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Si definisce ‘femminicidio’ o ‘omicidio di genere’ un omicidio doloso o preterintenzionale, in cui una donna viene uccisa da un individuo di sesso maschile per motivi basati sul genere.

Si allunga ogni settimana la lista delle donne vittime di questo tipo di omicidio. Nei primi tre mesi del 2021 sono state ammazzate da compagni e fidanzati quindici donne e la lista continua a salire ogni giorno che passa. Un fenomeno che non si arresta, che non tende a diminuire. Più se ne parla, più se ne scrive, e più la situazione peggiora, come se un minimo di rilevanza mediatica desse a questi assassini un po’ di voglia in più di ammazzare.

Nel 2020 sono stati commessi novantuno femminicidi, di questi ottantuno sono stati commessi nel contesto familiare, cioè l’89% del totale (Rapporto Eures 2020). C’è poco da fare, i mostri li abbiamo in casa. Sono i nostri compagni o ex-compagni, che ci sfigurano con l’acido, provano ad ammazzarci, ci calpestano, ci prendono a schiaffi e calci, ci rapiscono i figli (non tutti, s’intende!). Mi chiedo sempre da dove arrivi un odio del genere. Per quanto la psicanalisi provi a spiegarne le motivazioni profonde, le modalità, le giustificazioni e i mezzi, io continuo a stupirmi e addolorarmi ogni giorno.

Mi tornano così alla memoria storie di soprusi che ho sentito raccontare, storie di umiliazioni perpetrate all’infinito, che tolgono qualunque tipo di dignità, che lavorano in maniera silente e costante come tante stalagmiti che crescono grazie al lavorio delle gocce d’acqua. Conformazioni calcaree che ci mettono molto tempo a diventare visibili, una vita a calcificare e a diventare punte acuminate che perforano l’aria. A un certo punto le vedi, piantate nella grotta nella quale si trovano, pronte ad acuire il senso di pericolo, pronte a fare male senza esitazione. Una sberla un giorno, poi una dopo una settimana, poi due dopo un mese e poi più in là ancora altre.

Non c’è sempre la possibilità di ribellarsi a questo mostro che cresce dentro casa, a questa modalità lenta, silente e progressiva che si nutre di quotidianità, di impossibilità di rompere legami sbilanciati, dal punto di vista della relazione e/o delle necessità economiche. C’entra l’indipendenza come arma a doppio taglio: si può odiare una donna perché è indipendente, così come la si può odiare perché è dipendente. La dipendenza crea umiltà, paura, sottomissione. Ma il mostro è spesso un vile e gli piace molto, in quanto vile, prendersela con chi non sa difendersi. Allo stesso tempo il vile ama a sua volta i rapporti sbilanciati. Adora chi è prepotente con lui, detesta chi è sottomesso, chi è ridotto a una passività imposta dal logorio di un’umiliazione costante. È questo logorio che riduce una donna al suo livello, quello che proprio lui detesta. Un vile odia se stesso e adora i prepotenti. Per questo odia sua moglie, che è una sua pari, una che conosce i suoi difetti che lui non sopporta, le sue paranoie dalle quali tenta sempre di sfuggire, ma dalle quali è riacciuffato.

Un uomo violento è un uomo pieno di malessere e rancore. In una donna piena di malessere riconosce se stesso e per questo l’odio si moltiplica. È un odio che si nutre di odio per se stessi. È un odio che consuma l’altro per ridefinire le caratteristiche di un mondo interiore che non lascia spazi di libertà a nessuno. Una donna sottomessa, privata della sua volontà e della sua indipendenza è la vittima preferita di questo tipo di maschio violento. Vile coi vili e decisamente servizievole con gli arroganti e prepotenti. I vili non hanno mai saputo trovare un equilibrio giusto, una autostima accettabile, un senso del perdono e della pietà eticamente fondato.

Un secondo tipo di maschio violento è il prepotente per antonomasia. Quello che non tollera la donna indipendente che sa ribellarsi. Qui però non c’è un gran logorio giornaliero. Se mai c’è la ribellione e subito dopo la ripercussione. L’atto aggressivo e violento è una ripercussione, una reazione esagerata a un atto contrario alla propria volontà, al proprio desiderato e alle proprie aspettative. Spesso l’aspettativa di un prepotente non è reale. Il maschio in questione non è empatico e non riconosce i segni di disagio femminile, fino a quando emergono come un fiume in piena che nessuno sa più contenere e frenare. Un fiume che corre e se ne andrà lontano.

La prepotenza si nutre di confronti aggressivi, di necessità di umiliare l’altro e di ricondurlo a una via conosciuta, a un percorso controllabile e prevedibile, che permette l’aggressione come atto liberatorio, come conferma di un potere effimero. Un’illusione come quella di controllare una relazione, le sue conseguenze, i suoi possibili sviluppi e anche la sua fine. Il maschio aggressivo sa quando e come finirà una relazione, ma non lo deve e non lo può sapere la donna con la quale si relaziona. E così, nel gioco di potere tra viltà, sottomissione, mancanza di indipendenza e atti di rivendicazione di una dignità mai trovata, si consuma la violenza e la persecuzione nei confronti delle persone per le quali questo è possibile, è nascondibile, occultabile.

Poi c’è il degrado della mancanza di spazio familiare, della mancanza di evasione culturale, di sostegno economico, che permette un po’ di trasgressione, quella buona che riduce la conflittualità, che ridimensiona il senso di angoscia, che rischiara i rapporti. E poi c’è l’uso di alcol e di sostanze stupefacenti, che scatenano l’aggressività anche in chi non è aggressivo, anche chi in condizioni normali sa mantenere una mitezza esagerata, che mai farebbe pensare che presto quel ‘dipendente’ ti sfigurerà coll’acido. L’uso di droghe altera la percezione che una persona ha di se stessa. Altera la sua autostima e il suo bisogno di successo, ridimensiona la sua dignità rendendolo schiavo e succube. Le esplosioni di rabbia sono impreviste, legate all’uso dell’alcol che annienta i freni inibitori e fa sì che la selvaggia e primordiale voglia d’uccidere attraversi le menti di individui un po’ strani e molto eccitabili, dal comportamento dannoso.

Ma il danno più grosso succede prima. Durante il processo di annientamento. In quella fase a volte lunga (può durare anni) e a volte cortissima (può durare qualche minuto), in cui la dignità di una donna viene distrutta. È la mancanza di dignità che fa uscire dalla tana il mostro. Una mancanza di dignità causata dal mostro stesso e dai suoi comportamenti reiterati, dai suoi malumori. La psicologia insegna che i comportamenti più radicati non sono quelli che hanno rinforzi continui, ma quelli che hanno rinforzi occasionali. L’imprevedibilità del cambio d’umore accompagna spesso gli atti denigratori. Gli abbassamenti di status e di ruolo si configurano come un rinforzo occasionale, come un risucchio verso il basso, come una voragine che si apre all’improvviso e non è possibile arginare. La voragine imprevista risucchia chi sta camminando sopra di lei. Lo trascina verso il basso, lo copre col fango, lo deteriora un po’ alla volta, lo ricopre di terra, lo sotterra e lo dimentica.

La violenza si scatena sopra tutto questo, dentro tutto questo, lo sovrasta, lo ricopre e lo abbandona. Poi ricomincia, si crea un’altra voragine che inghiotte qualcuno, anche in maniera quasi casuale, lo mastica e lo consuma. I comportamenti violenti tendono a reiterarsi, perché sono lo sfogo di una personalità fatta così, di un dramma interiore che si manifesta così, di una incapacità di essere riflessivi, corretti, altruisti e anche giusti. Tutto ciò che si vede è così, senza possibilità di fraintendimenti.

Non fermatevi donne davanti alla prima sberla, lasciate quella casa e quella famiglia, portatevi via i vostri figli, se li avete. Non c’è ragione per sopportare la situazione, non c’è giustificazione da portare a se stessi, non patria per il pensiero, non c’è rimedio al dolore. A volte aprire una porta è un grande segnale di coraggio, la prova di un orgoglio che non è stato annientato, di una speranza che non è stata disintegrata del tutto, che riscopre qualcosa, che ricorda la luce.

Dentro ogni donna c’è la possibilità di sperare, credere e camminare con decisione e fiducia, ma ogni donna è anche una possibile vittima della situazione, delle circostanze, del dolore dell’abbandono e della malattia. Una donna fragile attira i fragili che cercano una vittima sacrificale per la loro necessità catartica volta a immolare loro stessi insieme alla vittima. Maschi che tentano di uccidere la sottomissione che riguarda entrambi, che annientano, attraverso l’aggressione, quella vergogna perpetrata di non essere mai all’altezza di niente. Sicuramente non all’altezza del proprio orgoglio smodato e invece degni di una bassezza da rasentare la terra marcia.

Spero che in ogni donna ferita e oppressa nasca la voglia di uscire dal guscio, di dire la verità, di rischiare la vita per una nuova possibilità, di abbandonare una vecchia vita per una nuova prospettiva.

Andatevene voi uomini aggressivi e senza dignità.

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Catina Balotta

Sociologa e valutatrice indipendente. Si occupa di politiche di welfare con una particolare attenzione al tema delle Pari Opportunità. Ha lavorato per alcuni dei più importanti enti pubblici italiani.


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