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Globalizzazione, populismo e l’Europa incompiuta

Globalizzazione, populismo e l’Europa incompiuta

Chi come me ha più di 70 anni ricorda bene gli anni ’70 e ’80, quando i lavoratori italiani e occidentali producevano gran parte di quello che i consumatori del loro paese (tra cui loro stessi) acquistavano. Anche allora c’era qualche prodotto estero, ma era poca cosa nella nostra spesa settimanale. Fu la “prima” società dei consumi del secondo dopoguerra. Essa originò i famosi Trenta Gloriosi, 30 anni eccezionali, forse l’unico periodo della storia in cui c’è stata in Occidente crescita enorme unita all’eguaglianza (nelle rivendicazioni post ’68 c’erano gli aumenti salariali uguali per tutti). Una sorta di libero scambio temperato in cui le produzioni nazionali erano prevalenti.

Dal 1999 inizia tutt’altra storia. Il comunismo sovietico è imploso da 8 anni sotto il peso della sua inefficienza e mancanza di libertà e il liberalismo senza regole crede sia giunto il momento in cui si possa omologare il resto del mondo al proprio credo. Bill Clinton abroga nel 1999 la divisione tra banche d’affari e banche commerciali fatta da Roosevelt nel 1933, che era una risposta al tracollo della borsa e intendeva rilanciare l’America col New Deal, chiedendo alle banche di fare il loro antico mestiere: prestare alle imprese. Da Clinton in poi invece sarà possibile per tutte le banche fare molti più profitti con la speculazione finanziaria, che non prestando soldi a imprese e famiglie per sostenere l’economia reale.

Gli Stati Uniti decidono poi, spinti dagli appetiti delle loro multinazionali, di far entrare la Cina nel 2001 nel commercio mondiale (WTO), delocalizzando migliaia di imprese in modo da decuplicare i profitti sfruttando il basso costo del lavoro cinese. La teoria è che il libero scambio favorisce i consumatori, i quali devono poter comprare i beni ai prezzi più bassi.

Pochi (a parte i sindacati) si preoccupano del fatto che le nostre manifatture vanno spostando all’estero il lavoro manifatturiero (Cina, Vietnam, India, …), dove costa molto meno. La propaganda del libero scambio stronca ogni dissenso in quanto porterebbe occupazione, salari e benessere nei paesi poveri e dunque è “progressista” (più affari per le imprese e per i paesi poveri).

Sarà uno studio dell’economista serbo-statunitense Branko Milanovic (il cosiddetto “elefante”) che, mettendo insieme tutti i lavoratori e i padroni del mondo, come fossimo un solo paese, farà notare come dal 1988 al 2008 i vincenti della globalizzazione siano tutti i padroni (più dei paesi ricchi che poveri) e gli operai dei paesi poveri (cinesi in primis), mentre i perdenti sono operai e classe media dei paesi ricchi. E più di tutti gli operai americani che, perdendo il lavoro in una società fortemente individualista, meritocratica e moralista, vivono uno smarrimento esistenziale. Passando “dalle stelle alle stalle” molti finiranno nell’alcolismo, nella droga, nei suicidi.

Un’epopea ben descritta dall’attuale vicepresidente americano J. D. Vance in Hillbilly Elegy (Elegia per i bifolchi delle colline) che diventerà un romanzo e un film di successo. Questo fenomeno ha colpito (in misura minore) anche l’Europa del Sud, in particolare con l’allargamento ad Est del 2004 che ha fatto entrare nell’Unione circa 100 milioni di lavoratori a basso salario.

I perdenti della globalizzazione – lavoratori spesso votanti del centro-sinistra o socialdemocratici – si sono rivolti ai partiti di destra sperando in una maggiore protezione (anche dalla immigrazione illegale). Emmanuel Todd, sociologo francese di sinistra che ha avuto grande successo col suo libro La sconfitta dell’Occidente, sostiene che questi operai sono stati trasformati con la globalizzazione in una “plebe”, il cui tenore di vita deriva sempre meno dal loro lavoro nelle manifatture e sempre più dal lavoro sottopagato degli operai cinesi, bengalesi, africani, etc…

La teoria del libero scambio ha mantenuto la sua promessa col consumatore, che paga molto meno per qualsiasi bene, a scapito però del produttore. Ma poiché gran parte dei consumatori è stato “bollito” dalla società dei consumi e non vuole tornare in fabbrica, si affermano le plebi occidentali “parassite” che votano però, cosa imprevista dagli apostoli della globalizzazione, partiti di destra o Trump.

Nel frattempo si è verificata un’eterogenesi dei fini: gli Stati Uniti, che erano primi al mondo e pensavano con la globalizzazione di trovarsi con superpoteri, sono diventati vulnerabili. Con 30 anni di globalizzazione hanno arricchito una minuscola élite ma impoverito il loro Stato, producendo: 1) il più alto deficit commerciale al mondo, 2) il più alto onere annuo sul debito pubblico, 3) la distruzione della propria manifattura, 4) una società zombi, in via di crescente disgregazione sociale e sull’orlo della guerra civile.

Nel frattempo la Russia, pur essendo europea e bianca, non partecipa al gioco dello sfruttamento globale ma si ostina a voler rimanere una nazione sovrana al di fuori del sistema. Pur essendo in calo demografico come tutto l’Occidente, cresce economicamente (+70% i salari) e presenta una certa stabilità sociale derivante dalla sua storia di famiglie comunitarie e da una religiosità meno in crisi di quella occidentale. Una democrazia autoritaria, dove ci sono elezioni ma gli oppositori sono ridotti al silenzio, che però cura i rapporti con le minoranze etniche musulmane (il 15% della popolazione).

Nel frattempo la Cina, che non è affatto una democrazia, è diventata un gigante economico: salari medi saliti da 400 a 15.000 dollari all’anno, con 500 milioni di cinesi che consumano come i 440 milioni di europei (quindi con un grande mercato interno) e oggi leader globale in 57 delle 64 tecnologie critiche (fonte: Australian Strategic Policy Institute), quando nel 2007 gli Stati Uniti erano leader in 60 aree su 63. Ciò spiega la guerra dei dazi tra Usa e Cina: se rimanesse tale, le due economie non avrebbero più scambi tra loro, con l’Europa che sarebbe inondata da merci cinesi a basso prezzo.

Nel frattempo il Pil dei Brics è diventato maggiore di quello del G7 occidentale e tra i Brics troviamo tre democrazie (Brasile, India, Sudafrica).

Questo quadro fa capire perché gli Stati Uniti sono in grande difficoltà (al di là della narrazione mainstream propinataci da 20 anni) e tentano azioni di disaccoppiamento dalla Cina e re-industrializzazione che erano già iniziate con Biden e che Trump enfatizza (Make America Great Again). Riportare le fabbriche in patria, ridurre il deficit commerciale e il debito pubblico è impresa improba. Il caos dazi (stop and go, a beneficio ora delle big tech ora degli speculatori, con ribassi e rialzi delle borse) ne dà la misura.

Ma chi pensa di affidarsi di nuovo alla globalizzazione che abbiamo conosciuto, al vecchio liberismo, alla “realtà” delle borse, alla finanziarizzazione che spinge un ingegnere a lavorare in banca o in un fondo speculativo più che in una fabbrica, non ha capito che il mondo neo-liberista senza regole è al tramonto, anche perché senza fabbriche il Pentagono stesso ha spiegato che non si può vincere una guerra convenzionale (come mostra quella ucraina).

Questo quadro fa capire le difficoltà dell’élite europea, sedotta e abbandonata dagli Stati Uniti, con una globalizzazione che ha svuotato anche il suo tessuto produttivo, ampliato le disuguaglianze e minato le basi materiali del benessere di lavoratori e classi medie a vantaggio dei ricchi e dei paesi dell’est. La guerra in Ucraina ha posto fine ad un modello di crescita tedesco ed europeo basato su export di tecnologie in Russia in cambio di materie prime e gas a basso prezzo. Le sanzioni alla Russia hanno comportato una riduzione del Pil europeo di -1,5% (più di quanto si stima avvenga coi dazi di Trump).

Consapevole che siamo agli albori di una Nuova Yalta (una riconfigurazione dei rapporti di forza nel mondo) l’ élite europea non vuole perdere terreno (come gli Stati Uniti), né il potere che dipende, in democrazia, dal consenso dei propri elettori. L’incertezza è enorme, non sapendo se può contare sul proprio leader storico. Si potrebbe superare il finto dualismo liberismo-protezionismo, col rilancio del “social standard” nella regolazione dei movimenti internazionali di merci e di capitali. L’idea è dell’ILO (Agenzia dell’Onu per Lavoro e politiche sociali) e consisterebbe in una limitazione dei commerci (dazi) con quei paesi che attuino politiche di competizione al ribasso su salari e condizioni di lavoro, regimi di tutela ambientale e sanitaria, regole presenti già nei Trattati UE e contenute nello statuto del Fondo Monetario Internazionale, che già in passato ha ricevuto l’attenzione del parlamento europeo.

D’altro canto l’unità europea non esiste e ci vuole tempo. Così si sposta l’attenzione verso un nemico esterno (immigrati, autocrati, Russia), e si vorrebbe mantenere la guerra in corso con la Russia per trovare il tempo di costruire al 2030 una interoperabilità tra eserciti di nazioni diverse. La motivazione è sempre quella: l’invasione dell’URSS (ora della Russia) in Europa. Frank Kofsky ha ricostruito nel libro Truman and the War Scare of 1948, come la CIA sapesse benissimo (la fonte sono i documenti desecretati) che non c’era alcuna azione offensiva dell’URSS, ma bisognava convincere la gente per rafforzare il dispositivo militare della Nato e la crisi di grandi aziende come Lockheed e Northrop.

Se anche l’operazione di riarmo delle singole nazioni riuscisse (e ci vogliono anni), l’unità europea non si costruisce per automatismo. Ed è quella che porta a una politica estera comune, alla difesa comune, a politiche sull’immigrazione, l’industria, il fisco, l’energia, il welfare che farebbero bene agli europei. Come la moneta unica non ha fatto gli Stati Uniti d’Europa, non la faranno le armi e non sarà facile convincere gli europei che le armi sono la priorità e non scuole, salute, cura del territorio, occupazione.

La minaccia maggiore viene perciò non dalla Russia, che non ha capacità di fare guerra alla Nato, ma dal consenso interno che traballa. Come reagiranno gli elettori all’erosione in corso dello stato sociale? Sociologi e storici ammoniscono gli economisti (concentrati sul PIL) su quanto può incidere la disgregazione delle società. La rivolta popolare interna (cosiddetto “populismo”) è la vera minaccia di questa Europa incompiuta.

Zebra. Attivista per necessità

ZEBRA. ATTIVISTA PER NECESSITÀ

Zebra. SolomonSono di etnia Igbo e provengo dal Biafra, regione nel sud-est della Nigeria devastata da una guerra civile tra il 1967 e il 1970, gli effetti della quale, però, sono tuttora palpabili.

Il Biafra è un popolo oppresso da un governo corrotto e dal colonialismo, che non ha mai abbandonato l’Africa. Si tratta di un massacro altamente documentato, ma ciò che le persone non sanno è che l’oppressione dei biafrani è in atto ancora oggi.

Le uccisioni, i sequestri di persona, il traffico di esseri e organi umani, il controllo dei mezzi di sostentamento e la marginalizzazione sono tutte tattiche che il governo nigeriano tutt’oggi mette in campo contro il mio popolo. In tutto questo, chi prova a parlare o a protestare in modo pacifico viene silenziato per sempre.

Il movente di questa guerra non è religioso, bensì materiale, dato che il nostro territorio è ricco di risorse naturali, come petrolio e gas, che sono il reale interesse del governo nigeriano e dell’entità coloniale britannica.

Ancora non comprendo come l’avidità possa giustificare l’uccisione di milioni di civili innocenti. Ci sono così tanti modi pacifici per risolvere i problemi politici e noi chiediamo proprio questo: non vogliamo una guerra, ma un referendum istituito dalle Nazioni Unite per fare in modo che noi biafrani possiamo determinare in maniera democratica il nostro futuro.

A noi non interessano le risorse materiali, ciò che vogliamo è l’autodeterminazione in una regione laica, in cui tutti sono benvenuti e liberi.

Questa pagina buia della nostra Storia mi ha reso un attivista. Mio padre ha partecipato alla lotta per l’indipendenza del Biafra e per questo è stato ucciso dai servizi segreti nigeriani. Da quel momento ho iniziato a indagare questioni politiche che per tanti anni ho ignorato.

Non ero consapevole della situazione geopolitica della mia regione, né delle ingiustizie deplorevoli a cui il mio popolo è sottomesso da anni. Io stesso sono dovuto fuggire dalla Nigeria per salvarmi la vita, perché ero finito nei radar dei servizi segreti a causa della mia attività investigativa.

Arrivato in Europa, ho sentito la necessità di raccontare al mondo ciò che stava succedendo in Biafra. Non avevo particolari risorse, ma ho presto scoperto il potere dei social media, tramite i quali ho iniziato a divulgare i fatti e le documentazioni delle ingiustizie perpetrate nei confronti del mio popolo, per mostrare alle persone il lato della questione che i media, corrotti dal governo nigeriano, manipolano e occultano.

Chiediamo il rispetto dei nostri diritti e veniamo marchiati come terroristi, etichetta che ci deumanizza e contribuisce alla marginalizzazione e oppressione dei biafrani. A causa del mio attivismo, se tornassi in Nigeria verrei ucciso. È un prezzo che sono però disposto a pagare se questo impegno porterà un giorno alla libertà del mio popolo.

CITATO: “A causa del mio attivismo, se tornassi in Nigeria verrei ucciso.”

Solomon Asimgba – Sogna un Biafra libero e democratico.

Per maggiori informazioni in italiano: www.oew.org/zebra   In tedesco: www.oew.org/zebra

Nelle prossime settimane Periscopio ospiterà la voce di Zebra, attraverso gli articoli dei suoi redattori e collaboratori 

UNICEF/Haiti: 1 milione di bambini affrontano insicurezza alimentare

UNICEF/Haiti: 1 milione di bambini affrontano insicurezza alimentare

Secondo l’UNICEF 2,85 milioni di bambini – o un quarto dell’intera popolazione infantile di Haiti – si trova ad affrontare livelli notevolmente elevati di insicurezza alimentare;

Meno del 50% delle strutture sanitarie di Port-au-Prince sono pienamente operative e due su tre dei principali ospedali pubblici sono fuori servizio.

18 aprile 2025 – Secondo le stime dell’UNICEF oltre 1 milione di bambini stanno affrontando livelli critici di insicurezza alimentare ad Haiti. La persistente violenza armata, i ripetuti sfollamenti e la mancanza di un sufficiente accesso umanitario continuano a minacciare le famiglie vulnerabili, mentre incombe il rischio di carestia.

Secondo le stime dell’UNICEF, 2,85 milioni di bambini – ovvero un quarto dell’intera popolazione infantile di Haiti – si trovano ad affrontare livelli notevolmente elevati di insicurezza alimentare in tutto il Paese, secondo quanto rilevato dall’ultimo aggiornamento della Classificazione Integrata delle Fasi della Sicurezza Alimentare (IPC) pubblicato questa settimana. Le famiglie continuano ad affrontare una significativa mancanza di cibo e alti livelli di malnutrizione acuta.

“Stiamo assistendo a uno scenario in cui i genitori non possono più fornire cure e nutrizione ai loro bambini a causa delle violenze in corso, di estrema povertà e della persistente crisi economica,” ha dichiarato Geeta Narayan, Rappresentante dell’UNICEF ad Haiti. “Per salvare la vita dei bambini sono necessarie azioni salvavita, come visite per i bambini a rischio di deperimento e arresto della crescita e la garanzia che i bambini malnutriti abbiano accesso a trattamenti terapeutici.”

Con l’insicurezza alimentare in aumento, il Paese si trova ad affrontare anche una crescente emergenza sanitaria e condizioni di carestia che colpiscono circa 8.400 persone. I servizi sanitari in tutto il Paese sono sotto pressione, con meno del 50% delle strutture sanitarie di Port-au-Prince pienamente operative e due su tre dei principali ospedali pubblici fuori servizio.

Le conseguenze sui bambini sono gravi, l’assistenza sanitaria e salvavita diventa sempre più inaccessibile, esponendo i bambini a rischio maggiori di varie forme di malnutrizione e malattie prevenibili. Nella maggior parte del paese, le violenze armate hanno ristretto l’accesso dei bambini al cibo. Con l’aggravarsi dell’insicurezza alimentare e dei disordini, la crisi si è tradotta in una crisi nutrizionale per le famiglie.

Tuttavia, proprio mentre i bisogni si intensificano, la risposta è sempre più limitata dalla carenza di fondi. Il programma dell’UNICEF per la nutrizione, nell’ambito dell’appello per l’Azione umanitaria per l’infanzia, si trova attualmente di fronte a un critico deficit di finanziamento del 70%, che limita la nostra capacità di raggiungere i più vulnerabili.

Nel 2025, l’UNICEF e i suoi partner hanno curato oltre 4.600 bambini colpiti da malnutrizione acuta grave (SAM), che rappresentano solo il 3,6% dei 129.000 bambini che, secondo le previsioni, avranno bisogno di cure salvavita quest’anno.

FOTO E VIDEO: https://weshare.unicef.org/Share/o1fngk1453101f4mr0r26c510726glly

Questo articolo è uscito sull’agenzia pressenza il 18.04.2025

In copertine: Foto di Unicef Haiti – insicurezza alimentare

Presto di mattina /
Di che cosa è fatta la Pasqua?

Presto di mattina. Di che cosa è fatta la Pasqua?

Pasqua, “statio novissima et jucunda”

Dopo aver percorso tutte le stazioni della via crucis, ad indicarne la svolta, la condizione decisiva, quella che ribalta le sorti, ecco raggiunto il passante di valico oltre la statio crucis: ossia la statio novissima et jucunda. Non senza ragione don Primo Mazzolari designa così la Pasqua, come lo stare già nel luogo delle cose ultime suggerisce l’etimologia latina, “novissima” appunto, anticipo e ripresentazione del tempo ultimo e definitivo compimento; la destinazione finale del dimorare peregrinante dell’uomo, di pasqua in pasqua, per giungere lieti ad «una riva gioconda,/ profondamente vivi» (Carlo Betocchi).

Così anche questa Pasqua è insieme memoriale attuativo e prognostico di quella futura; un volto gioioso che si rivela vivendo l’impegno con Cristo anche oggi verso un altrove che conosceremo strada facendo perché «ogni cosa che muore, come ogni cosa che incomincia a vivere nella morte, è un aspetto della Pasqua», (P. Mazzolari, La Pasqua, La Locusta, Vicenza 1965, 51).

Pasqua: un atto di pietà

Scrive ancora Mazzolari: «La Pasqua si ripete. Il nostro sacramento pasquale è ancora una volta un atto di pietà, come se il Signore avesse bisogno di piccole pietà» (ivi, 52). Come a dire allora che quella «Pasqua che cancellasse dalla terra il povero della beatitudine, non sarebbe la statio jucunda» (Mazzolari, Via crucis del povero, Dehoniane, Bologna 1983, 127; 137)

Così “l’inferma pietà” del poeta è guarita da quella “infinita” della Pasqua e le lacrime di una donna innamorata nel sereno mattino sono deterse da una “pietà non tradita”. A tutti “la carità del vero”, la verità come amore, grazia che vigila con necessità “implacabile” i confini, l’intrico tra bene e male, giusto e ingiusto, innocente e reo.

La pietà del vero: «pietà, ma non di sé: specchio/ non del cupido esigere:/ ma fede, o alba del cristiano,/ che crede all’immolarsi, ed alla vittima… C’è verità nel coraggio/ di credere e d’esistere,/ e dentro il fiore della carità» (C. Betocchi, Tutte le poesie, Garzanti, Milano, 1996, 58; 535). Così Betocchi si augura di «aver somigliato», nella sua creazione poetica a Thomas Eliot che nella sua poesia, «rifacendosi a Dante, ha restituito alla pietà il trono che le spetta» (ivi, 474).

In questo deserto
attendo l’implacabile
venuta d’un’ acqua viva
perché mi faccia a me certo.

E godo la terra
bruna, e l’indistruttibile
certezza delle sue cose
già nel mio cuore si serra:
e intendo che vita
è questa, e profondissima
luce irraggio sotto i cieli
colmi di pietà infinita.
(C. Betocchi, Tutte le poesie, Garzanti, Milano, 1996, 58).

– Donna, che piangi donna? …
nella Pasqua serena:
la pietà non tradita
anche di te s’abbevera
e la vita
(ivi, 183).

Pietà
Abbiate pietà di chi non crede
ma assai più di chi crede: poiché
sugli uni e gli altri incombe, trèpida
e feroce, la strana carità del vero;
che non ignora in se stessa appaiati
ad una stessa sorte il bene e il male
dalla sua stessa implacabile necessità (ivi, 462).

Per tutti è la Pasqua

E ancora una volta «per tutti, anche per i molti che non partecipano al sacramento, il mistero della Pasqua, è una consegna» (La Pasqua, 54).

Mazzolari aveva già ricordato due consegne di Gesù ai suoi presso la statio crucis. Dapprima il suo perdono: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno”. E poi la Madre e il Discepolo: che è la reciprocità nel prendere con sé, dell’esserci per l’altro; una consegna passata con l’ultimo fiato rimastogli nella forma umilissima di un avverbio di presenzialità: «Ecco tuo figlio!… Ecco tua madre!».

Ma a Pasqua vi è un’altra, una nuova consegna: quella della speranza che è uno sperare per tutti – “io spero in te per noi” (Gabriel Marcel) – una speranza rimessa in cammino e posta sotto i piedi di tutti: «“Egli vi precede”. Dove? Dappertutto: in Galilea e in Samaria: a Gerusalemme e a Roma: nel Cenacolo e sulla strada di Emmaus… ovunque l’uomo pianterà le sue tende, farà la sua giornata di fatica e d’avventura, spezzerà il suo pane, costruirà le sue città, piangendo o cantando, sorridendo o imprecando. “Egli vi precede”. Questa è la consegna della Pasqua. E se, alzandoci dalla tavola eucaristica, avremo l’animo disposto a tenergli dietro ove egli ci precede, “lo vedremo, come egli disse”» (ivi, 52-53).

Profezia e poesia: le terre rare della Pasqua

Se la Pasqua è statio novissima et jucunda, le terre rare della Pasqua sono la profezia e la poesia, non senza la pietà. Entrambe infatti rendono presente nel già il non ancora, sono sementi di speranza ora e frutti, poi, di futura jucunditas.

In questa Pasqua mi sono lasciato guidare, come avrete intuito, da un profeta e da un poeta. Don Primo, il parroco di Bozzolo, ovvero “la tromba dello Spirito”, come lo designò papa Giovanni XXIII durante il loro incontro in Vaticano.

E poi Carlo Betocchi, il poeta dalla «chiarezza mistica», come la definì Pier Paolo Pasolini, alludendo alla sua cifra poetica celatamente profetica. Betocchi era tecnico agrimensore, lavorava con gli operai e il suo rapporto con loro – scrive Pasolini – non si sarebbe lontani dal giusto definirlo un rapporto evangelico: «un rapporto travolto e accecato dall’amore, e anche là dov’è pura simpatia, è tutto pieno e deformato da una sia pur virile tenerezza.

Per dispiegarsi oltre l’impegno sociale in un antico e assoluto impegno umano. Ed è evidente che doveva essere così, se l’impeto stesso della poesia ha abbattuto tra Betocchi e l’operaio lo schermo delle classi sociali: e Betocchi è operaio con gli operai, e non ha quindi regressi da compiere, obblighi morali o sociali da adempiere a priori… le facoltà di Betocchi sono appunto tutte estatiche, e noi dobbiamo seguire il loro processo: disegnare l’operazione poetica di Betocchi è fare il ritratto di una “grazia”» (ivi, 590-591).

Alla Pasqua, come fontana di speranza vivace per il suo verde labbro di pietra, corre il poeta, all’allietante labbro, quello del canto dell’acqua per il suo internarsi, e “inventrarsi”, non senza stupore, nel riaperto spazio del Risorto: giocondità di bambini e di donne al sole. E, nell’oscurità del giorno che tramonta, il rosso del cielo resiste all’avanzare dell’ombra a far compagnia ai tetti in attesa della luce della luna che l’aurora troverà ancora accesa al suo sorgere.

Io arrivai in una piazza
colma di una cosa sovrana,
una bellissima fontana
e intorno un’allegria pazza.
Stava tra verdi aiole;
per viali di ghiaie fini
giocondavano bei bambini
e donne sedute al sole.
Verde il labbro di pietra
e il ridente labbro dell’acqua
fermo sulla riviera stracca,
in puro cielo s’invetra.
Tutto il resto è una bruna
ombra, sotto le loggie invase
dal cielo rosso, l’alte case
sui tetti attendon la luna
(ivi, 51)

«Di che cosa è fatta la Pasqua?»

«Una pietra rovesciata, un sepolcro vuoto, una sindone inutile – è la risposta di Mazzolari –: cioè, di nulla, se non di quelle libertà che l’uomo può rinnegare, se vuole, ma che nessuno gli può togliere, se vuole, perché il “regno di Dio è dentro di noi”. Nella Pasqua del povero, come nella Pasqua di Gesù, c’è l’inafferrabile. Per questo, se uno vuole, la può sempre negare, perché il documento, più che a una certezza materiale, risponde a una rivelazione del cuore attraverso i vuoti dell’esistenza».

Pasqua: una libertà che si affida amando

«– Pietro, mi ami tu? La vera Pasqua incomincia e finisce così. Ma se tu pensi unicamente a una palingenesi sociale, a un capovolgimento delle odierne strutture economiche e politiche, se sogni una nuova terra emergente da un lavacro di sangue, se vuoi “pesare” la Pasqua e commutarla in cibo e bevanda in forza di quella equità che trova nella legge il suo equilibrio e nella buona volontà dell’uomo il suo fondamento, non riuscirai a capire la realtà spirituale della Pasqua del povero. Non dico che il tuo sogno sia sbagliato. Anch’io voglio una giornata più equa per tutti, una terra meno aspra, una convivenza meno barbara, un pane più abbondante, mani che si cercano, cuori che si ascoltano.

Anch’io sospiro verso quella giornata, ma senza le tue inquietudini, senza le tue ansie, senza i tuoi rancori: perché se m’interessa il domani, quest’attimo che vivo, questo mio cuore che deve avviare e sorreggere ogni sforzo verso un buon domani m’interessa ancor di più. Io non voglio rinunciare ad essere buono oggi, per essere domani un satollo. Ma per essere buoni e contenti tutti i giorni del passaggio non c’è che una condizione: sentirsi poveri, inguaribilmente poveri anche nell’abbondanza di tutti i beni materiali» (Via crucis del povero, 134).

Dove non c’è Pasqua

«Il corpo del Cristo risorto porta nella gloria i segni della passione. Entra nel cenacolo a porte chiuse, ma si lascia toccare, e lo si può toccare là dove “povertà” ha segnato il suo colmo di sopportazione. “Porgi qua il dito e vedi le mie mani: e porgi la mano e mettila nel mio costato e non voler essere incredulo, ma credente”.

Questo povero cuore che cerca la vita e se la sente sfuggire, non può rifiutarsi di toccare quell’unico lembo di realtà buona che gli è rimasta vicina e che solo può aiutarlo a trattenere la vita. Dove l’uomo si rifiuta di soffrire, non c’è Pasqua. Dove l’uomo si rifiuta di “toccare” il dolore degli altri, non c’è Pasqua. Dove le mani dell’uomo non sono forate per amore dei fratelli, non c’è Pasqua. Se i piedi non sono forati non possono portare sulle strade della pace pasquale. Da un cuore non trasvertebrato non trabocca l’alleluja Pasquale. Non conosco altro mezzo per vincere la nostra durezza. Non si può far posto alla giustizia che soffrendo e offrendoci» (ivi, 134-135).

L’impegno con Cristo è l’impegno con il povero

«Non impegna: la morte non impegna. La vita impegna: la Pasqua impegna. Solo la Pasqua ha veramente bisogno di fede; la Pasqua del Cristo, come la Pasqua del povero. Sulla strada di Emmaus, come nel cenacolo e sulle rive del lago, le apparizioni sono brevi: un bagliore degli occhi che potrebbe anche essere dimenticato se il cuore non ardesse dentro. «Non ardeva il nostro cuore in noi, mentr’egli ci parlava per la via?». Come custodire l’ardore del cuore in un mondo di glaciale egoismo? Come difendere la piccola fiamma della mia fede dalla fredda bufera della disumanità trionfante?

Ma è proprio per questo, per questo urlo di barbarie che s’avventa contro la nostra Pasqua, che credo nella Pasqua come non vi ho mai creduto prima» (ivi, 137).

«Per Pasqua: auguri a un poeta»

È questo il titolo di una poesia di Carlo Betocchi a Giorgio Caproni, un poeta dalla “speranza rovesciata”, sostenuta flebilmente solo dall’amore per la moglie Rina. E tuttavia, nel nulla di una terra desolata, nel sottosuolo della fede e di un cuore “che non soffre che del non amare, e sempre sta in croce”, egli ci indica, dove si nasconde la Pasqua: «E allora, sai che ti dico io?/ Che proprio dove non c’è nulla/ – nemmeno il dove – c’è Dio» (Daniela Patrignani, Giorgio Caproni (1912-1990), alla ricerca di Dio sulle strade del nulla, in Letture, 472/1990, 886).

Giorgio, quante croci sui monti, quante,
fatte d’un po’ di tutto, di filagne
che inclinate si spaccano, di scarti,
ma croci che respirano nell’aria,
in vetta alle colline, dove i poveri
hanno anch’essi un colore d’azzurro,
la simile cred’io l’ebbe Gesù,
non già di prima scelta, rimediata
tra’ rimasugli d’un antro artigiano,
commessa con cavicchi raccattati,
eppure estrosa, ed alta, ed indomabile
e tentennante com’è la miseria:
ecco la nostra Pasqua onde ti manda
il mio libero cuore quest’auguri
pensando che non è per l’occasione
ma per quella di sempre, che si salva
dalle occasioni, del cuor che non soffre
che del non amare, e sempre sta in croce
con un cartiglio fradicio che in vetta
dice: È un poveraccio, questi che vuole
ciò che il mondo non vuole, solo amore
(Tutte le poesie, 200-201).

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Fatima, la Pasqua rubata

Fatima, la Pasqua rubata

Ancora una strage di innocenti. Ancora morte.

Oggi a pagare è Fatima Hassouneh, giovane giornalista palestinese, e con lei dieci membri della sua famiglia: anime innocenti, voci al servizio della verità, spezzate da una violenza che non conosce tregua.

Se Fatima è morta anche per noi, per raccontarci cosa accade, allora è nostro dovere tenerla viva nella memoria.

Siamo indignati per l’orrore che continua a consumarsi nel silenzio del mondo. Vogliamo gridarlo ogni giorno, ma soprattutto ora, nei giorni che per tradizione dovrebbero parlare di pace.

Non c’è più Pasqua nei nostri cuori. Non possiamo celebrare la pace quando ci sentiamo così impotenti di fronte a vittime innocenti che non hanno avuto scampo. Oggi la nostra preghiera deve farsi più forte.

Chi può, agisca. Chi crede, preghi. Chi scrive, racconti. Ma nessuno resti in silenzio.

Il 16 aprile 2025, un attacco aereo israeliano ha colpito il quartiere di Tuffah, a est di Gaza City, centrando l’abitazione della giornalista Fatima Hassouneh. Insieme a lei sono stati uccisi circa dieci membri della sua famiglia. La notizia, riportata dall’agenzia palestinese Wafa, è solo l’ultimo capitolo di una lunga serie di tragedie che colpiscono civili e giornalisti nella Striscia.

Secondo il Centro per la Protezione dei Giornalisti Palestinesi (PJPC), la morte di Hassouneh porta a 212 il numero di giornalisti uccisi a Gaza dal 7 ottobre 2023: “una cifra senza precedenti nella storia moderna dei conflitti”, hanno dichiarato. “I giornalisti sono civili. Attaccarli è un crimine di guerra”. Il centro ha chiesto un’indagine indipendente e “protezione immediata” per chi continua a raccontare la guerra sul campo.

Nella stessa giornata, il ministero della Sanità palestinese ha riferito 25 morti e almeno 89 feriti, mentre gli ospedali, già al collasso, lottano per soccorrere i superstiti. Dall’inizio del conflitto, i morti sarebbero oltre 51.000 e i feriti più di 116.000.

Tutto questo avviene nonostante gli sforzi diplomatici e i tentativi di tregua. L’ultimo cessate il fuoco, mediato da Stati Uniti, Qatar ed Egitto, si è concluso il 18 marzo 2025 dopo 42 giorni, lasciando dietro di sé promesse infrante e un’escalation di violenza. Le armi non hanno smesso di colpire, né a Gaza né in Cisgiordania.

Fatima Hassouneh non era un combattente. Era una testimone. Una di quelle figure che, armate solo di parole e immagini, cercano di restituire umanità al disumano, di dare voce a chi vive sotto le macerie, reali e simboliche. La sua morte è il riflesso più crudele di un conflitto che non risparmia nessuno, nemmeno chi si limita a raccontarlo.

In un tempo che avrebbe dovuto parlare di rinascita e speranza, la sua morte ci ricorda che la pace resta ancora un’illusione lontana.

Fatima non è solo un simbolo, e ridurla a questo rischia di farci dimenticare le 211 voci uccise prima della sua. La sua storia è l’ultima fotografia, nitida e drammatica, del fallimento della comunità internazionale, dell’impotenza di ogni cessate il fuoco annunciato, dell’incapacità collettiva di proteggere chi racconta la verità.

Non possiamo dimenticarla. Non dobbiamo restare in silenzio.

Cover: Fatima Hassouneh – Foto di Plan International

Psicopatia e potere. Esistono anche gli psicopatici di successo

Psicopatia e potere. Esistono anche gli psicopatici di successo.

Mi trovo in una situazione conflittuale perché la mia deontologia dice che fuori dal setting psicoterapeutico fare diagnosi se non richiesto è una forma di prepotenza, una violazione. Contemporaneamente ci sono situazioni così eclatanti nella vita politica attuale locale (Ferrara), nazionale ed internazionale che mi suggeriscono una chiave di lettura proprio in termini psicodiagnostici.

Forse ho trovato una soluzione: non ho l’autorevolezza per poter illustrare e provare alcune ipotesi su psicopatia e potere ma posso proporre una sorta di identikit. I lettori decideranno se e per chi è calzante.

Il grande dittatore

Psicopatico di successo. Questa definizione non è un divertissement. Esistono individui con tratti psicopatici, quali mancanza di empatia, narcisismo e manipolazione, che riescono a raggiungere alti livelli di successo in vari settori professionali, dalla politica al mondo degli affari, spesso traendo vantaggio dagli altri, alle volte senza entrare in contrasto con la legge, altre volte costruendo leggi ad hoc.

Asserisce lo psichiatra argentino Hugo Marietán, uno dei principali specialisti sulla psicopatia: “La politica è un ambito nel quale lo psicopatico si muove come un pesce nell’acqua. Ciò non significa ovviamente che tutti i leader o politici siano psicopatici. Però è vero che, laddove c’è potere, ci sono psicopatici, indipendentemente dalle ideologie”.

Per capire il fenomeno degli psicopatici di successo, penso sia utile cominciare elencando le caratteristiche affettive, interpersonali e comportamentali del disturbo di personalità psicopatica nella sua accezione più diffusa e più nota, una costellazione di fattori che possiamo incontrare a vari livelli anche nella nostra dimensione relazionale più quotidiana:

  • Loquacità/fascino superficiale: disinvoltura, capacità di dare risposte pronte, divertenti e intelligenti, o di raccontare storie improbabili ma convincenti su di sé che lo mettono in buona luce;
  • Senso grandioso del Sé: opinione eccessivamente elevata del proprio valore e delle proprie qualità, a causa delle quali risulta arrogante e supponente;
  • Bisogno di stimoli/propensione alla noia: sperimentando facilmente la noia esiste la tendenza a mettere in atto comportamenti rischiosi;
  • Menzogna patologica: tendenza a mentire come modalità frequente nelle interazioni con gli altri e con un ottima abilità nel mentire;
  • Manipolazione: per conseguire un proprio scopo personale può far uso di inganni, menzogne e frodi;
  • Assenza di senso di colpa: assenza di emozioni morali  e di preoccupazione per le conseguenze negative delle proprie azioni;
  • Affettività superficiale: può dimostrare freddezza emotiva oppure mostrare un’espressione teatrale, ostentata e di breve durata;
  • Deficit di empatia: insensibilità e disprezzo per le emozioni e il benessere degli altri, visti unicamente come soggetti da manipolare per il proprio vantaggio;
  • Deficit del controllo comportamentale: bassa tolleranza della frustrazione, comportamenti aggressivi di fronte alla critica e al fallimento, elevata irritabilità;
  • Comportamento sessuale promiscuo;
  • Mancanza di obiettivi e piani realistici a lungo termine;
  • Elevati livelli di  impulsività;
  • Una storia di comportamenti antisociali in età adolescenziale;
  • Problematiche comportamentali precoci;

Rispetto alle caratteristiche degli ultimi due punti ci sono differenti interpretazioni.

Ribadisco, perché importante, che gli psicopatici nella definizione più estesa, non mostrano alcuna preoccupazione riguardo gli effetti che le loro “cattive” azioni possono avere sugli altri, o addirittura su loro stessi. Possono commettere crimini impulsivi e non pianificati, persino quando la probabilità di essere scoperti e puniti sono elevate, ma per lo più sono sostanzialmente razionali e intatti dal punto di vista cognitivo. Sono la mancanza di profondità emotiva e un apprendimento dalle situazioni inadeguato che non permette loro di valutare le conseguenze delle loro azioni sulla sfera affettiva altrui.

La categoria degli psicopatici di successo si differenzia perché il loro narcisismo è senza limiti, hanno un bisogno costante di ammirazione e alimenta l’ambizione e il desiderio di raggiungere il successo e il potere a tutti i costi. La loro capacità di manipolazione spesso segue la filosofia machiavellica de il fine giustifica i mezzi. Le emozioni degli altri servono ad esclusivo vantaggio personale, non hanno alcuna considerazione per le conseguenze sulle persone coinvolte.

In aggiunta mostrano un ottimo funzionamento esecutivo e capacità decisionale che coesistono e scavalcano le aree associate all’ empatia. Se confrontati con gli psicopatici antisociali, che come abbiamo visto possono essere impulsivi e violenti, quelli di successo sono spesso in grado di pianificare le loro azioni con attenzione e di mantenere una facciata di normalità e competenza. Un funzionamento cognitivo integro o superiore consente loro di pianificare i loro misfatti in modo da evitare di essere scoperti. I colpevoli sono sempre altri.

Credo che ognuno potrà individuare corrispondenze con profili reali e famosi in settori più o meno importanti della società e della politica del passato e attuale. Avete qualche esempio concreto che si affaccia nella vostra mente?

Aggiungo una considerazione per aiutarvi nella individuazione di tali soggetti. Generalmente, quando si descrive una persona psicopatica si pensa a un soggetto di genere maschile.

In realtà il numero di donne che soffrono di questo specifico disturbo psichiatrico potrebbe essere molto più alto di quanto si possa immaginare. Il motivo principale per cui le donne psicopatiche non vengono notate tanto quanto gli uomini psicopatici, risiede in una esternalizzazione comportamentale molto più contenuta ma altrettanto deleteria. Risultano più inclini ad esprimere la violenza in forma verbale piuttosto che fisica, prediligono una violenza prettamente di natura emotiva e relazionale, attuano comportamenti subdoli per ottenere vantaggi personali.

Ne avete presente qualcuna?

Per facilitare il riconoscimento del comportamento di un individuo antisociale e un individuo psicopatico, aggiungo alcuni esempi cinematografici che risultano molto efficaci anche se sono casi che appartengono esclusivamente al mondo criminale.

Pensiamo a personaggi come Alex De Large (il protagonista del film Arancia Meccanica di Stanley Kubrick del 1971, più rappresentativo del versante antisociale), Hannibal Lecter (Il Silenzio degli Innocenti, Demme J. del 1991), Joker (Il Cavaliere Oscuro, Nolan C. del 2008).

I loro comportamenti sono intrisi da una logica molto strutturata, una pianificazione dettagliata e una grande freddezza emotiva, è evidente la loro grande intelligenza e il loro fascino nel modo di parlare e nel loro atteggiamento, possiedono un lessico molto coinvolgente e quasi ammaliante. Credo che tutti noi, da spettatori, ne abbiamo subito la malia e non ci sono sembrati, seppur cattivi, così antipatici.

A riprova e per finire, vi propongo uno stralcio di una intervista di Laura Di Marco a Hugo Marietán citato all’inizio.

Come distinguiamo facilmente un politico psicopatico?

 Lavora sempre per sé stesso, anche quando dice il contrario. Tende a occultare questa ambizione con obiettivi sovranazionali, quali la sicurezza, la patria, la povertà, la rivoluzione, ecc. È un bugiardo e può anche fingere di essere sensibile, e le persone gli credono più e più volte, perché sa essere molto convincente. Un dirigente sa che deve svolgere le sue funzioni durante un determinato periodo di tempo. Lo psicopatico, invece, una volta che si trova in cima, non ce lo toglie più nessuno: vuole starci una, due, tre volte. Non rinuncia al potere, meno che mai lo delega. Intorno al dirigente psicopatico si muovono gli ossequiosi: persone che, sotto l’incantesimo del suo effetto di persuasione, sono capaci di fare cose che in altre situazioni non farebbero. E possono essere anche persone molto intelligenti.

E non vi è modo di esercitare il potere senza essere uno psicopatico? Perché, diciamolo: più o meno, in qualche modo tutti i politici lavorano per sé stessi.

Certo che si può esercitare il potere senza essere psicopatici e, di fatto, la maggioranza dei leader non lo è. In qualche maniera è vero che tutti i politici lavorano per sé stessi, perché vogliono essere rieletti, ma lavorano anche per gli altri, cercano di produrre benefici. Allo psicopatico, invece, di produrre benefici per le persone non importa affatto, e se questo avviene è per via di qualche effetto collaterale. Un leader comunitario si distingue anche per il fatto che forma alleanze e genera consensi. Cede per avanzare nella carriera politica. Lo psicopatico, al contrario, è carente di capacità per offrire/generare consensi, giacché non può mettersi nei panni dell’altro. Per questo, è difficile entrare nella sua testa.

E come si sostituisce un politico psicopatico?

Con un altro psicopatico, o con l’unione di tanti politici comuni, con un alleanza. Per un politico normale solo, il tutto risulta impossibile da gestire.

Il gatto e la volpe

Diagnosi infausta.

Allora non facciamo come Pinocchio.

Siamo tutti chiamati a giocare un ruolo attivo nel riconoscere e gestire i Gatti e le Volpi, ponderando la loro capacità di guidare con etica, integrità e legalità. Dobbiamo smascherare le manipolazioni, rifiutare il ruolo di complementari, non rinunciando al nostro pensiero critico e usando tutti gli strumenti della democrazia.

In copertina: immagine da Giornale di psicologia 

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IO, SIMONE DI CIRENE

IO, SIMONE DI CIRENE

Il mio nome è Simone, Simone di Cirene. Già, perché fra noi conta il luogo da cui provieni, non chi sei. E Lui? Lui chi è? E soprattutto da dove viene? Io so che non è di questo mondo, è veramente il figlio di Dio, e noi l’abbiamo condannato a morte. Noi? Loro! I sacerdoti del tempio, i farisei, e quella stessa gente che qualche ora prima lo osannava e ora gli sta sputando addosso. Benedico il momento in cui le guardie mi hanno preso tra la folla e costretto a portare la croce: non ho detto nulla, non ho protestato. Lui, Gesù di Nazareth, mi ha guardato mentre portavo quell’orribile strumento di morte su per la salita al Golgota. Si è girato solo una volta, ma io ho visto i suoi occhi chiedere perdono per il peso che stavo portando al posto suo, li ho visti e mai li dimenticherò. “Non importa – gli ho detto – ho spalle forti sai, lavoro nei campi tutto il giorno”. Allora i suoi occhi hanno sorriso, pur nel dolore e nelle percosse, sembrava contento che alla morte lo accompagnasse un contadino, uno qualsiasi. Alessandro piangeva forte e mi chiamava, perché tra la folla qualcuno percuoteva anche me. Ma ve l’ho detto: ho le spalle forti io, e le braccia ancora di più. Rufo taceva, era stranamente calmo e guardava Gesù. Forse ricordava come me d’averlo già incontrato, suo fratello non poteva ricordarlo, non era presente.

Una volta, non molti anni fa, ho alzato una macina per le olive. Alcuni soldati romani, fermatisi a bere al pozzo, accanto al frantoio, mi avevano sfidato a farlo. Uno di loro, un centurione chiamato Livio dagli altri quattro, scese da cavallo e, tolta la macina dal perno, volle alzarla, ma questa ricadde fra le olive schiacciate, facendo schizzare ovunque una poltiglia d’olio e minuscoli pezzi d’oliva. Buona parte però finì sulla tunica che portava e sul suo viso, facendolo imbestialire, anche per le risate dei commilitoni. Allora sguainò il gladio dal fodero e lo puntò alla mia gola, perché anch’io avevo riso di lui. E mentre sentivo il sangue caldo colare giù per il collo, poiché aveva spinto leggermente la punta della spada dentro la mia pelle, disse:

– Prova tu allora, giudeo che osi farti beffa d’un centurione romano, ma guai a te se fallirai, ti ucciderò come un cane –

Non ebbi paura. Sporcai le mie mani con la sabbia per impedire che la macina, intrisa d’olio, scivolasse, l’afferrai saldamente e l’alzai dal frantoio di circa mezzo braccio. Uno dei cavalli nitrì forte. Livio, al culmine della rabbia, alzò la spada per colpirmi. D’improvviso si udì una voce levarsi alle nostre spalle, come uno schiocco forte di ramo secco che si spezza:

– Fermati! Abbassa la tua spada Marco Livio Druso!

Ci voltammo tutti e vedemmo a pochi passi da noi un uomo, avvolto in una tunica di lino color avorio, il braccio destro e la mano alzati come a voler fermare quell’istante di violenza improvvisa. Era Lui, il Cristo. Altri lo accompagnavano, forse cinque o sei persone di età quasi simile fra loro.

– Come sai il mio nome? Disse Livio –

– Il tuo nome lo porta il vento, lo sussurra alle orecchie dei giusti, affinché si tengano lontano dalla tua persona. Le voci di chi hai ucciso ripetono il tuo nome, e solo tu puoi placare questo turbine di parole, perché, come granelli d’una tempesta di sabbia, tutto ha origine in te, nel deserto arido che porti nell’anima –

Vidi allora la spada cadere dalla mano del centurione, che, come albero schiantato da un fulmine improvviso, piegò a terra le ginocchia ed iniziò a piangere senza ritegno, coprendosi gli occhi con le mani. I suoi compagni, stupiti e atterriti, senza dire una parola, lo fecero salire a cavallo, salirono anch’essi ed il gruppo si allontanò con subitanea premura, pur non spingendo al galoppo i loro animali.

Mio figlio Rufo, che aveva allora dodici anni, si gettò ai piedi dello straniero, abbracciandogli le caviglie e nascondendo la testa fra i suoi polpacci. L’uomo che mi aveva appena salvato la vita, lo aiutò ad alzarsi e gli carezzò il viso con gesto lieve. Presi allora un vaso d’olio buono, spremuto il giorno prima e lo porsi al mio salvatore. Alzando la mano sinistra fino a mostrarmi il palmo, Gesù scosse la testa e disse:

– Non è questo che farai per me, Simone – e voltandosi, si allontanò lungo il sentiero che conduce alla collina vecchia.

Rimasi immobile per lunghi minuti. Oggi so cosa intendeva dire. Questa croce è lieve, non pesa affatto, e mentre la porto capisco come ognuno di noi, d’ora in avanti non sarà più solo a portarla, qualunque sia la sua forma, qualunque dolore o sofferenza contenga. Lui oggi non morirà come muoiono tutti. Succederà qualcosa, lo so, come è vero che mi chiamo Simone, Simone di Cirene. 

In copertina: Jacopo Tintoretto, Salita al Calvario, 1564-66 – immagine Wikimedia Commons.

“Io sono ancora qui”: un inno alla democrazia

“Io sono ancora qui”: un inno alla democrazia

Tra domenica 3 marzo e lunedì 4 non ho dormito per accompagnare la cerimonia di consegna dei Premi Oscar. Non è stato facile sopportare l’esibizione del lusso, la frivolezza del mondo di celluloide, l’idiozia del presentatore, le affermazioni banali dei commentatori italiani. La ragione che mi ha portata ad assistere a un evento così futile è stato il desiderio de vedere come il film Io sono ancora qui sarebbe stato accolto e giudicato. Quando iniziarono a circolare notizie sul lungometraggio, a richiamare la mia attenzione è stato il fatto che si ispira alla vita dell’avvocato Eunice Paiva. Io non l’ho conosciuta personalmente, ma il suo nome è indissolubilmente legato alla lotta degli indigeni brasiliani per la difesa dei loro diritti. Immediatamente, il coinvolgimento suo e mio nella stessa causa, ha suscitato il desiderio di assistere al film.

Negli anni Novanta, lessi il libro Ua:brari, di Marcelo Rubens Paiva. Mi piacque tanto che tradussi un brano in italiano e lo inserii nel libro di racconti Amazzonia portatile, pubblicato nel 2003. Però, solo nell’agosto del 2015, navigando in Internet, ho saputo che Marcelo è divenuto tetraplegico a venti anni di età dopo aver saltato da una pietra dentro un lago; che il padre fu sequestrato, torturato e assassinato da militari nel 1971, che è figlio dell’avvocato Eunice.

La prima di Io sono ancora qui è avvenuta durante il Festival di Venezia, il primo settembre del 2024; è stato applaudito per dieci minuti consecutivi dal pubblico, che ha anche acclamato l’interpretazione dell’attrice Fernanda Torres. Nel manifesto utilizzato a Venezia appare Marcelo Paiva, così ho saputo che è l’autore del libro che ha ispirato il film. Immediatamente, la notizia è divenuta una ragione in più per voler assistere al lungometraggio. Nel novembre del 2024, da Boa Vista ho viaggiato per Brasilia, avendo un’idea fissa e chiara in testa: la prima cosa che avrei fatto arrivando sarebbe stato andare al cinema.

Qualunque sia l’evento al quale partecipo, mi piace arrivare in anticipo. Aspettando che il cinema aprisse, ho trascorso il tempo scattando autoritratti davanti al manifesto di Io sono ancora qui, sperando che almeno uno risultasse decente. La prima volta che si assiste a un film, non è possibile catturare tutte le sue sfumature, i suoi messaggi subliminali.

Durante la proiezione, ciò che più ha richiamato la mia attenzione è stato che non appaiono militari, armi, torture. La crudele dittatura brasiliana, fra le più lunghe dell’America Latina, è denunciata attraverso l’angustia del gruppo familiare ritratto; gli orrori perpetrati all’epoca sono enunciati attraverso il silenzio, lo smarrimento esistenziale, la sofferenza, le difficoltà affrontate dai componenti di una famiglia che era molto unita, molto allegra, molto ospitale.

Dopo aver assistito al film ho iniziato a divulgarlo sistematicamente. Non mi rassegno al fatto che in Brasile non c’è mai stato processo e punizione delle persone che hanno commesso crimini durante la dittatura. La Legge dell’Amnistia, denominazione popolare data alla Legge nº 6.683, venne sanzionata dall’allora presidente João Batista Figueiredo il 28 agosto 1979, quando ancora era in vigore la dittatura. Tra i beneficiari dell’amnistia c’erano il sociologo Herbert José de Souza (Betinho), il giornalista Fernando Gabeira, gli intellettuali Darcy Ribeiro e Paulo Freire, i governatori Leonel Brizola e Miguel Arraes, l’ex consigliere comunale Antônio Losada. Questa stessa legge, però, ha concesso il perdono anche a tutti i coinvolti in “crimini politici o collegati”, includendo agenti della repressione che realizzarono torture, assassini e occultamento dei corpi dei prigionieri politici fino al 1979. La legge è ancora in vigore e ciò significa che la scappatoia dell’impunità resta aperta per chi cospira contro la democrazia. La redazione originale del Progetto di Legge nº 14 del 1979-CN è la seguente: “Art. 1º È concessa amnistia a tutti quelli che, nel periodo compreso tra il 02 settembre 1961 e il 15 agosto 1979, hanno commesso crimini politici o collegati con essi, crimini elettorali, a coloro che hanno avuto i propri diritti politici sospesi e ai servitori dell’Amministrazione Diretta e Indiretta, di fondazioni vincolate al potere pubblico, ai servitori dei Poderi Legislativo e Giudiziario, ai militari e ai dirigenti e rappresentanti sindacali, puniti in base agli Atti Istituzionali e Complementari  e altri diplomi giuridici”. La locuzione finale, che dice “e altri diplomi giuridici”, fu vietata su richiesta dell’allora presidente João Batista Figueiredo attraverso un messaggio presentato alla seduta congiunta del Congresso Nazionale del 22 agosto 1979.

L’impeachment di Dilma Rousseff, durante il suo secondo mandato come presidente della Repubblica Federativa del Brasile, è stato un colpo di Stato. Il processo fu giuridico, politico e soprattutto mediatico. Il Tribunale Regionale Federale della 1ª Regione ha ritenuto Dilma innocente dall’accusa che avrebbe praticato “pedalate fiscali”; accusa abbondantemente e falsamente utilizzata da deputati e senatori per cancellare il suo mandato durante il processo di impeachment del 2016. L’impeachment ha aperto la strada all’estrema destra che, nel 2018, ha eletto presidente Bostanaro, un essere ignobile del quale mi rifiuto persino di scrivere il nome. Dato che ‘bosta’ in portoghese significa merda, modificando il suo vero nome io lo chiamo Bostanaro. Questo energumeno nega che ci sia stata la dittatura in Brasile e i suoi eroi sono efferati dittatori latinoamericani; ha portato avanti la sua campagna elettorale esibendosi nell’osceno gesto di puntare la mano come se fosse un revolver; ha vomitato parolacce contro donne, omosessuali, negri, indigeni; nei ministeri ha sistemato esseri ignoranti, ottusi, retrogradi; come presidente della repubblica ha parlato a vanvera offendendo mogli di presidenti di altri Paesi e figli di personalità assassinate durante le dittature militari latinoamericane. I suoi discorsi di odio, naturalmente, hanno incentivato la violenza contro le minoranze sopra citate, specialmente contro gli indigeni che hanno preservata intatta la foresta amazzonica fino ai nostri giorni. Lui è capitano dell’Esercito, il suo vice era il generale Antônio Hamilton Martins Mourão, sette dei suoi ministri erano militari, due dei quali lavoravano direttamente con lui. Circa cento persone provenienti dalle Forze Armate hanno occupato poltrone nel secondo e terzo scalone di ministeri e organi federali.

Nel 2022 Bostanaro non è stato rieletto. Mentre scrivo, lo stanno giudicando per il tentativo di colpo di stato avvenuto l’8 gennaio del 2023; con lui vengono giudicati i suoi alleati e gli allucinati seguaci responsabili di atti terroristici e depredatori di beni pubblici. Sapete qual è la parola d’ordine con la quale questi mascalzoni cercano di sottrarsi alla giustizia? Amnistia.

Il film Io sono ancora qui ha innescato una potente riflessione sulla dittatura, tortura, occultamento di corpi, impunità dei responsabili. Il pericolo di nuovi colpi di stato continuerà ad essere reale se la verità non viene gridata, se la memoria non viene recuperata, se i colpevoli non sono puniti, se la popolazione non viene educata e informata. Divulgando il film, io ho voluto richiamare l’attenzione sull’impunità dei torturatori e assassini, sulla vergognosa legge che li protegge; ho voluto richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sui rischi che la democrazia corre anche ai nostri giorni; ho voluto fare la mia parte per contribuire alla sensibilizzazione e presa di coscienza della società.

L’intensa attività promozionale del film, instancabilmente portata avanti dagli attori principali e dal regista, ha contribuito a dare visibilità all’opera, che ha ottenuto premi e riconoscimenti nel mondo intero. Ma è stata la massiccia, appassionata divulgazione fatta dal pubblico che ha portato l’opera alle indicazioni del Premio Oscar: Fernanda Torres, già premiata con il Globo d’Oro, è stata indicata come Migliore Attrice, mentre il lungometraggio ha concorso come Miglior Film e Miglior Film Internazionale. Dubito proprio che il film sarebbe stato preso in considerazione se ciò fosse dipeso solo dai “gringo”; ho calcolato anche che i “cowbays” non avrebbero fatto portar via due Oscar. Quindi, ho tifato affinché a brillare non fosse solo un’attrice con la sua interpretazione, ma fosse il film nel suo insieme, con il suo contenuto, storia, messaggi; ciò anche perché la vera luce è quella emanata dalla resilienza e attivismo di Eunice Paiva, l’effettiva protagonista del film. Quando hanno annunciato che Io sono ancora qui ha vinto l’Oscar come Miglior Film Internazionale, mi sono sorpresa delle mie stesse reazioni, vedendomi saltare di allegria e sentendo il cuore accelerare per l’emozione.

Ho sempre pensato che arte e poesia sono più efficaci di scienza e politica; il film di Walter Salles ha ottenuto ciò che i politici di vari partiti non hanno saputo, non hanno voluto fare fino ad oggi: mettere in discussione l’impunità e l’indecenza della Legge dell’Amnistia attraverso un ampio dibattito popolare.

Rubens Beyrodt Paiva (Santos, 26-12-29/Rio de Janeiro, tra il 20 e il 22-01-71) era ingegnere. Nel 1962 fu eletto deputato federale per il PTB – Partido Trabalhista Brasileiro.  Dopo il golpe de 1964, il mandato venne cancellato dall’Atto Istituzionale Numero Uno e lui si esiliò. Tornato in Brasile, continuò ad esercitare l’ingegneria, ma mantenne contatti con esiliati. Inutilmente si oppose alla dittatura. Nel gennaio del 1971 fu sequestrato. Sequestrarono anche la figlia Eliana, che restò prigioniera per ventiquattro ore, e la moglie Eunice, che venne sottoposta a interrogatori durante dodici giorni. Rubens fu torturato e assassinato nei sotterranei del DOI-CODI – Distaccamento di Operazioni di Informazioni-Centro di Operazioni della Difesa Interna; il suo corpo fu sepolto e dissotterrato diverse volte dagli agenti della repressione e infine venne gettato in mare, al largo di Rio de Janeiro, due anni dopo l’assassinio.

Rubens era sposato con Eunice Facciolla, figlia di immigrati italiani che alla fine del 1800 lasciarono la città di Polignano a Mare, baciata dal mar Adriatico, per stabilirsi in Brasile. Con la scomparsa del marito e con cinque figli di cui prendersi cura, Eunice ebbe bisogno di reinventarsi. Da Rio de Janeiro la famiglia ritornò a San Paolo. Nel 1973, Eunice Paiva entrò nell’Università Mackenzie e iniziò il corso di Diritto, formandosi a quarantasei anni. Instancabile ha cercato  informazioni sulla fine del marito e per il riconoscimento della responsabilità dello Stato nella sua scomparsa. Ha coordinato campagne per l’apertura di archivi sulle vittime del regime militare ed è divenuta simbolo della lotta contro la dittatura. Con la sua militanza e critica al regime dittatoriale ha rischiato la propria vita, come dimostrano i documenti del SNI – Servizio Nazionale di Intelligenza rivelati nel 2013; documenti che mostrano, ad esempio, che sia lei che i suoi figli sono stati spiati da agenti militari dal 1971 al 1984. La forza di pressione canalizzata da Eunice Paiva, è culminata con la promulgazione della Legge n° 9.140/95, che riconosce come morte le persone scomparse in ragione della partecipazione ad attività politiche durante la dittatura. Eunice è stata l’unica parente di scomparso invitata ad assistere alla solenne occasione durante la quale l’allora presidente Fernando Henrique Cardoso ha firmato la legge. Dopo venticinque anni di lotta per verità, memoria e giustizia, nel febbraio del 1996 Eunice ha ottenuto il certificato di morte del marito Rubens Paiva.

Nel film non è stata contemplata l’azione dell’avvocato Eunice a favore delle etnie brasiliane, e questa è una ragione in più che mi ha portata a scrivere il presente testo. Durante la dittatura, il governo militare ha perseguitato gli indigeni, ne ha espulsi a migliaia dalle loro terre, ne ha deportato a centinaia nei campi di lavoro forzato e nelle prigioni. In mezzo all’angosciante dolore della perdita del marito, Eunice Paiva ha studiato Diritto specializzandosi nella difesa giuridica dei popoli indigeni.  Mentre cercava risposte per la scomparsa dello sposo, ha collaborato intensamente con la lotta di leader indigeni, firmando pareri giuridici, esigendo risarcimenti e demarcazioni di terre, pubblicando articoli e libri che hanno contribuito alle discussioni inerenti il diritto dei popoli indigeni.

Eunice ha guadagnato sempre più notorietà grazie alla sua serietà e impegno.  Si è dedicata alla causa indigena agendo contro la violenza e l’espropriazione indebita delle terre. Nell’ottobre del 1983, insieme all’antropologa Manuela Carneiro da Cunha, ha firmato l’articolo “Difendete i pataxós”, che venne pubblicato nella sezione “Tendenze e Dibattiti” del giornale Folha; l’articolo è divenuto una pietra miliare della lotta indigena ed è servito da modello per altri popoli nativi, tra cui africani, americani e esquimesi.  Indicata dall’Associazione Brasiliana di Antropologia, Eunice ha svolto il ruolo di perito nell’azione giudiziaria della FUNAI nella demarcazione della terra Indigena Krikati. Commentando una foto del 1985, in questi giorni un leader Krikati ha scritto: “Siamo riconoscenti per aver avuto lei come avvocato nella difesa del nostro territorio”. Nel 1986, quando Eunice arrivò al caso Zoró, la dittatura era finita da un anno, ma la deforestazione continuava a tutto vapore. Lei elaborò un parere giuridico analizzando gli argomenti favorevoli al riconoscimento dell’area Zoró come terra indigena. Chiudendo il documento, fu categorica: “Nulla impedisce la demarcazione dell’Area Indigena Zoró. I diritti degli indios al possesso delle loro terre sono diritti inalienabili e che non possono essere negoziati, non esistendo nessuna impugnazione valida capace di annullare, restringere, estinguere o modificare i diritti della comunità Zoró sulla terra che è il suo ‘habitat’ naturale”. Il parere dell’avvocato Eunice contribuì a evitare l’estinzione di questo popolo. Nel 1987, insieme ad altri soci, fondò lo IAMA – Istituto di Antropologia e Ambiente, organizzazione non governativa attiva fino al 2001 nella difesa e autonomia dei popoli indigeni. Nel 1988, fu consulente dell’Assemblea Nazionale Costituente, che ha scritto la Costituzione Federale dove articoli importanti assicurano diritti territoriali e culturali ai popoli indigeni.

Acque di marzo

Prima di chiudere questo testo, il Supremo Tribunale Federale ha dichiarato l’ex presidente Bostanaro e un gruppo di militari di alto rango colpevoli del tentato colpo di Stato avvenuto l’8 gennaio del 2023.  Per la prima volta in Brasile, militari sono giudicati da un tribunale civile.

Eunice Paiva, l’avvocato che ha lottato affinché il Brasile non perdesse la memoria, è morta a San Paolo il 13 dicembre 2018, a 89 anni, dopo quindici anni vissuti con l’Alzheimer. Oggi, 30 marzo, in varie città, il popolo ha manifestato in strada per esigere che non sia concessa l’amnistia ai golpisti e che siano debitamente puniti. La storia dell’avvocato Eunice Paiva è stata onorata, la memoria storica del Brasile riscattata; ciò che non può cessare è l’impegno di ognuno di noi nel mantenimento  della democrazia e nella sensibilizzazione della società.


Bibliografia

Eunice Paiva: uma Antígona brasileira na defesa dos direitos humanos para além da finda-linha, Mariana Rodrigues Festucci Ferreira, SciELO AnalyticsAnalytica: Revista de Psicanálise, versão On-line ISSN 2316-5197, Analytica vol.7 no.12 São João del Rei jan./jun. 2018.

http://pepsic.bvsalud.org/scielo.php?script=sci_arttext&pid=S2316-51972018000100003

Nome e sobrenome de quem destrói a Amazônia, Loretta Emiri, janeiro de 2022.

https://drive.google.com/file/d/10xQZlgO6d3lLdH-UdpvEC3_MSkGwLGBK/view

Cover: immagine da Cineforum

Arrestato Mohsen Mahdawi un altro leader della protesta pro Pal alla Columbia University. Harvard non si piega alle pretese di Trump, che congela le sovvenzioni

Arrestato Mohsen Mahdawi, un altro leader della protesta pro Pal alla Columbia University.
Harvard non si piega alle pretese di Trump, che congela le sovvenzioni

Lunedì le autorità per l’immigrazione hanno arrestato lo studente della Columbia University Mohsen Mahdawi, un titolare di green card proveniente dalla Palestina. Mahdawi è stato arrestato nel Vermont quando si è presentato a quello che gli è stato presentato come un test per la naturalizzazione. Mahdawi aveva già espresso il timore che l’appuntamento, anticipato rispetto al normale processo di naturalizzazione, potesse rivelarsi una trappola e aveva contattato i tre membri del Congresso del Vermont per informarli delle sue preoccupazioni. Tutti e tre hanno condannato la sua detenzione lunedì. Come Mahmoud Khalil, Mohsen Mahdawi ha contribuito a guidare le proteste del campus della Columbia University contro il genocidio di Gaza.

“Essere antisemiti è ingiusto; la lotta per la libertà della Palestina e la lotta contro l’antisemitismo vanno di pari passo, perché un’ingiustizia perpetrata in qualsiasi luogo è una minaccia per la giustizia ovunque” aveva dichiarato Mohsen Mahdawi nel dicembre 2023 durante un’intervista a Democracy Now!

L’Università di Harvard

L’amministrazione Trump ha dichiarato di voler congelare 2,2 miliardi di dollari in sovvenzioni federali e 60 milioni di dollari in contratti con l’Università di Harvard, dopo che l’istituzione della Ivy League ha sfidato l’ordine di Trump di eliminare tutte le iniziative basate su diversità, equità e inclusione e di dare un ulteriore giro di vite alle proteste per i diritti dei palestinesi, compresa la segnalazione degli studenti internazionali alle autorità federali.

Il presidente di Harvard, Alan Garber, ha scritto lunedì in una lettera alla comunità scolastica: “L’Università non rinuncerà alla sua indipendenza né ai suoi diritti costituzionali. … Nessun governo – indipendentemente dal partito al potere – dovrebbe dettare ciò che le università private possono insegnare, chi possono ammettere e assumere e quali aree di studio e di ricerca possono perseguire”.

Traduzione in italiano di Anna Polo (pressenza)

In copertina: Mohsen Mahdawi (Foto di Democracy Now!)

Parole a capo
Mirella Vercelli: alcune poesie da «La solitudine del passo»

Mirella Vercelli: alcune poesie da «La solitudine del passo»

Le poesie che vengono pubblicate in questo numero di Parole a capo sono tratte dal volume «La solitudine del passo» di Mirella Vercelli, peQuod (2023). Nell’intervista di Grazia Calanna su “L’Estroverso” (29/10/2024), Mirella Vercelli spiega come è stato “costruito” il suo libro. Una costruzione faticosa, dolorosa. “Le quattro sezioni del libro raccontano di circostanze forzatamente acquisite come sapienza di vita. Fra tutte la solitudine, duro dettato per la mia infrenabile tendenza alla condivisione, all’empatia ad ogni costo. Solitudine come soglia oltre la quale non è possibile accompagnare né essere accompagnati, per passi che ciascuno deve irrinunciabilmente compiere da solo.

Dalla prima sezione Senza orme:

Per i cuori colmi non ho affinità.

Mi sono fratelli i granai vuoti
i letti disabitati
di case dove ogni cosa è ferma
nell’attesa

e l’ombra varia, variano stagioni
nell’aria densa, mentre un raggio affonda
sempre la stessa lama dalla finestra
sbieca.

Dalla seconda sezione Mater amabilis: questa sezione raccoglie testi dedicati alla madre. In particolare quelle contrassegnate da “Lidia” con numero progressivo da 1 a 22 sono state composte dopo la sua morte improvvisa.

Lidia 6

Si va serrando in fretta il buio
di un’altra sera. Di un altro giorno
ti allontani, mamma,
d’altri sospiri, d’altri nodi
in gola. Superi
l’ultimo squarcio della luce.

Io resto alle ombre.

*

Lidia 9

Cassetti, tutti i cassetti di casa

le mani dentro quel che resta
di te e non sa che sei passata.

Evapora nell’aria non più mossa
delle stanze la tua essenza, lenta
come di chi si volta
per un ultimo sguardo sulle scale.

*

Lidia 13

E ancora aspetto che tu venga a raccontarmi
dell’ultimo respiro, di quella rosa

fiorita sulla bocca, quasi sentisse maggio
il tuo stelo moribondo..

*

Lidia 16

Aprile ti fioriva negli occhi.

Di questo giorno
sempre più stancamente rinascevi

l’ultimo lo mancasti, per un soffio.

 

Dalla sezione Di spalle, nata dalla progressiva presa di coscienza della malattia del marito Paolo, dal tentativo impossibile e inutile di abituarsi all’idea del venir meno della sua presenza.

È già vuoto ritornarmi
dell’abbraccio che ti stringe.

Ma come si può alla morte
prendere le misure, portarsi avanti
sedere prima del tempo
alla mensa del dolore?

*

Pietà
Aprimi le braccia
raccoglimi sulle tue ginocchia
come fossero del figlio il corpo livido
queste povere ossa, o Dolorosa.

 

L’ultima sezione si intitola Da lontano e Mirella Vercelli scrive che “esprime il tentativo – desiderio di prendere le distanze da questi eventi dolorosi, provare a considerarli da lontano, appunto, cercando di accettare che ormai fanno parte del destino personale e provare a considerarli atomi infinitesimi nella moltitudine dei destini umani”.

Ama i miti strumenti
del tuo umile giorno,
reggili con dolcezza
nel quotidiano impegno

 

fai tuo il destino
che non sai,
il passo imposto sia
il passo che sceglierai.

*

Giorno dopo giorno
l’alfabeto del dolore si
fa lingua madre.

*

La voce, imperiosa, reclama
Accudimento

e il tempo gira
attorno a quella fame antica.

Si nasce e si muore invocando
con medesimo pianto

la vita.

*

Mirella Vercelli è nata a Grottazzolina, nelle Marche, nel 1959; risiede da qualche anno a Sant’Elpidio a Mare, sulla sponda opposta del Tenna, attraversato come fosse il Rubicone.
È collaboratrice in un ambulatorio medico, dove passa poca poesia ma tanta umanità, da consolare e da cui essere consolati. Ha pubblicato nel 2017: Racconti 1978-2016 per Aras Edizioni e nel 2020 Luce piena
per peQuod. Suoi racconti e versi sono compresi in diverse antologie e riviste, stampate e on line.
(Ringrazio l’autrice per avermi permesso la pubblicazione dei suoi versi)
(Foto di Melk Hagelslag da Pixabay)

 La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 280° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.
E’ possibile inviare proprie poesie all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica.

Ripensare per generazioni: riprendere il filo del passato

Ripensare per generazioni: riprendere il filo del passato

Ripensare per generazioni: riprendere il filo del passato.

Sembrerebbe che i 52.000 abitanti della Groenlandia si trovino a fronteggiare due problemi: il primo è dovuto al cambiamento climatico; il secondo è dovuto a chi ha prodotto…. il primo problema o, anzi meglio, lo nega: non lo riconosce e, meno che meno, se ne sente responsabile.

Il primo si manifesta come un semplice e misurabile scioglimento dei ghiacci con il conseguente innalzamento delle acque dell’oceano.

Il secondo problema si va sempre più manifestando come una esplicita minaccia di invasione dell’isola da parte degli Stati Uniti d’America che per bocca del Presidente Trump (e del suo vice Vance) hanno bellamente mostrato di infischiarsene non solo delle elementari norme internazionali di convivenza civile ma anche e soprattutto dei luoghi di sepoltura degli antenati del popolo groenlandese.

Ricordiamo che in Cent’anni di solitudine di Gabriel G. Marques è solo con l’edificazione della tomba di Melquiades, lo zingaro, che José Arcadio Buendia potrà dichiarare fondato il suo amato, mitico paese.

Questo sconsiderato attacco americano (prima economico, poi logico e infine linguistico)  prelude a una sola cosa: una inevitabile catastrofe antropologica rappresentata dallo sradicamento di migliaia di persone dal loro passato. O più probabilmente dal loro futuro.

Il nostro Giambattista Vico aveva creato a questo proposito una sorta di etimologia patafisica della parola umano  facendola derivare dal latino humando in riferimento ai riti della sepoltura (inumazione).

Evidentemente gli Stati Uniti d’ America sono un Paese troppo “giovane” dal punto di vista storico e antropologico per avvertire la rilevanza della questione.

Recentemente però è uscito, in traduzione italiana, un libro dell’inglese Tim Ingold, Professore emerito di Antropologia Sociale, che potrebbe aiutare ( anche gli americani) a comprendere meglio queste cose.

Il titolo del libro è Il futuro alle spalle. Ripensare le generazioni (Meltemi, 2024)

Nel presente saggio Tim Ingold sostiene  alcune tesi che a prima vista potrebbero risultare provocatorie.
Ad esempio sostiene che per poter affrontare  i grandi problemi del nostro tempo (guerre, riscaldamento globale, perdita della biodiversità, derive autocratiche delle democrazie, calo di fiducia nelle istituzioni comunitarie e transnazionali) bisognerebbe abbandonare l’idea della innovazione a tutti i costi e la stessa pratica fuorviante della innovazione per il progresso.

Alla base di questa revisione c’è poi quella ancora più importante e fondante che è la concezione stessa di futuro inserito non più in un discorso cronologico in avanti ma come una capacità di cogliere segni provenienti dal passato.

Che cosa significa allora che il nostro futuro è alle spalle? Prima di tutto è ovvio che tutte le culture si rifanno a una tradizione e dunque a trasmettere e tramandare “cose” più o meno visibili, documentate o solo raccontate.

Si pensi ad un tempo greco arrivato fino a noi quasi del tutto intatto (o se preferite, semidistrutto): oltre alle colonne ancora erette e ad alcune semi interrate o riverse a terra, è chiaro che si avverte anche la quantità di cose invisibili e scomparse che in parte potremmo recuperare grazie alla nostra immaginazione di uomini della stessa specie delle generazioni che hanno preceduto la nostra.

Per certi versi però a questa ovvietà dice Ingold si affianca una certa volontà della nostra “modernità” di “eliminare” sistematicamente il passato e le sue tracce ovvero, che è lo stesso, immagazzinare tutto questo in una memoria esterna praticamente illimitata: i sistemi di intelligenza artificiale a questo sono adibiti, alla possibilità di recuperare qualunque tipo di “ricordo” in tempo reale cioè, parafrasando, tutte le colonne che sono ancora belle erette e quelle riverse a terra ma ancora visibili.

E tutto il resto? Quello che non si vede e che non “avvertiamo” più?

Proprio questa “apparente e immediata” disponibilità di memorie è l’altra faccia della eliminazione di memoria ovvero di quella “necessità” specifica di trasmettere e tramandare il sapere da una generazione ad un’altra.

Il senso comune di questa modernità , dice Ingold, è quello di pensare le generazioni come entità separate che succedendosi l’una con l’altra formano strati geologici che si sovrappongono tra loro ma non si intrecciano: così abbiamo i Boomer , poi Gen X e quindi i Millenislas e Gen Z.

In tal modo a dominare in un dato periodo storico è una sola di esse quella che Ingold chiama Generazione Ora pronta a cancellare quello che ha fatto la generazione precedente e consapevole di “dover” lasciare il passo a quella successiva, senza alcuna apparente condivisione tra loro.

È il modo di ragionare , osserva Ingold , dell’archeologia che opera per stratificazioni nel tempo, ma anche della biologia evoluzionista con i suoi pacchetti preordinati di caratteri genetici da trasferire  alla generazione che seguirà. Lo stesso accade nell’antropologia della parentela o se volete negli alberi genealogici famigliari che uniscono le relazioni con lineette e caselle ( organigrammi famigliari) senza nulla dire della qualità delle relazioni.

Eppure continua Ingold lo studio etnologico delle diverse culture umane ci consegna una immagine delle relazioni intergenerazionali assai diversa: non strati impilati ma fili sottilissimi che continuano ad intrecciarsi per formare una corda sempre più resistente:

“…l’elemento cruciale della generazione è che essa appartiene allo stesso movimento della vita che genera. È un proseguire, non uno scambiare come tale”.

L’atto generativo, per così dire, si protrae nel tempo e non esiste alcuna discontinuità: i giovani non sono entità che prima o poi sostituiranno i padri, così come gli anziani non sono soggetti che hanno abbandonato la scena.
È solo ritornando a un mondo comune intrecciato di generazioni che si potranno affrontare e superare i problemi che affliggono la nostra modernità.

La sfida dice Ingold è solo una: perdurare, lasciare delle scie, costruire le proprie tracce.

Ritornando ai due “problemi delle Groenlandia”,  dunque la sfida non è procurarsi terre rare per continuare a progredire, ma perdurare con i groenlandesi difendendo l’isola dal riscaldamento globale. La sfida non è non invaderla e sfruttarla,  ma salvaguardare la… “tomba di Melquiades”. La sfida  non è disegnare un’altra lineetta per collegare due generazioni o aggiungere un’altra stella alla bandiera USA, ma riprendere il filo per irrobustire la corda della Vita comune, tra generazioni, su questo pianeta.

Cover: immagine da sipuofaredy.com

Per leggere gli articoli, i racconti e le poesie di Giuseppe Ferrara su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Parole e figure / Cose da fare, insieme

Io costruirò il tuo futuro e tu il mio.

Cose da fare. Dritte per il nostro futuro insieme è un bel libro illustrato dell’australiano Oliver Jeffers (abbiamo già parlato di lui), sempre edito da Zoolibri, che racconta la storia di un papà e della sua bambina che mettono in fila le cose da fare per costruire un futuro nuovo.

Due paia di mani vicine serviranno pure a qualcosa…

Prima di tutti si metta insieme la cassetta degli attrezzi! Per montare e smontare, per tirare su una porta dove non ce n’è mai stata una. Per costruire insieme la propria casa.

Insieme si può inventare un orologio per custodire il tempo, lo stesso tempo che fa stare uniti, mettere da parte tanto amore e scavare una buca dove potersi nascondere.

Insieme si può costruire una fortezza per tenere fuori i nemici e mura alte contro le loro grida. Però siccome non si perde o si vince sempre, insieme si può aprire un varco per lasciarli entrare e costruire un tavolo per bere il the e dire ‘mi dispiace’…

Insieme si può costruire una torre per vedere le stelle e altri mondi che passano accanto.

Insieme si può scavare un tunnel che porta fino alla luna, costruire un posto per riposare comodamente quando si è stanchi, per starci quando tutto è perduto o una nave che non possa affondare.

Insieme si può avere un luogo dove lasciare le cose più care e tutto l’amore già messo da parte. Magari più avanti sarà di aiuto, in tempi difficili.

Insieme, un passo alla volta, si può accendere un fuoco, tutto questo fare stanca. Ma insieme si può stare al caldo come appena nati e dire ‘notte, va tutto bene’.

Insieme si può fare davvero tutto…

Il libro è una vera lettera d’amore di un papà alla sua bambina, quasi un dialogo a quattro mani immaginifico e dolce, come solo i discorsi con i più piccoli possono essere.

È un testo educativo e romantico, con belle e delicate illustrazioni che trattano concetti importanti come la vita, l’amore, l’ambiente e la biodiversità.

Oliver Jeffers, Cose da fare. Dritte per il nostro futuro insieme, Zoolibri edizioni, Reggio Emilia, 2021, 48 p.

 

Zebra. Sogni da realizzare

ZEBRA. SOGNI DA REALIZZARE

Zebra. StanleySognavo di diventare giornalista. Amo conoscere, visitare posti nuovi e tracciare le mie scoperte. Quando ne ho la possibilità mi piace contribuire anche a Zebra, condividendo alcuni spunti e riflessioni con la redazione del giornale.

Purtroppo però le condizioni nel mio Paese, la Nigeria, rendono molto difficile la realizzazione dei propri sogni. La situazione politica è disastrosa, ci sono molti conflitti interni e, spesso, per i*le giovani non ci sono prospettive future.

Chi è povero diventa sempre più povero, mentre chi è ricco si arricchisce sempre di più. Se hai un sogno e lo vuoi realizzare devi essere benestante o avere contatti con i “piani alti” della società, altrimenti non hai chance. È a causa di tutto ciò che, undici anni fa, ho deciso di lasciare la Nigeria per venire in Europa e costruirmi un futuro migliore, anche con l’intento di sostenere la mia famiglia.

Sono l’ultimo nato di sette fratelli e sorelle. Ero un po’ il principino di casa, il figlio a cui veniva riservato un trattamento preferenziale. Ricordo che da bambino ero un bravissimo giocatore di calcio, amavo fare le partite con i miei amici. Questo però non mi ha impedito di essere uno studente molto diligente: ho studiato economia e arte, invece le materie scientifiche non sono mai state il mio forte.

Ho sempre coltivato una grande passione per la musica, specialmente le canzoni d’amore. Non sono bravo a cantare, ma adoro farmi trasportare totalmente dai testi e dalle melodie per liberare la mente. Amo la musica che porta un significato, come quella di Céline Dion, una tra le mie artiste preferite.

Ho conosciuto Zebra. otto anni fa grazie a Georg, che all’epoca scattava le foto per il giornale, e che ancora oggi è un mio caro amico. È lui che mi ha introdotto a questa realtà, con cui ho potuto collaborare quasi dagli albori. Di ciò sono molto grato, però vorrei tanto trovare un lavoro stabile. Nonostante il sostegno nella ricerca fornitomi degli*lle operatori*rici sociali del progetto, è estremamente difficile: in questi anni ho svolto diverse mansioni, ma tutte a breve termine o stagionali.

Ciononostante, vendo Zebra. con passione. Ho imparato che vendere il giornale è un’arte: sta tutto nella maniera in cui si interagisce con il*la cliente. Il modo in cui ci si presenta, in cui si parla, le informazioni che si è in grado di fornire. Nel tempo si riesce anche a costruire una bella relazione con i*le lettori*rici.

Mi impegno sempre in ciò che faccio e lavoro continuamente su me stesso per migliorarmi come persona. Tutto ciò lo faccio tenendo a mente i sogni per i quali ho cercato terreno fertile e che so, un giorno, vedrò realizzati.

Stanley Kelechi Ekechi – È un pozzo di idee!

CIT.

“Amo la musica che porta un significato, come quella di Céline Dion, una tra le mie artiste preferite.”

Per maggiori informazioni in italiano: www.oew.org/zebra   In tedesco: www.oew.org/zebra

Nelle prossime settimane Periscopio ospiterà la voce di Zebra, attraverso gli articoli dei suoi redattori e collaboratori. 

Istruzioni per l’uso di un’Intelligenza Artificiale sociale, democratica e civile

Istruzioni per l’uso di un’Intelligenza Artificiale sociale, democratica e civile

di Emiliano Sbaraglia
Pubblicato da Collettiva il 13 aprile 2025 

Pubblicato da Rubbettino l’ultimo volume di Vanni Rinaldi dedicato all’utilizzo delle nuove tecnologie per creare beni comuni digitali. Ne parliamo con l’autore

Le nuove tecnologie sono appannaggio di un potere sempre più elitario e spietato, che domina incontrastato usufruendo dei vantaggi forniti dalle stesse. Ma un cambio di rotta è ancora possibile, e proprio l’Europa potrebbe essere protagonista di una trasformazione in senso sociale e democratico riguardo l’utilizzo dell’IA. Di questo si occupa l’ultimo lavoro di Vanni Rinaldi Intelligenza artificiale sociale (Rubbettino editore, pp.122, euro 15), al quale abbiamo rivolto alcune domande.

Da fantasia a realtà, in poco tempo il fenomeno dell’IA sembra ormai far parte della nostra vita. A che punto siamo arrivati?
In effetti si tratta di una realtà virtuale, ma anche sociale. Siamo in una fase in cui davanti ai nostri occhi si confrontano due modelli: da un lato un’evoluzione tecnologica partita ormai da mezzo secolo, ora guidata da una capacità di calcolo enormemente aumentata negli ultimi anni; dall’altra il fenomeno protagonista di questo cambiamento, immensi giacimenti di dati dovuti non soltanto ai vari device che utilizziamo, per lavoro o divertimento, ma dall’aumento della raccolta dati anche attraverso la sensoristica: penso alle automobili ma anche alle fabbriche, luoghi dove si accumulano grandissime quantità di informazioni riutilizzabili.

Quanto incide tutto questo sulla vita degli esseri umani?
In sostanza, le macchine che prima avevano bisogno di essere programmate oggi in parte si programmano da sole, svolgono funzioni che non hanno più bisogno di intervento umano, e si tratta di un cambiamento enorme, significativo e pervasivo, che riguarderà qualsiasi attività tra uomo e macchina. Per questo si deve trovare un modo di istituzionalizzare tale trasformazione, che produrrà determinate conseguenze in virtù di come la società la recepisce, perché è a seconda di come viene recepita che si producono determinati effetti.

Chi gestisce questa trasformazione oggi?
Ci troviamo di fronte a un modello tecnocapitalista, responsabile di un utilizzo oligopolista della potenza tecnologica, e questo è un grande rischio: abbiamo visto con Donald Trump quanto sia facile influenzare anche il potere politico. Se il modello tecnocapitalista diventa dominante, come loro stessi dichiarano (lo ha fatto recentemente Peter Thiel) il dominio del tecnocapitalismo non avrà più bisogno della democrazia.

Una dichiarazione che preoccupa…

E che fa il paio con il modello centralizzato della Cina, che ottiene lo stesso risultato in altro modo, nel rapporto tra impresa e potere politico unificato alla radice e guidato dal partito comunista. Ma il risultato è lo stesso, sono due modelli che fanno a meno della democrazia.

La forza di questo libro, oltre all’analisi, è però anche nella proposizione di un modello alternativo a quelli appena descritti.
Di fronte a un’Europa immersa dentro una crisi gravissima l’idea è proporle allo stesso tempo la visione di una grande opportunità: riflettere sull’IA in maniera diversa rispetto ai modelli citati. In Europa siamo dotati dei computer più potenti al mondo, compresi quelli utilizzati in Italia da Cineca. Abbiamo a disposizione algoritmi, ricercatori universitari d’eccellenza, e una legislazione vigente in grado di mettere a disposizione di tutti la materia prima dell’IA per processare dati. E i dati in Europa sono prodotti anche da giornalisti, ingegneri, professori universitari, lavoratori delle fabbriche, materiale che può essere utilizzato in quanto beni non rivali, e gestibili grazie alla legislazione europea.

Quali differenze garantisce?
Le normative europee consentono di riutilizzare questi dati a chi li richiede, e questo può favorire un mercato democratico dei dati stessi, perché basato sulle regole della democrazia. Da qui si potrebbe creare un modello di IA inverso da quelli statunitense e cinese, gestito secondo regole per l’appunto democratiche, che produca beni comuni.

Beni comuni?
Esatto. Si tratta di un sistema già usato oggi per i beni comuni: penso all’Auser, che si avvale dell’IA per analizzare le telefonate nei call center del “Filo d’argento”, per raccogliere i segnali premonitori di situazioni che possono peggiorare nell’immediato futuro. Per fare un esempio, in una famiglia ormai basta poco a far scattare fattori che la riducano sotto il livello di povertà, e ci sono segnali premonitori che possono essere intercettati per intervenire prima e combattere una soglia di povertà sempre più diffusa. Un altro esempio di IA sociale ci arriva dal Politecnico di Milano, che attraverso l’IA ha intercettato quegli elementi che precedono l’abbandono universitario, dimezzandolo in poco tempo dal 20 al 10 per cento.

Ci sono possibilità per un’IA sociale anche in altri settori?
Penso al campo dell’energia. Ci sono comunità energetiche che possono attivare forme di produzione e consumo di energie rinnovabili con strumenti in grado di valutare maggior efficienza e consumo per i valori prodotti, che possono essere trasferiti nel territorio.

In che modo?
Per esempio si potrebbero effettuare scambi solidali di energia con gli imprenditori locali, perché un tetto di casa produce energia quando magari sei al lavoro, e si può scambiare con il tessuto imprenditoriale locale favorendo un’azione di sviluppo del territorio, attraverso strumenti di IA che analizzino la produzione e il bisogno di energia all’interno della rete indicata, secondo dopo secondo. Poi penso anche al sistema sanitario, come scritto nel libro.

Quale potrebbe essere il vantaggio in questo settore?
L’IA è prodotta da noi, e credo ci possa aiutare anche monitorando i nostri consumi alimentari, le abitudini di vita, costituendo così nuove basi da cui far scaturire una medicina preventiva virtuosa.

Come realizzare concretamente tutte queste proposte?
C’è bisogno di creare questi nuovi modelli e, ripeto, in Europa abbiamo tutto per farlo. Ma agli strumenti bisogna che si aggiungano i soggetti collettivi, quelli che nell’ultimo capitolo vengono raccolti alla voce “corpi intermedi”. D’altronde è già accaduto nella seconda industrializzazione di metà Ottocento, quando per mitigare e in alcuni casi contrastare gli effetti dell’industrializzazione i corpi intermedi del tempo furono determinanti.

Uno sguardo al passato per realizzare un nuovo futuro?
C’è bisogno di nuova linfa e nuova volontà di agire e organizzarsi, parafrasando Antonio Gramsci. Nel corso di questo passaggio all’industrializzazione digitale si deve fare in modo che gli stessi corpi intermedi, che contengono e raccolgono una grossa quantità di dati con i loro associati, diventino protagonisti e controllori dei processi di trasformazione in atto. In questo senso mi rivolgo anche al sindacato.

In che senso?
Mi riferisco in particolare, ma non solo, al grande patrimonio rappresentato dai Caaf, che conoscono nel dettaglio gran parte delle tendenze sociali nel Paese, come le pensioni, rispetto ai sussidi che lo stato eroga. Con i loro dati diviene possibile un’analisi non solo ex-post, perché quegli stessi dati possono diventare analisi predittive e influenzare un determinato percorso istituzionale. Utilizzate in questo modo, le potenzialità di un’IA sociale aumenterebbero in maniera esponenziale, mettendoci in grado di realizzare una società più giusta e riducendo le disuguaglianze crescenti.

Cover: Istruzioni per l’uso di un’Intelligenza Artificiale sociale, democratica e civile

Per certi Versi / Mani d’argilla

Mani d’argilla

Sto dalla parte del tempo che passa
è lui il viandante vestito
con un abito nuovo
coperto di pezze

Mai vorrei tornare indietro
non saprei rivivere l’ingenuità
della fanciulla senza spalle
e senza seno

Sto dalla parte del tempo che passa
a lui concedo di modellarmi
con mani d’argilla
che sanno dove toccarmi

In copertina: immagine da pixabay

Nel 2025 la storica rubrica domenicale di poesia Per certi versi è affidata a Maria Mancino (Maggie)  

Una Camminata e un’Assemblea per difendere i Crinali Mugellani

Una Camminata e un’Assemblea per difendere i Crinali Mugellani

Domenica 6 aprile a Corella una Camminata e un’Assemblea utili e importanti per le osservazioni dei luoghi e la qualità degli interventi dei relatori e delle presenze, quasi interamente appartenenti al territorio.

Il tema centrale della Camminata e dell’Assemblea: le criticità emergenti dai lavori dell’impianto industriale eolico Monte Giogo di Villore e le alternative alla devastazione del patrimonio comune dell’Appennino Mugellano, proprio sui confini del Parco Nazionale Foreste Casentinesi su crinali in continuità funzionale con il Parco e per questo ricchi di biodiversità in quanto meno disturbati da infrastrutture, antropizzati  e urbanizzati.

La viabilità di accesso all’impianto presenta numerose criticità segnalate da chi frequenta i luoghi e vede il progressivo degrado degli ecosistemi naturali, dell’ambiente e dei paesaggi.

La deforestazione, gli allargamenti del Sentiero 12, gli sbancamenti della montagna alti alcune decine di metri, gli slittamenti dei parapetti dopo le piogge e il materiale che scivola a valle sono emblematici della invasività e della ferita inferta al territorio: talmente profonda, ripida ed estesa che è visibile ad occhio nudo perfino dalla Statale che da Dicomano sale a San Godenzo.

Una variante al Progetto iniziale: una strada aperta in forte pendenza direttamente nella faggeta con perdita di splendidi esemplari ad alto fusto ed ettari di consumo di suolo vergine salendo verso il Giogo di Corella, efficienti magazzini di CO2, di fertilità e di biodiversità, di permeabilizzazione e assorbimento idrico durante la piogge, anche le più intense, dove i versanti della montagna sono in forte pendenza.

Ben 14 chilometri di Sentieristica nazionale ed europea interrotti, deforestati, sbancati, allargati e coperti da enormi tabelloni di cemento posati su teli sintetici e ricoperti di terra: uno spettacolo surreale e inverosimile per chi ama la natura, i sentieri, i cammini, per chi ama semplicemente la propria terra e conosce i crinali.

Eventi di erosione e franosi, anche di grave entità, sono presenti lungo la viabilità, causati dai lavori per l‘impianto industriale eolico dopo la deforestazione a raso che ha prodotto movimento franoso significativo sul Sentiero 00 Italia e sul Sentiero Europa E1 in prossimità del gasdotto SNAM.

I tagli forestali sono giunti in prossimità del grande faggio sul Sentiero 00 sul limite di un luogo incantevole attraversato dal Sentiero 00, circondato da alte faggete dove è stata presentata un’altra variante, nell’avvallamento dove dovrebbe sorgere una delle 7 torri eoliche previste dal Progetto.

Proseguendo, incontriamo il meraviglioso torrente del Solstretto, alimentatore dell’acquedotto pubblico del Comune di Vicchio e habitat di specie protette, tra cui i preziosi crostacei Austropotamobius pallipes, bioindicatori di acque di eccellente qualità, prive di inquinamento, monitorati da Ricercatrici dell’Università di Firenze.

Forte criticità il tombamento del torrente del Sostretto e il suo attraversamento dall’infrastruttura che sopra il suo letto e dentro la faggeta deve essere completamente realizzata ex novo cantierizzando l’intera area di alta valenza naturalistica e da tutelare secondo le Direttive Comunitarie e Regionali.

Dopo un ottimo pranzo al sacco, condiviso sotto il grande faggio che ci ha accolto con la sua potente e benefica energia, siamo risaliti dalla transizione all’inferno dei sentieri e dei crinali devastati verso l’agriturismo Universal Harmony a Corella, sede della Mostra espositiva e dell’Assemblea aperta a tutti organizzata dal Comitato Tutela Crinale Mugellano Crinali Liberi aderente alla Coalizione Ambientale TESS Transizione Energetica Senza Speculazione.

Durante l’Assemblea sono intervenuti: Luigi Lastrucci Presidente del CAI sezione Mugello, Carlo Visca Responsabile del Centro Visite Parco Nazionale Foreste Casentinesi Castagno d’Andrea nel Comune di San Godenzo, Cristina Tani dell’Archivio di Stato di Firenze, Luca Vitali Editore della Casa editrice Montaonda, Valle del Falterona, Crinali Liberi, Valeria Uga per il Comitato Tutela Crinale Mugellano, Fabrizia Laroma Jezzi per la Coalizione Ambientale TESS, Saverio Zeni, Consigliere comunale del Comune di Dicomano e Direttore di OK Mugello, Paolo Pucci Referente per Democrazia sovrana e popolare del territorio, Enrico Bianchi Avvocato di Firenze, Monica Fagioli, attivista del Movimento della Decrescita, ha contribuito fornendo spunti sul risparmio energetico e una visione economica che non sia fondata sui consumi e gli sprechi.

In successione, gli interventi hanno messo in luce la grande rilevanza della Sentieristica nazionale ed europea che viene compromessa in modo irripristinabile e permanente senza possibilità di sostituzione alternativa, andando contro a tutto quel movimento di espansione del turismo lento ed escursionistico che ha portato e sta portando ricchezza e benessere lungo la Via degli Dei.

Lastrucci ha ribadito che il CAI, pur favorevole alle rinnovabili, è del tutto contrario all’interruzione del Sentiero Italia di 8000 km che attraversa 20 regioni con 500 tappe significative per la storia, la memoria, l’identità, la cultura e la bellezza dei luoghi.

Sia Lastrucci che Uga hanno evidenziato come gli interventi per l’eolico stiano già provocando dissesto idrogeologico, erosione, frane e degrado del territorio con ripercussioni negative a valle.

Carlo Visca ha approfondito l’importanza dell’area Corella Villore per l’alta concentrazione di biodiversità presente, dovuta alla prossimità dei territori con Zone a speciale conservazione, Aree Natura 2000 tra cui la confinante ZSC Muraglione Acquacheta. La prossimità delle Foreste Sacre e dell’Alta Via dei Parchi rende inidonea quest’area all’industrializzazione, la rende idonea invece al suo riconoscimento ad area protetta.

Cristina Tani ha riportato le Leggi che a partire dal 1559 Cosimo I aveva posto a protezione dei crinali vietando rigorosamente il taglio delle foreste a partire da un miglio dai crinali (1,609 chiometri) per salvaguardare la valle del Mugello da rischi idrogeologici, erosivi, franosi ed alluvionali.

Fabrizia Laroma Jezzi ha esposto le attività della Coalizione Ambientale Tess che ha oltrepassato ormai le 110 Associazioni fra Associazioni e Comitati regionali e interregionali per una Transizione Ecologica senza speculazione che veda partecipi attivamente le comunità dei territori, gli operatori turistici con i produttori locali che vivono della campagna e della montagna e se ne prendono cura.

Le alternative alla devastazione dell’Appennino e alla copertura di suolo e di campi sono possibili e realizzabili conseguendo gli obiettivi energetici previsti per la Toscana nei luoghi già cementificati e urbanizzati senza frammentazione degli ecosistemi naturali, deforestazione di ettari di foreste, senza consumo di suolo e cementificazione e uso di fossili per lo sbancamento delle montagne, la realizzazione di ampie strade per i trasporti eccezionali delle pale e le decine di interventi di modifica alla viabilità ordinaria. Un costo ambientale che è contrario alla Transizione ecologica e ne vanifica gli obiettivi.

Luca Vitali ha ripercorso la storia della resistenza dei movimenti del territorio contro l’industrializzazione eolica dei crinali dal 2009 ad oggi.

Saverio Zeni e Paolo Pucci, da due parti politiche diverse, hanno evidenziato l’importanza della partecipazione attiva dei cittadini e del senso di appartenenza identitaria ai luoghi, per contrastarne la svendita e la svalutazione a beneficio e profitto di grandi Multinazionali e Multiutility finanziarie che si impongono cercando di soffocare da subito la voce di chi si esprime in modo contrario a progetti di impianti industriali che privano i territori dei vincoli paesaggistici, delle tutele ambientali, della vocazione turistica e produttiva autoctona di qualità,  declassandoli ad aree industriali idonee alla implementazione e al potenziamento di torri eoliche con procedure veloci e semplificate.

Saverio Zeni e Paolo Pucci, da due parti politiche diverse, hanno evidenziato l’importanza della partecipazione attiva dei cittadini e del senso di appartenenza identitaria ai luoghi, per contrastarne la svendita e la svalutazione a beneficio e profitto di grandi Multinazionali e Multiutility finanziarie.

Esse si impongono cercando da subito di soffocare le voci sul territorio che legittimamente esprimono contrarietà a progetti di impianti industriali che privano i territori dei vincoli paesaggistici e delle tutele ambientali, snaturandoli e declassandoli ad aree industriali idonee alla implementazione e al potenziamento degli impianti con procedure veloci e semplificate.

A conclusione dell’Assemblea l’Avvocato Enrico Bianchi ha esposto alcune pratiche che tutelano i singoli e le comunità nella difesa dei territori.

Una cena condivisa ha completato la giornata intensa e costruttiva lasciandosi con l’impegno di un nuovo evento a Corella presso Universal Harmony, tra il Falterona e i crinali di Corella Villore, a metà maggio al quale vi aspettiamo numerosi.

Comitato Tutela Crinale Mugellano Crinali Liberi
Coalizione Ambientale TESS Transizione Energetica Senza Speculazione

Presto di mattina /
Verso la Pasqua dei poveri

Presto di mattina. Verso la Pasqua dei poveri

La Pasqua dei poveri

Forse per noi, che non abbiam che pane,
forse più bella è la tua Santa Pasqua,
o Gesù nostro, e la tua mite frasca
si spande, oliva, nelle stanze quadre.
Povero il cielo e povere le stanze,
Sabato Santo, il tuo chiaror ci abbaglia,
e il nostro cuore fa una lenta maglia
col cielo, che ne abbraccia le speranze.
Semplice vita, alle nostre dimande
tu ci rispondi: Su coraggio, andate!
Noi t’ubbidiamo; e questa povertà
non ha bisogno più d’altre vivande.
Noi siamo tanti quanti alla campagna
sono gli uccelli sulle mosse piante,
cui sembra ancor che le parole sante
giungan col vento e l’acqua che li bagna.
A noi, non visti, nelle grigie stanze,
miriadi in mezzo alla città che fuma,
Sabato Santo, la tua luce illumina
solo le mani, unica festa, stanche:
a noi la pace che verrà, operosa
già dentro il cuore e sulla mano sta,
che ti prepara, o Pasqua, e che non ha
che il solo pane per farti festosa.
(Carlo Betocchi, Tutte le poesie, Garzanti Milano 1996, 79-80).

Questo testo poetico bene introduce l’invito di papa Francesco ad andare verso la Pasqua «invocando speranza per i poveri», virtù che si pratica tenendo tutti e due i piedi per terra. Un’espressione, quest’ultima che mi ricorda il pastore protestante Dietrich Bonhoeffer − di cui il 9 aprile è stato l’80° anniversario del martirio, assassinato dalle SS nel carcere di Flossemburg – il quale intendeva la fede che spera, «non come quella virtù che fugge dal mondo, ma quella che resiste nel mondo e ama e resta fedele alla terra malgrado tutte le tribolazioni che essa ci procura… Temo che i cristiani che osano stare sulla terra con un piede solo, staranno con un piede solo anche in cielo» (Lettere alla fidanzata, Cella 92 [1943-1945], Queriniana, Brescia 2012, 48).

Rileggendo alcuni passaggi nel testo di Francesco per l’indizione del Giubileo credo di poter dire che questa virtù ci chieda di non dimenticare i poveri e ci inviti a condividerne il cammino verso la Pasqua.

Su questa via già il Concilio Vaticano II aveva incamminato la chiesa sessant’anni fa quando affermava nella Lumen gentium: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, i lutti e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore».

Invocando speranza

Oggi Francesco ritorna a indicare questa strada invocando speranza per i poveri: «Speranza invoco in modo accorato per i miliardi di poveri, che spesso mancano del necessario per vivere. Di fronte al susseguirsi di sempre nuove ondate di impoverimento, c’è il rischio di abituarsi e rassegnarsi. Ma non possiamo distogliere lo sguardo da situazioni tanto drammatiche, che si riscontrano ormai ovunque, non soltanto in determinate aree del mondo.

Incontriamo persone povere o impoverite ogni giorno e a volte possono essere nostre vicine di casa. Spesso non hanno un’abitazione, né il cibo adeguato per la giornata. Soffrono l’esclusione e l’indifferenza di tanti. È scandaloso che, in un mondo dotato di enormi risorse, destinate in larga parte agli armamenti, i poveri siano “la maggior parte”, miliardi di persone.

Oggi sono menzionati nei dibattiti politici ed economici internazionali, ma per lo più sembra che i loro problemi si pongano come un’appendice, come una questione che si aggiunga quasi per obbligo o in maniera periferica, se non li si considera un mero danno collaterale. Di fatto, al momento dell’attuazione concreta, rimangono frequentemente all’ultimo posto” (Laudato Si’, 49). Non dimentichiamo: i poveri, quasi sempre, sono vittime, non colpevoli».

Una questione di amore

«Per conoscere veramente i poveri, per parlarne con competenza, bisognerebbe conoscere il mistero di Dio, che li ha chiamati «beati» riservando loro il suo regno.

Chi ha poca carità vede pochi poveri: chi ha molta carità vede molti poveri.
Ci sorto troppi avvocati dei poveri, che non conoscono “il povero”.
La conoscenza faziosa del povero è preparata
da una conoscenza astratta.
Chi conosce il povero?
Chi ne ha sentito il cuore?
Chi lo segue nella sua quotidiana “via crucis”?
Senza una conoscenza umana del povero, non si arriva alla conoscenza fraterna.
(Primo Mazzolari, La parola ai poveri, La locusta, Vicenza 1959, 22-23; 45; 47)

“Conversione della fede alla speranza”

È stato questo il filo conduttore che ha guidato la Giornata giubilare dedicata a tutte le forme di povertà, che è stata promossa il 9 marzo scorso dall’Ufficio della Pastorale sociale, lavoro, giustizia, pace e custodia del creato e dalla Caritas Diocesana di Ferrara-Comacchio. Un’iniziativa rivolta alle comunità cristiane e parrocchie cittadine, finalizzata alla rilettura degli stili di vita personali e delle strutture di peccato che influenzano le scelte personali e comunitarie.

In quella occasione in S. Maria in Vado a me era stato chiesto di offrire una traccia per una verifica di coscienza circa i nostri atteggiamenti e pensieri che ripropongo qui.

Omissioni

Partiamo dalle “omissioni” circa il nostro rapporto con la povertà e con le situazioni di povertà e ci domandiamo: “Conosciamo i poveri? Francesco d’Assisi aveva fatto della sua vita una conversatio cum pauperibus. Un andare incontro, un convenire dialogante e operante, un’opzione preferenziale del cuore la sua perché, se non si conosce con il cuore, non si ama e senza amore si resta indifferenti, lontani.

Ha scritto il vescovo Gian Carlo Perego: “Per la Chiesa l’opzione per i poveri è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica. Dio concede loro ‘la sua prima misericordia’. Questa preferenza divina ha delle conseguenze nella vita di fede di tutti i cristiani, chiamati ad avere “gli stessi sentimenti di Gesù” (Fil 2,5). Ispirata da essa, la Chiesa ha fatto una opzione per i poveri intesa come una “forma speciale di primazia nell’esercizio della carità cristiana, della quale dà testimonianza tutta la tradizione della Chiesa”.

Da dove parte l’alleanza con i poveri?

 Conosciamo la realtà che ci circonda? la realtà di povertà e di emarginazione che vive nelle nostre parrocchie, nelle nostre comunità, nella città? Domandiamoci poi come viviamo l’alleanza con la parola di Dio, con Vangelo.

Come ci lasciamo evangelizzare dai poveri? Riceviamo il vangelo dai poveri?

Non dimentichiamo che per le loro sofferenze essi conoscono il Cristo paziente e sofferente al vivo. Egli sta sconosciuto in mezzo a loro, intimo ad essi. Pertanto abbiamo coscienza che incontrare i poveri ci fa camminare verso la Sorgente stessa del Vangelo, ci fa pellegrini di speranza?

«Il Convegno della CEI Evangelizzazione e promozione umana (1976), preparato anche da una meticolosa inchiesta nelle Chiese locali, ha coniugato l’evangelizzazione con l’attenzione ai poveri, ai mali delle nostre città, che dipendono dal peccato dell’uomo: egoismo, potere più che servizio, sfruttamento» (G. C. Perego).

Alleanze solidali

Per fare fronte alla povertà servono alleanze solidali, credere nella ricchezza e nei valori presenti nelle diversità di persone, culture, popoli e nazioni. “Chi non è contro di voi è per voi” si legge nel Vangelo.

Collaboriamo non solo tra parrocchie, tra unità pastorali, ma pure tra istituzioni pubbliche con le realtà presenti nel territorio e nella città? Senza queste alleanze restiamo soli, isolati, ciechi, impotenti di fronte alle fragilità e inconsapevoli delle possibilità e risorse presenti negli altri e tra noi. Come affrontiamo e vinciamo la paura dello straniero? Da soli o in un confronto dialogico con gli altri per fare argine alle derive ideologiche?

Forte poi è la tentazione di delegare la povertà agli addetti ai lavori a coloro che si interessano dei poveri, alla Caritas.

Ci chiediamo allora che conoscenza e che legami abbiamo con la Caritas diocesana, e con le istituzioni sociali e con i servizi del terzo settore che si prendono cura delle persone della nostra città? «La Carta pastorale della Caritas, sottolinea che i poveri sono ‘luogo teologico’ per scoprire il volto di Dio e che partire dai poveri non è una scelta escludente perché di parte, né impegno di pochi, ma fedeltà al progetto di Dio. Il n. 3 è dedicato alla ‘scelta preferenziale dei poveri» (G. C. Perego).

Pietre d’inciampo

«Il povero — ogni povero — si presenta al cristiano con un diritto di precedenza: col volto e il diritto di Cristo: «Avevo fame, avevo sete, ero senza casa… ».

Chi non capisce il povero non capisce Cristo: chi lascia fuori il povero lascia fuori Cristo, che ancora una volta va a morire fuori delle mura. Noi abbiamo cattedrali magnifiche, insegne cristiane ad ogni passo, ma se Cristo è in agonia fuori delle mura, coloro che costruiranno la nuova città sono fuori delle mura dove Cristo è in agonia» (Mazzolari, La parola ai poveri, 55).

I poveri sono pietre d’inciampo per ricondurre il nostro cuore al cuore del Vangelo. I poveri sono una “memoria sovversiva”, ci ricordano la Pietra scartata dai costruttori divenuta Pietra angolare: «Avvicinandovi a lui, pietra viva, rifiutata dagli uomini ma scelta e preziosa davanti a Dio, quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale, per un ministero ospitale (1Pt 2, 4-5) e chiediamoci su quale fondamento noi edifichiamo la nostra fede, la speranza e la nostra carità, il senso dell’umano e il riconoscere la sua dignità negli altri per non trovarci a costruire invano?

Rilanciare un tavolo delle povertà per la città

Non solo per una maggiore collaborazione tra volontariato e istituzioni ed approfondire la conoscenza delle povertà sul territorio: le sue risorse e le fragilità, ma per andare alle radici etiche alle cause dei mali che affliggono le nostre relazioni interpersonali, di cittadinanza e il nostro vivere civile, sociale ed ecclesiale.

C’è al fondo un male di carattere globale che è la mancanza del senso della dignità umana e dei diritti fondamentali, del senso della legalità, del senso della cura e dello sviluppo del bene comune o del disprezzo della dignità umana a favore dell’acquisizione fraudolenta di potere e di risorse da parte di singoli o comunità, gruppi multinazionali e stati nazionali verso popolazioni sempre più impoverite e gente spinta ai margini e rinchiusa in confini reticolati.

«Dove passa la pietà passa la Pasqua»

«La vita è sopra l’uomo: egli l’ha ricevuta e non può garantirla, anche se giura per essa.

L’uomo è in grado di assicurare soltanto la morte perché la morte è cosa sua, lo stipendio del suo peccato. Può quindi custodire, sigillare un sepolcro fin quando è sepolcro di morte.

Quando albeggia la pasqua, l’uomo ridiventa la creatura che adora il mistero di quella Bontà, che costruisce sulle rovine del nostro egoismo.

Un sepolcro che si spalanca per lasciar passare la vita ci dà la certezza che l’ultima parola anche quaggiù è detta da Cristo.»

(Mazzolari, Via crucis del povero, Dehoniane, Bologna 1983, 125).

 

La Pasqua del Cristo è la garanzia della Pasqua del povero perché l’una e l’altra sono la Pasqua del povero.

Egli è venuto per insegnarcene la strada e anticipare i nostri destini.

Chi l’avrebbe potuto seguire nell’esempio (“vi ho dato un esempio affinché voi facciate come ho fatto io”), se non ci fosse anche la promessa “che dove è il Maestro ci sarà anche il discepolo?”.

La sua pasqua è la primizia della pasqua di tutti! La pasqua di tutti!

Perché nessuno è fuori del dolore.

Perché nessuno è fuori della povertà.

Tutti poveri, gli uomini, irrimediabilmente poveri! Perciò la rivolta dell’uomo contro l’uomo non ha senso»
(ivi, 133; 128-129).

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Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

“Felci in rivolta”. In memoria di Francesco Benozzo

«Felci in rivolta». In memoria di Francesco Benozzo

Proprio in questi giorni sono avvenute due cose completamente slegate l’una all’altra ma significativamente connesse da una parola: “rivolta”.

La candidatura di Fossili di rivolta al Premio Strega del giovane poeta Giorgio Maria Cornelio e la scomparsa improvvisa di un “antico bardo contemporaneo”, Franceso Benozzo, autore di un poema dal titolo Felci in rivolta.

Le parole del saggio-poetico di Cornelio mi sembrano davvero appropriate per accompagnare il presente ricordo del poeta doctus, arpista e filologo in quanto, “…rompere con l’arida purezza delle cose, riattivare sentieri che deviano dalla regola del già deciso,…del presunto naturale…”, sono state le caratteristiche di Benozzo quasi anche lui fosse parte delle figure descritte nel libro di Cornelio.

Benozzo è stato (e sarà) un autentico fossile di rivolta (e in rivolta)  “…abbandonato da un patto d’incuria, sorpreso da un’archeologia del possibile, cantore contrario a ogni fine prestabilita, profeta di una rinascita immaginativa…”.  Un fossile che, per sua propria natura, “…alimenterà fioriture percettive, mobiliterà stupori…” e s’aprirà a metamorfosi e rinascite future.

Si deve a Chiara De Luca e alla sua piccola e preziosa casa editrice ferrarese la scoperta e la custodia di questa “felce fossile”,  che oggi abbiamo modo di poter rigirare tra le mani; è alla De Luca che dobbiamo dire grazie se oggi possiamo leggere e ascoltare la intera opera vocale di Benozzo.

Francesco Benozzo (22 febbraio 1969 – 22 marzo 2025) è stato un bardo, musicista e antropologo. Ha lavorato come professore di filologia presso l’Università di Bologna ed è stato Visiting Professor presso la Bath Spa University, nel Regno Unito. Ha fondato L’Osservatorio contro la sorveglianza statale, sponsorizzato dal Centro europeo per la scienza, l’etica e il diritto.

Nella concezione di Benozzo, la poesia è stata essenzialmente considerata uno strumento di dissidenza capace di scardinare le percezioni abituali del mondo e di restituire la libertà individuale a ogni essere vivente. È stato autore di lunghi poemi epici sui paesaggi naturali e l’origine dell’universo, tutti pubblicati per la Edizioni Kolibris e recentemente raccolti in un’edizione bilingue dal titolo Sciamanica. Poesie dai confini dei mondi (Forum  Edizioni, 2023).

Dal 2015 in poi è stato presente nella Lista dei candidati al Premio Nobel per la Letteratura, con nomination rese pubbliche dal PEN International per la sua poesia in difesa dei luoghi naturali e dei popoli indigeni, e per il suo peculiare uso di tecniche poetiche appartenenti all’antica tradizione della poesia orale e dello sciamanesimo.

Nel 2016, sulla pagina ufficiale dell’Accademia di Svezia, è stato consacrato dalla Giuria Internazionale dei Lettori come l’autore più meritevole del premio stesso.

Nel 2022 gli è stato conferito il Premio Internazionale “Poeti dalle frontiere”. La commissione del premio ha così descritto la poesia di Benozzo:

Visionario, inquietante, epico, ventoso, Benozzo ha l’inimitabile capacità di riprendere la parola originale quando ha dato il nome al mondo. […]. Poesia dopo poesia, immancabilmente e sorprendentemente questo poeta mette in atto una rivoluzione dell’idea stessa di poesia: con la sua dimensione atemporale e universale, è l’Omero della post-modernità”.

Documentare l’intera vita di un poeta scomparso è come studiare una stella perché , vuol dire provare a tenere conto di tutta una evoluzione, per così dire, cosmologica. Come si sa il nostro stesso Sole è una stella di seconda generazione!

E niente altro, come la morte di un poeta, ci riporta, davvero, alla vita e all’evoluzione di una stella. Le stelle vivono anche quando sembrano finire come nane bianche o, addirittura, scomparire come buchi neri. Riflettendo si intuisce che le stelle, in realtà, non muoiono mai perché, anche in queste loro forme estreme di massa fortemente compatta da non lasciar scappare neppure la luce, continuano ad emettere calore e a lasciare un segno, per così dire, una firma di ferro, di silicio oppure di ossigeno, carbonio ed elio.

Prima di arrivare alla loro interminabile fine la stella deflagra come supernova e appare nel cielo notturno (se non diurno) come un avvento. Un’annunciazione. Così sono state viste e ancora oggi vengono viste le stelle che iniziando a morire spuntano improvvisamente nel cielo come novae o supernovae.

Eppure sono state sempre là, presenti nella vita di ognuno di noi contemporanei a loro, a illuminare debolmente le nostre vite, ad emettere luce in modo discreto e, il più delle volte, impercettibile. Alla fine, BOOM, esplodono e lasciano un… residuo. Nessun oroscopo può tenerne conto e, anzi, questo dimostra l’incongruità di qualunque oroscopo perché, nei cieli natali, queste stelle dovrebbero “pesare”, sul destino di ciascuno, più di quanto potrebbero fare dei semplici e piccoli pianeti.

Così succede che qualcuno, invisibile ai più – come lo sono normalmente i poeti – muoia; ecco che anche questa sua “morte” ci racconta, come accade per la stella, la sua vita passata e quella futura e cioè se, la sua, sia stata una esistenza da “stella” di ferro e di silicio o semplicemente da “stella” di carbonio e di ossigeno e se il suo residuo – la sua cenere – sarà un buco nero o una nana bianca.

Ma soprattutto, questa sua “scomparsa”, illumina qualcosa di noi, del nostro oroscopo : non immaginavamo quanto fosse stata importante nel nostro cielo natale la presenza di Francesco Benozzo e quanto il nostro destino potrebbe venire condizionato dalla sua morte e quindi dalla conoscenza della sua vita.

Così al pari di una stella che inizia a morire, apparentemente, quando smette di emettere luce, un poeta inizia -anche lui apparentemente – a farlo quando si finisce di citarlo e per questo, oggi, noi… iniziamo a non finire…

Il poeta ama i versi che lo uccidono
il marinaio annegato ama quel mare
da sempre esiste un cuore tormentato
disposto a tutto per la fiamma che lo annienta

non lascia tracce l’isola del mio corpo
i miei poemi non viaggiano su rotte vaste
e il mio sangue è soltanto una scusa.

Ma in fondo, usciti da Firenze e Smirne
raggiunte le ottantuno lingue del mondo
e i milioni di case e di scaffali

Omero e Dante hanno lasciato tracce?
debellato i latrati dell’inferno?
o le combriccole, ad Itaca, di proci?

Ho perso fede in barche controvento
nella parola che rifonda il mondo

un solo ramo che si allunga nell’aria
risuona e plasma più di cento canti.

Ma un poeta ama i versi che lo uccidono
e il marinaio annegato ama quel mare

non vivo in quanto uovo fecondato
non mi muovo o sto in piedi in quanto scheletro
non amo ho o nostalgia per via di un cuore
e il mio sangue è soltanto una scusa.

Io sono ancora un poeta in carne ed ossa
che sopravvive a stento tra i suoi simili,
bipedi che leccano vetri sbriciolati
ciclicamente amandosi tra loro
condividendo fatue migrazioni.

Da due milioni di anni – uomini-gregge –
si muove in branco homo tra gli ominidi
da due milioni di anni – scheletri e voci –
sopravvive lontano dalle stelle.

L’unica cosa che so è la poesia:
grandinata inattesa che devasta
mattanza di balene – mare rosso –
sillabe-fiocine per spiaggiare l’abitudine
felci in rivolta alle frontiere dei villaggi.

Dopo ogni mia parola
vorrei soltanto pioggia
e furie di boscaglie
dopo ogni fuoco di grotta

dopo ogni sogno cattivo
vorrei storie di alche
e decine di inverni
nel vento dei versanti.
[da Felci in rivolta, Parte terza L’invettiva perenne del corallo]

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

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Le voci da dentro /
Lettera aperta dei giornali delle carceri italiane

Un nutrito gruppo di direttori, caporedattori, giornalisti e volontari che si occupano di informazione dal carcere ha inviato una lettera al Ministero della Giustizia e al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per chiedere che il diritto ad una libera informazione da parte delle persone detenute possa essere davvero reso tale. Nonostante la legislazione nazionale sia unica, l’applicazione di tale norme varia molto da Istituto ad Istituto. Ci sarebbe bisogno di uniformità e di coerenza affinché le persone ristrette possano esprimere le proprie opinioni e diffondere i propri pensieri e gli operatori o i volontari messi in nelle condizioni migliori per rendere concreto questo diritto.
(Mauro Presini)

Lettera aperta del Coordinamento dei giornali e delle altre realtà dell’informazione e della comunicazione sulle pene e sul carcere

Al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Lina Di Domenico

Al Direttore della Direzione Generale Detenuti e Trattamento, Ernesto Napolillo

Al Direttore Generale del personale, Massimo Parisi

All’amministrazione penitenziaria chiediamo rispetto della libertà di espressione, autorizzazione all’uso di tecnologie, tempi rapidi nelle risposte, adeguata considerazione dell’attività svolta dai volontari operatori della comunicazione

L’articolo 18 dell’Ordinamento penitenziario, dando concreta applicazione all’art. 21 della Costituzione, così recita al comma 8: “Ogni detenuto ha diritto a una libera informazione e di esprimere le proprie opinioni, anche usando gli strumenti di comunicazione disponibili e previsti dal regolamento”.  Ma le cose non sono così semplici, e questo diritto delle persone detenute a esprimere le proprie opinioni è tutt’altro che rispettato.

In questi anni di vita dei giornali e delle altre realtà dell’informazione e della comunicazione dalle carceri, noi che in numerose realtà lavoriamo da tempo, ci siamo presi l’impegno di raccontarle con onestà, e non abbiamo mai taciuto le difficoltà, le criticità, i percorsi finiti male, le ricadute, le sconfitte. Abbiamo cercato con senso di responsabilità e professionalità di fornire una informazione attenta, precisa, documentata sulla realtà carceraria, proprio perché la sfida è rispondere con precisione e sincerità a una informazione spesso imprecisa e menzognera che arriva dal mondo “libero”. Ma ci scontriamo ogni giorno con ostacoli e barriere che in vario modo condizionano pesantemente il nostro lavoro.

Chiediamo al DAP e al Ministero della Giustizia chiarimenti sui seguenti punti:

  • Se l’Ordinamento penitenziario riconosce alla persona detenuta il diritto a esprimere le proprie opinioni, è ammissibile che sulle pagine dei giornali di alcune carceri quella persona non possa firmare, se lo desidera, i suoi articoli con nome e cognome visto che il suo diritto alla privacy è già assicurato dalla direzione del giornale?
  • Se la persona detenuta ha diritto a esprimere le proprie opinioni, e i giornali realizzati in carcere hanno un direttore responsabile che ne risponde anche penalmente, come si spiega che in alcuni istituti sia d’obbligo una “pre-lettura” degli articoli da parte delle direzioni dell’istituto e delle eventuali “Istanze superiori”?
  • Se i volontari e gli operatori che, insieme a tanti redattori detenuti, si occupano di informazione e comunicazione dal carcere sono persone autorizzate in base all’art. 17 O.P. che consente l’ingresso in carcere a tutti coloro che “avendo concreto interesse per l’opera di risocializzazione dei detenuti dimostrino di poter utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera”, è possibile che queste stesse persone non siano considerate affidabili e responsabili di tutto il materiale informativo che i giornali e le altre realtà dell’informazione producono nelle carceri?
  • Com’è possibile effettuare il lavoro redazionale senza poter usare, almeno in presenza e sotto la responsabilità di operatori volontari, elementari strumenti tecnologici come registratore, macchina fotografica, connessione Internet?  Si ricorda che la circolare del DAP del 2 novembre 2015 prevede espressamente la “possibilità di accesso ad Internet da parte dei detenuti”, e riconosce che “l’utilizzo degli strumenti informatici da parte dei detenuti ristretti negli Istituti penitenziari, appare oggi un indispensabile elemento di crescita personale ed un efficace strumento di sviluppo di percorsi trattamentali complessi. (…) L’esclusione dalla conoscenza e dall’utilizzo delle tecnologie informatiche potrebbe costituire un ulteriore elemento di marginalizzazione per i ristretti”. Queste parole così chiare e inequivocabili possono finalmente tradursi in concrete autorizzazioni ai nostri giornali e gruppi di lavoro a usare questi indispensabili strumenti tecnologici per dare valore e qualità alle nostre attività?
  • L’attività di redazione ha comunque necessità di tempi di risposta adeguati da parte dell’amministrazione penitenziaria.  Articoli che parlano del caldo asfissiante nelle celle e vengono autorizzati alla pubblicazione a Natale, richieste di permessi di ingresso di ospiti significativi che arrivano a volte con lentezza esasperante, attese snervanti per introdurre materiali indispensabili per il nostro lavoro, sono tutte situazioni che oggettivamente finiscono per vanificare il lavoro delle nostre redazioni. Se l’attività giornalistica nei penitenziari è ritenuta una risorsa importante per il dialogo tra realtà detentiva e società esterna, perché le Istituzioni non semplificano le procedure e accorciano i tempi di tante estenuanti attese?

Giornali, podcast, trasmissioni radio-TV, laboratori di scrittura sono una ricchezza culturale che va salvaguardata e facilitata: per questo chiediamo che il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ci riceva e affronti con noi i temi che abbiamo sottoposto alla sua attenzione.

  • Ristretti Orizzonti, periodico dalla Casa di reclusione di Padova, direttrice Ornella Favero, giornalista
  • Ristretti Parma, periodico dalla Casa di reclusione di Parma, responsabile Carla Chappini, giornalista
  • Cronisti in Opera, periodico della Casa di Reclusione di Milano-Opera, direttore Stefano Natoli, giornalista professionista
  • Voci di dentro, direttore Francesco Lo Piccolo, giornalista professionista
  • Non tutti sanno, periodico della Casa circondariale di Roma Rebibbia, responsabile Roberto Monteforte, giornalista professionista
  • Carte Bollate, periodico dalla Casa di reclusione di Milano Bollate, direttrice Susanna Ripamonti, giornalista professionista
  • Web radio http://www.caffeitaliaradio.com, responsabili Davide Pelanda e Dario Albertini,
  • Liberi dentro Eduradio&TV, responsabile Antonella Cortese, giornalista
  • Salute inGrata 2 CR Milano Bollate, responsabile Nicola Garofalo
  • Sito laltrariva.net, responsabile Francesca de Carolis, giornalista
  • Non solo Dentro, inserto di Vita Trentina dal carcere di Trento, direttore Diego Andreatta, giornalista
  • Mondo a quadretti, periodico dalla Casa di reclusione di Fossombrone (PU), responsabile Giorgio Magnanelli,
  • Ristretti Marassi, responsabile Grazia Paletta coordinatrice con Arci Genova
  • “Altre Storie”, Inserto dalla Casa circondariale Lodi, pubblicato all’interno del giornale Il Cittadino di Lodi.
  • Astrolabio, giornale della Casa Circondariale di Ferrara, curatore Mauro Presini
  • Patrizia Ferragina, volontaria Gruppo Carcere Mario Cuminetti Milano Opera

Anche noi sottoscriviamo la lettera:

1) Annalisa Grillo, volontaria della redazione “Ne Vale La Pena” – associazione “Il Poggeschi per il carcere”, presso la Casa Circondariale di Bologna “Rocco d’Amato

2) Asia Mariani, volontaria della redazione “Ne Vale La Pena” – associazione “Il Poggeschi per il carcere”, C.C. di BO “Rocco d’Amato

3) Bianca Chierici, volontaria della redazione “Ne Vale La Pena” – associazione “Il Poggeschi per il carcere”,   C.C. di BO “Rocco d’Amato

4) Carla Ianniello, volontaria della redazione “Ne Vale La Pena” – associazione “Il Poggeschi per il carcere”,  C.C. di BO “Rocco d’Amato”

5) Carlotta Carollo, volontaria della redazione “Ne Vale La Pena” – associazione “Il Poggeschi per il carcere”, C.C. di BO “Rocco d’Amato”

6) Chiara Giannelli, volontaria della redazione “Ne Vale La Pena” – associazione “Il Poggeschi per il carcere”, C.C. di BO “Rocco d’Amato”

7) Federica Lombardi, volontaria della redazione “Ne Vale La Pena” – associazione “Il Poggeschi per il carcere”, C.C. di BO “Rocco d’Amato

8) Padre Marcello Matté, giornalista pubblicista e volontario della redazione “Ne Vale La Pena”, C.C. di BO “Rocco d’Amato”

Andrea Ferrari, volontario CC Lodi

Grazia Grena

Anna Lisa Sordi, volontaria

Angela Bianco, volontaria

Maria Grazia de Carolis, volontaria

Luciana Tonarelli, volontaria

Luigi Rocca, volontario

Angelo Ferrarini – volontario presso il Laboratorio lettura scrittura ascolto di Ristretti Orizzonti, Casa di reclusione, Padova

Anna Corsini, Casa circondariale di Verona Montorio

Maria Voltolina Presidente di Il Granello di Senape OdV Venezia, editrice di Ponti, Periodico dalla Casa circondariale di Venezia

In copertina: immagine da www.pequodrivista.com

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Contro la banalità del Male

Contro la banalità del Male

“Quel che ora penso veramente è che il male non è mai radicale, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso sfida, come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua banalità. Solo il bene è profondo e può essere radicale.”
Hannah Arendt, La banalità del male

Nel 1961, tra aprile ed ottobre, una non più giovane Hannah Arendt assistette al processo, tenuto in Israele, ad Adolf Eichmann, l’uomo che aveva realizzato la logistica dello sterminio di massa, del genocidio pianificato e sistematico, di cui il popolo ebraico fu vittima durante tutta la seconda guerra mondiale. Non ho usato, e non userò, la parola Olocausto, in quanto – come ha suggerito Natalia Ginzburg – essa significa: sacrificio in nome di una divinità, e in nome di quale divinità, sarebbero stati sacrificati gli ebrei?

Durante il processo Eichmann si rivelò, agli occhi della Arendt, un banale contabile, in quanto capace di calcolare, senza alcuna emozione apparente, il numero dei litri di gas Zyklon B necessari per uccidere un determinato quantitativo di individui; quanti vagoni sarebbero serviti per trasportarli nei campi, e così via. La giornalista ebbe allora un’intuizione: costui pratica il male senza rendersene conto, senza dargli nessuna connotazione, positiva che, forse, da un convinto nazista, ci si poteva aspettare, ma nemmeno, rievocando quei terribili avvenimenti, mostra apparenti segni di colpa o pentimento. Egli, interrogato in proposito, ribadisce più volte che, essendo un soldato, doveva semplicemente obbedire agli ordini. Quindi, il Male, e la relativa consapevolezza di averlo perseguito, in lui, sembra non essere nemmeno penetrata. Sarebbe dunque rimasto in superficie, come il fungo che serve da esempio nella frase qui citata come incipit, dove la Arendt riassume il concetto di banalità del male

Il Male dunque non avrebbe alcun spessore, e quando il pensiero cerca di andare nel profondo, nello speculativo, troverebbe una sorta di “nulla”, tanto da restarne frustrato ed aderire, per reazione, al banale.

Non sono affatto d’accordo. Persino l’esempio adottato dalla scrittrice americana, il paragone tra il Male ed un fungo, sembra contraddire, più che confermare, la tesi della Arendt. 

Oggi sappiamo infatti che il fungo non è soltanto ciò che si vede in superficie, quanto piuttosto la vasta rete del micelio, che può estendersi anche per decine di metri sottoterra, mettendo in collegamento altri funghi con gli alberi nelle vicinanze. Il paragone dunque, finisce per essere, suo malgrado, corretto, poiché dimostra sì una tesi, ma quella opposta, ovvero come il Male sia capace di estendersi, in modo poco evidente dall’esterno, restando sotto traccia, tra le anime che lo perseguono.

L’atteggiamento di Eichmann è spiegabile con la pratica costante ed assidua del male. In questi casi, l’Anima si atrofizza, le emozioni si appiattiscono fino a scomparire, come in alcuni disturbi della personalità, di cui forse il gerarca nazista soffriva.

Banalizzare o, peggio ancora, negare l’esistenza del male, è un errore grave, non soltanto dal punto di vista teologico. Anche senza volerlo personificare, al fine di poterlo rendere più tangibile, come è stato fatto sin dall’antichità, il demonio, Satana, o come lo si voglia chiamare, esiste purtroppo, ed è una delle forze che compongono l’Universo.
Poco importa la correttezza della metafora simbolica scelta: se sia stato precipitato sulla Terra, angelo caduto, come vuole la tradizione giudaico-cristiana, o che esso esista dall’alba dei tempi sotto forma di 
Caos primigenio, contrapposto ad Eros, la forza vitale generatrice (Esiodo, Teogonia). Esiste eccome, ed è ben presente attorno a noi, pronto ad entrare nella nostra anima, qualora se ne presenti l’occasione, come recita benissimo il Vangelo di Giovanni: “allora, dopo il boccone, Satana entrò in lui” (Gv 13,27), un passo che è stato spesso usato per sostenere come Giuda Iscariota fosse semplice strumento nelle mani di Dio, ma che qui, ci interessa soltanto poiché rivelatore di come il male possa effettivamente entrare dentro di noi. Forse Giuda, sino a quel momento, non aveva effettivamente maturato la convinzione di tradire Gesù, ma da quando il demonio entra in lui, non può evitarlo. Questo perché, al di là del boccone dato dal Cristo che, in teoria, dovrebbe sortire l’effetto opposto – l’Eucarestia stava infatti per essere istituita, secondo i tre sinottici – Giuda aveva già dentro di sé l’idea di tradire, ed esistono pensieri che avvicinano al male più di altri.   

Tutto questo non toglie affatto la responsabilità individuale, anzi, la amplifica, poiché senza il nostro consenso il Male non può nulla. Il consenso non è mai esplicito, completamente consapevole, almeno agli inizi, assomiglia piuttosto ad una adesione graduale, uno scivolamento progressivo dell’Anima verso l’oscurità, che lentamente si spegne, perde la capacità di provare emozioni, rendendo così possibili le azioni più efferate ed inumane. Ecco allora spiegato il caso di Eichmann: la sua anima era completamente annichilita dal male, che non è affatto “banale”, se non nel suo nucleo essenziale di assenza d’Amore, ma capace di agire in grande profondità, di compiere il delitto peggiore: spegnere la luce dell’Anima. Si potrà obiettare che il male è banale, in quanto semplice. Non lo è affatto. Esistono infinite sfumature e gradazioni del male: dall’istintiva antipatia verso il prossimo, che ci allontana dalla fratellanza universale e fa da anticamera all’odio, fino all’omicidio di massa, al genocidio. Il Male sa dunque radicarsi sin nel profondo, creando reti molto estese, specie in determinati periodi storici, proprio come fa il micelio del fungo, lavorando in modo sotterraneo.

A dimostrazione della forza e della profondità che riesce a raggiungere il Male, occorre poi notare come, nonostante le persone votate completamente al Male siano davvero poche al mondo, queste possiedono grande capacità di attrazione sull’Umanità. La frase: “non abbandonarci alla tentazione”, contenuta nel nuovo Padre Nostro, ha si corretto un’evidente stortura – il Male non viene da Dio – ma ha anche introdotto l’idea che la tentazione di praticarlo, sia ben presente nella nostra quotidianità. Oggi più che mai.

In copertina: Nannah Arendt, immagine da Testimonianze, rivista fontata da Ernesto Balducci

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Caos dazi e guerra commerciale? Un'occasione storica per l'Europa

Caos dazi e guerra commerciale? Un’occasione storica per l’Europa

Caos dazi e guerra commerciale? Un’occasione storica per l’Europa

Gran parte degli analisti, le banche d’affari e gli oppositori considerano i dazi di Trump una follia che porterà solo danni a tutto il mondo. Ma prima di tutto agli Stati Uniti. Se così fosse alle elezioni di mid term (novembre 2026), Trump subirebbe una sconfitta e farebbe la fine dell’ex prima ministra inglese Liz Truss che dopo aver tagliato le tasse ai ricchi ha prodotto un danno economico senza pari al suo paese per cui è stata defenestrata dagli stessi tory dopo 3 mesi.

Tuttavia sono tra chi non crede che il neo protezionismo di Trump (avviato nel 2017 e proseguito da Biden) sia una follia senza metodo. Perché creare un caos con le borse che crollano e una rivolta dell’establishment globalista e del business prima di tutto americano? Negli ultimi anni ci si è divisi tra una maggioranza che pensano che l’America sia sempre il n.1 del mondo e una minoranza (Emmanuel Todd, Massimo Cacciari,…) che pensa che sia un gigante dai piedi di argilla, avamposto di un declino dell’Occidente e dei suoi valori. Credo che Trump la pensi allo stesso modo e che se la globalizzazione ha arricchito una ristretta élite, ha impoverito milioni di americani e indebolito i fondamentali dell’economia americana insieme alla sua manifattura. Cose che ha sempre detto anche Sanders, l’ala sinistra dei Dem.

Un protezionismo sui generis lo ha seguito anche la Cina non rispettando le regole del WTO e piegandole ai suoi interessi strategici, erigendo una grande muraglia cinese agli occidentali che volevano acquistare le loro imprese strategiche.
I consiglieri di Trump pensano che un dollaro sopravalutato abbia favorito tutti i paesi e penalizzato la manifattura made in Usa (imprese e lavoratori). Se i dazi porteranno maggiori entrate fiscali e maggiore competitività delle merci prodotte in Usa, allora faranno tornare “grande” la crescita economica.

Trump punta quindi a svalutare il dollaro e a una politica monetaria espansiva (ha chiesto a Powell –Fed- di abbassare i tassi di interesse).

E l’inflazione? La speranza è che le aspettative positive la facciano tenere bassa, anche se un Iphone Apple coi dazi costerebbe 2.300 dollari e non più 1.600 (fonte: Reuters).
C’è poi un enigma: chi lavorerà nella manifattura americana se si blocca il flusso degli immigrati? Saranno solo legali ben pagati?

Nonostante il crollo delle borse, gli ammonimenti che vengono dalla Federal Reserve Usa e da esperti di tutto il mondo del business, Trump tira diritto, mostrando che ha una strategia di lungo termine per cui è ragionevole pensare che i dazi non verranno ritirati, pur scontando nel breve termine un aumento dell’inflazione e un rallentamento del Pil.

Re-industrializzare l’America

Il principale obiettivo è re-industrializzare l’America per evitare un indebolimento del dollaro come moneta internazionale, la cui percentuale negli scambi continua a essere altissima (88% rispetto al 5% del renmimbi cinese). Per fare ciò bisogna che non ci siano scricchiolii negli acquisti dei Treasuries da parte del Resto del mondo, ma soprattutto di Europa e Cina (la Cina ne possiede 800 miliardi), visto lo stratosferico debito pubblico Usa che comporta un costo di 952 miliardi di interessi all’anno.

Un indizio dell’indebolimento del dollaro è che dal 1989 il debito pubblico USA è cresciuto a un ritmo tre volte superiore a quello del PIL. L’Italia paga interessi annui per il suo debito 100 miliardi, gli Usa 952 (9,5 volte di più, nonostante gli americani siano 5,7 volte gli italiani). Una spesa monstre, maggiore di quella militare (925 miliardi).

Se la re-industrializzazione funzionerà tutto si mette a posto: calano deficit commerciale e debito pubblico. A quel punto il dollaro ritorna ad avere quel ruolo di “privilegio-vantaggio” che consente di disporre di merci ottenute dal lavoro degli altri popoli del mondo in cambio di pezzi di carta verde con scritto “Novo ordo seclorum”, come disse l’ex presidente della Repubblica francese Giscard d’Estaing, europeista convinto, ma critico della strategia di Prodi che considerava l’Europa in costruzione una “tela di Penelope”.

Una questione monetaria

Si parla di dazi ma la questione è “monetaria”: il dollaro è minacciato non solo dalla fragilità dei suoi fondamentali economici, ma dalla disgregazione sociale americana e dalla Cina che punta sullo yuan digitale cinese, quale moneta alternativa, o meglio (via Brics), ad una sorta di new Bancor, progetto che Keynes propose alla fine della 2^ guerra mondiale, cioè di sostituire il dollaro con un paniere di monete forti e di materie prime e che gli americani respinsero. Sono già 10 i paesi asiatici e 6 quelli del Medio Oriente che vi partecipano e che hanno abbandonato il sistema dei pagamenti Swift a regia americana.

Il dollaro rimarrà la moneta internazionale fintantoché il debito Usa sarà sostenibile. Per ora non dovrebbe essere messo in discussione per cui la domanda di dollari (e di titoli in dollari) rimarrà alta per cui è difficile pensare ad una svalutazione del dollaro, che è una via per Stephen Miran per riequilibrare lo squilibrio della bilancia commerciale che oggi è finanziata dagli ingenti flussi di capitali verso gli Usa e che consente agli americani di usare il risparmio mondiale per acquistare merci che determinano il loro attuale forte squilibrio commerciale. Il problema è che un dollaro svalutato mina il suo ruolo come valuta di riserva globale e i picchi raggiunti da oro e bitcoin chiariscono che del dollaro ci si fida meno.

Tutto ciò sarà modificato in profondità dai dazi? Nessuno davvero lo sa. I dazi accrescono le entrate del fisco Usa ma il successo di Trump dipenderà da molte incognite tra cui: a) quanto aumenteranno i prezzi interni (inflazione); b) quanto forte sarà la re-industrializzazione.
Se l’inflazione crescerà molto si deprimerà la domanda interna e le entrate dagli stessi dazi. A quel punto la politica monetaria Usa potrebbe apprezzare il dollaro e quindi sterilizzare l’impatto dei dazi sui prezzi, ma in tal caso l’effetto “barriera” all’import cadrebbe e nessun vantaggio ci sarebbe sulla bilancia commerciale.

Potrebbe poi essere che Trump voglia usare i dazi anche per ottenere “favori”, per esempio chiedere/imporre a europei e cinesi di continuare ad acquistare un debito che si fa sempre meno solvibile (finché non ritorna a calare).

Trump e i suoi consiglieri non sono troppo preoccupati delle perdite a breve di Wall Street, anche perché il 40% degli americani non ha azioni e dei 48mila miliardi di titoli posseduti, il 93% è nelle mani del 10% più ricco. E’ vero che la pensione è tutelata dai fondi azionari, ma gran parte degli operai che ha votato Trump lo abbandonerà se le borse calano nel lungo periodo.
Gli interessi della finanza e di Wall Street non coincidono con quelli dell’industria e degli operai e lo si può ben dire oggi dopo 30 anni di finanziarizzazione e globalizzazione. Una storia simile gli Stati Uniti l’avevano conosciuta negli anni ’80 col Giappone (dollaro forte, alti profitti finanziari, crisi della manifattura, segretario Fed Volcker).

Trump ha scelto di privilegiare le fabbriche perché da lì vengono i voti e buona parte della forza dell’economia americana (soprattutto nel caso di un conflitto militare convenzionale…do you remember il Pentagono ad agosto 2023…non ci sono più munizioni per l’Ucraina). Poiché però dollaro moneta di riserva mondiale non va d’accordo con dollaro svalutato si potrebbe dar vita ad un dollaro digitale che coesiste con un dollaro tradizionale svalutato (un’idea che circola anche nella BCE con l’euro digitale).

Il terzo obiettivo dei dazi è continuare ad attrarre, negli Stati Uniti, risparmi e investimenti (specie europei). Ogni anno, infatti, finiscono all’estero, soprattutto in America, 300 miliardi di investimenti finanziari europei. Gros-Pietro (Intesa Sanpaolo), rammenta che l’Europa è l’area che risparmia di più: 30mila miliardi di euro di risparmi. Non è un caso che l’obiettivo indicato dal Libro Bianco sul ReArm sia la mobilitazione di 10mila miliardi di risparmi, né che i fondi finanziari Usa (BlackRock,…) puntino sull’Europa e il suo enorme risparmio. Prima di dire, come scrive Federico Fubini sul Corriere della Sera, che Trump è “un morto che cammina” vedrei cosa succede tra un anno. Non è la prima volta che la nostra élite prende cantonate.

Come può reagire l’Europa

Fin qui sono i problemi degli americani. E l’Europa come deve reagire?

L’Europa ha un’occasione storica: fare di necessità virtù, recuperare gli enormi ritardi, cambiare a partire dall’abolizione del Patto di stabilità che impone una austerità della domanda interna, avviando la costruzione di un 3° polo nel mondo tra Usa e Cina, che è la sua missione spirituale e diventare punto di riferimento per il Resto del mondo di un nuovo modello di sviluppo.

La Cina ha scelto di rispondere “occhio per occhio” cioè dazi contro dazi. Ma se i dazi Usa danneggiano gli Usa, non si vede perché i dazi della Cina non danneggino anche la Cina. Idem dicasi per l’Europa: coi dazi gli europei pagheranno le merci estere a più caro prezzo (crescita dell’inflazione), ci sarà meno export e meno occupati, in cambio di maggiori entrate fiscali. Se poi l’Euro si rivaluta sul dollaro (come sta avvenendo) allora l’effetto caro prezzi (inflazione) si attenua, ma si indebolisce anche l’export.

In ogni caso avremmo due effetti negativi:
1. Dazi USA che danneggiano il nostro export,
2. Dazi Europa che danneggiano i nostri consumatori, importando inflazione da tutto il mondo, che sono poi gli effetti delle svalutazioni competitive. Della serie “perdenti+perdenti” anziché “win+win”, cioè danneggiare l’Europa per danneggiare gli Usa. La risposta “muscolare” assomiglia a quella dell’invio di armi all’Ucraina, serve per motivi politici (avere consensi), più che per vincere la guerra.

Un’altra via sarebbe svalutare l’euro sul dollaro per attenuare l’impatto dei dazi Usa sui consumatori e le imprese americane, ma pagheremmo di più tutto l’import e le materie prime energetiche di cui siamo debitori.

Che fare?

Nel caos è assennato mantenere una politica monetaria prudente e non giocare al gioco protezionistico di Trump. Semmai togliere i nostri “dazi” interni alla UE e mantenere buone relazioni commerciali col Resto del mondo. La cautela è d’obbligo perché, essendo il dollaro la moneta di riserva mondiale (ancora), una caduta di fiducia dei mercati finanziari sul dollaro nel breve periodo innesca una recessione mondiale.

La seconda via l’ha indicata Mario Draghi nel suo intervento al Senato il 18 marzo 2025. Riporto il passaggio chiave: “l’Europa trae il proprio prodotto dal 50% dell’export rispetto al 26% degli USA e 32% della Cina. Pertanto una guerra commerciale con dazi e contro dazi rende l’Europa più vulnerabile degli altri paesi. Gli USA sono il principale partner commerciale dell’Europa (oltre il 20% dell’export). In presenza di dazi la prima via è quella di sviluppare il commercio con altri paesi, la seconda è quella di interrogarsi se sia opportuno mantenere questo gigantesco surplus commerciale col resto del mondo oppure concentrarsi maggiormente nello sviluppare la domanda interna, spendere per l’innovazione, il clima,…. Non è stato sempre così lo squilibrio commerciale (in Europa) si accentua dopo la crisi del 2008. Noi abbiamo contratto il credito bancario più degli Stati Uniti, compresso la spesa pubblica e i nostri salari anche perchè noi eravamo in quegli anni in competizione con gli altri paesi europei. Austerità e salari bassi hanno compresso la domanda interna e non abbiamo fatto nulla per aprire il mercato interno e consentire alle nostre imprese di vendere in particolare i servizi (che sono il 70% del PIL). Il FMI stima le barriere interne all’Unione del 40-45% ma per i servizi del 110%. Ciò impedisce, specie alle piccole imprese più innovative a causa della eterogeneità di normative, di crescere e solo i Big Tech come Google, Amazon e così via lo possono fare. Nonostante questo gigantesco surplus siamo diventati sempre più poveri mentre gli Stati Uniti hanno seguito una via di sviluppo puntando sul loro mercato interno. Allora forse l’export non era la strada più giusta per noi. Oggi è venuto il momento di pensare alla crescita interna. Questa è la storia e la narrativa macroeconomica del mio Rapporto”.

Per completare questo quadro rammento che nel 2023 l’export della Germania è stato pari al 43% del suo PIL (Francia 33,7%, Italia 34,2%), negli Stati Uniti è 11%, in Cina 19%, in calo da 20 anni, mentre in Europa cresce costantemente, come fossimo in un paese in via di sviluppo che punta la sua crescita non sulla domanda interna e i suoi salari ma sull’export. La Germania ha contribuito con la sua ansia del pareggio di bilancio, ma le politiche di austerità sono una scelta della UE (BCE inclusa).

Ora l’Europa dovrebbe avere il coraggio di fare un “passo indietro per farne due avanti”: ammettere i propri errori, rivedere i Trattati, creare le condizioni di una Statualità federale tra i primi fondatori, in cui c’è difesa e politica estera comune, rilancio del welfare e della domanda interna, indipendenza dai giganti digitali americani, dai suoi prodotti agricoli inquinanti, dal suo stile di vita consumistico, diffusione guidata dalle Istituzioni, come ha fatto l’India, di software alternativi, euro digitale. In sostanza la via umanistica di “Venere” in contrasto alla via di “Marte” di americani e cinesi.

Se gli Usa mettono dazi alle merci, l’Europa tassi i servizi dematerializzati digitali dei Big tech su cui la bilancia commerciale USA è in attivo. Si tratta del Pillar 1 OCSE tutt’ora fermo per le pressioni americane, a differenza del “cugino” Pillar 2 (partito di fatto solo nella UE) per imporre la global minimum tax del 15% a tutte le multinazionali tradizionali. Si tratta di tassare l’estrazione di valore (i dati dei clienti del web) che è valutabile in base agli incassi pubblicitari e che i Big Tech negano sia imponibile (c’è una causa in corso a Milano tra Agenzia Entrate e Meta per 887 milioni di Iva non versata dal 2015 al 2021).

Se l’Europa si pone in un’ottica di giustizia, troverà l’appoggio del Resto del mondo (anche di quel Sud globale che fino ad oggi ci ha visto con diffidenza perché prima colonialisti e poi vassalli degli Usa).
Trump dà all’Europa un’opportunità storica: diventare indipendente e avviare una vera Europa, che sviluppa il suo mercato interno ed è alleata con tutti. E’ dal caos che nasce un nuovo mondo.

Cover: immagine da Odysseo su licenza Wikimedia Commons

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LIBERIAMO FERRARA DA HERA
Una Petizione da Firmare e da Diffondere

LIBERIAMO FERRARA DA HERA
Una Petizione da Firmare e da Diffondere

La petizione

Hera è una società per azioni quotata in Borsa, a proprietà mista tra soggetti privati e pubblici (i Comuni che stanno nell’area che va da Modena alla Romagna, passando per Bologna, part del Triveneto e Ferrara) e adesso i privati detengono la maggioranza assoluta delle azioni, pari al 54,2%.

La quotazione in Borsa e la maggioranza in mano ad azionisti privati fa sì che Hera persegua interessi aziendali finalizzati ad aumentare i propri profitti e distribuire lauti dividendi ai soci privati e pubblici, non a produrre un servizio pubblico efficiente e ambientalmente orientato.

Per stare solo al 2023, Hera, complessivamente intesa, per i vari servizi che svolge (acqua, rifiuti, distribuzione gas e elettricità) e nell’insieme dei territori in cui è insediata, ha realizzato profitti per circa 375 milioni di € e distribuito dividendi per 205 milioni di €, in crescita progressiva rispetto agli ultimi anni.

Con riferimento solo al servizio dei rifiuti urbani nel Comune di Ferrara, Hera tutti gli anni ha un profitto garantito di circa 700.000 €, cifra che i cittadini ferraresi pagano nelle bollette e che potrebbe invece essere utilizzata per diminuirle e/o fare investimenti.

Un esempio clamoroso della logica privatistica e persino speculativa di Hera ci viene dalla vicenda delle tariffe del teleriscaldamento a Ferrara: ultimamente l’AGCM ( Autorità Garante della Concorrenza e del mercato) ha erogato una multa di quasi 2 milioni di € ad Hera, perché ha impedito ai consumatori di beneficiare dell’uso di fonti rinnovabili disponibili a costi contenuti per produrre un bene essenziale come il calore e ha imposto prezzi iniqui ed eccessivi rispetto ai costi.

Persino il tanto decantato risultato del forte ricorso alla raccolta differenziata viene depotenziato, vista la scelta di Hera di continuare la raccolta differenziata con i cassonetti che comporta una scarsa qualità della raccolta stessa e non tramite il modello porta a porta.

In compenso, secondo i dati raccolti da Cittadinanzattiva, nel 2024 la tariffa di una famiglia-tipo (3 componenti e un’abitazione di 100 mq) a Ferrara risulta essere di 298 €, a fronte di una media regionale di 273 €, il penultimo peggior risultato tra i Comuni capoluoghi di provincia in Emilia-Romagna.

Insomma, bisogna cambiare strada e uscire dal monopolio di HERA.

La gestione del servizio dei rifiuti urbani nel Comune di Ferrara è scaduta dalla fine del 2017. Hera sta continuando la gestione in proroga da quel momento.

Si sta avvicinando il momento di decidere quale sarà il gestore del servizio dei rifiuti urbani per i prossimi 15-20 anni.

L’Amministrazione Comunale di Ferrara sembra intenzionata a procedere ad una gara per affidare il servizio. Non ci vuole molto a realizzare che, andando su questa strada, Hera continuerà ad essere il gestore del servizio.

Questa sarebbe una scelta sbagliata, deleteria sia dal punto di vista ambientale, sia per gli interessi generali dei cittadini.

Chiediamo che l’Amministrazione Comunale di Ferrara affronti questa discussione in Consiglio comunale in tempi brevi e, anziché mettere a gara il servizio, lo affidi direttamente ad un’azienda pubblica, appositamente costituita. La scelta che, negli anni scorsi, è stata compiuta a Forlì e da altri 12 Comuni di quel territorio, dando vita ad ALEA, società a totale capitale pubblico, che sta realizzando i risultati migliori in Emilia-Romagna per quanto riguarda la riduzione nella produzione dei rifiuti, il minimo di rifiuti avviati a smaltimento e anche una buona situazione tariffaria (256 nel 2024 per la famiglia-tipo).

Ripubblicizzare la gestione del servizio dei rifiuti urbani è anche la premessa per poi passare al sistema di raccolta porta a porta e realizzare lo stesso dimezzamento dell’incenerimento, obiettivi possibili da realizzare e che chiediamo vengano, anche questi, progettati.

Questa petizione, proposta da Forum Ferrara Partecipata e Rete Giustizia Clilmatica Ferrara, serve a far presente alle istituzioni quanto sia importante per le cittadine e i cittadini cambiare direzione e imboccare la strada della ripubblicizzazione, a vantaggio della collettività e non più dei profitti delle multiutility. Potrà essere anche di esempio per altre città che vogliano intraprendere lo stesso percorso.

FIRMA ORA!

La petizione si può firmare andando al seguente link http://www.change.org/Liberiamo_ferrara_da_hera

 

Vi chiediamo  non solo di sottoscriverla, ma anche di diffonderla a tutti i vostri contatti e promuovere la raccolta firme, via mail, social ( wa e pagine Fb). Pensiamo abbiate presente l’importanza di raccogliere migliaia di firme sotto la stessa, visto che il risultato che raggiungeremo costituirà non solo una verifica del consenso della nostra iniziativa, ma anche la possibilità che l’Amministrazione comunale riveda la propria posizione a favore della gara, e cioè riconsegnare ad Hera la gestione del servizio per i prossimi 15-20 anni.

Inoltre, venerdì 11 marzo dalle 11 alle 12 organizziamo un nuovo flash mob sotto il Volto del Cavallo per dare ancora più forza e risalto alla nostra iniziativa: vi invitiamo ad essere presenti e a far partecipare anche altre persone ( vedi volantino in allegato).

Parole a capo
VERNICE: «Viaggi di versi»(2)

A Forlì nella cornice di VERNICE: «Viaggi di versi» (2)

Alla 22a Edizione di “VERNICE – Art Fair alla Fiera di Forlì, allo stand dell’artista ferrarese Isabella Guidi, l’Associazione Culturale Ultimo Rosso ha realizzato il Reading poetico “Viaggi di versi”. Dopo la prima uscita della scorsa settimana, pubblichiamo un secondo gruppo di poesie lette durante l’evento.

 

 “Che sia benedetto chi non conosce la rotta. Il futuro è di chi sa affrontare il mare nero inseguendo un miraggio”
(Paolo Rumiz)

 

PENDOLARI

 

I tulipani si inchinano alla sera
il pane odora le case
e il treno sui binari ozia
Sui campi di spalle curve
il vento incalza
dentro i vagoni
il tepore del pianto
nell’ansia di essere vivi
Vite segnate in giallo
flash di oggetti smarriti
La mente a pugno chiuso
fa rumore di rabbia antico

(Rita Bonetti)

 

*

 

BARCA

 

Suonano a vuoto
i miei passi sulla tolda di
questa barca solitaria e deserta
La cambusa è vuota e le
macchine sono ferme
Non avverto più quel ronzio familiare
che favoriva il mio sonno
nelle sere lunghe dopo le ore trascorse
a studiare la mappa
a individuare la rotta e
pensare qualche cambiamento
La barca fila via senza timone
solo la corrente
Le grandi vele non schioccano
E non servono.
Mi porta la corrente
Verso una parvenza di terra
Una sagoma nella nebbia
forse il molo di un porto
o un’altra barca simile a
questa, senza timoniere.

(Elena Vallin)

 

*

 

 PARTENZE

 

Un vento leggero
mi solleva da terra
sono in cerca delle mie ali
perdute un tempo
quando il mondo
intorno a me
era libero da amarezze
e io annegavo felice
nella luce.

(Silvia Lanzoni)

 

*

 

 NEL VIAGGIO L’INFINITO

 

Mentre il tempo stringe da ogni lato
beffardo inadeguato
insufficiente sempre all’infinito
che la mente contiene e il cuore spera
si sta sospesi tra la realtà
e tutte le astrazioni che il pensiero
può concepire: gli universi ignoti
fantasie fedi libertà dei sogni.
L’infinito nel tempo e nello spazio
muove una guerra dolorosa al battito
di ciglia che è il cammino di una vita.
Ma l’anima in dissidio trova pace
nel viaggio che dilata
la mia dimensione col suo limite.
Luoghi e passaggi
profumi e colori
tramonti e albe e golfi
montagne e fiordi
cattedrali e spiagge
e le innumerevoli
isole tra gli oceani battute
dalle maree e le infinite specie
e ogni angolo diverso
e ognuno un mondo a parte, una cultura
Qualunque cosa che mi porti a bere
un pezzetto di questa Madre Terra
e nutra la memoria e riempia gli occhi
mi regala un respiro
di eternità.

(Marta Casadei)

 

*

 

 TRAMONTO AFRICANO

 

Il cielo azzurro s’incupisce
vasta distesa scura
il sole, una palla arancione,
ora tocca la linea viola;
rinfresca l’aria
decorano lievi nuvole
arancio ocra rosso.

Nera si staglia
tra noi e l’infinito
una sagoma: un elefante,
eterna memoria

Ritornerà la luce
sfileranno le figure verso il destino:
antico ciclico ritorno.

Costretti a ripararci torniamo:
ci guardiamo sorridere, complici.

(Cecilia Bolzani)

 

*

 

 Legàmi scorsoi
attorcigliati a Capo Fragile
meta di bambini
vecchi e del mondo
dei dispersi viaggiatori

(Pier Luigi Guerrini)

 

*

 

NAVIGARE A VISTA

 

Esistenza,
oceano d’incertezza.
Lo solchiamo in piccoli vascelli
occhio alle mappe
e agli strumenti
illusi di poter
sempre
controllare la rotta.
Radici come àncore
germogliano isole
disperse
di terraferma sicura,
approdo per raggrumare
saperi e forze.
Bisognerà imparare
l’accomodarsi ai venti
fluire in traiettorie
inaspettate e nuove
lasciare aperta un poco
la porta del mistero.

(Anna Rita Boccafogli)

 

(In copertina, foto della Bretagna di stbucher da Pixabay)

 

“Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”.
Per rafforzare il sostegno al progetto invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 279° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Cosa c’è dentro il ddl sicurezza: la parola d’ordine è reprimere

Cosa c’è dentro il ddl sicurezza. Proteste, carcere, cpr e cannabis: la parola d’ordine è reprimere

Il disegno di legge voluto dal governo Meloni e dai ministri Piantedosi, Nordio e Crosetto, introduce nuovi reati e prevede pene più pesanti per chi protesta, con l’obiettivo di mettere a tacere ogni forma di dissenso. Tra le proposte, il permesso alle forze di polizia di detenere armi senza licenza

Pene più severe per chi contesta e blocca la strada, maggiori poteri alle forze di polizia, stretta sulla cannabis legale e una serie di provvedimenti che puntano a sedare sul nascere le proteste in carcere e all’interno dei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr). Sono alcuni degli argomenti contenuti nel ddl sicurezza proposto dal governo guidato da Giorgia Meloni, approvato dalla Camera o ora in discussione al Senato.

In questo articolo, in cui iniziamo ad esplorare alcune parti del disegno di legge, proponiamo l’elenco dei temi dal nostro punto di vista più significativi contenuti nel ddl:

  • Repressione del dissenso
  • Stretta su carcere e cpr
  • Maggiori tutele per le forze di polizia
  • Revoca della cittadinanza, niente sim senza permesso di spggiorno 
  • Limitazioni all’uso della cannabis legale
  • Benefici per le vittime delle mafie, pentiti più protetti

Repressione del dissenso

Il ddl (art. 14) vuole punire i manifestanti che bloccano con il proprio corpo le strade o le ferrovie, trasformando quello oggi è un illecito amministrativo in illecito penale. E quindi, ad esempio, gli attivisti del clima che agiscono in gruppo rischiano ora la reclusione da 6 mesi a 2 anni, oltre al pagamento di una multa fino a 300 euro.

Ambiente, così i governi europei mettono a tacere gli attivisti per il clima

Condanne più pesanti anche per chi, durante le manifestazioni che si svolgono in luoghi pubblici o aperti al pubblico, si rende colpevole del reato di danneggiamento. Nello specifico, il ddl (art. 12) prevede due diverse fattispecie di danneggiamento: la prima, “semplice”, è punita con la reclusione da 1 a 5 anni; l’altra, con violenza alla persona o minaccia, è punita con la reclusione da 1 anno e 6 mesi a 5 annie con la multa fino a 15mila euro.

Il testo (art. 19) prevede una circostanza aggravante dei delitti di violenza o minaccia e di resistenza a pubblico ufficiale se il fatto è commesso nei confronti di un ufficiale o un agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza. Un’ulteriore aggravante è prevista se il fatto è commesso per impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica, come ad esempio il ponte sullo Stretto di Messina o la linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione, Tav.

Attivisti per il clima: la protesta che divide, un racconto a fumetti

Pugno di ferro anche per chi occupa un immobile di proprietà altrui, con il ddl (art. 10) che mira a introdurre il nuovo reato di occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui, oltre a una procedura d’urgenza per il rilascio dell’immobile e la sua restituzione.

Stretta su carcere e cpr

Un nuovo reato, il delitto di rivolta, mira a punire chi organizza e partecipa a proteste e rivolte dentro carceri o Cpr

L’articolo 26 del ddl prevede una serie di misure per garantire “maggiore sicurezza” nelle carceri. Fra queste, l’aggravante del reato di istigazione a disobbedire alle leggi (se commesso all’interno di un istituto penitenziario o a mezzo di scritti o comunicazioni diretti a persone detenute) e, soprattutto, l’introduzione nel codice penale (art. 415-bis) di un nuovo reato: il delitto di rivolta all’interno del carcere. Ciò significa che i detenuti che facciano “resistenza, anche passiva, all’esecuzione degli ordini impartiti”, anziché ricevere provvedimenti discliplinari, come avviene ancora oggi, saranno punibili sul piano penale. Perché scatti il reato, basta che al gesto parceipino almenotre detenuti.

Rivolte nelle carceri e reato di tortura: tutti i fronti aperti

La pena “base” è la reclusione da 2 a 8 anni, che in determinate circostanze aggravanti può aumentare. E così, l’aver commesso il fatto con uso di armi è punito con la reclusione da 3 a 10 anni;  l’aver causato una lesione personale implica l’aumento della pena fino ad un terzo; l’aver causato la morte è punito con la reclusione da 10 a 20 anni. È inoltre specificato che le stesse pene si applicano anche se la lesione personale o la morte avvengono immediatamente dopo la rivolta e in conseguenza di quest’ultima. La sola partecipazione alla rivolta è invece punita con la reclusione da 1 a 5 anni.

Riguardo ai Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), l’articolo 27 introduce anche in questo caso un nuovo reato finalizzato a reprimere gli episodi di proteste violente. È punito con la reclusione da 1 a 6 anni chi promuove, organizza e dirige una rivolta, mentre la sola partecipazione prevede una pena da 1 a 4 anni. Nel caso in cui vi sia un utilizzo di armi, si rischiano da 2 agli 8 anni, mentre se nel corso della rivolta qualcuno rimane ucciso o riporta lesioni gravi o gravissime (anche nel caso in cui l’uccisione o la lesione personale sia avvenuta immediatamente dopo la rivolta e in conseguenza di quest’ultima) la reclusione prevista va dai 10 ai 20 anni.

Centri per il rimpatrio dei migranti, ordinaria ferocia

Il ddl sicurezza intende anche semplificare le procedure per la costruzione di nuovi Cpr, nonché quelle per la localizzazione, l’ampliamento e il ripristino dei centri esistenti. Il primo passo per la costruzione di nuove strutture di detenzione amministrativa, già promesse dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi.
Non sono risparmiate neppure le donne incinte o madri di figli che hanno meno di un anno. L’articolo 15 apre la possibilità del carcere anche per chi prima ne era esclusa: non sarà più automatica l’esclusione della detenzione per donne incinte e madri, che quindi potranno scontare la pena istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam). Nessuna possibilità di evitare il carcere, invece, se per la giustizia esiste il grave rischio che la donna commetta altri reati. In questi casi i neonati resteranno in carcere con le loro madri.

Maggiori tutele per le forze di polizia

Il ddl prevede una serie di misure che tutelano le forze di polizia. L’articolo 20, in particolare, vuole introdurre il nuovo reato di lesioni personali a un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza che svolge le sue funzioni, con pene da 2 a 5 anni nel caso di lesioni semplici; da 4 a 10 anni nel caso di lesioni gravi; da 8 a 16 anni nel caso di lesioni gravissime. Una differenza sostanziale rispetto a oggi, con il reato circoscritto alle sole lesioni personali subite da agenti di ordine pubblico in occasione di manifestazioni sportive. Inoltre, viene introdotta una specifica sanzione (da 2 a 5 anni) per le lesioni semplici.

Stanziamento per le bodycam degli agenti

Il governo ha intenzione di stanziare più di 23 milioni di euro nel triennio 2024-2026 per dotare le forze di polizia (polizia di Stato, carabinieri, guardia di finanza, polizia penitenziaria) di dispositivi di videosorveglianza indossabili – le cosiddette bodycam – per registrare l’attività operativa e il suo svolgimento durante i servizi di mantenimento dell’ordine pubblico, di controllo del territorio, di vigilanza di siti sensibili, nonché in ambito ferroviario e a bordo treno. La novità (art. 21) rischia di ledere il diritto alla privacy, tant’è che già nel 2021 il garante per la protezione dei dati personali aveva precisato che le videocamere indossabili potevano essere attivate solo in concrete situazioni di pericolo di turbamento dell’ordine pubblico.

I codici identificativi in polizia sono ancora un tabù

Il garante aveva quindi aggiunto che non è ammessa la registrazione continua delle immagini, né quella di episodi “non critici”, fissando a sei mesi il periodo massimo di conservazione dei dati. Vietato, invece, dotare i dispositivi di tecnologie che consentano il riconoscimento facciale della persona. Il comma 2 dell’articolo prevede poi che i dispositivi di videosorveglianza possano essere utilizzati nelle carceri e nei cpr. In questo caso la strumentazione può essere sia portatile che fissa.

Più fondi per le spese legali degli agenti

Per le forze di polizia e le forza armate il ddl mira a introdurre, a partire dal 2024, un beneficio economico per le spese legali sostenute da ufficiali o agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria, nonché dai vigili del fuoco, indagati o imputati nei procedimenti riguardanti fatti accaduti in servizio. Il beneficio ha un importo massimo di 10mila euro per ciascuna fase del procedimento e in caso di condanna, chi ne usufruisce può essere costretto a restituire il denaro ricevuto. La norma specifica poi che possono accedere al beneficio anche il coniuge, il convivente di fatto e i figli del dipendente deceduto. Per la copertura legale, lo Stato ha previsto di stanziare 860mila euro all’anno.

L’articolo 28, che ha scatenato un acceso dibattito, autorizza gli agenti di pubblica sicurezza (carabinieri, poliziotti, finanzieri e agenti penitenziari) a possedere armi senza licenza quando non sono in servizio. È curioso come il riferimento normativo sia il Regio decreto n. 773 del 1931, che comprende “arma lunga da fuoco, rivoltella e pistola di qualunque misura, bastoni animati con lama di lunghezza inferiore ai 65 centimetri”. Fra le altre figure che possono detenere armi senza alcuna licenza per la difesa personale vi sono il capo della polizia, i prefetti, i viceprefetti, gli ispettoriprovincialiamministrativi, gli ufficiali di pubblica sicurezza, i pretori e i magistrati addetti al pubblico ministero o all’ufficio di istruzione.

Infine, l’articolo 24 prevede pene più severe per chi deturpa e imbratta beni mobili e immobili adibiti all’esercizio di funzioni pubbliche. Più nel dettaglio, qualora il fatto abbia la finalità di “ledere l’onore, il prestigio o il decoro” dell’istituzione, il colpevole rischia la reclusione da 6 mesi a 1 anno e 6 mesi e la multa da 1.000 a 3.000 euro.

Revoca della cittadinanza, niente sim senza permesso di soggiorno

L’articolo 9 intende revocare la cittadinanza italiana in caso di condanna definitiva per i reati di terrorismo, eversione e altri gravi reati. La norma stabilisce che non si può procedere alla revoca nel caso in cui l’interessato non possieda un’altra cittadinanza. Inoltre, si estende da 3 a 10 anni dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna il termine per poter adottare il provvedimento di revoca.

In tema di diritti, l’articolo 32 modifica l’articolo 30 del codice delle comunicazioni elettroniche, disponendo la chiusura dell’esercizio o dell’attivitàda 5 a 30 giorni per i negozianti che vendono schede sim senza procedere all’identificazione dei clienti. Ma, soprattutto, il ddl dispone che il cittadino di un paese che non fa parte dell’Unione europea, sprovvisto di permesso di soggiorno in Italia, non possa stipulare un contratto di telefonia mobile. In altre parole, un migrante in condizione di irregolarità viene privato dell’unico strumento che gli permette di comunicare con la famiglia lontana.

Limitazioni all’uso della cannabis legale

Il governo ha precisato che “il ddl sicurezza non criminalizza né incide sulla coltivazione e sulla filiera agroindustriale della canapa”. Produttori e commercianti però non la pensano così e hanno già preannunciato azioni legali per tutelare i loro affari

L’articolo 18 prende di mira la canapa legale – con thc al di sotto dello 0,2 per cento – e mette al bando i cannabis shop attraverso il divieto di importazione, cessione, lavorazione, distribuzione, commercio, trasporto, invio, spedizione e consegna delle infiorescenze della canapa, anche in forma semilavorata, essiccata o triturata, nonché di prodotti contenenti le infiorescenze, compresi gli estratti, le resine e gli olii derivati.

Per i trasgressori si applicano le pesanti sanzioni previste dal Titolo VIII del dpr n. 309/1990 (che, ad esempio, punisce con la reclusione da 8 a 20 anni chi coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, sostanze stupefacenti o psicotrope). Il governo ha giustificato il provvedimento, spiegando che “l’assunzione di prodotti da infiorescenza della canapa possa favorire, mediante alterazioni dello stato psicofisico, l’insorgere di comportamenti che possono porre a rischio la sicurezza o l’incolumità pubblica o la sicurezza stradale”.

Caos cannabis

Un chiarimento del Ministero datato 10 settembre 2024, ha quindi aggiunto che “il ddl sicurezza non criminalizza né incide sulla coltivazione e sulla filiera agroindustriale della canapa, in quanto non vieta, né limita la produzione della cannabis”. Nello specifico, dal Dipartimento per le politiche antidroga della Presidenza del Consiglio dei ministri sostengono che “con l’entrata in vigore della legge 242/2016 è stata avviata, illecitamente, anche la produzione e la commercializzazione, nei cosiddetti ‘cannabis shop’, di inflorescenze e suoi derivati, acquistati per un uso ricreativo, insinuando nella collettività la falsa idea di legalizzazione di una cannabis definita, erroneamente, ‘light’”. Secondo il ministero, l’emendamento al ddl non rischia di limitare la produzione dei derivati dalla cannabis e non incide sul mercato, consentendo la prosecuzione delle attività di chi ha investito nel settore. Produttori e commercianti però non la pensano così e hanno già preannunciato azioni legali per tutelare i loro affari.

Benefici per le vittime delle mafie, pentiti più protetti

L’articolo 5 del ddl, accogliendo la sentenza della Corte costituzionale dello scorso 21 maggio, stabilisce che i parenti delle vittime innocenti delle mafie e del terrorismo possano accedere ai benefici economici previsti dallo Stato, anche se hanno rapporti di parentela con persone condannate o coinvolte in un procedimento penale. “Con questa pronuncia lo Stato non ha più scuse – aveva commentato dopo la sentenza Daniela Marcone, responsabile dell’area memoria di Libera – ora c’è una carta d’appoggio e nessuno può ignorarla. Attraverso i benefici alle vittime si riconosce il diritto al lutto e al dolore, non si tratta come dice qualcuno soltanto di soldi”.

Il disegno di legge contiene una serie di provvedimenti che offrono maggiori tutele ai collaboratori di giustizia. In particolare, al fine di garantire la sicurezza, la riservatezza dei pentiti e il reinserimento sociale delle persone sottoposte a uno speciale programma di protezione, che non sono detenute o internate, viene consentita l’utilizzazione di un documento di copertura, nonché di identità fiscali di copertura, anche di tipo societario.

Il documento di copertura potrà essere utilizzato anche dai collaboratori (e loro familiari) che si trovano agli arresti domiciliario che fruiscono della detenzione domiciliare. È utile chiarire che mentre gli arresti domiciliari intervengono prima della sentenza definitiva di condanna, la detenzione domiciliare interviene dopo e rappresenta una misura alternativa alla detenzione carceraria.

Articolo originale su Lavialibera.it

In copertina: Roma. La protesta di Exctintion Rebellion. Foto di Ylenia Sina.

Elin e gli altri: un libretto con figure e parole,
Sabato 12 aprile alle ore 10.30 alla Biblioteca Niccolini

Elin e gli altri: un libretto con figure e parole

Care scrittrici e scrittori,

finalmente Elena ed io abbiamo realizzato un libretto con le immagini e le storie del nostro laboratorio Elin e gli altri.

Racconti scritti attraverso le suggestioni del gioco dei tre cappelli associato ai ritratti dei bambini: ricordate vero?!

Lo presentiamo sabato 12 aprile alle ore 10.30 alla Biblioteca Niccolini, dove tutto è iniziato.

Ci piacerebbe tanto che voi ci foste in questa occasione per ritrovarci e perché possiate leggere il vostro racconto o quello di un altro/a partecipante.

Il libro è dedicato a Daniele Lugli, uno degli autori del nostro laboratorio, maestro di pace e di nonviolenza caro a tanti e tante di noi.

Durante la presentazione sarà possibile acquistare il libro. Il ricavato andrà al Movimento Nonviolento, di cui Daniele è stato tra i fondatori, per sostenere la Campagna di obiezione alla guerra, cioè poi gli obiettori di coscienza e i resistenti nonviolenti in Russia, Ucraina, Bielorussia, Israele, Palestina.

Che dite?

Vi aspettiamo numerosi nonostante il tempo passato.

Vi preghiamo di rispondere a questa mail e… passate parola! Amici, familiari, appassionati di storie saranno i benvenuti.

Un abbraccio,

Elena Buccoliero e Miriam Cariani 

“Voci e suoni da un’avventura leggendaria”:
dal 7 al 12 aprile al Centro Teatro Universitario di Ferrara

Lo spettacolo di Teatro Ragazzi “voci e suoni da un’avventura leggendaria” alla conclusione del progetto teatrale “Sguardi Diversi” 2024 – 2025.

Giunto alla conclusione la dodicesima edizione del progetto teatrale “Sguardi Diversi”, finanziato con i fondi regionali dei Piani di Zona, promosso dal Comune di Ferrara, Assessorato alle Politiche Giovanili e la collaborazione del Centro Teatro Universitario di Ferrara. Il percorso ha coinvolto gli alunni delle prime classi medie della scuola secondaria “T. Tasso” ed è stato condotto da Michalis Traitsis, regista e pedagogo teatrale di Balamòs Teatro.

Il progetto “Sguardi Diversi” si concluderà con cinque repliche dello spettacolo voci e suoni da un’avventura leggendariariservate alle scuole di Ferrara e Provincia e una replica riservata ai familiari e il pubblico adulto. Tutte le repliche si svolgeranno presso il Centro Teatro Universitario di Ferrara (via Savonarola 19).

Lo spettacolo di Teatro Ragazzi voci e suoni da un’avventura leggendaria è diretto da Michalis Traitsis con le musiche a cura di Martina Monti, ed è tratto dall’incredibile avventura di Odisseo e i suoi compagni all’isola dei Ciclopi. Eroiche avventure, miti e leggende senza tempo raccontate con leggerezza e ironia dagli allievi del laboratorio: Lena Abate, Ziyu Chen – Matthew, Ada Colombari, Pietro Gilioli, Claudia Grechi, Niccolò Grechi, Luca Pistone, Edwin Yesid Menegatti Fregnan.

il programma delle repliche:

Lunedì 7 Aprile, ore 10.15, Centro Teatro Universitario di Ferrara, scuole di Ferrara e provincia

Martedì 8 Aprile, ore 9.45, Centro Teatro Universitario di Ferrara, scuole di Ferrara e provincia

Giovedì 10 Aprile, ore 09.45, Centro Teatro Universitario di Ferrara, scuole di Ferrara e provincia

Venerdì 11 Aprile, ore 9.45, Centro Teatro Universitario di Ferrara, scuole di Ferrara e provincia

Sabato 12 Aprile, ore 17.00, Centro Teatro Universitario di Ferrara, replica per adulti e familiari

Il progetto di pedagogia teatrale di Balamòs Teatro attuato alla scuola secondaria “T. Tasso” di Ferrara a partire dall’anno scolastico 2013-2014, nonostante tutte le difficoltà che affronta il mondo della scuola oggi, rappresenta un’ottima opportunità di formazione attraverso le pratiche di laboratorio teatrale per le giovani generazioni.

L’anima della proposta è il desiderio di stare insieme, di raccontarsi più che mostrarsi, di mettersi alla prova, di navigare insieme per scoprirsi e scoprire altri orizzonti possibili, di affrontare insieme paure, giudizi, conflitti.

Con una metodologia che tende, attraverso stimoli precisi, a rendere ciascuno protagonista del proprio percorso, dei propri personaggi e delle proprie interpretazioni.

Con il regista che si propone come pedagogo teatrale, accompagnatore, facilitatore, disponibile a navigare con i ragazzi tra i moti calmi e ondosi del lavoro teatrale, tra scoperte e frustrazioni, tra le bonacce e tempeste della crescita.

Lo spettacolo voci e suoni da un’avventura leggendaria con gli alunni delle seconde classi medie della scuola “T. Tasso” di Ferrara e un gruppo di persone detenute, è stato presentato Giovedì 27 Marzo 2025 alla Casa Circondariale Santa Maria Maggiore di Venezia nell’ambito del progetto teatrale Passi Sospesi di Balamòs Teatro negli Istituti Penitenziari di Venezia e in occasione della Giornata Mondiale del Teatro (International Theatre Institute – Unesco) e la Giornata Nazionale di Teatro in Carcere (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere).

Locandina voci e suoni da un’avventura leggendaria – Aprile 2025

programma di sala voci e suoni da un’avventura leggendaria – Ferrara – Aprile 2025

Vite di carta /
Anno 2025: quanta povertà

Vite di carta. Anno 2025: quanta povertà

Palazzo Naselli Crispi, sabato 5 Aprile: Monsignor Gian Carlo Perego, Arcivescovo di Ferrara-Comacchio, sta esponendo il recente Rapporto sulla povertà di Caritas Italiana e vengono i brividi a sentire certi numeri e a condividere le relative riflessioni. Il titolo del rapporto, Fili d’erba nelle crepe, mi pare indicativo dell’opera che svolge la Caritas a livello nazionale.

A fine mattinata alla Caritas Diocesana verrà assegnato il Premio Stampa 2025, a cura della Associazione Stampa Ferrara che celebra i 130 anni dalla fondazione.  Nel seminario che precede il momento della premiazione, intanto, viene posto al centro del dibattito cittadino il tema delicato delle vecchie e nuove povertà e il ruolo svolto dalla informazione.

Nel primo dei quattro interventi previsti tocca a Monsignor Perego fornire le cifre e fornirne una prima lettura critica: un dato nazionale vale per tutti e riguarda il numero record di famiglie, oltre due milioni e duecentomila, che vivono in condizioni di povertà assoluta.

Segue l’ intervento di Monsignor Massimo Manservigi sulla attività svolta dalla Caritas di Ferrara dalla sua fondazione nel 1973 a oggi, nel ricordo particolare di Don Paolo Valenti. Non poteva mancare, conoscendo le sue competenze in fatto di cinema, un bel video che mostra il lavoro quotidiano dei volontari.

Don Marco Pagniello, Direttore della Caritas Nazionale, presenta subito dopo l’importante progetto di microcredito della Caritas per il Giubileo, Mi fido di noi, in sostegno delle persone e delle famiglie in difficoltà.

Mi colpisce la coppia di parole esclusione finanziaria, ne afferro al volo la portata e la aggiungo alle altre di cui sto sentendo parlare nella galassia lessicale della povertà. Papa Francesco chiama “lavoro povero” quello che non garantisce di vivere decorosamente a un 8% di lavoratori.

Figuriamoci quanto debbano pesare gli altri elementi che determinano la povertà, intermittente o costante che sia. Assoluta o relativa. Associata a povertà culturale, a sfiducia e depressione, attaccata a una percentuale in paurosa crescita di bambini e di anziani soli, di stranieri, di persone che non hanno una dimora fissa o hanno condizioni abitative precarie.

Mentre ascolto l’intervento conclusivo del giornalista economico Matteo Nàccari e recepisco le difficoltà in cui si dibattono molti gruppi editoriali negli anni della intelligenza artificiale e sotto la pressione della informazione digitale, realizzo in quali termini anche la qualità dell’informazione vada preservata proprio perché non è esente da rischi. Povera la retribuzione riconosciuta ai precari, ma non solo; a rischio la qualità dei testi prodotti, tra il bisogno economico che impone di puntare sulla quantità e la concorrenza di testi standardizzati creati dalla I.A.

I miei due sogni, essere insegnante e giornalista, in quali mondi mi hanno cacciata. Letteratura mia, soccorrimi.

Riportami la voce atona di Génie la mattache mi arriva dal libro che ho letto in questi giorni. L’ha scritto Inès Cagnati, l’autrice francese di origine italiana morta nel 2007 di cui Adelphi ha recentemente pubblicato due romanzi, Génie nel 2022, Giorno di vacanza nel 2023 e nel 2024 la raccolta di racconti I pipistrelli.

Una scrittrice nata nel 1937 a Monclar, figlia di contadini immigrati dal Veneto nel sud ovest della Francia insieme a migliaia di altri italiani in fuga dalle persecuzioni fasciste e senza lo sbocco dell’America in seguito alle politiche migratorie transoceaniche restrittive.

Génie la matta è il suo secondo romanzo, uscito in Francia nel 1976 e solo da poco immesso nel panorama della narrativa italiana con la traduzione dal francese di Ena Marchi. Le recensioni che ho letto esprimono l’intensità dell’impatto.

Il libro ha una scrittura essenziale e scabra e racconta il dramma di una bambina: potrebbe chiamarsi Nedda, come la protagonista della celebre novella verghiana, e invece si chiama Marie. In una natura bellissima e spietata, Marie vive esclusa dal villaggio con sua madre Eugénie, che tutti chiamano Génie la matta.

Vittima di uno stupro, Génie è stata ripudiata dalla famiglia, “la migliore famiglia del paese”, dopo che ha dato alla luce la bambina concepita da quell’abuso. Vive con la piccola in una casupola sperduta e si chiude nell’isolamento e nel silenzio. “Non ho avuto niente, io” è ciò che ripete spesso Génie la sera, prima di coricarsi sfinita dalla giornata di lavoro nei campi. Nel microcosmo crudele del villaggio e delle fattorie attorno fatica dall’alba al tramonto per un po’ di cibo e qualche abito dismesso con cui nutre e ricopre sé stessa e la figlia.

Marie la ama visceralmente. La segue come può di giorno, quando non è a scuola. La aspetta di sera lungo il sentiero della casupola, costantemente terrorizzata di non vederla tornare. Una madre anaffettiva ma adorata è tutto quello che Marie possiede per attraversare l’infanzia.

Nella storia di entrambe, narrata pagina dopo pagina con lo stile segmentato di Inès Cagnati, con frasi ripetute e immagini che tornano ossessive, non c’è possibilità di riscatto. Nessuna via di fuga verso le felicità che potrebbero realizzarsi: avere la compagnia di un animale, trovare un compagno che conosce terre bellissime in cui andare a vivere, essere oggetto di amore in seno a una famiglia.

Per fortuna, la letteratura pare farsi più alta quando dà voce allo straniamento di lingua, cultura, classe sociale e genere, come è stato per Inès Cagnati da bambina. Quando trova le parole per accedere a squarci di verità e bellezza.

Nota bibliografica:

  • Inès Cagnati, Génie la matta, Adelphi, 2022
  • Inès Cagnati, Giorno di vacanza , Adelphi, 2023
  • Inès Cagnati, I pipistrelli, Adelphi, 2024

Cover: foto dell’autrice presenta i relatori del Seminario “Vecchie e nuove povertà: il ruolo dell’informazione” – Ferrara, Palazzo Naselli Crispi, 5 Aprile 2025. Da sinistra il moderatore Alberto Lazzarini, vice Presidente dell’Ordine dei giornalisti E.R., Matteo Nàccari, giornalista economico, Mons. Gian Carlo Perego, Don Marco Pagniello e Mons. Massimo Manservigi.

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice