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Il disegno di legge (ddl) a firma Graziano Delrio è stato approvato dal Senato mercoledì 26 marzo scorso, con 160 sì contro 133 no. A questo punto il testo è tornato alla Camera per una terza, e in tanti sperano definitiva, lettura.
Dunque è ormai centrato l’obiettivo di eliminare le Province? Neanche per idea.
Il provvedimento, intitolato non a caso “svuota Province”, è solo il passo intermedio per arrivare alla cancellazione della parola “Provincia” nell’articolo 114 della Costituzione e, quindi, all’abolizione definitiva.
Nel frattempo, è trasformata in ente di secondo livello e cioè non più eletta dai cittadini, come ora, ma governata dai sindaci, a partire dal 2015.
Ma se l’obiettivo è la loro cancellazione, perché fare una tappa?
Come dicevano Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, “soprassediamo”.
Vediamo piuttosto come dovrebbero funzionare le cose, sempre che il termine “funzionare” non suoni sarcastico.
Al posto di presidenti, assessori e consiglieri provinciali, governeranno i sindaci. Quello del Comune capoluogo sarà il nuovo presidente della Provincia e consiglieri (da 10 a 16 al massimo) saranno altri sindaci designati dall’assemblea dei primi cittadini. Questi i nuovi organi. Tutto a zero euro di indennità, perché i sindaci hanno già la loro.
Nel frattempo gli attuali presidenti potranno restare in carica fino al 31 dicembre 2014, ma a titolo gratuito.
È uno dei pilastri della riduzione dei costi della politica tanto predicata dal premier Renzi, insieme alla trasformazione del Senato e al taglio delle indennità ai manager di Stato.
Si dice che sono sulle tremila le indennità degli amministratori che saranno in questo modo eliminate, con un risparmio …
Ecco, appunto, il risparmio.
Abbagliato dai responsi di alcuni centri studi, il ministro Delrio tempo fa aveva parlato di possibili due miliardi di tagli. Poi qualcuno deve avergli tirato la giacca e allora si è iniziato a parlare di una riduzione di 160 milioni, in seguito calati a 110. Successivamente la Corte dei Conti ha preso carta e penna e ha puntualizzato che, secondo i propri calcoli, il risparmio, se c’è, si aggira sui 35 milioni.
Sul tema ci ha messo bocca anche la commissione Bilancio di Palazzo Madama, esprimendo la preoccupazione che la spesa potrebbe addirittura aumentare.
Potrebbero gonfiarsi le spese se si decidesse che i sindaci metropolitani vanno eletti dai cittadini, anziché essere designati con lo stesso meccanismo di secondo livello previsto per le Province. Cosa possibile e prevista dall’attuale ddl.
Più costi arriverebbero anche dall’aumento di consiglieri e assessori nei Comuni fino a 10mila abitanti (altra cosa contenuta nel ddl), anche se per la verità la ministra Boschi ha detto da Lilli Gruber che la crescita di amministratori avverrà a costo zero.
Ma non è finita. Si dice che alcune funzioni finora esercitate dalle Province passeranno ad altri enti, fra cui Stato e Regioni. Ad esempio, i Centri per l’impiego potrebbero diventare parte di agenzie dello Stato o regionali. Nessuno dice che traslocare il personale in forza a questi uffici significa pagarli con i contratti regionali o statali (stipendio tabellare e trattamenti accessori), che costano di più rispetto a quelli degli enti locali.
Insomma, la conclusione è che è tutto da dimostrare se ci saranno effettivamente risparmi.
A proposito di funzioni, con la riforma rimarranno alle Province l’edilizia e la programmazione della rete scolastica e pianificazione in tema di trasporti e ambiente, oltre a controllare che non ci siano discriminazioni sui luoghi di lavoro in tema di pari opportunità. Per le città metropolitane, destinate a sostituire le Province, si aggiungono, tanto per semplificare le cose, infrastrutture, viabilità, mobilità, reti di servizi e sviluppo economico.
Apriamo una parentesi.
Con la riforma diventano città metropolitane Napoli, Milano, Torino, Bari, Bologna, Firenze, Genova, Venezia, Reggio Calabria e Roma, cui si uniranno Palermo, Messina, Catania, Cagliari e Trieste.
In Europa le città metropolitane sono venti in tutto. Ad esempio sono due in Francia, due in Germania e due in Spagna.
Solo in Italia saranno alla fine 15.
“Lascia fare – diceva Totò nella famosa scena della lettera nel film “Totò, Peppino e la malafemmina” – che non si dica che siamo provinciali”.
Sempre guardando oltre le Alpi si scopre che lo “svuota Province” va in controtendenza. In Germania le Province sono 400, 16 le Regioni e oltre 12mila i Comuni. Lì a non esistere non sono gli amministratori eletti dai cittadini, ma i prefetti nominati dal governo, come scrive in una nota stampa Antonio Saitta, presidente nazionale Upi.
Andiamo avanti. In Francia le Province sono 100 (26 Regioni e 36mila Comuni), mentre in Spagna hanno 17 Regioni, 50 Province e 8mila Comuni.
Ma noi siamo un laboratorio politico. E allora quando si dice che bisogna tagliare, si va ad incidere sulle Province dove la spesa pubblica vale l’1,27 per cento del totale, mentre possono continuare a dormire sonni tranquilli quelli che valgono il 60 per cento, cioè l’amministrazione centrale dello Stato, oppure le Regioni le quali 16 su 20 sono indagate a vario titolo dalla magistratura: dagli acquisti di giochini erotici, alle mutande verdi, allo champagne come se piovesse.
Dicevamo della Germania.
Se c’era una cosa buona nella riforma Monti (cassata per incostituzionalità perché il professore ha fatto l’errore di usare un decreto legge che vale solo per motivi di necessità e urgenza), era che la riduzione per accorpamento delle Province sarebbe andata di pari passo con il taglio di uffici periferici dello Stato (Prefetture, Questure,Tribunali …). Lì sarebbe stato il risparmio.
Invece si è preferito colpire un’istituzione che, come visto, non è un’anomalia nel panorama continentale e soprattutto un livello di espressione diretta dei cittadini.
Proprio la questione democratica pone più di un interrogativo.
Per Luigi Oliveri, che scrive su www.lavoce.it il 10 gennaio scorso, con il subentro dei sindaci al governo delle Province avviene di fatto un’espropriazione per i cittadini. Infatti, gli elettori di un sindaco, eletto per risolvere i problemi di una città, si trovano con la riforma Delrio ad incidere su questioni amministrative di altre realtà territoriali.
A questo aspetto altri se ne aggiungono che non convincono.
Va bene tagliare i costi della politica, ma pretendere che presidenti di Provincia e sindaci metropolitani possano governare territori vasti – e cioè assumersi responsabilità amministrative, penali e civili – come se svolgessero una comune attività di volontariato, francamente fa sorridere.
Non è comprensibile, inoltre, come un sindaco di Ferrara, eletto dai cittadini di Ferrara, possa farsi venire il mal di pancia per una linea bus, oppure per la riparazione di una scuola a Mesola, piuttosto che a Cento.
E questo vale tendenzialmente per ognuno dei 10 (massimo 16) sindaci che siederanno nei nuovi Consigli (sempre, per giunta, gratis). E, restando alla realtà ferrarese, gli altri 14 Comuni non rappresentati in Consiglio? Chi penserà a far sentire la loro voce?
Restando alla questione democratica, ci sono livelli decisionali che riguardano quisquilie come lo sviluppo economico e la situazione idrica del territorio, che tuttora sono gestiti prescindendo da ogni criterio democratico. Perché le decisioni delle Camere di Commercio o dei Consorzi di bonifica devono essere materia esclusiva di ristrette rappresentanze e non dei cittadini tutti?
Invece si è preferito azzerare uno spazio democratico, peraltro in un periodo nel quale la democrazia – come concetto, cultura, tentazioni populiste e numero di coloro che non vanno più a votare – non sta godendo di ottima salute.
Gira una battuta: fra Delrio e delirio c’è solo una “i” di differenza.
L’impressione è che quella “i” potrebbe presto presentare un conto ben più salato di quanto si pensi di risparmiare.

Pepito Sbazzeguti

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).


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