Daylight (Coldplay, 2002)
Una storia. Dieci, cento, mille storie.
Come sempre faccio i conti con l’ennesimo foglio bianco. Un bianco candido da riempire, da sporcare con dolci, innocue e veritiere menzogne. Un foglio da segnare, da ornare coi miei infiniti segreti, sacrificabili all’altrui sguardo.
Faticoso momento e irrinunciabile tormento. Lo scrivere di me e d’altro, dal dentro al fuori, e strappare un senso da condividere, da mangiare col pensiero.
Raccontare l’invisibile esistente, che aleggia e riempie d’essenze la memoria.
La sfida è ardua, magari impossibile seppur seducente. Spiegare la vita, darle sapore e colore con un semplice ricorso ai segni.
Nero su bianco, insieme, in sequenza. Linee curve, ordinate, alternate, punteggiate e intrecciate come alamari. Codici creatori di magie.
Nero su bianco, solo questo, per legger poi l’arcobaleno…
La musica, come sempre, cullava la mia notte insonne nella discrezione dei miei auricolari, mi teneva compagnia girandomi attorno e facendomi intuire cose sempre nuove.
Così, piano piano, iniziai a pensare cosa scrivere. E mentre aspettavo in silenzio la mia ispirazione, una storia venne all’improvviso a farmi visita.
Bussò alla porta. “Avanti” dissi.
La porta, nella semioscurità della mia cameretta, s’aprì lentamente dietro di me. Non mi voltai, sapevo chi stava entrando. In fondo era stata colpa mia, l’avevo voluto io.
Così entrarono tutti, o almeno i più importanti, i protagonisti, quelli che ne avevano tutte le ragioni.
L’ora in cui ciò avvenne era sempre la stessa: le tre del mattino.
O forse sarebbe meglio dire le tre della notte. L’ora del diavolo, dell’angelo incantatore. L’ora in cui tutto può accadere, in cui il desiderio vince sulla disillusione, in cui la fantasia portata dai sogni si prende la sua rivincita su una realtà sottomessa al buio più profondo.
Il primo a parlare fu Seth: “Padre, siamo tutti figli tuoi, a ognuno di noi hai donato un mondo fantastico, vasto, incredibile… Ma hai interrotto le nostre storie intrappolandoci nell’incompiuto. Ora siamo qui a dirti che ci sentiamo abbandonati, traditi…”
“Ci hai fatto credere d’essere importanti,” disse a quel punto Sewell, “che saremmo stati conosciuti e che le nostre storie avrebbero interessato tanta gente. Invece siamo sempre qui, confinati dentro le tue promesse che nessuno ascolta più!”
Mi limitai ad annuire, poiché entrambi avevano perfettamente ragione.
“Padre, ti ricordi di me? Sono stato il primo e sono trent’anni che aspetto…” disse Newt.
Era vero, Newt era stato il primo. Mi voltai verso di lui. Era imponente e metteva soggezione anche a me che lo avevo creato con amore e devozione tanti anni prima.
C’erano anche gli altri, purtroppo troppi, ma si limitavano a fissarmi in silenzio, anche se i loro sguardi dicevano tutto.
“Avete ragione,” risposi, “siete tutti figli miei e vi ho trascurato per tanto tempo. Ma da quando vi ho creato non avete mai smesso di vivere dentro i miei pensieri, credetemi. Voi esistete, anche se per me soltanto…”
Quella volta non venne a farmi visita una nuova storia, vennero a farmi visita tutte le altre. Quelle vecchie che avevo interrotto e messo da parte in attesa di tempi migliori.
Erano venute a rinfacciarmi la mia inconcludenza, la mia poca convinzione.
Alla fine, per l’ennesima volta, le ho rassicurate. Sono certo che un giorno queste mie vecchie storie avranno la soddisfazione di concludersi. E quando questo avverrà sarà comunque una scommessa vinta, a prescindere dal fatto se saranno gradite o meno.
W le storie dunque.
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Carlo Tassi
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