Si fa presto a dire ‘madre’, incensare e mitizzare questo ruolo, osannare la figura archetipo, simbolo e rappresentazione della vita. Soprattutto nelle ricorrenze e nella giornata a lei dedicata. Poi esiste la realtà, quella che indirizza lo sguardo verso un ampio spettro di immagine materna e accanto alla madre santificata, protettrice, solida, paziente, coraggiosa, irreprensibile, quasi mistica, riconosciamo le madri fragili, minacciose, rassegnate, degeneri, inconsapevoli, nei casi estremi omicide, che interpretano presenza o assenza nelle esistenze delle loro creature. Fotografie che si discostano completamente dal luminoso immaginario collettivo che ogni epoca storica ha elaborato su colei che dà la vita. Accanto alla madre nutrice che si prende cura dei figli fino all’abnegazione, è onesto riconoscere anche la valenza negativa della madre-matrigna, proiezione dell’abbandono e della perdita: i due archetipi estremi più incisivi dell’essere madre.
La figura della madre, comunque, resta un topos in ogni era, che proietta le caratteristiche del momento storico, ma anche esperienze individuali forti, perché raccontare la ‘Madre’ significa scavare in profondità, fino all’alba dei tempi. L’arte, in generale, ha sempre tributato un ruolo centrale alla figura della madre; la letteratura, in particolare, ha riservato pagine e pagine dedicate alla descrizione di figure materne che hanno suscitato emozioni e forti sentimenti di ammirazione, dissenso, disprezzo, amore, entusiasmo, desiderio di emulazione, disdegno, repulsione a seconda delle vicende e del profilo delle protagoniste. Madri coraggiose e decise come la vedova Cornelia, madre dei Gracchi, che si rifiuta di sposare Tolomeo VIII Evergete re d’Egitto, per consacrarsi alla cura e crescita dei propri figli; madri tristi che hanno assistito alla morte del figlio, come Andromaca, madre di Astianatte e moglie di Ettore; madri assassine come Medea, che per vendetta uccide i figli avuti da Giasone.
Memorabile resta la figura di Cecilia, nel romanzo ‘I promessi sposi’ (1840) di Manzoni, in una Milano devastata dalla peste e dal dilagare della morte. Ci siamo commossi all’immagine di quella donna, descritta di una ‘bellezza avanzata, ma non trascorsa’, che sotto il velo di un languore mortale nasconde una grande passione e maestosamente scende le scale della sua casa reggendo al collo la figlioletta morta di 9 anni, per consegnarla al convoglio dei monatti. Una madre che non ha più lacrime perché le ha versate ormai tutte e che non ha perso il desiderio di pettinare, riordinare e rivestire di bianco per l’ultima volta quel corpicino ormai senza vita. Cecilia chiede ai monatti di ripassare la sera, quando l’altra figlia ormai allo stremo, e lei, saranno morte dello stesso morbo. E di una donna singolare si parla anche nel romanzo di Verga ‘I Malavoglia’ (1881), Maruzza detta ‘la Longa’. Una madre apprensiva che riesce a capire i problemi dei figli al solo sguardo, molto legata alla famiglia, ligia ai doveri di moglie e madre. Una donna che attinge forza dalle avversità, dopo la morte del marito, e dopo aver accettato privazioni e perdite di ogni genere, muore di colera, stroncata dal male e dal dolore per il tragico destino dei figli. E madre fino alla fine, anche se lontana dalla figlioletta illegittima Cosette, è Fantine nel romanzo di Victor Hugo ‘I miserabili’ (1862): una donna che rappresenta l’incoscienza del primo amore, l’amore oblativo di una madre, il ruolo di vittima della morale bigotta dell’epoca. Fantine entra nel romanzo sorridente, radiosa, innamorata, con i capelli d’oro e i denti di perla; esce di scena morendo disperata per non aver potuto vedere la figlia, dopo aver fatto la serva, l’operaia in fabbrica e la prostituta, costretta a vendere denti e capelli per vestire la bambina e acquistare medicine. A lei, lo scrittore dedica molte pagine tra le più commoventi dell’intera opera.
‘Madre Coraggio e i suoi figli’ (1939) di Bertolt Brecht, è un’opera teatrale scritta alla vigilia della Seconda guerra mondiale, ambientata nella Guerra dei Trent’Anni che insanguinò l’Europa centrale dal 1618 al 1648. Anna Fierling, ‘Madre Coraggio’, è una vivandiera al seguito degli eserciti coinvolti nel conflitto. Non parteggia per nessuno ma il suo credo è la sopravvivenza sua e dei figli . Sfida le cannonate per vendere le sue pagnotte, spostandosi su un carro diventato la sua casa, trainato dai due figli maschi, prendendosi cura particolare della figlia muta Kattrin. I figli muoiono e la donna impara dalla vita ad essere più forte della vita stessa, emblema dell’istinto di sopravvivenza come un animale impegnato nella strenua difesa della propria tana.
Nel 1975 viene pubblicato il libro di Oriana Fallaci ‘Lettera a un bambino mai nato’, un monologo drammatico effettuato da una donna senza nome e volto, una donna contemporanea priva di biografia, una donna che vive la maternità non come dovere ma come atto responsabile. Le domande che essa affronta, riguardano la legittimità e l’accettazione della nascita di un bambino in un mondo ostile, violento e disonesto. E di una madre al termine della propria esistenza parla ‘L’invenzione della madre’ di Marco Peano (2015). E’ una profonda storia d’amore tra una donna irreversibilmente malata e il figlio che non vuole sprecare nemmeno un attimo di vicinanza alla madre, conscio che niente e nessuno potrà salvarla. Un legame unico e insostituibile, che vive ormai di ricordi, compromessi con le contingenze del quotidiano; un filo che intesse una forma di amore puro e prezioso.
Madri troppo giovani, ancora troppo ‘figlie’ per fare le madri; madri troppo vecchie che vogliono procreare per sentirsi ancora giovani; madri che si arrabattano in contesti sociali difficili; madri che si dimenticano di esserlo. Ma anche madri felici e consapevoli, madri custodi dell’anima, terapeute, maestre di vita, madri adottive dal grande cuore, animi di madre che si prendono cura degli esseri viventi, chiunque essi siano, Auguri!
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Liliana Cerqueni
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