Manutenzione inadeguata, “mancano uomini e soldi”. E i fiumi ora fanno paura
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di Irma Annaloro
“Rischi di alluvione? Nessuno può assicurare nulla”. Non c’è allarmismo, ma neppure alcuna certezza. Il responsabile del servizio tecnico Bacino del Reno, l’architetto Ferdinando Petri, parla del quadro idrico e idrogeologico in Emilia Romagna all’indomani dell’alluvione che ha colpito la provincia di Modena, provocata dal fiume Secchia con conseguenze drammatiche per la popolazione. E denuncia situazioni preoccupanti.
Secondo lei, sarebbe stato possibile prevenire il disastro accaduto nel Modenese?
Forse sì, si poteva prevenire. Si potevano quantomeno ridurre le possibilità che avvenisse. Come? Controllando meglio gli argini, e ripulendo gli alvei dove all’interno si forma della vegetazione a causa della mancata manutenzione. Questo comporta da un lato un ostacolo al deflusso dell’acqua e dall’altro un pericolo degli argini. In caso di sradicamenti, gli alberi vengono trasportati a valle in modo turbinoso, spesso cozzano contro le arginature e fanno delle incisioni. Tradotto significa pesanti danni alle opere idrauliche.
E perché allora non è stato fatto quel che era necessario?
Un paio d’anni fa abbiamo stimato, per la pulizia ordinaria annuale dei nostri corsi d’acqua del bacino del Reno, un milione e mezzo all’anno in condizioni normali. Noi generalmente non abbiamo più di 300-350 mila euro. Ciò significa che da un lato si può assicurare una manutenzione, anche a rotazione, solo di una parte dei corsi e dall’altro che i costi aumentano perché intanto la vegetazione cresce e occorrono tempi più lunghi e macchinari più potenti per lo smaltimento. Inoltre, le nostre operazioni rientrano all’interno di un sistema complicato per motivi di carattere amministrativo e burocratico che ci obbliga a sottostare a certe limitazioni che alla fine rallentano la nostra azione e in certi casi ci mettono in condizioni di non poter fare determinate opere.
E’ grave e preoccupante quel che afferma. Ma la sicurezza idraulica del territorio è solo un problema di risorse finanziarie?
No, la sicurezza idraulica è la somma di tanti fattori uno dei quali è quello finanziario. Ce ne sono altri, come la dotazione delle necessarie risorse professionali. In passato il genio civile, che adesso ha lasciato il posto al servizio tecnico bacino Reno, aveva 120 persone e numerose strutture di vertice. Adesso l’organo regionale che ha stesse competenze, se non qualcuna in più, dispone di 70 persone. Di queste, 22 sono addette solo a compiti amministrativi. Di figure operative ne restano 50. Inoltre, il nostro territorio, che è suddiviso in trenta tronchi idraulici, ovvero tratti di un corso d’acqua che ha una sua omogeneità, è supervisionato da nove sorveglianti. In passato, invece, per ogni tronco idraulico era presente un sorvegliante. Le emergenze vanno affrontate con adeguate risorse finanziarie, umane e professionali.
I rischi idraulici e quelli idrogeologici appaiono concreti…
I due problemi, idraulico e idrogeologico, sono paralleli e coesistenti. Il territorio e l’acqua sono alla base dei nostri dissesti e delle nostre problematiche. Il rischio idrogeologico è legato alla stabilità dei versanti. Negli anni c’è stato un investimento negativo della sicurezza. È un brutto vizio che risale a epoche passate. Succedeva che in pianura man mano che si strappava alla palude terreno coltivabile se ne prendeva il più possibile riducendo così la sezione del corso e ricorrendo ad argini più alti. Un’operazione sbagliata e su cui ora non possiamo fare marce indietro. Il nostro territorio è densamente antropizzato. Bisogna trovare un giusto compromesso con l’ambiente naturale. Sulle diverse centinaia di chilometri dei nostri corsi d’acqua e delle nostre arginature sono presenti situazioni di pericolo su cui non siamo in grado di intervenire per tempo e di programmare attività che possano assolutamente mettere al sicuro da questo tipo di problemi.
Invece bisognerebbe farlo, a cominciare dagli argini…
Gli argini sono opere dell’uomo e dovrebbero essere mantenute con attenzione proprio dall’uomo che le ha realizzate. Sugli argini c’è un terreno e un tipo di microclima tale per cui la vegetazione si sviluppa con velocità doppia rispetto al resto del territorio. Di norma servirebbero due sfalci all’anno sulle arginature. Gli interventi che riusciamo ad assicurare è una minima parte rispetto al fabbisogno generale per garantire almeno la visibilità delle arginature e di poter scoprire per tempo eventuali lesioni nel corpo arginale, accenni di fuoriuscita d’acqua, trasudamenti e altro che possa far scattare un minimo di attività preventiva. Le problematiche relative al mantenimento riguardano appunto fondamentalmente le poche risorse finanziarie che abbiamo a disposizione.
In quali zone il rischio è maggiore?
Sicuramente dove ci sono tratti arginati più alti. Per quanto riguarda l’asta principale del fiume Reno, parliamo della zona che va dal cavo napoleonico in giù e sotto Sant’Agostino. In generale lì dove il Reno è incanalato in una sezione artificiale. La situazione è più critica perché il corso è molto più stretto. Più il fiume scende verso valle, più – a causa dell’intervento dell’uomo – diminuisce la sua sezione e di conseguenza maggiori sono le sue portate. Nella zona dell’imolese, il Santerno è un corso d’acqua pericoloso. Lì, a differenza del Reno di Bologna, il fiume attraversa la città e mette a rischio interi quartieri. Man mano che ci si avvicina al mare cresce l’altezza degli argini su cui non sempre si è in grado di assicurare manutenzione sistematica e costante.
Il Reno allora rappresenta un pericolo?
Il Reno in quanto tale non costituisce un pericolo immediato. Ci possono essere fattori contingenti e puntuali che possono chiedere maggiore attenzione fra cui l’accumularsi di materiale vegetale ma si tratta di problematiche strettamente contingenti, legate a questioni di manutenzione in senso lato. Certo che riuscire a coprire un’emergenza seria quando possiamo contare su risorse così esigue è difficile se non impossibile.
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Redazione di Periscopio
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