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Martinoni, esercizi di stile fra vita e palco

Tempo di lettura: 5 minuti

Parigi è solo un sogno, Gabriel è solo un’ombra, Zazie il sogno di un’ombra e tutta questa storia il sogno di un sogno, l’ombra di un’ombra, poco più di un delirio scritto a macchina da un romanziere idiota. R. Queneau, “Zazie nel metro”

Zazie corre senza sosta, inseguendo una metro che non prenderà mai, ma incontrando personaggi assortiti e tanto diversi quanto tutti quelli che forse rendono di una persona un bravo attore, e di un attore una persona uscita dall’ultima corsa che arriva puntuale all’appuntamento o che riporta tazzine al bar dopo la consumazione, in un calligramma dipinto sullo sfondo di Ferrara.

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Il cast di ‘Faccia d’angelo’ di Andrea Porporati. Da sinistra, Martinoni, Pagotto, Martino, Messerklinger, Germano, Cremon, Gherpelli

“Da bambino – racconta l’attore ferrarese Gianantonio Martinoni – si giocava a imitare i grandi attori dei film, i personaggi più stravaganti e tipizzati, dei quali si sentiva la fascinazione: Jack Nicholson in “Shining”, Robert de Niro in “Taxi Driver”, Mikey Rourke in “Angel Heart”. Da lì nacque l’interesse verso la recitazione, nonostante si trattasse di pura emulazione. Nel 1991 capitò che andai al teatro di Santo Spirito a vedere “Esercizi di stile“, tratto dalla raccolta di Raymond Queneau. Ne restai affascinato, mi piacque perché le dinamiche innescate riguardavano la vita di tutti i giorni, il quotidiano, quello che comunemente vedi, solo trasposto sulla scena.”
Episodio lieve e di poco conto centuplicato come cerchi nell’acqua dopo che un sasso viene tirato nella sua profondità. Il risultato di quegli esercizi di stile con cui Queneau cuciva i suoi novantanove vestiti su un unico scarno manichino, sono un libro con cui l’autore si prende gioco della struttura linguistica senza mai cambiare una trama di cinque righe, inconsistente e banale nella sua evoluzione immobile. Forse qui fanno pace i termini “persona” e “maschera”, oggi comunemente considerati antitetici, ma sinonimi per gli Etruschi. E forse questo è il posto adatto per un attore che si misura con ruoli differenti, in un insieme di insolenza, tenerezza e poesia.

“Cominciai a frequentare il Teatro dell’Asino, dove nel 1995 feci per la prima volta i conti con un personaggio a tutto tondo: andò in scena “Diodi Woody Allen, per la regia di Marco Felloni. Surreale, metateatrale, mescolava la tragedia al comico. Lì ero a casa. Replicai nel 1997 con “Jack Frusciante è uscito dal gruppo”, tratto dal testo culto di Enrico Brizzi, sempre con Felloni. Nell’ottobre dello stesso anno sostenni l’esame alla scuola di teatroCirco a vapore” di Roma. Avevo fatto una scommessa con me stesso: avrei continuato a studiare recitazione se avessi vinto la borsa di studio. La vinsi…”

C’è una bella parola: niente. Non pensare a niente. Pensa al clown che piange nella vasca da bagno, mentre il caffè gli gocciola sulle pantofole. H. Boell, “Opinioni di un clown”

“…e mi trasferii a Roma. Lì studiai recitazione e pedagogia teatrale con Emanuel De La Vallé. Con cui ho scoperto e affrontato vari registri stilistici – surreale, commedia, assurdo, clowneria e mimo. É stato importante perché arrivava dalla scuola francese di Jacques LeCoq, maestro del teatro fisico e della commedia dell’arte. Era gratificante incontrare altre persone che condividevano la mia passione, e trovarmi finalmente in un posto in cui non era strano o risibile il desiderio nei confronti della strada che volevo percorrere. Bastava solo incontrare le persone giuste.” Correre da soli ma senza sole negli occhi. “Lo studio poi ti aiuta a capire quali sono i tuoi colori, come mescolare tecnica e spontaneità. Anche se questo comporta tanto perdere ruoli, quanto guadagnarne. Dell’essere attore mi piace essere schietto. Questo significa che la recitazione è solo la punta dell’iceberg, e quello che conta è essere il più possibile pronti, essere se stessi in quell’altro che si va a rappresentare, chiunque sia questo altro.” Nel teatro quanto nel cinema, nelle serie televisive quanto negli spot pubblicitari.

Linda Di Pietro, Giorgio Marchesi, Filippo Sandon e Gianantonio Martinoni in  'Anticamera'
Linda Di Pietro, Giorgio Marchesi, Filippo Sandon e Gianantonio Martinoni in ‘Anticamera’

Sono i tic di Bepi, candido e monolitico braccio destro del Toso in “Faccia d’angelo”, miniserie televisiva ispirata alla vita di Felice Maniero, re della mala del Brenta a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta – regia di Andrea Porporati, 2012; la risolutezza di Leo Zonin in “Benvenuti nella città dei matti”, incentrato sulla vita dello psichiatra Franco Basaglia e la legge 180 – regia di Marco Turco, 2010; la compostezza serafica di Carl, faustiano nascituro ultratrentenne con pochi spigoli e molte certezze che, insieme al commensale Friedrich, sceglie da un menu il proprio destino al tavolo di “Anticamera” – regia di Francesca Staasch, Premio nazionale di drammaturgia teatrale Aldo Luppi nel 2006; il Genio di “Goethe Off” e il partner dalla pelle fredda di “Il buco” – regia di Marco Maltauro; la metà del goliardico duo con Giuseppe Gandini in “Eyes Wine Shot”, spettacolo itinerante incentrato sulla delizia di Bacco tra Kubrick e Schnitzler e Federico, eterno ritorno del vernacolare contrasto vanziniano nord-sud in “Buona giornata”, evanescente e scandita presenza nella rivisitazione dell’Amleto “Recitare la parte della vittima” – regia di Francesca Staasch, 2006.

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‘Eyes Wine Shot’, Giuseppe Gandini e Gianantonio Martinoni

Un bravo attore lo fa il regista, e lo fa la capacità di interazione con gli altri attori nella storia. Chi riesce a calarsi nei panni del personaggio che interpreta, ma che nel contempo riesce a mostrarti qualcosa di intimo, di personale, di chi o cosa è veramente. La storia di un uomo dentro alla storia di un personaggio, che lì può tirare fuori qualcosa di se stesso. Bravura recitativa, impegno, e umanità, chiunque tu sia in quel momento. E cosa succede quando ci si trova dentro a una storia, quando devi seguirne i dettagli. I contorni.”

Come l’anticipazione di qualcosa che scivola lungo una strada di notte e se ne vede solo l’ombra, impossibile a riconoscere il principe dal povero.

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Giorgia Pizzirani



PAESE REALE
di Piermaria Romani

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)