di Andrea Pinna
Continuano ad arrivare notizie gravissime sull’attacco militare indiscriminato da parte di Israele contro la popolazione civile palestinese di Gaza (iniziato l’8 luglio), mentre cerco di mettere ordine negli appunti frutto di un lungo colloquio con due giovani ferraresi, di ritorno da un viaggio in Israele e nei territori occupati della Palestina.
Jenin, Nablus, Ramallah, Hebron, Turkalem sono nomi di città palestinesi che ricorrono nel racconto dei miei interlocutori; nelle storie di quotidiane angherie, soprusi, umiliazioni, subiti dalla popolazione palestinese che vive sotto l’occupazione militare israeliana da oltre 50 anni. Il razzismo e il disprezzo dei coloni – loro stessi testimonianza vivente delle violazioni sistematiche dello Stato sionista rispetto ai deliberati dell’Onu – verso le comunità palestinesi, racconti che, per la mia generazione, rimandano alla condizione della popolazione nera nel Sud Africa dell’apartheid, ufficialmente introdotto nel 1948. Con due sostanziali differenze: il regime segregazionista sud africano (espressione della minoranza bianca, 14% ) viveva, almeno dal 1968 nell’isolamento internazionale e nell’embargo frutto della condanna dell’Onu (cui, è da evidenziarlo, non si associava il governo d’Israele); la maggioranza oppressa dei coloured – e questa è l’altra differenza importante – aveva una guida unita e lungimirante espressa dall’Anc e (benché a lungo detenuto) da una figura di statura internazionale quale Nelson Mandela che fu liberato solo nel 1990, dopo 27 anni di detenzione.
La “questione palestinese” – lo sottolineano con forza i miei interlocutori – non ha connotati religiosi (d’altronde cristiani, ebrei e musulmani da sempre caratterizzano la società interrazziale, interetnica e interreligiosa di quella terra), ma è un conflitto squisitamente politico. La stessa pretesa di Israele di definirsi come Stato ebraico, rimanda all’ identità religiosa e razziale, a una giustificazione storico-religiosa, di per sé pericolosa ed opinabile, di un diritto storico degli Ebrei (e solo di essi) di abitare quella terra. In realtà oggi Israele che, in base alla “legge del ritorno” concede ad ogni ebreo a prescindere dal paese di provenienza, la cittadinanza israeliana e molteplici facilitazioni per integrarsi nella nuova società, è abitato da ebrei provenienti da ogni angolo del mondo che non condividono né la lingua, né radici culturali, ma solo la religione e un nemico comune. Tuttavia solo il 40% dei 13 milioni di ebrei nel mondo, ha preso residenza in Israele. Oggi, di fatto, Israele che ama presentarsi al mondo come l’unica democrazia dell’area, è uno Stato razzista, iperarmato (anche di ordigni atomici), che pratica sfacciatamente l’apartheid, che viola quotidianamente la legalità internazionale, che gode della protezione incondizionata degli USA e del mainstream politico e mediatico occidentale, che ricatta tutto e tutti con la scusa del “terrorismo”: ieri di Arafat, oggi di Hamas, domani di qualunque altra sigla, per mettere a tacere il diritto degli oppressi a ribellarsi contro gli oppressori.
Contro questo stato di cose, mi dicono i due amici nella loro testimonianza e pur nell’estrema complessità del contesto, esistono anche nell’avvelenata società israeliana voci e forze (se pur minoritarie, discriminate, segnate come traditori) che si oppongono, che testimoniano, che agiscono contro la società dell’apartheid. Sia costoro, sia i palestinesi, sia i cooperanti dell’ISM (International Solidarity Movement), sia gli ex-militari di Breacking the Silence (Rompere il silenzio) ci chiedono una solidarietà fattiva: “parlate e spiegate quello che avete visto; boicottate e fate boicottare i prodotti e il business che provengono dalle zone occupate illegalmente; contrastate gli inviti, gemellaggi, convegni accademici, che provengano dall’establishment israeliano; fate sapere al mondo che il Tribunale internazionale dell’Aja ha sentenziato sull’illegalità del Muro, oltre settecento km.che corrono dentro i territori palestinesi e che non serve a proteggere “contro il terrorismo”, bensì ad estendere – anche tramite insediamenti illegali di coloni e dei presidi militari “a loro difesa” – i confini della “Grande Israele” e che è causa, tra le molte, di sofferenze inaudite degli affetti, di scuole ed ospedali che non si raggiungono in tempo, di case costruite col sudore e le mani dei nativi e che vengono demolite in pochi attimi dalle ruspe dell’esercito occupante…”
Faccio fatica ad appuntarmi i mille esempi di vita sofferta, di dignità calpestata (quattro diversi tipi di carte d’identità rilasciate dall’occupante ai palestinesi, per frantumarne la convinzione di essere un unico popolo), ma anche la solidarietà degli Internazionali (l’Ism) che accompagnano a scuola i piccoli palestinesi cercando di rendergli meno penosi i tanti check -point che rendono la scuola un miraggio, degli israeliani oppositori dell’oppressione sionista che – impegnandosi nelle numerose ong contro le discriminazioni e l’apartheid – perdono di colpo status e diritti, lavoro e reddito, assumendo una condizione molto simile a quella dei profughi e degli esuli.
Paradigmatica della condizione dei palestinesi sotto occupazione, sottolineano i miei intervistati, è quella nella città di Hebron ( ove vivono non più di 400 coloni “protetti” da 4.000 soldati) ove si viene visivamente incuriositi dalle reti appese sopra le strade della Città vecchia per impedire che i pedoni palestinesi – spiegano cooperanti che li accompagnano – siano investiti dai rifiuti che i coloni israeliani gettano dai loro appartamenti ; non è certo la peggiore delle vessazioni, ma è un simbolo immediatamente visibile del disprezzo razzista seminato a piene mani. Ed è proprio il razzismo, il senso di superiorità ed impunità che segna la società israeliana e l’isteria antiaraba, che costituiscono forse il crimine più grave inferto a quella terra martoriata, con lo scopo di ergere muri molto più spessi ed insuperabili di quelli di cemento armato, tra due popoli destinati dalla storia e dalla geografia a recuperare un modo radicalmente nuovo di convivere nel rispetto reciproco. Recuperare perché questa fu la loro condizione pacifica, prima che sionismo e antisemitismo (due fratelli gemelli) divenissero la mala pianta seminata contro quella millenaria civiltà multietnica.
Vorrei concludere il resoconto dell’intervista datami dai due giovani amici ferraresi, riportando stralci di una riflessione di Richard Falk, professore all’Università di Princeton, già rapporteur su Gaza per le Nazioni unite (apparsa sul Manifesto del 24 luglio).
“La narrazione occidentale dell’ultimo attacco israeliano su Gaza, iniziato l’8 luglio, è costituita da due elementi: in primo luogo c’è l’appoggio incondizionato al presupposto israeliano, secondo il quale è ragionevole e legittimo attaccare Hamas a Gaza, come reazione al lancio di razzi (manufatti rudimentali che raramente superano la ipertecnologica barriera antimissile d’Israele ndr) diretti a colpire le città israeliane.
“La narrazione occidentale dell’ultimo attacco israeliano su Gaza, iniziato l’8 luglio, è costituita da due elementi: in primo luogo c’è l’appoggio incondizionato al presupposto israeliano, secondo il quale è ragionevole e legittimo attaccare Hamas a Gaza, come reazione al lancio di razzi (manufatti rudimentali che raramente superano la ipertecnologica barriera antimissile d’Israele ndr) diretti a colpire le città israeliane.
“In secondo luogo, si è considerata tragica la violenza che provoca vittime innocenti e civili da entrambe le parti. Anche in questo caso si è dato per scontato che tale responsabilità sia di Hamas. Il New York Times in un editoriale, è riuscito a sintetizzare entrambi gli aspetti: ‘Non era concepibile che il primo ministro Netanyahu tollerasse i bombardamenti di Hamas. Né lo deve accettare…’
“La presentazione di quanto sta avvenendo nella Striscia, distorce completamente la natura dell’interazione fra il governo israeliano ed Hamas nei confronti di Gaza. Più di ogni altra cosa, risulta totalmente soppressa la narrazione palestinese, che interpreta questi eventi in modo total-mente opposto rispetto a quanto viene «messo in scena» dai media occidentali e dai leader politici pro Israele.
“Questa «sceneggiatura» ha un punto di partenza: il lancio dei razzi da Gaza su Israele. La narrazione palestinese — invece — insiste sull’importanza dell’assalto israeliano contro Hamas nel West Bank, deciso da Netanyahu in coincidenza con il rapimento dei tre ragazzi degli insediamenti israeliani, il 12 giugno scorso.
Da quel momento, è scattata l’accusa immediata contro Hamas per il crimine, senza mai aver trovato o presentato – neanche in questi giorni — uno straccio di prova che potesse giustificare le accuse, risultate, in seguito, «provocatorie». E nessuno sforzo è stato fatto per prendere in considerazione la posizione di Hamas, che ha sempre negato il proprio coinvolgimento nel crimine….
“E all’interno del contesto di questi terribili crimini commessi, non viene mai ricordata la continua disputa per l’occupazione illegale, la presenza degli insediamenti e degli insediati nei territori occu-pati; si tratta di elementi che provocano risentimento e rabbia, alimentati dalle quotidiane umiliazioni subite dai palestinesi. È troppo aspettarsi che Hamas, o qualsiasi altra formazione politica, possa ignorare tali provocazioni senza reagire in alcun modo? E quale altro modo rimane ad Hamas, come reazione, se non inviare i propri rozzi e primitivi razzi in direzione di Israele?
“La risposta è senza alcun dubbio contraria alle norme di diritto internazionale, ma quali alternative erano a disposizione di Hamas se non una supina acquiescenza? Israele — del resto — ancor prima dell’intensificarsi dei razzi lanciati da Gaza – ha cominciato a bombardare, con una strategia mirata a indurre una provocazione che potesse fornire a Tel Aviv la giustificazione per sferrare una massiccia operazione militare. Attacchi indicati da Israele con la spregevole metafora di «falciare l’erba», a rappresentare le indiscriminate incursioni punitive su Gaza.
“Altrettanto rilevante, benché mai menzionato nella ipocrita narrazione delle scusanti che circonda l’interpretazione della violenza attuale, è l’illegalità del blocco di Gaza, stabilito a metà del 2007.
Questo «particolare», viene considerato da esperti di diritto internazionale come una forma di punizione collettiva nei confronti di tutti gli 1.8 milioni di palestinesi (età media: 18 anni, densità per km/2 : 5.000 abitanti, contro i 365 d’Israele, ndr) Si tratta di una violazione dell’Articolo 33 della Quarta Convenzione di Ginevra, in base alla quale la popolazione civile palestinese dovrebbe essere protetta da Israele, in quanto potenza occupante. È questa una delle più flagranti violazioni da parte di Israele delle norme di diritto umanitario…
“Israele ha completamente monopolizzato il dibattito pubblico in Occidente, limitando la discussione al proprio diritto a difendersi dagli attacchi dei razzi. (…) Da un excursus sulle operazioni mili-tari precedenti, emerge un modello sistematico che dovrebbe creare sgomento in osservatori obiettivi che tengono a cuore pace e giustizia: ad un periodo di quiete, segue una provocazione israeliana, poi una reazione di Hamas, seguita da una massiccia offensiva israeliana, seguita a propria volta da espressioni di preoccupazione a livello internazionale. Appelli inizialmente ignorati, che invocano una tregua ed infine un cessate il fuoco.
“E in ognuna di queste occasioni, le proclamate dichiarazioni di Israele di voler dare fine alla capacità militare di Hamas di lanciare razzi, non si sono mai realizzate, sollevando il dubbio che i veri obiettivi prefissati da Tel Aviv siano in realtà stati ottenuti, ma mai resi pubblici. (…) Gaza oggi sta subendo violenze che non hanno pari per morti e distruzione. Nonostante questo, Hamas viene accusato di atti di «terrorismo». Viceversa il terrorismo di Stato di Israele viene descritto come legittimo e ragionevole. In tale contesto, poco riconosciuto, ogni categoria legale e morale risulta inadeguata per descrivere quanto sta avvenendo.
“Molti si chiedono perché Hamas continui a lanciare razzi contro Israele. Esiste una risposta razionale, convincente, nell’annotare che la resistenza ad una occupazione straniera costituisce un impulso politico fondamentale. Hamas, come sembra, ha acquisito una tecnologia di razzi più sofisticata e in futuro potrebbe minacciare davvero Israele. Nel caso di Gaza — invece — la vulnerabilità è evidente, ogni giorno; eppure si continua a mostrare l’appoggio a Israele per la guerra e reiterare il pio invito a limitare le sofferenze della popolazione civile.
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