Animula vagula blandula*
confessione di un daimon
“Quando tutte le anime si erano scelte la vita secondo ciò che era loro toccato, si presentarono a Lachesi. A ciascuna ella dava come compagna il daimon che quella si era assunto, perché le facesse da guardiano durante la vita e adempisse il destino da lei scelto. E prima di tutto il daimon conduceva l’anima da Cloto: sotto la sua mano e al volgere del suo fuso, il destino prescelto viene ratificato. Dopo Cloto il daimon conduceva l’anima alla filatura di Atropo per rendere irreversibile la trama del suo destino. Di lì, senza voltarsi, l’anima passava davanti al trono di Necessità.”
[Platone, Repubblica, X, 620 d-e]
cendere o salire – non saprei dire, dipende dai punti di vista, o dalla vostra filosofia, ma io di queste cose non mi sono mai curato, per me non c’è alcuna differenza tra scendere e salire – salire o scendere mi è sembrato un lampo, una frazione di tempo, o neppure questo, il tempo non sono riuscito ad avvertirlo. Per me il tempo non passa, non esiste, perché io vengo prima del tempo, e durante e dopo il tempo. Io sono prima ancora di nascere e dopo ogni vostra morte. Io sono in eterno. Devo solo svolgere il mio incarico, assolvere il mio compito: quando me lo ordinano io scendo (o salgo) là dove mi è stato indicato. Faccio il mio dovere, ma non è neppure un dovere, questa parola non ha nessun significato per me, né mi diverto a farlo, perché neppure il piacere io conosco. Salgo (o scendo) seguendo la mia natura, perché è questo che da sempre la natura ha apparecchiato per me, ciò che il supremo essere ha disposto.
Platone nella Repubblica parla bene di me, il daimon, o se volete, il genio, l’ispirazione, il soffio che guida ogni destino verso il suo compimento. Come tutte le entità a voi invisibili mi sono guadagnato molti nomi, qualcuno mi ha voluto anche con due ali sulle spalle e mi ha chiamato angelo. Platone non si discute, è tutto vero, o almeno verosimile quello che di me lui dice. Ma dimentica tanto altro. Dimentica l’ansia e la fatica del mio eterno lavoro, e la noia e il buio dell’attesa, la breve ebrezza di un trionfo e il masticare amaro di una sconfitta. Io, il daimon, devo accompagnare, devo suggerire; e interrogare, istillare dubbi, infondere coraggio. Devo orientare l’anima del corpo che mi ospita verso il bersaglio già scritto dal principio. Già scritto, ma che occorre riconoscere, incarnare, compiere. E non è cosa semplice, nient’affatto, è una faticaccia come direste voi.
Ricordo – sì, anche io ho questa cosa che voi chiamate memoria, che è in ogni essere e che lo distingue dal non essere – ricordo che ero in fila con gli altri. Una fila lunghissima sapete, come a voi capita andando a vedere una mostra di un pittore eccelso. Ero in fila e aspettavo, aspettavo di essere chiamato. Se la mia natura assomigliasse alla vostra – ma proprio questo devo fare, fingere di essere come voi, come posso altrimenti spiegare, raccontare, farmi capire? – immaginatemi dentro questa fila senza termine e senza principio, lassù, in alto, come su un ponte sopra tutte le città del mondo. Immaginatemi in una qualche forma e sostanza, anche se io non aderisco a nessuna forma, o a tutte, e contengo tutte le sostanze e le possibilità. Pensate voi a darmi una forma e una materia, un volto se volete. E datemi un corpo, un sentimento. Immaginatemi mentre aspetto, aspetto per un tempo infinito, e parlo sottovoce con i miei vicini, e cerco di guardare là in fondo dove inizia la fila – non c’è un inizio ma voi dovete immaginarlo – dove Lachesi sta seduta nel suo scranno. La prima delle tre Moire finalmente mi guarda. E io fremo e prego e spero di essere chiamato.
Dopo – non so dare una durata a quel dopo – quando è arrivato il mio turno ho provato un’emozione fortissima (anche se siete voi a immaginare questa emozione). Mi succede sempre così quando è l’ora di partire, di scendere o salire fino alla mia meta. Ecco, finalmente sono in cima, il primo della fila, e davanti a me, posso quasi toccarla, in cima alla fila opposta, la prima dell’infinita fila che fronteggia la mia, sta la predestinata. Così ho guardato quella piccola anima, quell’animuccia leggera e spaurita, proprio lei avrei dovuto accompagnare passo passo, dentro un corpo e dentro la vita.
Questa è una confessione: voglio, devo essere sincero: mi aspettavo qualche cosa di meglio, di più grande, di meraviglioso. Invece, da un’anima così male in arnese, anche con tutto il mio impegno, con tutta la mia fede, con tutta la mia esperienza non avrei potuto ricavare granché. Se anche le anime sono infinite perché a me doveva capitarne una di scarto? Ma già Cloto, la seconda sorella, filava il suo fuso, scorrendo tutta la vita terrena. e Atropo conduceva la minuscola anima alla filatura per deciderne il termine e rendere irreversibile la trama del suo destino. Ecco, ora il daimon e la sua anima gemella sono finalmente sposi. A me spetterà condurre quell’anima al compimento del destino scritto per lei.
Ecco, sentite questo grido acuto? Non conosco i sentimenti, non so se sia un urlo di dolore oppure la gioia, la sorpresa di venire al mondo. Per questo bambino è la prima volta, mentre per me non c’è e non c’è mai stata una prima volta. Io sono dal principio, da prima del principio. Io conosco tutto e questo piccolo non conosce nulla. Lui è nuovo e ignorante, io sono antico e sapiente. Eppure non credete che io parta avvantaggiato. E’ sempre la stessa lotta che combatto. E mentre salgo, mentre scendo dentro questo bambino, mentre saluto con un cenno d’intesa la sua animuccia tremante, in questo momento sento una cosa a cui io non so dare un nome, ma che voi chiamate paura e tenerezza. Non so ancora se riuscirò nell’impresa, sono un semplice daimon, ma prometto, giuro: come un soldato fedele, come una mamma premurosa, come un artigiano innamorato del suo mestiere, come un amico fraterno, come un amante appassionato, lo prometto e lo giuro. Scorterò questa animuccia durante i suoi giorni, vigilerò sul suo sonno e sui suoi sogni, sarò accanto a lei, senza distrarmi, nella buona e nella cattiva sorte, per orientare la sua freccia nel centro esatto del bersaglio.
* Animula vagula blandula (Animuccia tenera e smarrita) è il primo verso di una breve lirica dell’imperatore Publio Elio Traiano Adriano. Adriano si prepara a congedarsi dalla sua anima e si rivolge ad essa salutandola, quasi come fosse sulla soglia che separa la vita dalla morte e si apprestasse a separarsi da una cara compagna. Gli splendidi bersi sono anche nel capolavoro di Marguerite Yourcenar “Memorie di Adriano”.
Un’altra nota: questo mio breve racconto, dettato da un ricordo di Platone, è anche figlio della lettura di alcuni libri di James Hillman, e in particolare a “Il codice dell’anima” edito in Italia da Adelphi.
Racconto inedito, proprietà dell’autore.
Per leggere tutti gli articoli, saggi, racconti, divagazioni della rubrica FANTASMI clicca [Qui]
Sostieni periscopio!
Francesco Monini
Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it