Non è un caso che la conferenza tenuta ieri pomeriggio alla biblioteca Ariostea da Fiorenzo Baratelli sul principio educativo in Gramsci avesse come titolo “La formazione dell’uomo”: “una vera educazione è quella che prepara l’uomo alla sua epoca”, questa è la concezione gramsciana della formazione, che appunto deve formare menti consapevoli della propria funzione storica e sociale, non più passivamente soggette a condizionamenti. Una visione della scuola e del sistema educativo e culturale più in generale che si struttura nel tempo, partendo dagli articoli giovanili e arrivando agli scritti dal carcere: le Lettere e i Quaderni. Piccolo inciso: per entrambi Baratelli ha tessuto un prezioso legame con un altro ‘giovane favoloso’ della nostra cultura, Giacomo Leopardi, prendendo a prestito le sue parole per definire le Lettere la “storia di un’anima” e definendo i Quaderni un’enciclopedia aperta e non sistematica come lo Zibaldone di pensieri.
Gramsci non ha in mente un’educazione in senso astratto, bensì teoricamente fondata, ma pratica, operativa e sicuramente politica. Nei Quaderni, infatti, critica la concezione italiana di una cultura prettamente “prettamente libresca”, in cui “manca l’interesse per l’uomo vivente e per la vita vissuta”, mentre già nell’articolo “Socialismo e cultura” (1916) aveva scritto: “bisogna smettere di vedere la cultura come sapere enciclopedico […] questa non è cultura, è pedanteria […] la cultura è disciplina del proprio io interiore”.
Nell’umanesimo gramsciano il sistema formativo diventa uno strumento di emancipazione e di trasformazione della società perché contempera i valori classici e storici con le nuove avvisaglie dell’industrialismo moderno e perché forma le coscienze a una libertà responsabile e consapevole. Per questo fin dai suoi primi articoli si scaglia contro la scuola classista destinata a perpetuare la divisione fra chi deve guidare e chi si presuppone debba essere guidato, “polemizzando anche con il suo partito – come ha precisato Baratelli – che finisce per accettare questa organizzazione” in cui la formazione classica è privilegio di alcune classi, uniche in grado di aspirarvi, mentre per i figli delle classi lavoratrici ci sono solo le scuole professionali, dove si insegna a fare senza pensare. Da qui anche la forte critica non solo alla riforma di Gentile, ma anche alla concezione idealistica, che separano classicità e scienze esatte: per Gramsci “questa separazione rappresenta un impoverimento per entrambe ed è inattuale per i tempi”.
Anche in ambito pedagogico Gramsci rivela tutto il suo antidogmatismo e la sua lungimiranza, non solo attraverso alcune riflessioni critiche sull’educazione delle bambine, ma anche per l’importanza data al metodo, piuttosto che alle nozioni e alla memoria: “imparare a imparare, questa per lui è la funzione della scuola, prefigurando già quell’utopia della società dell’apprendimento in cui il rapporto pedagogico è una relazione che coinvolge in ogni momento tutta la comunità”, ha sottolineato Baratelli. Forse le sue più grandi intuizioni sono però il concepire la rivoluzione di una scuola di massa non calata dall’alto, ma richiesta da chi fino ad allora ne è stato escluso: l’analfabetismo non può essere debellato attraverso leggi e regolamenti, ma con la percezione, da parte del popolo, dell’istruzione come bisogno e necessità. E, parallelamente, la consapevolezza dei rischi di questa scuola di massa: primi fra tutti la semplificazione e la dequalificazione. “Forse per questo – ha scherzato Baratelli – Gramsci non è stato un autore del ‘68”. “Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso […] è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza. La partecipazione di più larghe masse alla scuola media porta con sé la tendenza a rallentare la disciplina dello studio, a domandarne facilitazioni. Occorrerà resistere alla tendenza di render facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato”, scrive nei Quaderni.
La scuola di Gramsci è insomma una scuola che forma nuovi cittadini consapevoli del proprio ruolo nella società con metodo severo e rigoroso, “un luogo dove combattere i caratteri negativi degli italiani: l’improvvisazione, il dilettantismo, l’irresponsabilità morale e intellettuale, la pigrizia fatalistica e il cinismo che portano all’inazione”.
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Federica Pezzoli
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