L’uomo che guida col cappello
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L’uomo che guida col cappello per gli altri automobilisti è da sempre emblema di pericolo. Da lui ci si può attendere di tutto: vederselo svoltare a sinistra dopo che ha diligentemente messo la freccia a destra, oppure cambiare direzione d’improvviso senza alcun segnale preventivo: nel dubbio di sbagliare meglio la freccia non usare… Vanno messi nel conto il costante presidio della linea di mezzeria, gli stop senza preavviso, l’andatura a passo d’anatra zoppa. Il top lo raggiunge al semaforo: al passaggio dal rosso al verde ha un momento (un lungo momento) di travaglio esistenziale, che fare? La decisione di mettere mano al cambio e inforcare la ‘prima’ giunge di norma in simultanea con il passaggio dal verde al giallo: egli affronta così, impavido, l’incrocio quando già si sta affollando di veicoli provenienti da ogni direzione. Ma la sua coraggiosa risoluzione è premiata, come ai matrimoni, dal soave saluto dei clacson degli automezzi rimasti per suo merito al palo (semaforico) in attesa del prossimo verde.
La spiegazione a questa bizzarra corrispondenza (cappello uguale incapacità al volante) è tutta di natura psicologica: chi porta un cappello, cosa fa appena arriva a casa? Se lo toglie. ‘L’uomo col cappello’ quando entra in macchina invece se lo tiene, in ogni stagione: è a disagio, non ha familiarità con l’auto, non si sente a casa sua, quindi si protegge. E autoprotettiva è la sua guida: preso da sgomento, ogni tanto frena, senza alcun motivo, così giusto per prudenza…
Il suo antagonista è il tizio che in macchina si comporta come se fosse in un bunker, inaccessibile persino allo sguardo. E che per questo dà spettacolo pubblico: si pettina davanti allo specchietto, si dà – con l’unghia – una ripassatina ai denti e all’occorrenza si trapana con l’indice il naso e con il mignolo l’orecchio. E’ quello che, se ha caldo, al primo semaforo si cambia al volo la camicia. Lui sì che è perfettamente a suo agio in auto, totalmente calato in un ambiente domestico e protettivo, incurante o inconsapevole della proprietà di talune materie d’esser trasparenti: la mente ha grandi inesplorati poteri e la sua lo ha convinto che quelli della sua vettura sono vetri unidirezionali…

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Sergio Gessi
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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)
PAESE REALE
di Piermaria Romani