Né cattivi né primitivi: cronaca della criminalizzazione dei No Tav
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Complesso di ‘Nimby’, acronimo che sta per: Not In My Back Yard. Wikipedia lo descrive come “atteggiamento che si riscontra nelle proteste contro opere di interesse pubblico o non, che hanno, o si teme possano avere, effetti negativi sui territori in cui verranno costruite, come ad esempio grandi vie di comunicazione, cave, sviluppi insediativi o industriali, termovalorizzatori, discariche, depositi di sostanze pericolose, centrali elettriche e simili. L’atteggiamento consiste nel riconoscere come necessari, o comunque possibili, gli oggetti del contendere ma, contemporaneamente, nel non volerli nel proprio territorio a causa delle eventuali controindicazioni sull’ambiente locale”.
Naturale dunque che l’etichetta venga pregiudizialmente appiccicata al Movimento No Tav della Val di Susa dai critici di varia estrazione: sono montanari primitivi, nemici del progresso, che protestano perché non riescono a guardare al di là della propria valle. E attraverso questa de-politicizzazione della protesta si tenta, all’inizio, di renderla innocua. Poi però arrivano gli anni 2000, il movimento dà prova di capacità tutt’altro che primitive. Gli attivisti elaborano dati e acquisiscono elementi conoscitivi e quindi costruiscono un sapere differente: “i No Tav hanno ragione perché così dicono i risultati che hanno raggiunto gli studi tecnico-scientifici degli esperti”, una mole di lavori e di conoscenze che difficilmente si ritrova nelle altre esperienza di protesta sociale. Mettono in pratica un modello alternativo di progresso e portano avanti pratiche di partecipazione dal basso, facendosi sostenitori di una visione non convenzionale della democrazia. È quello che è accaduto con l’“acquisto collettivo dei terreni” nei pressi delle aree di cantiere o con la “Libera Repubblica della Maddalena”, il presidio permanente a Chiomonte: da maggio a giugno 2011, quando viene sgomberato dalle forze dell’ordine, è stata “un’esperienza importante di due mesi di autogestione”. E quindi bisogna cambiare strategia, non più il muro di gomma che finge di ignorare la protesta, ma la criminalizzazione e la creazione di un nemico, con la comparsa della categoria del ‘terrorismo’. Cattivi sono personaggi sovversivi, affiliati a gruppi insurrezionalisti variamente nominati – anarchici, black bloc, attivisti dei centri sociali – sempre pronti a fronteggiare lo Stato agendo attraverso forme illegittime: questi ‘professionisti della violenza’ sarebbero stati in grado di trascinare nelle loro modalità d’azione i valligiani più primitivi. Se non fosse che anche questa seconda narrazione viene neutralizzata, attraverso “la conoscenza reciproca e i processi di socializzazione e solidarietà” che il movimento mette in atto anche grazie alla sua intergenerazionalità.
A parlare mercoledì pomeriggio nella sala al terzo piano di Palazzo San Crispino – sede della libreria Ibs+Libraccio – è Alessandro Senaldi, autore di ‘Cattivi e primitivi. Il movimento No Tav tra discorso pubblico, controllo e pratiche di sottrazione’ (Ombre Corte, 2016), scritto nella doppia veste di ricercatore sociale e di militante, già nel Laboratorio Crash di Bologna e ora per lo più nella galassia dei movimenti per la casa. Sì perché per descrivere e analizzare un conflitto che dura ormai da più di venticinque anni l’autore adotta un approccio etnografico ed esplicitamente militante, facendo ricorso alla propria esperienza di attivista. “Ci sono due verità – continua Senaldi – quelli che considerano la Tav un’opera necessaria e i No Tav che sono contrari”. “Ho voluto dare spazio ai senza voce”, racconta il ricercatore, attraverso l’osservazione diretta, o meglio “partecipante”, delle forme organizzative e delle azioni del movimento e “una trentina di interviste”, che senza quella partecipazione e quindi la creazione di un rapporto di fiducia con gli attivisti sarebbero state difficili da realizzare. Insomma non aspettatevi un saggio accademico asettico e ‘politically correct’, ma un vero e proprio contro-discorso e una contro-narrazione dal punto di vista dei cattivi e primitivi montanari.
Il testo poi analizza anche “i processi di criminalizzazione e le tecniche di controllo”, quello che Foucault avrebbe chiamato “disciplinamento”, come spiega Senaldi, attraverso i quali i mezzi d’informazione e gli attori riconducibili a quella che l’autore nel testo definisce “compagine istituzionale” o “statale” (forze dell’ordine e magistratura) provano a screditare e delegittimare la mobilitazione valsusina. Ne risulta una narrazione della “dinamica fra il livello repressivo, le forme di resistenza messe in atto dal movimento e il cambiamento che tutto ciò comporta”.
A questo proposito Alessandro Senaldi parla di “diritto alla resistenza” e di “azioni radicali”: “non è lo stesso tipo di violenza di una rissa al bar, la violenza politica è diversa proprio perché c’è quell’aggettivo, ‘politica’. Proprio per questo si tenta di depoliticizzare il gesto in modo che rimanga solo la violenza”. E come attivista aggiunge che la sfida dei movimenti sociali è “riuscire a far capire che dietro ad azioni radicali c’è una struttura di valori e una possibilità di alternativa di società”.
Parole che al giorno d’oggi, nel tempo che ci è stato dato in sorte di vivere, ma forse non solo nel presente, impongono una grande consapevolezza della pericolosità dello strumento che si ritiene legittimo usare nell’agone politico e dunque un grande senso di responsabilità: in altre parole se si ammette la violenza come uno degli strumenti della politica, bisogna poi essere pronti ad affrontare le conseguenze delle azioni radicali messe in atto.
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Federica Pezzoli
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