede alcun segnale di una rivoluzione che possa riportare un po’ di equità.

Diciamo che al giorno d’oggi evocare la ghigliottina appare un pochino eccessivo. E allora, forse, ciò che servirebbe davvero è un buon ascensorista capace di riparare un ascensore sociale bloccato da troppo tempo.

 

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Professione: reporter e la lezione mancante di Calvino

Il cinema che spacca i cuori: un viaggio nella pellicola personale di ognuno di noi

Il cinema che spacca i cuori: un viaggio nella pellicola personale di ognuno di noi

“Dicono che ogni uomo, alla fine, sia il risultato di tutte le persone e di tutte le esperienze che in qualche modo lo hanno toccato, ma credo che ciò valga per quelli normali. Chi come me ha passato ore ed ore al buio, protetto da tendaggi e velluti ad inseguire film che dovrebbero spaccare cuori, sogni che balenano là, in fondo alla sala, su di un telo bianco si porta dentro qualcos’altro, magari senza nemmeno saperlo. Sicuramente, metabolizzate fra il sangue e la carne, ci sono le immagini di tutti i film visti, anche i più piccoli e banali e inutili, quelli che, solo apparentemente, passano senza lasciare traccia ma sono lì dentro pronti a riaffiorare inconsciamente dopo anni…”.

(Inseguendo il cinema che spacca i cuori, Gabriele Caveduri, Faust Edizioni)

Gabriele Caveduri ha fatto l’esercente di sale cinematografiche per quarant’anni. Per chi ha vissuto o attraversato Ferrara dagli anni ottanta frequentandone alcuni feticci pagani, è “quello del Manzoni”, il cinema d’essai locale per antonomasia, la persona che ha portato a Ferrara e al Manzoni (spesso anche fisicamente) registi di culto che poi sono diventati icone mondiali, film e rassegne cercando di rimanere sempre in equilibrio fra l’ originalità e il mercato, fra la qualità e il botteghino, come un acrobata sospeso sul filo.  In realtà la sua “carriera” è stata ben più variegata, passando dal Rivoli ad alcuni cinema della provincia, dalle arene estive ai cinema drive-in al parcheggio dell’ipermercato (dove vidi L’invasione degli ultracorpi del 1956 con un alberello piazzato tra il parabrezza della mia Uno e lo schermo), all’Apollo per approdare, sul finire, alla gestione di una multisala, dove ha cercato con arguzia, coraggio e disperazione di preservare la centralità del film in mezzo ai cartoni di popcorn giganti del bar, vero core business dei suoi committenti.

Quello che puoi intravedere leggendo il libro di Gabriele Caveduri, “Inseguendo il cinema che spacca i cuori” (Faust Edizioni, alla prima ristampa) però, non è solo l’aneddotica del gestore di sale, prima inesperto poi scafato, quanto il racconto a cuore aperto di una persona non semplicemente appassionata di cinema, ma avvinta al cinema, al punto da percepirne le immagini, i dialoghi, le battute, i tessuti e gli odori della sala, come parte del suo metabolismo: per fare scorta di grassi e zuccheri, le trattorie e i bar frequentati nei viaggi quasi a-là-chef Rubio, alla ricerca del titolo da proporre e magari “scippare” all’esercente amico e concorrente; per respirare e fare scorta di emozioni, invece, le pellicole, i film. Un nutrimento per i tessuti e per il cuore, entrambi ristoro di bisogni primari, con le emozioni al centro.

Dico intravedere, perché Gabriele racconta e si racconta alternando pudore e spudoratezza, con riferimento sia alle persone sia ai luoghi. Il pudore lo riserva soprattutto alle persone che ha incontrato nella sua vita da ossessionato dal cinema: in particolare alle persone “non famose”, che a volte riemergono dopo anni, a seguito di una vecchia frequentazione occasionale cui al tempo aveva attribuito poco peso, ma che erano rimaste agganciate a qualcosa, un dettaglio o una convenienza che però riportavano tutte a una sorta di materiale emotivo, al quale lui stesso, inconsapevole, aveva dato scarsa importanza. In questi frangenti, la sua “macchina da presa” indugia negli anfratti emozionali attraverso i detti e i non detti, intercalati a mo’ di interludio da frammenti di dialogo tratti da un film, per poi fermarsi (metaforicamente, ma a volte no) alle soglie della camera da letto.

Caveduri tratta con pudore anche alcuni luoghi, travestendoli a volte con nomi immaginari ma rendendone chiaramente riconoscibile il territorio e il contesto. Sospetto che lo faccia per proteggere le persone, perché quando un racconto scava senza remore nel fondo di una relazione, affettiva o di amicizia, deve esistere uno scarto tra sincerità e biografia, che salvaguardi la verità delle storie senza violare la privatezza delle vite.

La spudoratezza la riserva a se stesso, al suo vissuto, come succede alle persone discrete che attraverso la scrittura trovano la cifra per togliere i veli all’anima. Credo che chi conosce in superficie l’autore possa esserne sorpreso, mentre sono convinto che le persone che lo conoscono bene non lo siano.

Poi naturalmente ci sono le storie con gli attori e i registi che è riuscito a far venire a Ferrara, e che l’hanno resa spesso, grazie a lui, il villaggio nel quale altri narratori dei loro villaggi hanno raccontato il mondo, per parafrasare la citazione di Tolstoj che appare all’inizio del libro. Se hai voglia di scoprire chi sono, ricordare chi sono stati o desiderio di conoscere i retroscena di quella serata nella quale magari eri tra il pubblico, questo articolo non è il modo per soddisfare la tua curiosità. Il modo è leggere il libro, sfogliarne le foto, godersi la prefazione di Riccardo Milani, regista tra gli altri de “Il posto dell’anima”, uno di quei film che il cuore lo spaccano davvero.

Scordati un asettico e snob volumetto di critica cinematografica: per fortuna, aggiungo. Questo è un libro scritto da un “malato” di cinema che ti parla della sua passione e di quanto questa passione non sia stata sopraffatta dal cinismo e dal disincanto del mestiere, ma sia stata nutrita e amplificata dalla frequentazione delle persone che danno corpo a questo sogno su celluloide. Persone del “pubblico”, concetto indistinto che qui viene scomposto, portato fuori dalla logica commerciale del consumatore di un prodotto e reso protagonista di tanti rivoli individuali in cui si dipana la trama della propria personale pellicola. Persone come te, incrociato una sera strappandogli il biglietto d’ingresso mentre era nel mezzo di un dramma erotico di gioventù: o come te, che hai chiesto e ottenuto un’ultima proiezione privata per la tua compagna di una vita, in partenza per un’ altra dimensione.

Leggere questo libro può spingerti di nuovo in quella sala buia e misteriosa nella quale il cinema andrebbe gustato, la sola dimensione nella quale il coinvolgimento collettivo e l’emozione unica e personale si mischiano senza sopraffarsi a vicenda. Con un’avvertenza: non potrai occupare l’ultima poltroncina a sinistra dell’ultima fila. Quello è il posto più vicino all’ufficio del gestore della sala, il posto in cui Gabriele si siede a guardare il film. Quella logistica gli serve a carpire il segnale in codice. Infatti, se durante la proiezione la segretaria sbatte forte la porta dell’ufficio, gli sta segnalando che c’è una telefonata alla quale deve rispondere: per non farsi scappare l’occasione di portare il prossimo sogno di un villaggio dentro il villaggio di Ferrara, e farla diventare un’altra volta il centro del mondo immaginario del cinema che spacca i cuori.

Cover image su licenza creativecommons

Per leggere gli altri articoli di Nicola Cavallini clicca sul nome dell’autore

Per certi Versi / Crescere

Crescere

 

Giovane sorriso

sgualcito dal futuro

i pensieri sono taglienti

come le lame del rasoio

inesperte sul tuo volto

 

una partita a carte

un giro senza inganno

vincono le illusioni

nel mazzo truccato

 

crescere è un gioco da adulti

il destino torna indietro

a ogni errore cambia il mazzo

 

ti insegna a giocare

 

In copertina: Foto di Penny da Pixabay

Nel 2025 la storica rubrica domenicale di poesia Per certi versi è affidata a Maria Mancino (Maggie)  

Per una pace disarmata e disarmante

Per una pace disarmata e disarmante

di Roberta De Monticelli *

Una Costituzione della Terra dove è ampliata la sfera degli oggetti da garantire: non solo i diritti fondamentali degli individui, ma anche i beni fondamentali alla sopravvivenza dell’umanità. In cui la pace mondiale è il nostro principale compito politico.

L’Osservatorio sulla militarizzazione delle scuole è una delle poche iniziative di società civile che rispondono a questo fenomeno pauroso, diffuso oggi anche in Italia oltre l’immaginabile: l’elogio delle armi, la loro esibizione, l’educazione dei bambini alla difesa della Nazione. Inclusa l’insinuazione nelle menti della bella formula di quel veterinario romano antico, si vis pacem para bellum, il logo dei macelli di tutta la storia umana.

Documentare minuziosamente questi soprassalti di stato etico nella sfera pubblica dell’educazione, combatterli sul campo e pubblicamente con gli strumenti del dissenso democratico, è la prima cosa che si dovrebbe fare per contribuire a questa iniziativa.
Da “fuori campo”, per così dire, cercherò di contribuire almeno marginalmente  a descrivere l’aria che vi tira intorno, cioè il fenomeno degenerativo di una democrazia in netta involuzione autoritaria: se non altro perché l’aspetto della militarizzazione fa emergere in modo palese come non ci sia involuzione autoritaria senza il lento precipizio in cui si prepara la guerra, mentre stranamente il nesso fra le due cose e soprattutto la pari atrocità di entrambe sfugge oggi a una parte della sinistra, spaccata in due proprio sulla valutazione del ritorno della guerra in Europa e in definitiva sull’idea di guerra “giusta”. (Certo, è spaccata anche la destra, qui e altrove nel mondo, ma per motivi che con valutazioni più o meno accurate di “giustizia” o anche solo giustezza non hanno nulla a che fare).

L’aria che tira

C’è qualcosa di terribile nel silenzio con cui la maggior parte degli intellettuali che hanno pubblica voce – per non parlare della stragrande maggioranza degli accademici – assiste oggi alla violazione su larghissima scala e all’ostentato ripudio, da parte di molti governi occidentali, dei principi di civiltà enunciati nelle costituzioni rigide delle democrazie, nelle Carte del costituzionalismo globale, e nelle istituzioni di diritto internazionale che  che la seconda metà del Novecento ha prodotto.

E c’è qualcosa di misterioso (Mysterium iniquitatis?)  nell’ostentata soddisfazione con cui alcuni, e non pochi, intellettuali pubblici e accademici, trasversalmente disposti rispetto alle simpatie politiche, dall’estrema destra all’estrema sinistra passando per tutte le sfumature intermedie, giustificano coi tromboni del realismo politico (e lo scherno riservato dagli esprits forts alle anime belle) i più incredibili assalti ai fragili presidi della decenza civile. “Normalizzano”, cioè,  gli assalti  e i soprassalti della Realpolitik dei leader di governo, attualmente soprattutto quelli del cosiddetto Occidente.

A esemplificare la sdoganata nuova hybris dei decisori politici non c’è che l’imbarazzo della scelta. Politiche di escalation bellica illimitata nei programmi della maggior parte dei governi europei, non con la cessione di sovranità militare che sarebbe il primo passo di un programma di difesa comune, ma al contrario nella direzione di un riarmo selvaggio, in ordine sparso, a costo di usare i fondi europei comuni per finanziare le industrie belliche nazionali. Genocidi di stato, detenzioni illegali e torture tollerati alla luce del sole e perfino sostenuti con il commercio delle armi e di altri ausili,  deportazioni annunciate di interi popoli, respingimenti di massa di migranti e immigrati, razzismo ostentato ai vertici dei governi, esecuzioni extragiudiziarie che sono veri e propri assassinii, perpetrati alla luce del sole dai cacciabombardieri di stato (che ad esempio affondano imbarcazioni senza dichiarare guerra e senza l’ombra di prove d’accusa). E poi, all’interno di molti stati, a partire dagli Stati Uniti di oggi, violente riduzioni della libertà di parola, di insegnamento, di manifestazione, virulenti attacchi all’indipendenza dei sistemi giudiziari nazionali, e, verso l’esterno, dichiarazioni di disprezzo nei confronti dei vincoli e degli obblighi di diritto internazionale, ostentato piacere di proclamarne la volontaria violazione. Insomma, in politica estera e interna, una sconcertante erosione della divisione dei poteri che definiva il minimo sindacale degli stati di diritto a partire dal signor di Montesquieu.  Infine, fra gli aspetti più eclatanti di un fenomeno di lungo corso, quello dall’apparenza ancora più medievale di un’erosione della separazione fra pubblico e privato, politica ed economia: l’asservimento delle politiche pubbliche a enormi concentrazioni di ricchezza privata, la privatizzazione, addirittura, dello spazio cosmico, il recesso dai pochi vincoli esistenti alla devastazione dell’ecosistema.

Come ai tempi in cui fu scritto il famoso romanzo di Camus, La peste – assistiamo al contagio inquietante con cui il cinismo della Realpolitik, sdoganata ai livelli di governo in alcuni stati democratici occidentali, si diffonde nella sfera dell’informazione e del dibattito pubblico, e ai due fenomeni complementari che ho descritto sopra: quello del silenzio, della non-partecipazione, quindi dell’apparente indifferenza, e quello della normalizzazione “realistica”. Dei vari aspetti che questa normalizzazione verbale, intellettuale e (im)morale dell’abnorme può assumere, il più sconcertante è quello più in voga sia fra i politici con mani in pasta che fra i loro gazzettieri: la normalizzazione dell’abnorme è condotta in nome della Norma per eccellenza: quella dei “nostri valori”.

E non sai se è più inquietante il cinismo di chi si ostina a dire “nostri” dei valori che o sono universalmente accessibili o sono pura ideologia, nomi di Dio messi sulle bandiere (che, lo si dovrebbe sapere, li trasformano in parole assassine); o l’eventuale buona fede di chi davvero credesse (se creature del genere esistono) che i beni della civiltà sono detenuti in proprietà esclusiva da certi stati (in particolare quelli nati sul sangue dei genocidi coloniali, tanto per rinfrescare le memorie corte), e  vanno difesi con baionette e bombardieri, o missili e droni, a costo di suscitare ad arte le ombre gigantesche dei Nemici del bene.

Passato e presente: tre voci classiche

Oltre certi limiti, cinismo attivo o passivo,  sostegno o silenzio e indifferenza, i sintomi più classici della “banalità del male”, equivalgono a complicità nei crimini: è il fenomeno che Luigi Ferrajoli chiama l’ “abbassamento dello spirito pubblico” e il “crollo del senso morale a livello di massa” (L’ostentazione della disumanità al vertice delle istituzioni e il crollo del senso morale a livello di massa, sito di Costituente Terra).

Naturalmente, come già si desume dalla citazione del romanzo di Camus uscito nel 1947, non è la prima volta che fenomeni di degenerazione prebellica si manifestano, a livello nazionale e internazionale: di politiche interne ed estere e relative opinioni pubbliche. E anzi, dalla cognizione del dolore che fu vorrei estrarre tre brani di sapienza che faremmo meglio a non dimenticare – tratti da autori che hanno rappresentato il miglior fiore dell’illuminismo novecentesco. Che tradotto in politica è il pacifismo giuridico, la cui più brillante espressione sta nel breve libro pubblicato da Hans Kelsen nel 1944, La pace attraverso il diritto, e nella breve sequenza di “verità autoevidenti” che Kelsen enuncia nella sua prefazione. Ed ecco dunque il primo brano:

«La verità è che la guerra è un assassinio di massa, la più grande disgrazia della nostra civiltà, e che assicurare la pace mondiale è il nostro principale compito politico, un compito molto più importante della scelta fra democrazia e dittatura, o tra capitalismo e socialismo. Non esiste, infatti, la possibilità di un sostanziale progresso sociale finché non sia istituita un’organizzazione internazionale tale da impedire effettivamente la guerra fra le nazioni della terra» .

La seconda voce viene da uno dei più acuti filosofi del Novecento, e uno dei pochissimi eredi e innovatori di ciò che la filosofia è stata nella modernità – là dove non ha ceduto alle seduzioni della sofistica e della retorica: illuminismo, ancora. È un passo tratto dall’opera pubblicata postuma, nel 1946, Il mito dello Stato di Ernst Cassirer (che, fuggito dalla Germania perché ebreo nel 1933, dopo aver insegnato a Oxford e in Svezia, si era trasferito dal ’41 negli Stati Uniti, insegnando prima a Yale e poi a Columbia University fino alla morte nel 1945):

«Ciò che abbiamo appreso alla dura scuola della nostra vita politica moderna è il fatto che la civiltà umana non è per nulla quella cosa ormai saldamente fondata, che una volta supponevamo essa fosse. […] La nostra scienza, la nostra poesia, la nostra arte e la nostra religione non sono che una superiore mano di vernice sopra uno strato molto più antico, che arriva fino a una grande profondità. Dobbiamo essere sempre pronti a violenti sconvolgimenti, che potranno scuotere dalle fondamenta il nostro mondo culturale e il nostro ordine sociale».

La terza voce, infine, la rubiamo alle memorie di Altiero Spinelli, a quella pagina emozionante che descrive l’incontro, a Ventotene, con Ernesto Rossi:

«Aveva, come me, assai forte il senso dell’oceano insondabile di irrazionalità, di ferocia, di stupidità, di ignoranza, di desiderio di morte da dare e da incontrare, e d’altro ancora. Era assai consapevole che il piccolo mondo luminoso della ragione creato dagli uomini emerge da questo caos, il quale si agita permanentemente intorno ad esso minacciando di inghiottirlo di nuovo. Ma, a differenza di me, si rifiutava di tentare di ascoltare il caos, di comprenderlo, di ridurlo talvolta e in parte a momento di nascita di un nuovo ciclo di razionalità. Per far ciò a poco servivano le armi del pensare chiaro, preciso».

L’avversativa che chiude il terzo passo – “Ma, a differenza di me…” segna tutta la distanza fra un nobile, puro chierico e un “edificatore”, uno capace di scolpirle, le tavole della legge: un designer e costruttore di nuove istituzioni, quale Spinelli (scioccamente ridotto dalla vulgata corrente al principale autore, con Ernesto Rossi e Eugenio Colorni, del Manifesto di Ventotene) fu effettivamente: l’ideatore di quel poco di struttura federale che l’Unione europea riuscì a darsi con il Trattato istitutivo dell’Unione Europea (TUE), nell’atto della sua istituzione, a Maastricht nel 1992.

Spinelli è l’uomo cui dobbiamo la parziale realizzazione di quel design, in forza delle sue ultime grandi battaglie nel Parlamento della Comunità europea, sfociate nel 1984 nell’approvazione a larga maggioranza del Progetto Spinelli, alcuni elementi del quale furono riprese nell’Atto Unico, futuro elemento costitutivo del Trattato di Maastricht. Ed è la personificazione di un vero balzo avanti che la ragione pratica ha fatto nel Novecento: da capacità di discernimento morale e autoregolazione del comportamento personale (l’età della ragione secondo Kant, l’autonomia del cittadino adulto) a – anche – capacità di design istituzionale, che incarni normativamente la pari dignità e i pari diritti degli umani come tali nel vincolo e negli obblighi che l’istituzione pone all’arbitrio delle sovranità nazionali. La Federazione europea fu concepita come il primo passo per levare dall’altro mondo e costruire in questo la pace perpetua di Kant, la federazione mondiale delle repubbliche.

Queste tre voci novecentesche della ragione pratica – il filosofo, il giurista, il politico “edificatore” – ci introducono alla terza e ultima parte di questa riflessione  – che cos’è una pace disarmata?

Una pace disarmata

«… Una feroce /forza il mondo possiede, e fa nomarsi/Dritto».

La desolata constatazione di Adelchi morente, al V atto dell’omonima tragedia manzoniana, vale per i millenni della storia umana. Ora, ci sono due questioni.

La prima è se qualcosa di sostanziale è cambiato nella storia umana, rispetto alla legge di Adelchi,  con la svolta del 1945, il “mai più”, le grandi carte normative in cui “Noi, i popoli delle Nazioni Unite” rinunciamo alla sacralità delle radici di sangue e di terra di queste nazioni e fondiamo la comunità umana internazionale su quelle radici di carta e pensiero che sono i principi del costituzionalismo globale, e naturalmente sulle istituzioni che dovrebbero garantire questi principi.

Vale la pena, per ogni insegnante che si troverà a voler difendere le menti dei suoi allievi dall’insegnamento della legge di Adelchi –  non in chiave di cognizione fattuale e  tragica, ma in chiave di gioioso amore del destino e delle macchine da guerra – di aver presenti, proprio sotto gli occhi per ogni occasione, le parole con cui ci impegnammo allora e la loro solennità, nel Preambolo allo Statuto dell’Onu (https://digitallibrary.un.org/record/1318124/files/Charter-Italian.pdf).

Nel suo libro Il problema della guerra e le vie della pace, ristampato in quattro edizioni dal 1976 al 1991, Norberto Bobbio affermava che sì, qualcosa era cambiato. Che era lo stesso progresso scientifico, tecnologico e industriale, con l’immenso potenziale di distruzione che aveva permesso di accumulare, sia “pacificamente” nei confronti dell’ecosistema, sia soprattutto in termini di potenziale bellico con la bomba atomica, ad aver ormai letteralmente falsificato tutte le dottrine classiche della violenza levatrice della storia. Oggi, scriveva,  l’intelligenza ci obbliga a capire che la violenza forse ha cessato definitivamente di essere l’ostetrica della storia e ne sta diventando sempre di più il becchino.

Bobbio riteneva non ci fosse neppure più spazio per alcuna dottrina della “guerra giusta”, e si appellava al diritto positivo ormai internazionalmente vigente che rendeva illecita e illegale la guerra come opzione di politica estera.

E in effetti se si distoglie un attimo lo sguardo dalla contraddizione costitutiva dell’ONU, che nella sua Carta dichiara l’eguale sovranità degli stati membri e poi riserva le decisioni ultime in Consiglio di sicurezza a quelli che sono più uguali degli altri, bisogna ammettere che l’impianto ideale della Carta è poderoso. Esso infatti stabilisce la prevalenza della legge sulla forza, cioè del diritto internazionale sulle sovranità nazionali, rispetto a due  obbligazioni:

  1. L’obbligazione di garantire il rispetto e l’implementazione dei diritti umani;
  2. La proibizione della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.

Questi sono i due pilastri del Costituzionalismo globale, con il termine introdotto da Luigi Ferrajoli, che è in definitiva un universalismo in due direzioni:
quella personalistica
(Obbligazione 1: ci sono cose, come l’eguaglianza in dignità e diritti, dovute a tutte le persone come tali, a prescindere dal loro essere oi no cittadini di uno stato);
e quella cosmopolitica (Obbligazione 2: a nessuno stato è permesso prolungare in una guerra la sua politica estera, a prescindere dalla sua potenza o superiorità militare e industriale).
Guardata in filigrana attraverso la sua carta, l’ONU apparirebbe niente meno che un’incarnazione normativa della ragion pratica, e in definitiva il frutto migliore della filosofia e dell’illuminismo – oltre che dell’aspirazione che sale dai millenni del dolore umano, almeno fin dal periodo che i filosofi chiamano  “assiale”, quando fra l’800 e il 200 avanti Cristo da Oriente a Occidente Confucio, Budda, i profeti biblici, i primi pensatori greci disegnano un ideale umano che la storia stessa non ha mai raggiunto.

Purtroppo, la situazione del mondo presente sembra smentire di nuovo il sogno della ragione da Isaia e Socrate fino a Kelsen. D’altra parte il terreno della prima questione che ho posto sopra è molto scivoloso. Se si parla della storia, si parla di fatti.
Per spiegare questi fatti si può ricorrere alle scienze sociali e anche a quelle naturali, che consentono di rinnovare l’antica discussione sul fondo della natura umana, se cioè l’antico, tragico nesso individuato da tutte le tradizioni fra libertà e colpa, e anche fra cooperazione pro-sociale all’interno delle coalizioni e violenza verso l’esterno. E infatti la discussione sembra ripresa in questo senso: per restare soltanto a recenti autori italiani, si possono citare due libri utili agli insegnanti che vorranno resistere  all’involuzione autoritario-militaristica: per capire le ragioni del pessimismo antropologico e del realismo (la guerra è e resta consustanziale alle civiltà umane) si può leggere  Guerra e natura umana di Gianluca Sadun Bordoni, per le ragioni contrarie di un ottimismo della volontà che ribalta la prospettiva realpolitica in quella del primato della cooperazione e della pace che stanno a fondamento delle società umane è disponibile la Critica della ragione bellica di Tommaso Greco.

Il terreno, dicevo, della prima questione è scivoloso, e il miglior modo per rendersene conto è formulare la seconda questione. Se anche il pessimismo antropologico avesse ragione fino all’ultima virgola: che rilevanza avrebbe questo immenso fatto per il (proporzionalmente  più arduo) compito che definisce la nostra ragione– e in particolare la nostra ragione pratica?  Come può una questione di fatto essere rilevante per una questione di valore, come si può confutare il dovere con l’essere?

In altre parole, non vorrà il realista, il fatalista,  con tutta la sua sapienza storica e politologica, costruire la premessa della conclusione che è “normale” per l’umanità continuare così e via, è giusto che lo faccia, visto che non ci sono alternative e che di buone intenzioni sono lastricate le vie dell’inferno?
Questo sarebbe un errore intellettuale prima che morale: una cecità all’abisso che separa le cose come stanno di fatto da quelle che dovrebbero essere.

Le verità pratiche, inevitabilmente, sono per chi le riconosce impegni pratici. E’ forse falso il pacifismo giuridico, solo perché non si è realizzato? Cosa vuol dire affermare che è illusorio, se non togliere consenso (politico) a chi lavora per costruire  i vincoli che lo rendono efficace? O, come minimo, non sentirsene impegnati.
Non c’è innocenza o neutralità in questioni di guerra e di pace. C’è giurisdizione della ragione, che vuol dire prendere posizione sulla base delle verità che si conoscono, come quelle elencate da Kelsen (e prendere posizione non ha niente a che vedere con prendere partito, come la cognizione e la giurisdizione non hanno a che vedere con l’appartenenza e la sua politica).

Ma se le cose stanno così, ciò che soprattutto urge è un risveglio della ragione, capace di rimettere in moto la nostra capacità di design istituzionale, e di “progettare il futuro”. Proprio questo è il titolo dell’ultimo libro di Luigi Ferrajoli, che riassume e ulteriormente spiega  il suo precedente Per una costituzione della Terra – Umanità al bivio. 

La conclusione che segue a questa critica della pseudo-confutazione dell’ideale in forza del reale è la necessità di individuare gli strumenti che permetterebbero all’ideale di divenire efficace, ed è questa la ricerca aperta dal movimento che si riconosce oggi nel costituzionalismo globale e nelle proposte di Luigi Ferrajoli, che sta acquistando consenso internazionale, come si può vedere esplorando il sito dell’Associazione https://www.costituenteterra.it/.

Forse è proprio nei momenti più bui che l’umanità ha saputo rafforzare i vincoli all’esercizio arbitrario della forza di chi ce l’ha. Il Progetto Ferrajoli si muove lungo due direzioni: da un lato, a un’estensione del costituzionalismo dal livello nazionale a quello sovranazionale, che era già, come abbiamo visto, implicita nella costituzione dell’ONU, ma con una distinzione più netta di funzioni e organizzazioni di governo e funzioni e organizzazioni di garanzia. Sono queste ultime che debbono essere sviluppate perché i principi e i diritti vengano assicurati. Il diritto alla salute è vuoto se l’Organizzazione Mondiale della Sanità non diventa l’equivalente di un sistema sanitario pubblico che lo garantisce, e lo stesso vale per il diritto all’istruzione e per il welfare. In altre parole, debbono costituirsi poteri pubblici che siano all’altezza dei poteri selvaggi dell’economia, sui quali i singoli stati nazionali hanno perduto il controllo. Ma oltre alle garanzie primarie, vanno rafforzate quelle secondarie: è qui che i vincoli riguardano l’azione politica nazionale, ponendo precisi perimetri di legalità – come effettivamente già fanno la Corte internazionale di giustizia e la Corte penale internazionale. Alle quali dobbiamo oggi, se non efficacia, un risultato alla lunga forse più prezioso: sono state custodi e testimoni di verità che hanno squarciato il velo di interessata ignoranza sulla natura effettiva del sionismo politico e sulla storia effettiva della distruzione della Palestina storica e della pulizia etnica come infine dal genocidio subito dal popolo palestinese nel lungo corso della costruzione dello stato ebraico di Israele. Quando chiedi giustizia, chiedi che tutti conoscano la verità, dice chi ha esperienza di ingiustizia subita.

In una seconda direzione, dev’essere ampliata la sfera degli oggetti da garantire: non solo i diritti fondamentali degli individui, ma anche i beni fondamentali alla sopravvivenza dell’umanità – come i beni che le catastrofi ecologiche e climatiche in corso stanno distruggendo. L’invenzione di un demanio della terra con poteri di regolazione nell’uso selvaggio delle risorse ambientali rientra in questa prospettiva. Ma accanto ai beni da proteggere, ci sono anche quelli da proibire. Ed è qui che torniamo a bomba – letteralmente. E arriviamo all’ultimo orizzonte della discussione sulla militarizzazione in atto delle società, come al cuore stesso di questo progetto di pacifismo disarmista. Se vuoi la pace, elimina le armi.

E allora studiamoli, questi articoli della bozza Ferrajoli su beni micidiali come beni illeciti. Li regge la più ovvia e accertata delle verità empiriche: dovunque ci sono armi, prima o poi si usano. Dovunque, a livello privato, se ne limita l’accessibilità, il tasso degli omicidi decresce. Eccoli.

Art. 52. Divieto di produzione, di commercio e di detenzione di beni micidiali

I beni illeciti sono i beni micidiali, dei quali sono vietati la produzione, il commercio e la detenzione.

Sono beni illeciti le armi nucleari, le altre armi di offesa e di morte, i droni omicidi, le scorie radioattive….

Art. 53. La messa al bando delle armi e il monopolio pubblico della forza

Sono vietati e puniti la produzione, la sperimentazione, il commercio, la detenzione e la diffusione di armi nucleari, dii armi chimiche, di armi batteriologiche o di altri tipi di armi a questi simili per natura e per effetti.

Sono vietati e puniti la produzione e il commercio di armi da fuoco. La produzione e la detenzione di tali armi sono riservati al monopolio pubblico in capo alle forze di polizia locali, statali e globali

Dovremo fare in modo che questi articoli appaiano alle prossime generazioni davvero articoli necessari a  una costituzione della terra su cui viviamo, e non pensieri angelici su una costituzione del cielo – che non ne ha bisogno.

 

Roberta De Monticelli *
Nata a Pavia il 2 aprile 1952, è una filosofa italiana. Ha studiato alla Normale di Pisa, dove si è laureata nel 1976 con una tesi su Edmund Husserl. E’ nel Consiglio di Presidenza Libertà e Giustizia.

Articolo originale su Libertà e Giustizia del 1 dicembre 2025
Questo contenuto fa parte di Osservatorio Autoritarismo

Cover: immagine di José Iván Bernardo Vázquez – Centro Studi Sereno Regis

Purtroppo Elly Schlein

Purtroppo Elly Schlein

Premetto che a me Elly Schlein sta simpatica. Vedo il suo gran lavoro per tenere insieme un partito di capi e capetti come il PD. Seguo i suoi salti mortali per prevalere nella coalizione, cercando però di andar d’accordo con Giuseppe Conte.
Capisco anche la sua scelta, o la sua ossessione, per il famigerato Campo Largo. Largo o Larghissimo (come le è riuscito nelle elezioni regionali in Puglia), che lei e buona parte del suo partito ritiene l’unica opzione per riuscire a vincere le prossime elezioni politiche e sloggiare da Palazzo Chigi Giorgia Meloni. È una scelta che non condivido, che ritengo perdente, ma do atto a Elly di mettercela davvero tutta per mettere insieme la torta del centro-sinistra.

Leggo il 4 dicembre su queste colonne (vedi Qui) l’amico Michele Ronchi Stefanati e la sua accorata difesa della segretaria del PD: “Eppure Elly Schlein per tenere unito il partito, deve mordersi la lingua e attenuare ogni giorno, nelle sue dichiarazioni, le posizioni che sente nel cuore e che sarebbero ben più radicali, ancora più nette.”

Purtroppo Elly Schlein, anche volendolo fortissimamente, non può essere il centro aggregatore del Campo Largo. Le manca lo spessore politico? Probabilmente sì, ma soprattutto le manca il coraggio di proporre una piattaforma politica innovativa, un’idea diversa di Italia, una serie di idee che rompano con la linea neoliberista adottata dal PD sin dai tempi di Veltroni.

Purtroppo Elly Schlein “si morde la lingua”. Forse è così, ma proprio per i suoi silenzi (magari è vero che in cuor suo coltiva posizioni più radicali, ma questo in politica non conta nulla), proprio per “non rompere” con nessuno, nel partito e nella coalizione, non è percepita come “il nuovo”, come portatrice di Idee e proposte innovatrici, ma come l’ennesimo segretario del partito, destinato ad essere sostituito al primo passo falso.

Purtroppo Elly Schlein, anche se viene da realtà di movimento, non è lei stessa una figura nuova, fuori cioè dagli equilibri di partito, avendo alle spalle una ormai lunga carriera politica. Prima come deputato europeo indipendente nelle liste del PD, quindi eletta in Emilia Romagna con “Emilia-Romagna Coraggiosa Ecologista e Progressista” (una lista alternativa a sinistra del PD) per poi allinearsi totalmente al migliorista Stefano Bonaccini quando accettò la carica di Vicepresidente della Regione. Dopo meno di 2 anni si dimette, essendo eletta al parlamento italiano come indipendente del PD. Tornerà presto al partito.

Purtroppo Elly Schlein in nessuna di queste varie esperienze (Europa, Regione, Italia) si è segnalata per posizioni autonome, di rottura con la politica tradizionale del partito.

Purtroppo Elly Schlein, diventata contro ogni pronostico segretaria del PD, battendo alle primarie proprio il potente ex governatore Stefano Bonaccini, e dopo aver suscitato tante speranze di cambiamento tra i militanti del partito, sceglie di “non rompere” con nessuna corrente e sottocorrente. Non è un caso che, notizia di questi giorni, la corrente “Energia popolare” guidata dall’eurodeputato Stefano Bonaccini ha annunciato l’ingresso nella maggioranza schleiniana. Ora, la domanda nasce spontanea: come si concilia il nuovo di Elly con il vecchio di Bonaccini. E che proposta politica ne può venir fuori?

Purtroppo Elly Schlein, insieme a gran parte del PD, insieme alla Meloni e a Forza Italia, appoggia la folle idea europea del riarmo. Decine di miliardi che verranno sottratti al welfare, alla scuola, alla sanità, al sostegno della povertà.  Non so cosa ci sia nel cuore di Elly, ma solo una sua convinta posizione pacifista avrebbe illuminato di una nuova luce la posizione dei progressisti.

Purtroppo Elly Schlein ha paura come tutti a pronunciare la parola “Patrimoniale”, diventata in Italia una specie di bestemmia, ma che rimane un punto fondamentale per inaugurare una seria politica contro l’ineguaglianza e per il rilancio del welfare. Anche la sua adesione alla pur timida proposta della CGIL di Landini di una “imposta di solidarietà” non mi pare abbia avuto alcun seguito. Sulla cittadinanza? Anche qui siamo ormai lontani dall’impegno solenne per la jus soli preso da Pier Luigi Bersani, un moderato con idee coraggiose e di sinistra, subito sgambettato in diretta da Beppe Grillo.

Purtroppo Elly Schlein non è sicura nemmeno di essere designata frontwoman dalle forze di opposizione alle elezioni politiche del 2027. Conte non ci sta e secondo alcuni sondaggi sarebbe più popolare di Schlein. Poi, dentro il suo stesso partito, c’è l’astro nascente Silvia Salis che vuole spostare il baricentro del PD ancora più al Centro. E magari tornerà in gara anche Stefano Bonaccini, che non ha mai mandato giù la sconfitta alle primarie contro Elly Schlein. A un anno e mezzo dalle elezioni le varie anime dell’opposizione sono lontane dalla soluzione del rebus. Si parla molto di un federatore (ancora senza volto), uno che possa andare bene a tutti (Oddio, brutto segno), che necessariamente non potrà essere la povera Elly.

Purtroppo Elly Schlein ha davanti tanta strada, tanta fatica, tanto impegno per tessere la tela del Campo Largo, ma difficilmente riuscirà a rimanere segretaria del PD. Com’è noto il partito è specializzato nel cambio di cavallo e dopo le elezioni le darà il benservito. A meno che il centro sinistra, miracolosamente, le vinca le elezioni.  Ma per vincere, o almeno per provarci, ci vorrebbe una leadership riconosciuta, credibile, coraggiosa. E soprattutto un programma realmente “rivoluzionario”. Per questo e solo per questo tanti italiani tornerebbero a votare.

Non voglio continuare con i purtroppo Elly Schlein, non sono del suo partito (e di nessun altro) e non sono nemmeno un fine commentatore politico. Sono un cittadino che ha sempre votato a sinistra, schifato e preoccupato dal governo delle destre e in perenne attesa di una rivincita. E mi spiace davvero che Elly Schlein non abbia voluto, o non sia riuscita (ma il risultato è il medesimo), aprire una nuova stagione politica (come ad esempio ha fatto Mélenchon in Francia), uscendo dalla subalternità e della paura, fuori dal logoro andazzo della sinistra italiana e dalle alchimie del Partito Democratico. Per questa incapacità, la sua statura di leader è destinata ad un’onesta anche se modesta mediocrità.

In copertina: Elly Schlein al Pride di Bologna, 2015  – immagine Wikimedia Commons

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Le storie di Costanza /
Alla caccia della VOLPE VERDE. Il Dui

Le storie di Costanza. Alla caccia della VOLPE VERDE. Il Dui

Con il cuscino sulla faccia, la mia testa rallentò un po’ il suo turbinio e tirai un sospiro. Uno dei clienti appena arrivati in albergo aveva in tasca un fazzoletto da naso verde e, la particolarità del luogo e della storia su cui andavo rimuginando, mi aveva di nuovo impressionato. Mi era sembrato che il signore in questione avesse in tasca una volpe verde.

Dovevo stare tranquillo ancora un po’ sul mio letto, in quella posizione con il cuscino sulla testa e una coperta di ciniglia sulla pancia, stavo già meglio. Mi alzai, chiusi la finestra che dava sul balcone e tirai la tenda, poi chiusi anche la finestra del bagno e mi ridistesi sul letto rimettendo cuscino e coperta nella stessa posizione di prima. Messo così mi sentivo tranquillo. Le volpi verdi, nel caso esistessero, erano chiuse fuori dalla mia stanza, la morbidezza del cuscino e il calore della ciniglia mi trasmettevano una sensazione di protezione e tepore, di sospensione temporanea dei problemi e delle preoccupazioni.

Ripensai a Tresciaone e al mio capo, che in quel momento mi stava maledicendo, perché non aveva ancora ricevuto l’articolo che doveva andare in stampa il giorno successivo. Avevo scritto solo il titolo, poca roba davvero. Avrei ripreso a scrivere nel tardo pomeriggio, dopo essere stato in visita a Costanza Del Re. Dovevo essere a casa sua alle cinque di quello stesso pomeriggio, c’era tempo.

Ripensai al mio capo alla sua passione per i soldi, le macchine e le piante grasse. Nel suo ufficio a Tresciaone c’erano vasi di cactus spinosi un po’ dappertutto. Uno grande e due piccoli sulla scrivania, uno in terra vicino ai suoi piedi, cinque di media misura in fila sulla finestra, uno sull’armadio e uno vicino alla stampante. Una volta un povero fattorino aveva inciampato ed era caduto sul cactus posizionato nel vaso di coccio vicino ai piedi del capo.

Tutti i giornalisti che erano in redazione quel giorno si ricordano le urla strazianti di quel pover’uomo che finirono solo dopo le medicazioni di Martino, il segretario di redazione. Martino era corso alla cassetta del pronto soccorso, aveva preso del ghiaccio spray e una pomata di antibiotico, era tornato dal fattorino e lo aveva spruzzato di ghiaccio. La vittima del cactus si dimenava dal male e non era facile centrargli le mani, i polsi e le ginocchia con il getto della bomboletta. Sembrava un’anguilla nel fango di Comacchio. Gli aghi del grosso vegetale gli si erano infilzati nei polpastrelli delle mani e nelle rotule delle ginocchia, era infatti caduto in avanti bocconi ed era atterrato sulla pianta centrandola in pieno.

Scoprimmo che la sera prima la signora delle pulizie aveva dato la cera al pavimento rendendolo particolarmente scivoloso. Di solito il marmo veniva solo lavato, raramente lo si faceva luccicare, ma il giorno prima era successo. Martino immobilizzò il malcapitato, lo riempì di ghiaccio spray e lo fece sedere sull’unica poltrona presente nella stanza.

Dietro la scrivania era posizionata la poltrona del capo mentre di fronte vi erano due sedie di legno senza imbottitura che accoglievano i giornalisti chiamati a rapporto. Le sedie non erano affatto comode, ma quello non era un problema, a nessuno piaceva sedersi là e provava sollievo appena poteva alzarsi. Lo si poteva chiamare ‘effetto dentista’.

Sulla poltrona del capo nessuno poteva sedersi, tranne lui con le sue importanti natiche. Con una pinzetta Martino tolse le spine al ferito e poi lo medicò con la pomata di antibiotico. Un lavoro sicuramente ben fatto. Il nostro segretario dava sempre prova di buona reattività e pronto ingegno. Dopo quell’incidente il fattorino non lo rivedemmo più, secondo me si licenziò. Una storia non proprio a lieto fine.

Pensai che il capo avrebbe spostato i cactus, almeno i due più grandi e spinosi, ma non fu così. Tutto restò come prima e Martino ordinò una seconda bomboletta di giaccio spray pronta per qualsiasi evenienza. Che io sappia non capitò più di doverla utilizzare, come se si fosse sparsa la voce che entrare in quell’ufficio era pericoloso. Bisognava prestare la massima attenzione a ogni passo che si faceva.

Sta di fatto che i cactus continuarono a regnare là dentro indiscussi e ad incutere un certo timore, si poteva osservare la loro imponenza semplicemente passando in corridoio e guardando dentro la stanza. La porta restava quasi sempre aperta, il mio capo diceva che i cactus avevano bisogno di aria e luce. Secondo me aveva intuito che quei vegetali spinosi erano dei suoi alleati, contribuivano a rendere l’accesso all’ufficio poco gradito e fattibile solo in caso di assoluta necessità. Questo gli piaceva.

Credo che nella sua mente albergasse l’idea che dirigere un giornale fosse come dirigere una caserma e che i giornalisti non fossero altro che dei suoi sottoposti a cui dare ordini senza diritto di replica. Solo con Duilio, uno dei capi redattori, ammetteva qualche eccezione e gli permetteva di dire quello che voleva.

Il capo sapeva che il Dui era un giornalista molto bravo e che avrebbe potuto trovare lavoro a Verganiaone quando voleva. Così lo lasciava parlare e gli permetteva di fare commenti sui suoi cactus.

– Guarda questo – diceva il Dui – sembra che abbia sete, ha delle spine orribili, portatelo a casa che qui è pericoloso.

Il mio capo lo ascoltava, ma non spostava i cactus di un centimetro. Era un gioco di potere che si consumava in quell’ufficio spesso e volentieri e che veniva usato per ribadire la gerarchia che regnava là dentro. Il Dui era comunque la vera spina nel fianco del capo e quando qualche giornalista aveva grattacapi che non sapeva come risolvere andava da lui e gli diceva: – Dai Dui, dammi una mano –.

L’interpellato non diceva subito di sì, gli piaceva farsi pregare, ma siccome era fondamentalmente buono, finiva sempre per aiutare chi glielo chiedeva e per intercedere con il capo quando se ne verificava la necessità. Era di media statura, occhi chiari e bocca carnosa, un fisico atletico e pochi capelli grigi sulla testa, che lui manovrava in modo che coprissero la più ampia superficie cranica possibile. Faceva dei ghirigori con i capelli e poi li fissava con la lacca.

Aveva così un aspetto un po’ bizzarro, ma complessivamente piacevole, vista l’innumerevole quantità di ammiratrici che collezionava. Era anche una brava persona, non approfittava del suo successo con il genere femminile e, nella maggioranza dei casi, interrompeva subito la fascinazione raccontando che aveva cinque figli maschi. Cosa non vera, anche se era sposato da molti anni. La notizia che aveva tutti quei figli era un forte deterrente all’interesse femminile che gli permetteva di fare pulizia sentimentale in maniera indolore e di osservare curiosamente le poche femmine che continuavano comunque a sciorinare avances nei suoi confronti.

Sua moglie non la si vedeva mai. Non doveva essere molto intelligente per lasciare il campo libero a quel modo. Una volta credemmo che quel matrimonio stesse andato in frantumi. Il Dui conobbe, mentre confezionava uno dei suoi reportages, una psicologa molto brava che lavorava per un’azienda di consulenza e si occupava di politiche del lavoro, tema che gli interessava molto.

Si dimenticò di dire alla psicologa che aveva cinque figli e cominciò con lei una conversazione che, partendo da riflessioni sullo stato di salute delle piccole aziende italiane, si spostò sulla bellezza delle montagne e sulla necessità di ritornare a una dimensione del vivere più a contatto con la natura.

Nacque così una storia tra loro che durò un anno e si concluse con un’improvvisa partenza di Miranda per l’Australia. Credo che la decisione sia stata dolorosa per entrambi e che nessuno dei due si sia mai più dimenticato dell’altro. Non sempre le storie d’amore hanno un lieto fine, lo vidi chiaramente quella volta.

Non seppi mai per quale motivo Miranda partì all’improvviso per un posto così lontano e diverso, sta di fatto che se ne andò e nessuno la vide più. Era brava e intelligente, piaceva anche a me. Ogni tanto ricorrevamo a lei quando avevamo articoli da scrivere su temi che conosceva bene e lei ci aiutava. Era disponibile e originale.

Peccato, ad un certo punto la perdemmo. Non tornò più e non fece alcun tentativo di rimettersi in contatto con chicchessia di Tresciaone. Unica e curiosa la storia degli amori umani. Sembra impossibile dimenticarsi di una persona per poi scoprire che è già un ricordo, una pagina sbiadita di un libro irripetibile di cui si è già voltata la pagina. A volte mi chiedo quanto il Dui abbia sofferto per quella storia. Non mi disse mai niente, non affrontò il discorso con nessuno, non cambiò abitudine e continuò a sparlare dei Cactus del capo tutte le volte che poté.

– Quelle maledette piante spinose portano sfortuna – soleva dire mentre camminava nei corridoi.

La parola “sfortuna” non piaceva a nessuno e la frequentazione dell’ufficio del capo era sempre più sporadica, si limitava alle convocazioni che venivano dall’alto. Si sa che ognuno si difende dalle ingerenze altrui come può e usa il potere che ha a disposizione come ritiene meglio.

Il Dui lo usava per tenerci lontano dal capo, forse in parte per proteggerci ma sicuramente per garantirsi il privilegio di essere il suo interlocutore privilegiato. Fare da filtro fra noi e lui gli assicurava il potere necessario per muoversi all’interno della redazione come più gli garbava.

Alla fine, il Capo e il Dui non erano poi così tanto diversi, semplicemente erano posizionati su un gradino diverso della scala gerarchica di Tresciaone. La detenzione del potere era un obiettivo di entrambi, usavano però degli stratagemmi diversi, alcuni preferibili ad altri, almeno per quel che mi riguardava. Il Dui era sicuramente più buono, non trattava male le persone.

Mentre mi frullavano tutti quei pensieri per la testa e il ricordo di Miranda era più prepotente degli altri, ero ancora disteso sul letto con il cuscino sulla faccia. Cercai di tornare al presente, al motivo per cui ero a Pontalba. Era quasi ora di pranzo, forse la pizzeria che avevo visto la sera prima era aperta anche a mezzogiorno, avrei potuto andarci a mangiare qualcosa.

Mi alzai dal letto, abbandonai il cuscino e la coperta, bevvi un bicchiere d’acqua e riaprii la finestra che dava sul cortile interno del Pontalba Hotel. Non c’era più un filo di nebbia e i campi erano verdissimi. Riecco il verde, pensai. In campi verdi come quelli avrebbero potuto nascondersi decine di strabilianti volpi verdi.

Cover: Foto di <a href=”https://pixabay.com/it/users/congerdesign-509903/?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=6743531″>congerdesign</a> da <a href=”https://pixabay.com/it//?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=6743531″>Pixabay</a>

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La Fine di questa Europa

La Fine di questa Europa

Il nuovo documento di 32 pagine del National Security Strategy degli Stati Uniti dice a chiare lettere che l’Europa non interessa più agli americani, anzi se potessero la vorrebbero disunita in singoli Stati, com’era prima. E la NATO non deve essere più un’alleanza in espansione (non interessa più “esportare la democrazia”).
L’Europa deve assumersi maggiori responsabilità nella propria difesa, il Medio Oriente non è più centrale nella politica estera Usa (da quando, dico io, nel 2010 hanno scoperto il gas col fracking e sono diventati esportatori netti), ma lo diventa l’indo-pacifico. Con la Cina si può commerciare ma, siccome è nemica, solo su beni non strategici.

Il diktat di Trump

E’ un totale capovolgimento delle strategie degli Stati Uniti portate avanti negli ultimi 80 anni. Non è una sorpresa per chi conosce le idee di Donald Trump dal 2016 e il vicepresidente J.D. Vance l’aveva già detto, anche se non così esplicito, alla conferenza di Monaco, criticando l’Europa per il suo declino demografico, spirituale, per una immigrazione eccessiva, il politicamente corretto e la cultura woke.

Per ora le reazioni dell’élite UE sono improntate alla prudenza.
L’estone Kaja Kallas (la “ministra” degli esteri UE) dice che gli Stati Uniti sono sempre il più grande alleato della UE (sic), ma ciò che è stato scritto segna una svolta storica ed è sferzante: “la civiltà europea può essere cancellata entro i prossimi 20 anninon è interesse americano sostenere un’alleanza con l’Europa né strategica né militare come in passato a tutela del suo primato e della sua stessa sicurezza” (e quindi la stessa NATO è a rischio).
E’ anche un assist ai partiti di destra per demolire questa UE e chiudere presto una guerra con la Russia che Trump non voleva, che porta al macello migliaia di ucraini e russi, che non è negli interessi Usa alimentare. E semmai si tratta di ristabilire una stabilità diplomatica con la Russia, “non essendo più una minaccia strategica”.

Più chiari di così gli Stati Uniti non potevano esserlo. La UE sarà quindi costretta a prendere sul serio questa svolta e avviare un ripensamento capace di restituirle (si spera) un vero ruolo internazionale, a costo di avere meno Stati. L’ideale sarebbe una vera rifondazione. Se non farà questo nei prossimi tre anni che rimangono prima delle elezioni europee del 2029, vuol dire che Trump ha qualche ragione a dire che l’élite UE è una congerie di classi dirigenti in rotta, isolate dai loro popoli e inaffidabili. Se prevarrà l’ignavia è davvero probabile che venga spazzata via da una vittoria delle destre.

Il documento svela il desidero che prevalga l’attuale cultura americana, suprematista, liberista, illiberale, razzista, contro gli immigrati e le politiche green, autoritaria, che vuole fare piazza pulita di alcune caratteristiche precipue dei paesi europei: sanità universale, scuola pubblica, pensioni garantite dallo Stato –da privatizzare-  aiuti ai poveri e ceti fragili, immigrazione, tassazione progressiva, diritti delle minoranze, concorrenza garantita da antitrust, attenzione –anche se sempre meno- all’uguaglianza, inclusione, diritto internazionale-.

Un’Europa fatta male

Questa UE, ha costruito un’architettura istituzionale (una Confederazione con diritto di veto dei singoli Stati), che le impedisce di darsi un futuro come statualità sovrana, nel mentre ha tolto sovranità ai singoli Stati membri su moneta, cambi e politica estera.
Un “capolavoro” che è sempre piaciuto agli Stati Uniti, da Clinton a Biden, passando per Bush, dal 1993 al 2020, onde evitare che la UE diventasse un temibile concorrente e si formasse quell’alleanza tra Germania e Russia (un gigante euroasiatico) che è sempre stato il vero timore delle politiche anglosassoni sin dalla prima guerra mondiale.
Lo sapeva bene la Merkel che ha sempre lavorato sotto traccia per 15 anni (2005-2021) per rafforzare l’ost politick che è stata anche dei primi ministri socialdemocratici Brand e Schroder (1998-2005).

Gli Stati Uniti, dopo 30 anni di globalizzazione e de-localizzazione delle loro imprese in Cina, hanno visto il drago cinese alzare la testa e si sono resi conto (almeno Trump) che erano stati proprio loro a rafforzarli. Ciò spiega i drastici cambiamenti di Trump, davvero spaventato (anche se il mainstream non ne parla).
Dazi, mercantilismo e cambiamenti di alleanza sono funzionali all’aquila americana perchè mitighi l’ascesa del drago cinese, a costo di fare accordi con l’orso russo, anche perché, in un mondo multipolare l’aquila e l’orso ci perdono, mentre in un mondo bi-polare ci guadagnano entrambi.

La UE, non essendosi costruita come statualità (consegnandosi mani e piedi agli americani) non solo non conta nulla sul piano internazionale (si è messa fuorigioco da sola, accentando i consigli americani del mero mercato liberista e della non statualità), ma ha indebolito le condizioni sociali dei paesi del Sud (Italia in primis), a favore di quelli Baltici e della Polonia, che sono diventati i più tenaci difensori di questa UE e i più amici degli Stati Uniti in funzione anti-Russia.

Ora che gli Stati Uniti cambiano radicalmente, i più spiazzati sono proprio i Baltici e Polonia (insieme agli inglesi e al filo Usa Merz). Se prima vedevano gli Stati Uniti come il loro Re contro la Russia, ora lo vedono come traditore e amico di Putin.

La Ue è a pezzi e urge una grande sua trasformazione, lo pensa anche la maggioranza dei suoi cittadini delusi.

A questo punto la UE deve fare davvero qualcosa di significativo, se non vuole continuare ad essere picchiata che, fuor di metafora, significa rifiutare le vessazioni da servi della gleba (che non potevano cambiare padrone). Quindi accettare di spendere singolarmente per Stato il 5% del PIL per la difesa, quando coordinandosi si può spendere la metà, visto che già spendiamo molto più della Russia, evitando di minare il proprio welfare e i diritti conquistati che è la caratteristica distintiva della UE.

Un’altra Europa è possibile

Se invece si deve diventare una brutta copia liberista dell’America e prepararsi per una guerra con la Russia (a questo punto quasi alleata degli USA), sarà bene scappare a gambe levate, a costo di stare per un periodo per conto proprio, come ha fatto il Regno Unito che oggi si coordina con gli altri Stati e, di fatto, ha formato un direttorio tra premier che conta (ed è ovvio) più della Commissione UE (non eletta dai cittadini).

Siamo antieuropei noi o chi da 25 anni sostiene una UE nano politico in salsa americana?
Bisogna sbrigarsi a rifare daccapo la UE e i Trattati (con chi ci sta).
Trump è brutale ma ha detto una verità: il Re UE è nudo (lo è da tempo per chi voleva vedere).

Ma il nuovo Re UE dovrà chiarire bene, questa volta ai suoi cittadini, cosa vuol fare, oltre al libero mercato e alla moneta unica, che abbiamo già sperimentato per 25 anni e che, da sole, non entusiasmano nessuno.

Gli italiani sono i più insofferenti in quanto, nonostante la retorica a piene mani pro UE, sono quelli (con i greci) che hanno preso più botte da quando siamo entrati nella UE (2001). Ed è per questo che il Governo Meloni tentenna se stare con l’élite UE o con Trump, mentre il PD, che avrebbe un’occasione unica per mettere all’angolo la Meloni, la appoggia su un riarmo assurdo.

Tutti gli indicatori dicono che siamo cresciuti dal 1948 al 1992 e poi siamo fragorosamente caduti. Guarda caso gli americani che erano cresciuti meno di noi, dal ’92 hanno preso il volo e noi siamo rimasti al palo.

Vuol dire che qualcosa di grosso è andato storto e forse non per colpa dei cittadini, ma di Trattati internazionali (prima e dopo il 2001) che ancora ci condizionano, al punto che stiamo armandoci per combattere una Russia che non ha alcuna intenzione di invadere nessuno, ma che fa comodo agli Stati Uniti per acquistare le loro armi e materie prime a costi doppi o tripli, mentre loro commerciano con tutti (in primis con la Russia con cui hanno gettato le basi di macro accordi) e pure con la Cina se si escludono i beni strategici.

La Spagna sta provando a resistere alla politica estera di Trump e a quella interna che ci impone dazi e il trasferimento di nostre manifatture a casa loro. Almeno non seguiamo un riarmo da singoli Stati con acquisti made in Usa. La Spagna ci indica le condizioni per una nuova UE con politiche davvero autonome e progressiste.
I nostri politici nei primi 30 anni del dopoguerra (DC e PSI inclusi), pur alleati fedeli degli Stati Uniti, dimostrarono una notevole autonomia in politica estera fino al 1985 (e c’era la guerra fredda che l’avrebbe in teoria impedita). Oggi la guerra fredda non c’è più, forse la si rimpiange se ci si adopera per una guerra “calda” sempre con la Russia, che è tutt’altro dall’URSS, anche se Putin non scherza. Infatti fu fatta entrare nel WTO solo nel 2011, 10 anni dopo la Cina… chissà come mai questa preferenza per la Cina comunista? Forse gli Stati Uniti (che sono quelli che decidono queste cose) pensavano fosse il male minore?
Ma  perché dobbiamo sempre farci condizionare dagli americani? Va bene che ci hanno salvato dal fascismo ma sono passati 80 anni.

Possiamo costruire un’Europa con una sua difesa comune (senza spendere cifre assurde di riarmo per singoli Stati), e diventare finalmente quel terzo polo nel mondo, che conta non perché è armato fino ai denti (peraltro già spendiamo in armi già quasi il doppio della Russia), ma perché propone al mondo una terza via fatta di etica, diritti, uguaglianza, welfare, sviluppo della Domanda interna e non solo dell’export, e cooperazione con tutti, anche con chi oggi non è una democrazia come noi, scommettendo sul fatto che i paesi sono disposti a prosperare attraverso i commerci e la pace e non attraverso le guerre o invasioni militari che hanno dimostrato (anche quella ucraina) che non sono più vantaggiose per chi le compie, in quanto le popolazioni locali, anche se poco armate (vedi i talebani), non sopportano il dominio forestiero a lungo.
Questa è la missione spirituale dell’Europa, non un ennesimo gigante armato.

L’hanno capito persino gli americani dopo 30 anni di invasioni e di “esportazione della democrazia”. E’ incredibile che ora sia l’Europa, che era nata su valori pacifisti, che oggi si intesti una logica guerrafondaia che è peraltro destinata ad essere inadeguata di fronte a giganti come USA, Cina e Russia.

Vogliamo davvero prendere il posto degli Stati Uniti nel dominare il mondo? Credo che anche Israele, prima o poi berrà il calice amaro che non è possibile dominare un altro popolo (palestinesi) con l’invasione. Un mondo multilaterale lo rende sempre meno possibile. C’è più speranza nel futuro di quel che si crede se si punta sulla pace e un mondo multilaterale.
La Svizzera, nel suo piccolo, lo ha capito da 700 anni.

Cover: immagine del Congresso di Berlino del 1878 (Hulton Archive/Getty Images)

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Parole a capo
Natasa Butinar: Due poesie

Parole a capo <br> Natasa Butinar: Due poesie

 

CLESSIDRA

È uno scorrere lento
della sabbia nella clessidra

non rincorro più
sogni impossibili

mi vengono incontro da soli
e ho diritto ad accoglierli o far a meno

tempo fa
ho visto un cigno nero
e adesso attendo senza ansia
quel che deve accadere

consapevole
delle mie possibilità
di sopravvivenza

E sembra non ci sia carità; che il mondo sia un’arida clessidra, e noi come sabbia che, dentro, vi scivoliamo” *
*Carlo Betocchi

*

 

NOVE CIELI

 

Si sgretolano anche le montagne più longeve.
Come pretendere che non crolli la fede ?
La speranza vacilla, trema.
Non di fronte alle disgrazie proprie ma di fronte all’altro, altolocato, che indifferente ti vive accanto e
rompe l’intimo incanto coltivato a lungo.
Le radici di un Sogno utopico marciscono giorno per giorno.
A questo punto, mi domando: dove andremo a finire?
Oh, Dio! Fa che io finisca nei gironi dell’Inferno.
Quel che è stato è stato.
Nove Cieli li ho già vissuti sulla Terra tra gli uomini che mi hanno amato.

 

 

Foto di Denny Franzkowiak da Pixabay

*

Ringrazio Natasa Butinar per queste sue due poesie inedite.

Natasa Butinar. Fiume (Croazia), 1971. Negli anni ’90 si trasferisce in Italia dove tuttora vive. Nel 2016 pubblica la raccolta di poesie bilingue Elefante Bianco. Nel 2019 esce Il guardiano silente. Le sue poesie fanno parte di numerose antologie tra le quali la prestigiosa Antologia di poeti contemporanei dei Balcani edita da LietoColle, 2019. Traduttrice e collaboratore per quanto riguarda il Festival internazionale della Poesia Pero Živodraga Živkovića (Bosnia) organizzato da poeta Emir Sokolović e  sponsorizzato dalla Ambasciata Italiana a Sarajevo. Nella rubrica “Parole a capo” sono state pubblicate altre sue poesie il 18 marzo 2021 e il 4 agosto 2022.

“Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”.

Per rafforzare il sostegno al progetto, invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236
La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su PeriscopioQuesto che leggete è il 315° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Vite di carta /
Ah, le aspettative

Vite di carta. Ah, le  aspettative

Mi sta succedendo quasi regolarmente. Ogni volta che le amiche lettrici mi raccomandano un romanzo che le ha conquistate, mi do da fare per procurarmelo e lo leggo con buona disposizione. Salvo poi sentire un gradimento che da caldo si fa tiepido tiepido. A volte il finale del libro mi dà il colpo di grazia e devo concludere che non mi è piaciuto per niente.

Ho letto La levatrice, il romanzo d’esordio di Bibbiana Cau, e mi sono solo intiepidita, per fortuna.

La storia è avvincente e ci trasporta nella Sardegna di inizio Novecento, negli anni della prima Guerra Mondiale. Spazio e tempo sono lontani quanto basta per delegare all’eroina la nostra ineliminabile voglia di catarsi: Mallena fa nascere i bambini del proprio paese e di quelli vicini senza mai ricevere un compenso, è una donna con un passato da cui è fuggita precipitosamente e che vorrebbe dimenticare, ha un marito a cui è profondamente legata ma lo vede tornare invalido dalla trincea e lo cura disperatamente, indebitandosi.

Il peso della famiglia e dei due figli, la diffida a fare la levatrice non avendo il diploma e la invalidità dolorosa del marito le gravano sul cuore ogni giorno di più.

Ha una sensibilità non comune, Mallena. Mentre cammina di giorno e di notte per raggiungere le case dove è stata chiamata ad aiutare le partorienti sa guardarsi intorno e vedere la natura con occhi partecipi. Sa riconoscere i profumi delle piante e delle erbe che vanno bene per farne infusi miracolosi.

Forse questa che la ritrae nel contesto della sua Sardegna è la parte meglio riuscita del libro. Si vedono sullo sfondo, infatti, i modi di vita e la mentalità del tempo, atavici e naturali, nella povertà cruda in cui vivono i popolani. Si vede la cultura racchiusa nei proverbi sardi, la ritualità del quotidiano dentro le case col pavimento in terra battuta e fuori, nei campi dove pascolano le pecore.

Poi, gli accadimenti si accaniscono sulle spalle di lei. Troppi. Percepisco che vorrei sottrarne qualcuno all’intreccio, agire per sottrazione.

La catarsi di chi legge intanto si è consumata e la protagonista ancora incassa colpi. Si fa vivo anche l’uomo violento a cui i genitori l’avevano promessa in sposa e che l’ha costretta a fuggire dal suo paese unendo il proprio destino a un marito buono che la rispetta.

A questo punto l’intreccio si è intricato fino a sembrare insolubile. Per fortuna l’uomo del passato, noto ormai come pericoloso malvivente, resta ucciso poco dopo averla approcciata con terribili minacce.

Come nella tragedia greca, interviene anche un deus ex machina che scioglie il problema economico in cui si dibatte Mallena. Il deus ha la forma dei soldi, tanti, che le vengono donati da un uomo misterioso da lei soccorso tempo prima nel bosco. Ci può comprare le medicine costose per il marito, può provvedere alle necessità della famiglia, anche e soprattutto quando il suo Jubanne muore.

La quarta di copertina promette che la storia finisce lasciando il posto alla speranza. Non è però una speranza che venga dalle leggi degli uomini: lo stato non riconosce Mallena come levatrice autorizzata, può solo chiudere gli occhi davanti all’esercizio che lei continuerà a fare, chiamata con fiducia dalle donne del suo paese che invece hanno ignorato la levatrice diplomata venuta da fuori. La ripresa per la protagonista non viene dall’esercizio di un diritto, ma da un colpo di fortuna.

Fortuna per fortuna, magia per magia, mi viene in mente la figura misteriosa che anima un altro libro scritto da un autore sardo nei primi anni 2000. Lo scrittore è Salvatore Niffoi e la figura femminile è quella di Redenta Tiria, donna straordinaria che arriva in un paese dove gli uomini si danno la morte impiccandosi con la cinghia dei pantaloni e le donne usando la fune.

Lei riesce a cambiare le cose, a “tagliare la lingua alla Voce” che li spinge al suicidio, a metterli di fronte alla vita.

La leggenda di Redenta Tiria ha intorno lo stesso contesto del mondo sardo, Redenta è una donna che abita il misterioso confine tra la vita e la morte.

Mallena Devaddis è donna altrettanto speciale, donna della vita a cui accompagna i nascituri.

Tra la vita e la morte si muove anche Tzia Bonaria, la sarta protagonista di Accabadora, il romanzo di Michela Murgia (di cui ho parlato in questa rubrica in Vecchie vestite di nero) in cui per chi non ha più speranza di guarigione arriva la portatrice di una morte pietosa.

Che dire? La narrativa di ambientazione sarda, con le donne per protagoniste – probabilmente un lascito di Grazie Deledda – esercita un fascino potente, al di là dell’abbondante realismo adottato da Bibbiana Cau e forse proprio attingendo alla sfera del magico.

Nota bibliografica:

  • Bibbiana Cau, La levatrice, Nord, 2025
  • Salvatore Niffoi, La leggenda di Redenta Tiria , Adelphi, 2005
  • Michela Murgia, Accabadora, Einaudi, 2009

Cover: https://pixabay.com/it/images/search/nuovi%20nati/

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Sull’educazione sessuo-affettiva.
Il progetto della Sindaca Salis di avviare un progetto pilota in 4 asili

Sull’educazione sessuo-affettiva.
Il progetto della Sindaca Salis di avviare un progetto pilota in 4 asili.

Educazione Sessuo-Affettiva

Partiamo dalle parole. “Sessuo– è un prefisso scientifico derivato da “sesso”, usato per formare parole composte come “sessuologia” o “sessuofobia”, che indicano qualcosa relativo al sesso o alla sessualità” (Fonte Dizionario Italiano on line,  su Treccani non si trova perché non è una parola). Non è una parola a sé stante, ma si unisce ad altri termini per specificarne il significato.

Affettiva invece è un aggettivo.

Dunque  il sostantivo Educazione è collegato a un prefisso non specificato  e a un aggettivo e questo rende difficile capire cosa si intende veramente con ‘Educazione Sessuo-Affettiva. Tempo addietro si parlava di ‘Educazione Sessuale’, e come materia scolastica non era molto ben vista in Italia. Cosa si vuole dire ai bambini? si chiedevano in molti.

Così, lentamente, si è passati da ‘Educazione Sessuale’ a ‘Educazione Sessuo-Affettiva’. Una delicata trasformazione verbale per rendere più digeribile la proposta di portare nelle scuole di ogni ordine e grado una materia dagli ampissimi orizzonti. Ora ci stiamo avviando verso una semplificazione ancora più edulcorata: Educazione all’Affettività.

Chi mai potrebbe dichiararsi contro l’educazione all’affettività? Premetto che credo che la mission di ogni insegnante dovrebbe proprio essere educare-dal latino ex-ducere, tirare fuori ciò che è unico in ognuno di noi, portare alla conoscenza di se stessi (Socrate) e delle diversità che abitano il mondo e insegnare il rispetto.

Quindi, a mio parere, sarebbe molto più utile proporre corsi di aggiornamento per insegnanti sul nuovo panorama sociale che si sta delineando. Comunque la domanda “di cosa si parlerà nell’ora dedicata all’educazione sessuo-affettiva?” resta e se te la poni sei tacciata come una retrograda, conservatrice, moralista e molto probabilmente cattolica intransigente.

*****

Pochi giorni fa ho ascoltato su Instagram un reel di una giovane regista e linguista, di nome Romantha Botha, in cui parla dell’erosione della lingua, che è quel fenomeno che avviene  quando si perde lentamente una lingua o si annacquano alcune parole fino a trasformarne completamente il  significato. Un fenomeno in forte accelerazione in questi ultimi tempi.

Tra gli esempi che Romantha Botha riporta, quello sulla parola stupro, che nella neo lingua diventa incontro non consensuale. Botha dice che sostituire ‘stupro’ con  incontro non consensuale vuole dire cancellare l’emozione, eliminare l’intuizione e il potere che deriva dalla parola e spegnere in questo modo anche l’indignazione che la parola autentica provoca.

Ecco: l’utilizzo della parola sessuo-affettiva affiancata alla parola ‘educazione’ mi sembra faccia parte di un’operazione simile. Sono abituata a questo tipo di deterioramento delle parole.

Quando iniziai a occuparmi di maternità surrogata, o utero in affitto, solo il fatto che usassi quelle parole per definirne la pratica mi poneva in una posizione assai scomoda. Si voleva imporre Gestazione per Altri che induce nell’ascoltatore tutta un’altra emozione. (Secondo coloro che la pensavano diversamente da me, l’utilizzo di maternità surrogata era discriminatoria).

Dice  Romantha Botha : “il linguaggio non riflette solo il nostro modo di pensare, ma lo modella. Se cambiamo il modo in cui diciamo qualcosa, cambia anche il modo in cui ci relazioniamo con essa.”  E soprattutto: “quando si censura, si sterilizza e si cancella, rischiamo di diventare insensibili alle cose che dovrebbero farci agire perché se una cosa non la si può nominare, non la si può neppure combattere.”

****

Ora, ascoltando la presentazione della Sindaca Salis (Genova) sul progetto pilota che avvierà in 4 asili sull’educazione sessuo-affettiva, si assiste proprio a questo annacquamento delle parole. A livello generale tutto quello che dice può anche sembrare sensato ma poi, a livello pratico, quando si vuole sapere cosa s’intende fare o raccontare a bambini di 3/4/5 anni nell’ora settimanale dedicata, non è dato sapere.

E per chi come me da anni si batte proprio contro la cancellazione a la sanificazione della lingua (‘prostituzione’ che diventa ‘sex work‘, ‘donne’ che diventano ‘persone mestruanti’, ‘genitori committenti’ che diventano ‘genitori intenzionali’ e aggiungiamo gli asterischi e la shwa) tutto questo parlare di affettività (sessuo si perde per strada quando Salis parla del progetto), con l’aggiunta che tale educazione non può e non deve essere solo appannaggio della famiglia, è un campanello di allarme.

Perché  io ce l’ho un’idea di dove si vuole andare, per i più anche inconsapevolmente. Da tempo lo sguardo predatorio e estrattivista del capitalismo occidentale si è spostato dalla natura ai corpi umani. Il sorgere di tantissime cliniche per la fertilità e per la maternità surrogata, nelle democrazie occidentali come in alcuni paesi più poveri, dovrebbe farci aprire gli occhi sulla deriva di una “scienza onnipotente” che apre al mercato degli esseri umani. Pezzi di corpi immessi sul mercato con la scusa che è per il bene e per la salute di tutti.

È di questi giorni la campagna pubblicitaria di Nucleus IVF+ in cui in molti grandi schermi in tutta la metropolitana di New York scorre una pubblicità in cui ti vendono “il tuo miglior bambino” a 9999 dollari. Nucleus Genomics offre, alla modica cifra di 10000 dollari, di analizzare più di 900 geni per offrirti la possibilità di scegliere l’embrione migliore.

Ovviamente questo fatto apre a una moltitudine di riflessioni, ma qui io voglio sottolineare che, se senza pudore si vende “ il bambino migliore” vuole dire che l’idea del mercato dei corpi e dei pezzi di corpo (DNA sperma ovuli/ bloccanti pubertà, chirurgia del cambio di sesso etc) è già sdoganata.

Però per convincere tutti che la vita è “un prodotto” modificabile e progettabile bisogna spostare completamente la narrazione della Riproduzione da fatto naturale e fisiologico a quella in laboratorio. Si chiama transumanesimo ed è l’ideologia che sostiene l’idea di un’umanità modificabile geneticamente, integrata con intelligenze artificiali e intrecciare questa narrazione a doppia mandata con la parola “progresso”.

Ma se non si parte dai bambini, se non si inizia a dire fin da piccoli che tutto questo è la naturale evoluzione del progresso, come sarà mai possibile avviare una rivoluzione dell’umanità che cambia radicalmente e nel profondo, il senso stesso di essere umano?

So bene che a difesa dell’educazione sessuale e affettiva si dice che insegna a rispettare il consenso, ad essere in grado di parlare delle proprie emozioni e ad avere  una relazione sana con gli altri (e fin qui questa non è già una mission della scuola?) e con la propria sessualità e so bene che si dice che questo contribuirà a ridurre la violenza di genere (che io preferirei chiamare violenza maschile sulle donne perché è proprio quella a cui si fa spesso riferimento a difesa della materia ).

Tutto questo però non sembrerebbe supportato dai dati:  in Svezia, in cui l’educazione sessuale è materia da più di 50 anni, i dati sui femminicidi indicano che il tasso di percentuale è tra i più alti nell’EU.

Dunque la domanda resta. Cosa si pensa di raccontare e far fare ai bambini di 3/4/5 anni nell’ora settimanale di educazione Sessuo-Affettiva?

Cover: immagine da cargomilla.it

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Delrio, o del reo

Delrio, o del reo

rio1 agg. e s. m. [lat. reus: v. reo1], poet. – 1. agg. Reo, colpevole; soprattutto negli usi fig., avverso, perverso, malvagio: 

(Treccani)

 

Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, le stime più attendibili (ma senz’altro approssimate per difetto) dei civili palestinesi ammazzati nella striscia di Gaza dall’esercito israeliano, a partire dall’8 ottobre fino ad oggi, parlano di circa 60.000 persone, tra cui circa 20.000 bambini. Il governo  israeliano conserva la maggioranza alla Knesset grazie all’appoggio determinante dei partiti fascisti che esprimono i ministri Smotrich e BenGvir, i quali teorizzano apertamente la pulizia etnica dei palestinesi, peraltro dichiarati un popolo inesistente – curioso caso di schizofrenia del pensiero: desidero eliminare ciò che non esiste.

Cosa Nostra, secondo stime del 2015 della Camera dei Deputati, conta 2.500 affiliati, più decine di migliaia di reinvestitori nella finanza, nell’imprenditoria, corrotti nella politica e fiancheggiatori nelle famiglie, al punto che non è più possibile separare l’economia legale da quella illegale. Facciamo che, così come a Gaza non è possibile distinguere un terrorista da un civile  – la cui versione più hard di alcuni generali dell’IDF è non ci sono innocenti a Gaza – altrettanto a Palermo e in Sicilia occidentale non è facile distinguere una famiglia mafiosa da una pulita, un imprenditore sano da uno compromesso, un politico onesto da uno pagato dalle cosche, un cittadino da un criminale.

Mettiamo che, per effetto di questa enorme difficoltà di separare i buoni dai cattivi, lo Stato italiano decida di radere al suolo Palermo. Seicentomila abitanti, decine di migliaia di bambini (potenziali mafiosi, una volta adolescenti: definisci bambino), un patrimonio umano, architettonico e culturale unico al mondo, dal barocco all’arabo normanno, al liberty. Mettiamo che un decimo della popolazione di Palermo venga assassinato, che il resto della popolazione venga ridotto alla fame, che la Palermo che conosciamo venga ridotta a un cumulo di macerie fumiganti e tossiche, sotto le quali giacciono i cadaveri di almeno tanti palermitani quanti quelli ufficialmente uccisi. Tutto questo in nome del supremo interesse della Nazione: estirpare il cancro della mafia. Laddove non ci sono riusciti due tra i pochi eroi civili di questo strano, pavido paese, ci riusciranno le bombe. 

Mettiamo che un manipolo di deputati molto progressisti, preoccupato per l’ondata di indignazione contro il governo italiano responsabile di questo crimine contro l’umanità, decida allora di proporre una legge per cui dichiarare che questo Stato italiano è criminale, dichiarare che questo Stato pianifica ed esegue lo sterminio indiscriminato, dichiarare e manifestare il proprio odio civile per degli assassini di massa e di Stato, diventa un reato. Il reato di anti-italianismo.

Anti-italianismo fa ridere, vero? E’ qualcosa di grottesco, di assurdo, anche se ha una sorta di retrogusto vintage britannico (Mussolini venne definito in un fumetto inglese del 1938 “Musso the wop”, ovvero Mussolini lo sbruffone). Esprimere un’opinione di radicale avversione contro uno Stato che ammazza in maniera indiscriminata civili, diventerebbe quindi un reato. Se non fosse un’idea fascista, ci sarebbe da seppellire chi la propone sotto una gragnuola di risate. Anzi, ci sarebbe da ridere perché per fortuna si tratterebbe di una boutade, di un’invenzione, del parto di una fantasia distopica. Ma non lo è. Se il tuo Stato è uno Stato assassino e tu sei un cittadino di quello Stato, magari sei uno di quelli che si vergogna del proprio Stato che agisce come un criminale seriale, tranquillo: se qualcuno inveirà contro il tuo Stato criminale sarà imputato di anti-italianismo, circostanza che ti farà sentire protetto e fiero di essere italiano. Attento però: se da italiano ti permetterai di accusare il tuo Stato di essere omicida, anche tu sarai un reo: reo di essere anti-italiano. 

Eh, ma è diverso. E’ un parallelo che non regge. Il disegno di legge Delrio non punisce chi critica il governo israeliano, ma chi sostiene che Israele sia uno stato razzista.

Ah. Quindi dire che Israele è uno stato razzista significa essere antisemiti. Quindi affermare che il Sudafrica prima di Mandela, colonizzato da una minoranza bianca che governava la maggioranza di colore con leggi razziste, era uno Stato razzista, equivale ad essere anti-sudafricani. E’ un ragionamento che rovescia su chi critica i razzisti l’accusa di razzismo, facendo diventare l’accusa ai razzisti un reato d’opinione, paragonato a un crimine d’odio. Ma grazie di cuore, Graziano Delrio. Cito un rapporto di Amnesty International:“…i palestinesi non possono effettivamente fare contratti di locazione sull’80% dei terreni di stato israeliani a seguito di requisizioni razziste di terreni e di una rete di leggi discriminatorie sull’assegnazione delle terre, di piani edilizi e di regolamenti urbanistici locali. …La situazione nella regione del Negev/Naqab, nel sud di Israele, è un esempio di come le politiche di pianificazione e i piani edilizi israeliani escludano intenzionalmente i palestinesi. Dal 1948 le autorità israeliane hanno adottato varie politiche per “giudaicizzare” il Negev/Naqab, incluso designare ampie aree come riserve naturali o zone di tiro militari, e stabilendo obiettivi per aumentare la popolazione ebraica. Attualmente trentacinque villaggi beduini, casa per circa 68 000 persone, sono “non riconosciuti” da Israele: questo significa che non sono collegati alla fornitura elettrica e idrica nazionale e ripetutamente prese di mira per la demolizione. Poiché i villaggi non hanno uno status ufficiale, i loro abitanti subiscono inoltre limitazioni nella partecipazione politica e sono esclusi dal sistema sanitario e educativo. Queste condizioni hanno costretto molti a lasciare le proprie case e i villaggi, ciò che costituisce trasferimenti forzati…. Ai palestinesi residenti in Israele viene negata la nazionalità, creando una differenziazione giuridica rispetto agli ebrei israeliani. In Cisgiordania e a Gaza, dove Israele controlla i registri anagrafici dal 1967, i palestinesi non hanno alcuna cittadinanza e molti sono considerati apolidi e devono quindi chiedere documenti di identità all’esercito israeliano per vivere e lavorare nei territori. I rifugiati palestinesi e i loro discendenti, sfollati nelle guerre del 1947-1949 e del 1967, continuano a vedersi negato il diritto al ritorno nel loro precedente luogo di residenza. I palestinesi della annessa Gerusalemme Est hanno un permesso permanente di residenza invece della cittadinanza – anche se questo status è permanente solo sulla carta. Dal 1967 più di 14’000 palestinesi si sono visti revocare la residenza a discrezione del Ministero dell’Interno, risultante nel loro trasferimento forzato al di fuori della città.” Se vuoi consultare il testo integrale,   Leggi qui. 

Quindi i casi sono due: o si fa finta che Israele non sia uno stato razzista, per evitare di essere un reo, per Graziano Delrio e i suoi epigoni; oppure si afferma che Israele è uno stato razzista, e si finirà denunciati, grazie al molto progressista Delrio, assieme ad Amnesty International, assieme ad Omer Bartov, assieme a Norman Finkelstein, assieme ad Anna Foa, assieme a Gideon Levy, assieme a David Grossmann. Tutti ebrei. Ed assieme alle centinaia di cittadini che in Germania e nel Regno Unito vengono malmenati e arrestati dalla polizia per il reato di denuncia di un genocidio. Personalmente preferisco essere un reo in compagnia di gente perbene, che essere in compagnia delle idee di Delrio.

Photo cover: Ted Eytan, licenza https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0

 

 

La Flotilla dei bambini

La Flotilla dei bambini 

Successo delle Lettere di pace. L’iniziativa va fino al termine dell’anno scolastico

La Flotilla dei bambini del mondo sta navigando a gonfie vele. Ad oggi sono centinaia le Lettere di Pace inviate ai politici dalle scuole italiane e straniere.

L’iniziativa è stata promossa dal Gruppo Educazione alla pace e alla nonviolenza del Movimento di Cooperazione Educativa, con la partecipazione di oltre 40 associazioni nel mondo, aderenti alla Federazione Internazionale dei Movimenti di Scuola Moderna (Fimem) e ha già coinvolto molti insegnanti, dalle scuole dell’Infanzia alle scuole superiori.

I docenti si sono fatti educatori per la Pace, guidando bambine e bambini, ragazze e ragazzi ad interrogarsi su guerre e conflitti armati, a pensare sul da farsi con la “messa in mare” delle Lettere di Pace. L’idea di scrivere lettere ai politici e ai potenti della Terra è stata accolta con entusiasmo dagli studenti; le scrivanie di importanti presidenti di organismi Internazionali, nazionali ed europei sono state inondate dalle lettere, con osservazioni e proposte su come si possa raggiungere la Pace nel mondo.

Utilizzando la scrittura collettiva, le classi hanno scritto ai politici che amministrano il loro territorio e ad importanti esponenti della politica nazionale e internazionale. Sono state spedite lettere anche al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e a Sua Santità Papa Leone XIV. Per questo gli organizzatori pensano di chiedere loro di ricevere gli allievi.

Il Presidente della CEI, Cardinale Matteo Zuppi, ha incoraggiato i promotori a proseguire su questa strada, per garantire il diritto di bambini e ragazzi ad esprimersi sulla Pace e la Guerra e su tutte le questioni che li riguardano. Con questa iniziativa possono farlo! Nell’invito alle classi a partecipare si legge:

“Fermare le guerre non è facile ma abbiamo la possibilità di far sentire la nostra voce; la pace si comincia a costruire a scuola imparando ad ascoltare, a parlarsi e a risolvere i piccoli conflitti rispettando l’altro. Se in molti spedirete le lettere, se i giornali e le TV ne parleranno, allora i politici potranno capire che il futuro che immaginano i bambini e le bambine del mondo si chiama: Pace.”

Nonostante la nascita dell’Unione Europea e dell’Onu, quali strumenti di Pace, viviamo una realtà sconvolta da guerre, che troncano la speranza di vita e i sogni di tante persone e dove parlare di disarmo sembra un’utopia.

Per questo diviene centrale il compito delle scuole di Educare alla Pace, alle relazioni nonviolente, improntate alla ricerca della giustizia.

Attraverso la didattica democratica e cooperativa, nelle classi si discute, ci si confronta, si analizzano e approfondiscono questioni di vita vera, a cui ciascuno può contribuire con passione ed entusiasmo.

Vista la grande partecipazione, l’iniziativa viene prorogata sino al termine dell’anno scolastico. Le classi potranno comunicare ancora la propria adesione scrivendo e inviando poi copia delle lettere spedite a: educationpaix@mce-fimem.it

I materiali di supporto alle attività didattiche si trovano nell’area dedicata del sito www.mce-fimem.it .

Nel prossimo futuro continuerà anche il progetto nazionale ed internazionale “Facciamo la pace a…” , con il quale bambini/e e ragazzi/e sono invitati a costruire la pace ove vivono; a casa, a scuola, con gli amici, attraverso la gestione nonviolenta dei contrasti, dei piccoli conflitti, per iniziare a contribuire alla costruzione nonviolenta di un mondo più equo e più giusto.

A cura del Gruppo Nazionale di Ricerca Educazione alla Pace e alla Nonviolenza del Movimento di Cooperazione Educativa

Il coordinatore: Roberto Lovattini

Il pane nel lavatoio

Il pane nel lavatoio

Aversa, inverno del 1943

Anna aveva quattordici anni, ma ne dimostrava dieci. Magra come un fuscello, con le ginocchia sempre sbucciate e i capelli raccolti alla meglio sotto un fazzoletto stinto, era una delle tante bambine diventate grandi troppo in fretta. La guerra, ad Aversa, non era fatta di bombe ogni giorno, ma era peggio: era fame, silenzio, attesa e occhi sempre aperti. Era il rumore dei camion tedeschi per le strade e il vuoto della dispensa in casa.
Il padre era morto in Africa, dicevano. Nessuno l’aveva visto cadere, solo una lettera arrivata mesi dopo, scritta da un ufficiale che parlava di “onore” e “patria”. La madre lavorava quando trovava qualcosa, spesso raccattava legna o andava nelle campagne a chiedere un tozzo di qualcosa in cambio di panni lavati, puliti o rattoppati.
Anna, per aiutare, andava dalle suore. Quelle del convento di Sant’Agostino, che accoglievano orfane e cucinavano minestre con l’odore della speranza. In cambio di qualche ora al lavatoio, le davano un pezzo di pane duro. “‘Nu filone piccolo”, lo chiamavano. Ma per Anna era un tesoro. Lo prendeva con le mani tremanti e lo infilava nel seno, tra la pelle e la sottoveste, per non farselo portare via da nessuno. Lo conservava caldo con il suo corpo.
Il lavatoio del convento era una stanza fredda, umida, con le vasche di pietra scura, sempre piene d’acqua gelata. Le suore portavano lenzuola, camicie, sottane da pulire. Anna strofinava con il sapone di cenere, con le mani rosse e screpolate. Le unghie rotte, i piedi gonfi. Ma non diceva nulla. Sapeva che solo lavorando avrebbe potuto guadagnarsi quel pane.
Quel giorno, un lunedì, pioveva. La pioggia batteva sui vetri, e il cielo era basso. Anna aveva finito quasi tutto il bucato. Si chinò per prendere una coperta spessa, la sollevò e cominciò a sviolinare, come diceva la suora anziana, strofinando con forza per far uscire la schiuma.
Fu allora che accadde.
Sentì uno scivolare. Un tonfo sordo. Si voltò e vide il filone — il suo pane — galleggiare nella vasca, tra la schiuma e i panni sporchi.
Per un attimo rimase ferma. Il cuore le batteva forte. Il pane era tutto quello che aveva.
Lo tirò su subito, con le mani. Era zuppo, molle, con qualche filo di sapone attaccato. Aveva l’odore delle lenzuola sporche, del freddo, dell’acqua stagnante. Lo strizzò tra le mani, come se potesse cavarne ancora qualcosa di buono. Poi si guardò intorno.
Nessuno la stava osservando.
E allora, lo addentò.
Lo morse con rabbia, con dignità, con dolore e fame. Lo mangiò tutto, un morso dopo l’altro, anche se il sapore era amaro, anche se sapeva di lavandaio, di suora, di miseria. Le scendevano le lacrime — non capiva se dal freddo, dalla vergogna o dalla fame che non si fermava mai.
Passarono gli anni. La guerra finì, come finiscono tutte le guerre: tardi, male, e lasciando dietro chi non ce l’ha fatta.
Anna crebbe. Si sposò, in seconde nozze, con un tranviere vedovo, ebbe due figli. Ma quel pane, il pane caduto nel lavatoio, non lo dimenticò mai.
Ogni volta che qualcuno si lamentava del pranzo, ogni volta che buttavano via una crosta troppo dura, lei stringeva i denti e diceva:
“Io una volta ho mangiato il pane lavato nel sapone. E non me ne sono mai pentita.”
E nessuno rideva. Perché nei suoi occhi c’era qualcosa che nessun tempo poteva cancellare: la fame, e l’orgoglio di non essersi mai arresa.
In copertina: Lavatoio antico pubblico Sant’Agata sui due Golfi:  immagine Wikimedia Commons

Edgar Morin: Lo spettro russo e il degrado delle democrazie

Lo spettro russo e il degrado delle democrazie

di Edgar Morin *
Insensibilmente l’arma nucleare è divenuta un pericolo presente e suscita dibattiti apparentemente sereni, alcuni dei quali assicurano tranquillamente che la terza guerra mondiale è già cominciata, come se non si trattasse di una catastrofe dantesca.

È con stupore che una parte degli umani considera il corso catastrofico degli eventi, mentre un’altra parte vi contribuisce con incoscienza.

Si è ciechi rispetto alla grande regressione che prosegue il suo corso planetario, accentuata dalla mondializzazione dell’inizio del secolo, e che ha già prodotto due guerre entrambe internazionalizzate e che minacciano di generalizzarsi.

L’anteguerra del 1940 fu incancrenito dal pacifismo poi collaborazionista, questo lo è dal bellicismo.

Ho spesso segnalato che la storia dell’umanità, divenuta «una» dopo la mondializzazione pur divenendo sempre più diversa e conflittuale, aveva preso, simultaneamente ai suoi progressi scientifici e tecnici, un corso politico ed etico sempre più regressivo.

Due guerre ci assediano ormai. Esse sono internazionalizzate pur rimanendo ancora regionali. Esse aggravano la grande catastrofe ecologica che subisce il pianeta, e un po’ ovunque contribuiscono a questo aggravarsi.

Nello stesso tempo, le angosce che esse provocano al di fuori dei loro territori contribuiscono a questo aggravamento che annichila tutti i tentativi di riassorbimento della crisi ecologica mondiale. Corsa agli armamenti: escalation o tracollo? L’una e l’altro nello stesso tempo.

È da sottolineare come la mondializzazione economica realizzatasi all’inizio del secolo abbia favorito la disunione delle nazioni e nello stesso tempo le potenze imperiali.

La Russia ha fallito nel suo tentativo di annettere l’Ucraina una volta conquistata. Fino ad ora non ha potuto che occupare pochi territori oltre alle province separatiste russofone, che del resto erano in guerra contro l’Ucraina dal 2014. Non si vede come una pace giusta possa mettere queste province russofone sotto il controllo di uno stato ucraino che ha bandito la lingua russa, la sua cultura e la sua musica.

Come avevo già indicato nel mio libro Di guerra in guerra, la pace giusta dovrebbe comportare l’indipendenza politica e militare dell’Ucraina, con garanzie da negoziare (Neutralità protetta? Integrazione nell’Unione europea?).
Dovrebbe confermare la russizzazione delle province separatiste e uno statuto per la Crimea, che nel 2014 includeva 1.400.000 russi, 400.000 ucraini, 300.000 tartari, primi abitanti della Crimea la cui maggioranza è stata deportata da Stalin.

Una tale pace è concepibile fintanto che le forze in conflitto siano più o meno equilibrate e fintanto che nessuna sia costretta alla capitolazione.
Dunque, è ancora possibile nel momento in cui sto scrivendo, ma questa possibilità scomparirà con l’accresciuta internazionalizzazione di questa guerra, e con le escalation che di fatto sono dei tracolli. La visione unilaterale dei media ignora che l’Ucraina è stata una posta in gioco fra l’impero americano e l’impero russo. Prima di Trump, gli Usa avevano satellizzato economicamente, tecnologicamente e militarmente l’Ucraina, la quale sarebbe stata una pistola puntata alla frontiera russa, se fosse passata sotto il controllo della Nato.

I nostri media non soltanto sottolineano l’imperialismo russo, ma immaginano che questo potrebbe invadere l’Europa, laddove è peraltro incapace di annettere l’Ucraina in tre anni di guerra. Lo spettro del pericolo russo ci maschera il pericolo della degradazione in corso delle democrazie europee minacciate dalla possibilità di subire un potere autoritario.

Paradossalmente, le sanzioni hanno favorito l’economia militare russa, che oltre ad aerei, droni, bombe ha ormai un missile che per capacità supera i missili occidentali, perché nelle condizioni attuali non può essere intercettato.

Invece che spingere i due nemici a negoziare, e a stabilire un compromesso sulle basi che ho appena menzionato, gli europei contribuiscono alla escalation.

Putin è un tiranno crudele e cinico, ma l’argomento per cui non si potrebbe negoziare con Putin è derisorio da parte di governi che negoziano amichevolmente con il capo di una dittatura totalitaria molto più tentacolare della dittatura Putiniana.
Di fatto i governi occidentali hanno condotto in passato una politica di alleanza con la tirannia zarista e la tirannia staliniana.
E d’altra parte Trump opera una riconfigurazione del dominio americano nella quale la Russia cessa di essere nemica e che è fondata sulla pace americana generalizzata.

I media agitano la minaccia della Russia sull’Europa occidentale. Ma come la Russia, incapace di invadere l’Ucraina, potrebbe invadere l’Europa?

Il grande pericolo è l’aggravarsi costante della crisi dell’umanità che ci conduce alle catastrofi ecologiche, politiche, militari.

Questa crisi comporta la tragedia palestinese, ancor più grave del conflitto ucraino. Israele non ha soltanto conquistato e occupato le terre del popolo palestinese, è in corso la liquidazione di questo popolo martire attraverso l’occupazione totale del suo territorio.
Niente, in questo momento, può contrastare questo processo e noi non possiamo far altro che testimoniare nella impotenza e nella compassione.

Infine, più ampiamente, noi dobbiamo cercare di pensare la policrisi dell’umanità nelle sue complessità e nei suoi orrori, e dovremmo agire nelle incertezze, ma con l’intenzione di salvare l’umanità dalla autodistruzione.

Edgar Morin *
Centoquattro anni compiuti l’8 luglio, il sociologo, filosofo e saggista francese di origine ebraica Edgar Nahoum, che ha poi preferito il cognome Morin (scelto durante la Resistenza) è uno dei massimi intellettuali contemporanei. Iniziatore del «pensiero complesso», cui ha dedicato un suo monumentale saggio, ideatore del concetto della «policrisi», fondatore della transdisciplinarietà, la sua ricerca spazia dalla filosofia alla politologia, dalla sociologia del cinema all’epistemologia delle scienze umane fino all’ecologia. Ci ha fatto avere questo articolo originale e inedito che pubblichiamo con grande piacere.

(pubblicato da “il manifesto” del 28 novembre 2025)

Cover: Edgar Morin a Porto Alegre nel 2011 – immagine Wikimedia Commons

Per certi Versi / Formula

Formula

 

Disegno ombre

sul foglio a quadretti

è il tuo volto

 

persa in una formula

irrisolvibile

non ti volti

 

io invece m’innamoro

dei tuoi capelli

che conto

dal banco di dietro

 

vorrei che ti girassi

 

In copertina: Foto di Luisella Planeta LOVE PEACE 💛💙 da Pixabay

Nel 2025 la storica rubrica domenicale di poesia Per certi versi è affidata a Maria Mancino (Maggie)  

Eppure Elly Schlein

 

Eppure Elly Schlein

Ho ascoltato tante volte Elly Schlein: dal vivo, in tv, nei comizi, in radio, sui social. Dice sempre le cose giuste, le dice bene, con competenza, pacatezza e decisione.
Ma non arriva. Non arriva perché quando parla nessuno la ascolta, nel senso che nessuno la prende sul serio. Non la prendono sul serio i giornalisti che la intervistano e la interrompono in continuazione come se stesse dicendo cose poco interessanti; non la prende sul serio, soprattutto, il cittadino che si trova a sentire le sue parole e senza seguirne il senso le chiama “solite supercazzole”.

Il pensiero immediato della maggior parte della gente quando compare o viene anche solo nominata Elly Schlein è reso bene da chi, subito spazientito, dice: “ancora il PD?” O, peggio, Elly chi, la comunista che paga 300€ all’ora per l’armocromista? Cosa vuoi che ne sappia di chi non arriva alla fine del mese? O, peggio ancora, “che brutta, ‘sta dentona, sembra Sandro Tonali”. Tutti modi gretti e antichi come il mondo per ridurre la donna a oggetto di scherno e eliminare così dall’orizzonte delle possibilità che possa avere e esprimere un pensiero sensato, indipendentemente dall’aspetto (tra l’altro, per me – e non solo per me – Schlein è bellissima, ma cosa conta?!) e dal censo (anche Matteotti era ricchissimo, e questo non gli ha impedito di difendere i braccianti con passione e coraggio senza pari, di morire ammazzato, per loro e per gli ideali socialisti in cui credeva).

Eppure Elly Schlein, appena eletta segretaria, con grande coraggio, ha fatto quello per cui era stata votata in massa, dagli iscritti e dai simpatizzanti, che vedevano in lei una speranza (oggi in parte tradita, in parte delusa) che il PD diventasse, finalmente, un partito di sinistra (cosa che non può diventare, non completamente): ha preso le distanze da ciò che il PD era stato prima di lei e che lei aveva fieramente combattuto, fino a restituire la tessera in polemica contro provvedimenti ingiusti (e che ancora il PD paga per la perdita di consenso che naturalmente generarono: quando la sinistra fa la destra perde sempre voti, perché tra l’originale e la fotocopia si preferisce sempre l’originale), provvedimenti che hanno ristretto i diritti dei lavoratori, come il Jobs Act di Renzi, o hanno reso l’Italia complice, criminale e assassina, delle torture e del massacro di decine di migliaia di esseri umani in fuga dalle loro terre, ovvero il Memorandum Italia-Libia di Minniti.

Eppure Elly Schlein non ha completato quel processo di cambiamento interno al partito che pure aveva annunciato, che pure aveva cominciato.

Si era parlato addirittura di cambiare nome, forse anche simbolo. Sarebbe stato giustissimo, dico di più, fondamentale. Lo è ancora. Il PD, nel nome e nel simbolo, si porta dietro lo stigma di tutto quello che è stato, da Veltroni in poi (il partito del “ma anche”, che contiene al suo interno ogni posizione e il suo contrario, quindi un partito inaffidabile, inevitabilmente poco credibile, con una proposta politica poco chiara e scarsamente identificabile, data dall’impossibilità di operare continuamente una sintesi tra posizioni politiche agli antipodi), lo stigma per tutto quello che ha fatto e, soprattutto, per tutto quello che non ha fatto quando avrebbe potuto, cioè ogni volta che è andato al governo (non ha abolito la Bossi-Fini, non ha fatto una legge sul conflitto si interessi, non ha liberato la RAI dai condizionamenti di partito, non ha fatto gli investimenti che sarebbero necessari in salari, sanità, istruzione, trasporti pubblici, transizione ecologica ecc.). Il PD, insomma, è universalmente riconosciuto come un partito inaffidabile, perché privo di una linea chiara, il cui unico obiettivo sembra essere il raggiungimento del potere fine a sé stesso, non per cambiare veramente le cose, come a un partito progressista sarebbe invece richiesto di fare.

Eppure Elly Schlein, quella linea, al partito, ha cercato di darla. Netta, chiarissima, imperniata su pochi punti ben definiti, con proposte concrete e esposte con precisione, senza essere vaghi, generici, senza fermarsi agli slogan, pur necessari, talvolta, per brevità:

1) difesa della sanità e dell’istruzione pubbliche
2) salario minimo garantito per combattere il lavoro povero (“perché al di sotto di un certo stipendio non è lavoro ma sfruttamento”)
3) diminuzione dell’orario di lavoro a parità di stipendio per liberare il tempo della vita mangiato dal lavoro. Il tempo, il bene più prezioso che abbiamo. Il tempo impagabile e che pure, per sopravvivere, dobbiamo vendere in cambio di un salario.
4) congedo parentale paritario di 5 mesi per madre e padre, in modo da togliere alle donne le incombenze su tutto il lavoro famigliare e permettere anche ai papà (misura di civiltà minima proprio) di passare più tempo con i figli. Tempo che oggi viene sottratto dal lavoro.
5) legge sulla cittadinanza per smettere di trattare gli italiani discendenti da immigrati come italiani di serie B, con meno diritti degli altri, dei compagni di scuola, di calcio, di band musicale.

Proposte di sinistra ma che qualunque cittadino non privilegiato e non in malafede vedrebbe di buon occhio. Proposte, direi, di semplice realizzazione di ciò che è detto nella Costituzione, tra i principi fondamentali che ispirano la nostra Repubblica. Proposte a cui Elly Schlein e chi la segue ha cercato di dare seguito con la presentazione di provvedimenti in parlamento, puntualmente affossati dalla Destra al potere.

Eppure Elly Schlein ha abbandonato ogni illusione del PD a lei precedente di bastare a sé stesso, di avere vocazione maggioritaria. Si è detta testardamente unitaria e alle parole ha fatto seguire i fatti: ricerca di alleanze in tutto il campo progressista senza preclusioni per nessuno, mai una polemica con gli alleati o i potenziali tali (che non sono stati altrettanto rispettosi e intelligenti, vero Conte? Vero Renzi? Vero Calenda?) per evitare accuratamente quello che si era stati sempre prima di Elly Schlein: litigiosi, divisi su tutto, già in crisi prima ancora di governare, insieme solo per andare contro qualcuno.

Eppure Elly Schlein è oggi prigioniera, come ogni segretario prima di lei, delle maledette correnti del PD, che ne hanno minato la figura fin dal principio e lavorano dal giorno uno per sfiancarla e sostituirla appena possibile (Silvia Salis, che sembra bravissima anche lei, già allertata da un pezzo).

Eppure Elly Schlein per tenere unito il partito, deve mordersi la lingua e attenuare ogni giorno, nelle sue dichiarazioni, le posizioni che sente nel cuore e che sarebbero ben più radicali, ancora più nette. E così sembra che anche il suo PD balbetti e sia contraddittorio, quindi ancora una volta poco credibile, almeno su certi temi: sull’Ucraina (siamo pacifisti o siamo per l’invio di armi?), sulla Palestina (troppo tardiva la condanna di Israele, tardiva e dunque apparsa dettata da ragioni di opportunismo e capitalizzazione del consenso, perché arrivata solo in corrispondenza con le manifestazioni oceaniche che hanno colorato per settimane tutte le piazze italiane di rosso, nero, bianco e verde gridando STOP AL GENOCIDIO!)

Eppure Elly Schlein non è il problema, il problema (nostro e di Elly Schlein) è il PD. Perché si porta appresso dalla nascita il peccato originale che consiste nell’aver voluto realizzare in un partito il compromesso storico di Moro e Berlinguer, venendo meno al principio che il partito, lo dice il nome, deve tutelare gli interessi di una parte della società, non di tutte le parti contemporaneamente, come vorrebbe fare il PD con lavoratori e industriali, sfruttati e sfruttatori, ambientalisti e predoni dell’ambiente per proprio guadagno.
Il PD, unendo quel che restava dei due partiti di massa, la DC e il PCI, ha solo assommato in sé i peggiori difetti dell’una (il correntismo) e dell’altro (la nomenklatura), senza però aver ereditato né i pregi dell’una né i pregi dell’altro.

L’unica cosa che è rimasta (dal PCI, soprattutto, ma anche dalla DC) e che permette al PD di non essere ancora scomparso e anzi di essere, nonostante gli errori a ripetizione della sua classe dirigente, ancora solidamente il secondo partito più votato in Italia (in molti luoghi ancora il primo), è la sua organizzazione capillare, con migliaia di volontari (commoventi per costanza e fede) in tutta Italia, dalla grande città al più minuscolo paesino. In questo senso, con la Lega ridotta ai minimi termini dal disastroso duo Salvini-Vannacci che le ha fatto perdere quasi del tutto le specificità che ne costituivano la forza (ovvero il radicamento sul territorio – al Nord – e la buona pratica di amministratori), il PD è oggi l’unico partito strutturato in Italia. E questo si vede. Questa è la sua unica, vera forza.

Era già evidente, ma me ne sono reso conto come mai prima quando mi sono candidato con una piccola lista civica (malamente) autogestita: il PD ha una capacità di spostare e gestire pacchetti consistenti di voti che nessun partito in Italia ha. Se decidono che uno dei loro va eletto, cioè che deve andare, per esempio, in consiglio comunale, telecomandano i voti di preferenza su quella figura, in una sorta di distorsione (legale direi, nella maggior parte dei casi) della libera competizione democratica. Ci sanno fare, insomma, eleggono i loro, quelli scelti prima nelle riunioni, non quelli che i cittadini decidono liberamente.

Questa eredità schiaccia Elly Schlein, che risulta frenata dalle correnti, alcune che la sostengono (quelle al potere in questo momento), altre che le remano contro e lavorano per fiaccarla e sostituirla, per farla fuori appena perderà qualche elezione in maniera clamorosa (Silvia Salis, bravissima, come dicevamo, almeno per efficacia comunicativa, è già pronta da tempo).

Eppure Elly Schein è diventata segretaria del PD da outsider totale (“ancora una volta, non ci hanno viste arrivare”, disse appena eletta, citando il titolo del libro della studiosa Lisa Levenstein “They didn’t see us coming – La storia nascosta del femminismo negli anni 90″) con tutto l’establishment (Franceschini escluso, vecchia volpe democristiana!) schierato con Bonaccini,  non per reale convinzione, ma semplicemente perché era lui in quel momento il cavallo vincente, su cui puntare per mantenere posizioni di potere dentro e fuori il partito o per scalare nelle gerarchie. (Naturalmente, come sempre, una volta eletta Schlein tutti i bonacciniani si sono finti schleiniani convinti…)

Eppure anche lì Elly Schlein aveva dimostrato la sua intelligenza, le sue capacità, la sua indole unificatrice: ha offerto subito la presidenza del partito a Bonaccini, che pure l’aveva osteggiata in tutti i modi, nonostante fosse stata la sua vice in Regione, e pensava di vincere in carrozza, borioso e tracotante com’è sempre stato.

Eppure Elly Schlein non ha mai governato.
Sarebbe ora di darle una chance, nonostante il PD.
E di lasciarla libera, libera di essere radicale e di sinistra come vorrebbe, sul modello di quegli esponenti del socialismo del Terzo millennio che ci sono in giro per il mondo e che a Elly Schlein fanno brillare gli occhi, ogni volta che ne parla, rendendo ancora più evidente quella bellezza che solo gli stolti non riescono a vedere: Pedro Sanchez in Spagna, Alexandria Ocasio-Cortez e Zohran Mamdani negli Stati Uniti. Tutte speranze, come Elly Schlein, di un’Europa senza sovranisti, di un’America senza Trump.

 

Photo cover: riproduzione del murales di TvBoy dopo la vittoria di Schlein alle primarie