Michelangelo e Burri
la materia grezza come metafora della condizione umana
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La consapevole scelta di Michelangelo di lasciare in alcune delle sue opere parte del marmo grezzo, serve a mostrare la sua eccezionale tecnica che gli consentiva di scolpire perfettamente una parte senza sbozzare il resto.
Questo modo di procedere prevede che l’autore abbia una precisissima immagine tridimensionale della statua che dovrà scolpire. Per Michelangelo del resto, la scultura preesiste al suo intervento essa è già idealmente imprigionata nel blocco di marmo il suo compito è liberarla. La vicinanza con la cultura e il pensiero neoplatonico, così diffusi nella corte medicea, è evidente; la statua diventa allora metafora dell’anima e il marmo grezzo del corpo che la imprigiona.
Prendiamo, ad esempio, la figura del giorno nelle tombe medicee.
Il marmo grezzo rappresenta la materia che imprigiona lo spirito, la dimensione terrena e corruttibile dell’uomo; ma in virtù del soggetto questo dualismo si trasferisce dal microcosmo umano al macrocosmo diventando sostanza stessa dell’esistente.
Nelle grandi figure delle tombe medicee eroiche nella loro nudità classica la contorsione dei corpi sembra rappresentare un vano sforzo di liberarsi dal marmo che le imprigiona.
Esse simboleggiano il fato di ogni uomo legato al corpo, al suo decadere nel tempo e al destino di morte.
Il “non finito” michelangiolesco rappresenta la condizione umana, Michelangelo stesso negli ultimi anni di vita, quando disse: ”Io sto ancora imparando”, doveva forse sperimentare questa condizione d’essere un’anima potente ancora affamata di vita e sapere imprigionata in un corpo che più non sapeva esprimerne, attraverso l’arte, la grandezza. A tal proposito ricordiamo che la fatica fisica era per lo scultore un tributo dovuto all’arte, quasi un sacrificio mistico che purificava l’anima: da qui derivava l’abitudine di lavorare da solo senza aiuti
Materia scabra, ruvida, quella di Michelangelo, come quella usata da Burri nella serie dei grandi sacchi.
La juta, materiale povero, umile, nella quotidianità era riservata agli usi più diversi, rozzi sacchi per il trasporto di merci, stracci ruvidi per pulire secchi e stoviglie, apprezzata forse per la resistenza, mai per il suo aspetto. Attraverso l’opera di Burri, la juta verrà esposta come parte di un’opera d’arte, raccogliendo lo straccio consunto, dall’uso ne fa un simbolo.
Questa scelta ci conferma due aspetti fondamentali dell’arte.
Primo, la bellezza non è unico scopo dell’arte, è quasi sempre mezzo e raramente fine dell’atto artistico, e gli artisti non esitano, come fa Burri, a sacrificare la piacevolezza estetica di fronte all’urgenza del contenuto.
Secondo, un’opera parla pur senza figure, come una musica senza parole.
La tela così sdrucita e consumata è una rappresentazione intensa della condizione umana, soprattutto se la vediamo attraverso gli occhi dell’autore: il medico Albero Burri aveva vissuto una difficile esperienza al fronte durante la seconda guerra mondiale.
La tela ruvida e organica diventa quindi di nuovo metafora del corpo straziato consunto ferito. Le cuciture che Burri pratica sulla iuta sono repliche delle cuciture che pratica sul corpo nella sua attività di medico. Gli strappi ricuciti sono testimoni dei drammi passati e rimangono segni indelebili dell’ostinata volontà dell’uomo di sopravvivere.
In queste opere l’autore inserisce come colore dominante il rosso a chiaro richiamo del sangue. Il corpo umano è rappresentato nella sua fragilità involucro pulsante ed effimero della vita.
In Burri quindi, proprio come in Michelangelo, la materia grezza ricorda la transitorietà e la dolorosa mortalità del corpo, che nella loro poetica è il presupposto necessario a qualsiasi atto eroico. Le loro opere sembrano suggerire l’eroismo presente ogniqualvolta l’uomo si eleva aldilà dei suoi limiti, superandoli senza prescinderli.
In Copertina: Michelangelo, Pietà Rondanini, 1552-1564, Milano, Castello Sforzesco (particolare)
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Carla Balotta
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