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Dal 9 al 13 novembre si svolge a Firenze il prossimo convegno ecclesiale italiano. Una convincente analisi del direttore della rivista bolognese “Il Regno”, Gianfranco Brunelli, fila liscia come l’olio e merita un po’ di tam tam, pur con tutti i limiti di una sintesi soggettiva.
“I vescovi e l’Italia”, questo il titolo della riflessione, ripercorre quarant’anni di storia ecclesiale italiana lungo quattro pontificati.

Firenze è il quinto appuntamento nazionale dopo Roma (1976), Loreto (1985), Palermo (1995) e Verona (2006). Programmi pastorali, cattolici, società e politica, si intersecano in questo itinerario di quattro decenni, mettendo in luce uno spicchio d’Italia su cui non è tempo perso soffermarsi. I convegni nazionali sono da sempre un momento di verifica degli orientamenti pastorali della Conferenza episcopale italiana (Cei), posti significativamente a metà strada di ogni decennio.
L’appuntamento romano a metà degli anni ’70 si celebra sulla spinta di una riflessione che trova nel referendum sul divorzio (maggio 1974) un tornante storico: l’Italia non è più un paese cattolico. Per la Chiesa significa una perdita di incidenza sulla società italiana, che pone un urgente problema di evangelizzazione. I principali artefici di questa linea furono monsignor Enrico Bartoletti (segretario Cei) e Paolo VI.
Papa Montini spinse perché la parola d’ordine fosse: evangelizzazione. Così i documenti Cei degli anni ’70 portano praticamente tutti questo termine nel titolo, fino al convegno di Roma del 1976, “Evangelizzazione e promozione umana”.
Un filo conduttore che come strumenti aveva, accanto alla Conferenza dei vescovi, l’Azione cattolica (Aci), rimodulata sull’intuizione, tra gli altri, di Vittorio Bachelet della “scelta religiosa”, ossia del suo riposizionamento su un terreno più pastorale ed ecclesiale. Era la volontà di affrancare la principale associazione del laicato cattolico dagli anni pacelliani della politica diretta, della falange cattolica, come è stata definita dagli storici, e dell’immediato serbatoio elettorale per il partito cattolico.
Da un lato, la necessità di rianimare la comunità cristiana innanzitutto su un terreno di educazione e di formazione delle coscienze, anche come lineare conseguenza del concilio Vaticano II. Dall’altro, si voleva porre fine all’ambizione geddiana di controllare direttamente il partito di riferimento.
L’idea era di una Dc fuori dalle secche clerico-moderate, o noguelfe, senza però archiviare l’unità politica dei cattolici.
Il punto però stava in un consenso non più basato esclusivamente sull’esteriore professione di fede, ridotta a criterio sociologico di appartenenza, ma sulla tenuta ed efficacia in sé della proposta politico culturale del partito. Qui sta, probabilmente, anche tutto il peso della riflessione sul tema della laicità di Giuseppe Lazzati (storico rettore della Cattolica di Milano).
Se sul piano ecclesiale compito dell’Aci era una particolare declinazione dell’evangelizzazione, per la formazione di coscienze laiche adulte in grado di animare cristianamente la città dell’uomo, alla Democrazia cristiana veniva riservato quello, distinto, della tenuta di un quadro politico-istituzionale e delle libertà civili, pericolosamente squassato dall’ondata del terrorismo e della strategia della tensione e, simultaneamente, dai contraccolpi della modernizzazione, specie nell’accelerazione dal ’68 in poi. Unità politica dei cattolici, come scrive Brunelli, che da principio clerico-dottrinale viene declassato a politico-prudenziale.
Al disegno di Paolo VI vengono però a mancare progressivamente i riferimenti.
In ambito ecclesiale, se con la prepolitica scelta religiosa si cerca, non senza fatica e tensioni con la gerarchia, di preservare il contenitore dell’Aci dai convulsi mutamenti in corso nella società italiana, le Acli decidono con la storica “scelta socialista” di andare controcorrente. Il dissenso si articola ulteriormente con le posizioni e le voci di gruppi e comunità di base, sulla base di una lettura del concilio progressisti-conservatori, che oggi si può definire datata.
Il risultato fu che dissenso e spaccatura entrarono comunque nel recinto della Chiesa italiana.
Se l’intuizione di Bartoletti, autentico regista del convegno del 1976, della necessità di un cattolicesimo non più anagrafico ma di convinzione; del bisogno perciò di un’evangelizzazione che partisse dal basso e dalle coscienze prima ancora che dalle strutture; di una lettura non necessariamente negativa della secolarizzazione; e quindi di una conseguente riorganizzazione ecclesiale, era una lettura forte della realtà, ciò non impedì che dentro la stessa Chiesa prendesse piede un’altra impostazione.
Una risposta ai mutamenti ad extra e ai fallimenti ad intra ecclesia che richiedesse maggiormente il volto più netto ed antagonista del movimentismo cattolico, di fronte a ciò che veniva letto come un’aggressione all’identità cristiana del Paese.
Sono gli anni nei quali il laicato cattolico italiano si spacca sulle tesi della mediazione culturale (Aci) e della presenza (Comunione e Liberazione). Tanto la prima è letta come formula involuta, sintomo di incertezza e debolezza che demanda alle singole coscienze un difficile esercizio di discernimento di fronte alle questioni che spesso reclamano, nella perdurante contingenza italiana, la necessità di fare numero (fino all’accusa di protestantesimo piovuta sull’allora presidente nazionale dell’Aci, Alberto Monticone), quanto la seconda è percepita come una riposta più comprensibile e netta, di fronte alle sfide etico-sociali del tempo.

Così si arriva agli anni ’80 e si comprende come, alla luce di questo clima di divisione, la parola d’ordine dei programmi Cei diventa: comunione. “Comunione e comunità” è infatti il titolo del documento dei vescovi del 1981, accompagnato dalla famosa nota “Chiesa italiana e prospettive del Paese”, dello stesso anno.
Ulteriore articolazione del quadro laicale si ha nel frattempo con il consolidamento sulla scena sociale del volontariato. Se la cultura più movimentista assume un approccio strumentale verso il partito di riferimento (e verso la politica), sollecitato a tutelare spazi e istituzioni cattoliche, quella del volontariato si contraddistingue per un approccio decisamente più prepolitico, se non di disinteresse.
In questo contesto si celebra il convegno di Loreto (1985). Il nuovo pontefice è Giovanni Paolo II e nel 1986 diventa segretario della Cei Camillo Ruini, che ne fu successivamente presidente dal 1991 al 2007.
Proprio a Loreto papa Wojtyla chiese un netto cambiamento di rotta. In quel secondo convegno ecclesiale, intitolato significativamente “Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini” (chiarissima eco delle divisioni), famoso resta il passaggio del discorso del pontefice venuto dalla Cortina di ferro: “Le strutture sociali siano o tornino a essere sempre più rispettose di quei valori etici in cui si rispecchia la piena verità sull’uomo”.
Ogni pluralismo doveva passare in secondo piano rispetto a questa priorità. Riprende fiato il tema dell’evangelizzazione con i nuovi orientamenti pastorali inaugurati da “Evangelizzazione e testimonianza della carità” (1990).

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).

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