David Ricardo (Londra, 19 aprile 1772 – Gatcombe Park, 11 settembre1823), fu economista e uno dei massimi esponenti della scuola classica. Il suo pensiero, mercantilista, ruotava più o meno intorno al concetto che il protezionismo fosse sbagliato, e che si dovesse applicare il libero mercato e la competizione più dura possibile tra gli Stati e sui mercati mondiali e che un forte competitore non avesse assolutamente bisogno di alcuna misura protezionistica a casa sua.
Quindi il libero mercato doveva seguire né più né meno le idee di politica economica precedenti (anche se nel Seicento – Settecento ancora non esisteva una politica economica a livello di Stato, gli interessi erano dettati prettamente dai grandi mercanti), legati a quel periodo che la storia indica appunto come mercantilismo. Prevale la nazione e gli interessi in gioco più forti.
Ricardo, bontà sua, era inglese e a quei tempi l’Inghilterra voleva dettare le sue condizioni al mondo e quel tipo di politica economica era necessariamente il suo interesse. Era lei la nazione più forte e la sua classe dominante aveva bisogno di esportare e sull’esportazione doveva costruire la sua potenza e l’impero inglese di contorno, per cui la preoccupazione dei suoi economisti era quella di scrivere teorie che giustificassero queste sue azioni. Le supportassero scientificamente.
Il punto è che se nel mondo una nazione decide di svilupparsi affidandosi all’esportazione, necessariamente ci dovrà essere un Paese che da un’altra parte importi. Quindi un paese che produce a prezzi concorrenziali dei prodotti, pensate all’Inghilterra di allora e alla rivoluzione industriale, capace di immettere nuovi prodotti sul mercato, a base industriale, operai pagati pochissimo a livello sussistenza e poco più di schiavi, merci da collocare da qualche parte che non sia il mercato interno: ovviamente e semplicemente è destinata a vincere.
Questo paese ha bisogno però per farlo di mercati liberi, che non abbiano misure protezionistiche in modo da riempirli dei suoi prodotti a scapito delle loro industrie e produzioni interne. Un sistema che produce quindi povertà ovunque. Al suo stesso interno, perché deve tenere bassi i costi di produzione e deve portare i beni che produce in altri paesi (privando di beni, della reale ricchezza se stesso) e all’interno degli altri paesi, invasi da beni esteri a basso costo, essendo poi questi costretti a sacrificare la loro produzione interna.
Insomma si pensi un po’ a cosa succede nell’eurozona. Un paese più forte esporta dopo aver fatto le riforme del lavoro in senso restrittivo (mini job e lavori a 400 euro al mese) e i paesi mediterranei, più deboli, costretti a comprare a danno delle piccole aziende locali che vengono sacrificate sull’altare del falso libero scambio e della libertà dei capitali di muoversi senza controlli.
Situazione che anche qui favorisce il capitale, cioè chi ha i mezzi e i soldi, e dall’altra impoverisce le nazioni (vedasi al proposito livelli di disoccupazione e aumento della povertà, assoluta e relativa in Italia).
E per finire sulle esportazioni facciamo un esempio: se davvero per svilupparsi bisogna affidarsi alle esportazioni e tutte le nazioni democraticamente scegliessero di svilupparsi in questo modo, dove esporterebbero? Sulla luna? Il sistema non funziona, è chiaro. È disegnato per costruire diseguaglianza e conflitti.
Ricardo è morto nel 1823, quasi 200 anni fa e dovrebbe far pensare che oggi noi abbiamo al governo dell’Europa persone che ancora la pensano come lui o in Italia dove si fanno politiche economiche di questo stampo mentre ci dicono che la Costituzione è vecchia perché ha 60 anni. E’ vecchio in fondo solo ciò che interessa cambiare, privilegiando al solito le classi dominanti, che purtroppo anch’esse retaggio del passato continuano a condizionare la nostra vita quotidiana.
Il tanto discriminato protezionismo, anche in Italia, se si parla di difendere le arance siciliane o l’olio e il latte italiano significherebbe agire in nome degli interessi del popolo mettendo al primo posto, finalmente, gli interessi democratici di sviluppo di una nazione e al secondo posto il capitale. Come riporta Luciano Barra Caracciolo “un protezionismo ragionato potrebbe essere uno stabilizzatore degli interessi dell’intera comunità internazionale a una convivenza pacifica” mentre Krugman specifica che c’è una differenza sostanziale tra una società per azioni e uno Stato (come c’è anche tra una famiglia e uno Stato). Una società per azioni sul mercato internazionale può non reggere la concorrenza e uscire dal mercato stesso, uno Stato no, non gli puoi attribuire le stesse caratteristiche. Hanno confini e scopi diversi, devono muoversi in maniera diversa.
A chi giova, dunque, confondere i ruoli e stabilire che gli interessi commerciali e legati al capitale e al guadagno di poche entità sovranazionali siano confluenti a quelli del popolo?
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Claudio Pisapia
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