Il 28 gennaio del 1944 il cielo terso di Ferrara veniva improvvisamente attraversato dalle fusoliere degli aerei alleati. Si trattava del secondo bombardamento sulla città e il fischio dell’allarme anti aerea violentava così il silenzio delle vie del centro.
Alcune bombe arrivavano anche sulle case private radendole al suolo, altre rompevano solo i vetri delle finestre, come nell’abitazione di Nina.
– Vai tu Nina, io non riesco, devo prendere servizio tra venti minuti, ma ho la gamba immobilizzata, deve essere entrata una scheggia proprio lì sopra il ginocchio. Prendi le chiavi, sono tre grossi mazzi, le trovi dentro al mio comodino in camera da letto –
– Va bene papà, vado io, prendo la tua bicicletta. Tu stai qui, non ti preoccupare, ci penso io -.
Al papà di Nina, Giuseppe, per tutti Beppino, guardia carceraria scelta più anziana, in servizio presso la casa circondariale di via Piangipane a Ferrara, solo a lui, il direttore aveva demandato il compito di poter aprire le celle dei detenuti nel caso di un bombardamento, per evitare che i prigionieri rimanessero intrappolati come topi in gabbia e così poter trovare protezione nel rifugio sistemato dietro il cortile del penitenziario.
Nina, venti anni appena compiuti, si precipitò giù dalle scale, prese la sua bicicletta e in un battibaleno arrivò alle carceri. Una bomba aveva già colpito il portone principale.
Non c’era nessuno di guardia, e Nina entrò scavalcando il corpo senza vita di quattro persone riverse per terra. C’era polvere dappertutto mescolata alle grida dei detenuti che chiedevano di poter uscire subito da quell’inferno.
La ragazza iniziò ad aprire freneticamente una dopo l’altra tutte le venti porte delle celle ancora occupate, quando un altro boato fece tremare tutto l’edificio: una seconda bomba aveva colpito anche il braccio dei detenuti politici.
Una pioggia di calcinacci scese dall’alto e in breve tempo coprì ogni cosa.
Nina impietrita dal terrore rimase ferma sotto il volto di una porta, mentre i prigionieri cercavano di porsi in salvo scavalcando travi rotte e brandelli di muro.
Dopo alcuni minuti un silenzio irreale scese dappertutto.
Nina si guardò intorno e vide solo macerie e altri morti.
I prigionieri sopravvissuti si erano immediatamente dileguati.
Ne era rimasto uno solo e, seduto proprio di fronte a lei a braccia conserte, la stava guardando con occhi spauriti.
– Come mai non sei scappato anche tu? – chiese Nina con un filo di voce – Non hai paura delle bombe?-
– Non saprei proprio dove andare – disse il prigioniero con accento chiaramente non italiano.
– Ma non sei di Ferrara…-
– No, sono tedesco –
– E come mai sei qui? –
– Sono un traditore, non ho obbedito nel corso di una rappresaglia all’ordine del comandante del plotone di esecuzione di cui facevo parte; mi sono rifiutato di sparare su donne e bambini –
Nina stava per chiedere altre spiegazioni quando sentì che il soffitto sopra la loro testa stava per crollare e con tutta la voce che aveva in corpo gridò:
– Via, via fuori da qui, dai… usciamo! –
In un attimo si trovarono all’aperto.
Sopra le loro teste si sentiva distintamente il rumore di “Pippo”, cosi veniva chiamato il pilota degli aerei anglo-americani.
– Dobbiamo toglierci subito di qua – urlò Nina – Sai andare in bicicletta? –
– No! –
Con fare deciso Nina afferrò la bici del padre.
– Dai, monta qui sul cannone! Pedalerò io, tanto non sei sicuramente più pesante di mio fratello… ah, come ti chiami? –
– Mi chiamo Felix –
– Bene Felix, cerca di farti leggero, adesso dovremo fare alcuni chilometri messi così!
E poi invece di continuare a fissarmi le gambe, guarda avanti! E dimmi se ci sono buche, se foriamo siamo fottuti! –
Spingeva su quei pedali Nina con tutta la forza data dai suoi venti anni e dalla paura.
Le vie della città erano completamente buie, così come le case, solo a sprazzi illuminate dalla luce dell’esplosione delle bombe e dai fari della contraerei.
Così vicini su quella bicicletta, i suoi capelli sfioravano il viso di Felix e il suo petto ansimante spingeva sulla schiena del prigioniero.
Poteva sentire il suo odore.
Sapeva di buono.
– Adesso viene il difficile – disse Nina mentre si lasciavano alle spalle le ultime case della città – Dobbiamo arrivare ad un fienile appena fuori di qua. Ci abitavano i miei nonni, ma adesso non ci sono più, lì potrai stare per un po’, ma per arrivarci dobbiamo attraversare un tratto all’aperto, i cecchini non aspettano altro. La strada è fiancheggiata da una scolina, se sentiamo sparare o arrivare un aereo ci dobbiamo buttare dentro, anche se c’è l’acqua! Mi hai capito bene? –
– Si, ho capito – rispose Felix.
Certo era del tutto assurdo, ma in cuor suo le sembrava già di sentire qualcosa per quel ragazzo! Subito dopo però pensava che questa sensazione fosse piuttosto dettata dal desiderio fortissimo di risentire emozioni quasi del tutto dimenticate a causa della guerra.
La guerra uccideva il corpo ma soprattutto l’anima delle persone.
Nina però i suoi venti anni non voleva rassegnarsi a lasciarli ai fascisti, e nella sua mente spesso fantasticava sul momento in cui finita la guerra, avrebbe potuto andare il sabato pomeriggio in piazza con le amiche per farsi corteggiare dai ragazzi.
Continuava a curare il suo aspetto come dovesse incontrare da un momento all’altro qualcuno che la avrebbe portata via da quell’orrore. Bella era bella, ma soprattutto aveva dipinto sul suo viso una fierezza altera. Non aveva paura di nulla, neppure di rispondere per le rime ai diversi ragazzotti in camicia nera che usavano la propria arroganza per impressionare le ragazze, per provarci.
Stava Nina pensando a tutto questo quando sentì in lontananza l’avvicinarsi del sinistro rumore del motore di “Pippo”.
Fu un attimo e l’aereo era già sopra le loro teste.
– Buttati… buttati Felix… svelto! –
Felix balzò via con un salto e Nina si rovesciò dentro il fossato assieme alla sua bicicletta.
Per fortuna la scolina era senza acqua.
Si ritrovarono uno accanto all’altro vicini in quella scura notte di bombardamenti.
Nina cercò nel buio gli occhi di Felix e vide in un attimo in quegli occhi così buoni tutto quello che la guerra le aveva tolto.
Si avvicinò e senza dire una parola lo baciò.
*******
– Facciamo piano – sussurrò Nina spingendo il portone del fienile – Vieni su, vedi quel baule là in fondo? Sotto c’è una botola; aprila e vedrai una scaletta che porta ad una stanza; c’è anche un letto. Mentre penso a cosa fare di te, potrai stare qui. Tu però non devi uscire per nessun motivo. Ci sono spie dappertutto. Ti porterò io da mangiare ogni tre giorni. Dal carcere avranno già segnalato la tua assenza. Se ti trovano sei morto! –
– Non so cosa dire – balbettò Felix – non mi conosci neppure…-
– Sst! non mi interessa, mi basta sapere cosa hai fatto, e quando eravamo ancora nel carcere non sei scappato… poi i tuoi occhi, occhi sinceri… no, non mi sbaglio su di te… sei l’unico regalo di questa terribile guerra! –
Nina lo strinse forte a sé, come si fa con le persone care quando è tanto tempo che non ci si incontra o non si è sicuri di poterle rivedere l’indomani e uscì dal fienile.
******
Fuori faceva un freddo cane, ma Nina quasi non lo avvertiva.
Prese la sua bicicletta e per la prima volta dall’inizio della guerra si sentiva felice.
Felice!
Una parola che non avrebbe mai immaginato di poter solo anche lontanamente pensare in mezzo a tutto quel fango.
Adesso spingeva ancora più forte su quei pedali e quasi morsicandosi le labbra per provare a se stessa che era tutto vero, a voce alta si ripeteva continuamente:
– Nina testa sulle spalle! Nina piedi per terra! Non può essere, non può…-
Ma dentro il suo cuore sentiva che, nonostante tutto, forse era arrivato quello che fino a quel giorno aveva solo immaginato.
E quella notte buia senza stelle adesso le sembrava meno scura.
Anche se la vita fosse finita qui, pensava Nina, dopo quel bacio era la guerra ad aver perso con lei la sua battaglia decisiva.
Nina per più di un anno una volta alla settimana con la sua bicicletta andò a trovare
Felix, portandogli cibo e vestiti puliti.
Rimaneva là con lui l’intera notte.
Quel rifugio era tutto il loro mondo, separato dal resto, sembrava quasi a star là sotto che la guerra non ci fosse mai stata.
Dopo aver fatto l’amore, parlavano per ore su come sarebbe stato bello vivere in un paese libero, sognavano un futuro insieme, in una casa tutta loro.
Poi, poco prima dell’alba, Nina prendeva la via del ritorno in sella alla sua bicicletta.
Radio Londra da settimane oramai dava per certa la liberazione del nord Italia prima della fine di aprile.
La mattina, del 23 aprile del ‘45, Nina si alzò presto per andare a prendere il pane.
– Ha sentito? I tedeschi si stanno ritirando, oltre il Po, setacciano una ad una le case di campagna in cerca di cibo, e non solo… quei bastardi! – le disse a voce alta la moglie del panettiere.
A sentir tale frase Nina trasalì, prese in fretta la sporta del pane sul bancone, inforcò la sua bici e si diresse più velocemente possibile verso il fienile.
Mancava ancora un po’ quando le parve di scorgere un gruppo di persone proprio fuori la corte del fienile, tutte intente a fare non si capiva bene che cosa.
Con il cuore in gola aumentò il più possibile l’andatura.
Purtroppo appena arrivò, poté constatare la fondatezza dei suoi timori. Vide Felix con le mani legate dietro la schiena attorniato da una decina di militari tedeschi, e due fascisti che, con sua grande sorpresa, stavano discutendo animatamente con suo padre!
– Perché non lo avete consegnato subito! Dovreste sapere chi è… avete idea vero che cosa avete fatto o no? Avete protetto un traditore della patria! –
Urlava con gli occhi fuori dalla testa, il più vecchio dei due fascisti, agitando contro il padre di Nina il suo manganello.
– Ma io non ne sapevo nulla, dovete credermi signore! – rispose con tono quasi supplichevole Giuseppe evitando di incrociare lo sguardo di Nina che esterrefatta, quasi paralizzata dal terrore, ascoltava incredula le parole di suo padre.
– Ah si, allora ci credete dei coglioni… non è vostro il fienile? e cosa ci fa vostra figlia qui?
Per fortuna a questo mondo c’è anche della brava gente… il vostro vicino per esempio ci ha chiaramente detto che da mesi vostra figlia passava allegramente le notti con questo maiale! Allora non avete nulla da dire adesso? –
– Le giuro che ero all’oscuro di tutto! Io ho sempre goduto della totale fiducia dei miei superiori, se lo avessi saputo io stesso lo avrei riportato in galera! Diglielo anche tu Duccio! – disse il padre di Nina al più giovane dei due repubblichini figlio di un suo collega di lavoro.
Nina, quasi paralizzata dal terrore, non riusciva a spiccicare una sola parola.
Gli occhi pieni di lacrime impedivano per sua fortuna di vedere bene l’espressione dei visi intorno a lei e in particolare quello di suo papà.
Il suo sguardo passava velocemente dall’immagine di Felix legato, a quella di suo padre in combutta coi fascisti, e non sapeva quale delle due scene le stesse arrecando maggior dolore.
Quello che dai gradi sembrava il comandante dei soldati tedeschi urlò alcune parole ai due italiani.
– Cosa ha detto? – chiese Duccio al suo compagno più anziano.
– Ha detto che devono procedere… non hanno più tanto tempo, gli inglesi potrebbero arrivare da un momento all’altro –
Ma appena il militare fascista più anziano ebbe finito di tradurre, il padre di Nina, mettendosi tra Felix e il plotone di esecuzione tedesco, si rivolse ai due fascisti dicendo – No fermi tutti… è vero ho sbagliato, ma desidero aver la possibilità di riscattare il mio onore… sparerò io a questo cane! – e così dicendo estrasse la pistola d’ordinanza puntandola su Felix.
Nina allora, stravolta dalla follia di quello a cui stava assistendo, provò con la forza della disperazione a correre verso suo padre per cercare di fermarlo, ma sentì una mano, la mano di Duccio, trattenerla forte per i fianchi.
Mentre avvertiva che ogni ragione di vita stava per abbandonarla, si levò in lontananza un suono sconosciuto, una musica del tutto nuova: era il suono delle cornamuse dell’esercito scozzese che faceva il suo ingresso nella città finalmente liberata dai nazi-fascisti!
Visto il rapido precipitare degli eventi il comandante dei tedeschi con un gesto secco fece capire ai due in camicia nera che a lui stava bene la proposta del padre di Nina e velocemente radunati i suoi, si diresse verso l’argine destro del fiume Po’.
– Va bene allora… ma dai, fa presto! – disse il fascista più anziano a Giuseppe.
– Papà, papà noooooo, ti prego non farlo! – furono le ultime parole di Nina prima di lasciarsi andare a terra priva di sensi.
Poi uno sparo, un unico sparo, un rumore secco, sordo, mise a tacere ogni discussione.
Il corpo di Felix cadde riverso sulla pancia, mentre una bava rossastra gli usciva dalla bocca.
Nina intanto si era ripresa, in tempo per vedere la ragione della sua vita andarsene per sempre.
– Ben fatto Giuseppe! Adesso mi sa che sia meglio non tornare in città vero? Dai, Duccio prendi la macchina, andiamo via da qui –
– Si, si. Voi andate pure. Penso io a sistemare tutto – disse con un filo di voce Giuseppe.
******
Il suono solenne delle cornamusa in lontananza riempì il silenzio innaturale su cose e persone caduto tutto attorno al fienile.
Appena lasciati soli, Giuseppe si avvicinò alla figlia mostrandole la pistola.
– A salve! Non ho mai, in tutta la mia vita, usato pallottole vere…-
Nina avrebbe voluto, ma non riuscì a cambiare così repentinamente la sua espressione di incredulità mista a quella di assoluto dolore per quello che aveva fino a quel momento visto.
Alla fine serissima disse
– Ma cosa dici papà! Vuoi dire che Felix…-
– Si Nina, sono salvo – disse Felix adesso in piedi dietro le sue spalle – Ci sono cascati, tuo padre mi ha salvato. Approfittando di un attimo di distrazione dei soldati, mentre mi legava i polsi, mi ha messo in bocca questa sacca rossastra dicendo di fidarmi, che sarebbe andato tutto bene, che non sarei morto.
Poi il buon Dio ci ha dato una mano…-
A quelle parole il viso di Nina si lasciò andare allo stesso tempo al riso e al pianto, mentre abbracciava e baciava dappertutto il suo Felix.
– È finita per sempre la notte dei bombardamenti per la città, è finita la notte scura per tutti noi –
disse Nina e mentre osservava adesso il cielo stellato, le venne alla mente che in tutti quei mesi di guerra, le stelle le aveva sempre salutate ogni sera con un bacio, mentre si tratteneva in strada sempre qualche minuto in più prima di chiudere il portone di casa, per poi andare a dormire, come se dovesse aspettare qualcuno. Qualcuno che da lontano sarebbe prima o poi venuto a portarla via da quell’inverno.
5 gennaio 2022
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Roberto Paltrinieri
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