Nel rapporto sociale con gli altri chi esercita il mestiere di critico deve esulare dalle questioni private, pena confondersi nella marea dei facebookanti o dei twisteriani i quali sbattono in prima pagina i loro problemi ben sapendo che poco importa agli altri quante volte al giorno iterano le loro azioni. Ma quando il fatto privato si trasforma in esempio di una condizione generale allora diventa dovere morale superare quel limite.
La vicenda riguarda mia nipote Elisabetta, che mi autorizza a narrare ciò che le è capitato. Eli a diciannove anni vede chiudersi definitivamente una vita cosiddetta normale. Le si rompe un tacco, sbatte la testa, va in coma e letteralmente risuscita dopo quaranta giorni provata gravemente nel fisico ma conservando intatte le facoltà intellettive. Con l’aiuto degli amici, della famiglia e col suo radioso sorriso si laurea, trova un lavoro e accetta, pur dovendo essere seguita negli spostamenti, di condividere la vita degli altri, specie di coloro che sono stati colpiti nel fisico, quelli che un orrendo termine si definiscono i “diversamente abili”.
Eli diventa un esempio di un eroismo che non si piega alla crudeltà della condizione imposta: con fierezza, con determinazione, con consapevolezza. E per tutti noi che la conosciamo acquista l’autorevolezza di chi ha dato uno scopo preciso e intenso alla sua vita. Si riavvicina alla religione, la pratica con costanza e determinazione. Insomma non si è abbandonata al destino ma lo domina e lo conosce.
L’altra sera tornando dalla sua consueta visita all’Aias dove incontra i suoi amici in via Cassoli s’avvia per ritornare a casa con la sua carrozzina elettrica ed estrae il telefono cellulare per avvertire del suo ritorno. Gli si avvicina un ragazzino dall’apparente età di circa sedici anni che le chiede se ha bisogno. Eli col suo sorrisone e risponde “no grazie”. Fulmineo allora costui le strappa il telefono e inforcando la bicicletta sparisce nel traffico. La costernazione della mia amatissima nipote si esprime in una sola frase che si ripercuote come un’ossessione in tutti i suoi discorsi: “Mi sento umiliata”, “Sono stata ancora umiliata”. Ed è insopportabile per chi non solo condivide il suo destino ma per tutti coloro che hanno ancora rispetto per la dignità morale.
La costernazione autentica e sconsolata del maresciallo dei carabinieri che stende il verbale e trasforma in rapina il furto subito non basta a lenire l’umiliazione di Eli. Frattanto viene consigliato ai suoi amici dell’Aias di non recarsi da soli in sede e limitando così ancora di più la loro libertà.
Ma alla forza di Eli umiliata ma non scoraggiata si contrappone il destino di quel ragazzetto che forse ha compiuto quel gesto disgustoso per procurarsi droga o qualche altro piacere fuggitivo. Non extracomunitario come a molti verrebbe subito alla mente definirlo, ma con un chiaro e inequivocabile accento ferrarese come depone Elisabetta. E qui allora s’intreccia la responsabilità di tutti noi per prevenire, forse opporsi, a una deriva di valori etici che sembra sempre più lontana da quelle condizioni che il nostro tempo sembra dimenticare così velocemente.
Certo non siamo più al tempo di Dickens e Ferrara non è una metropoli dove accadono fatti sicuramente un tempo impensabili in una tranquilla e forse troppo addormentata città di provincia. Eppure la globalizzazione ha portato l’indifferenza del valore etico, anche qui nel luogo di una relativa sicurezza ormai tramontata perché nella tranquilla Ferrara come a New York o Londra o Roma si compiono atti simili forse ancora più efferati in quanto l’inconsapevolezza di ciò che si commette è ancora più profonda.
Che fare? Sarebbe il caso di invocare un inasprimento delle pene che tutt’al più farebbero trascorrere in carcere gli anni più formativi senza procurare una vera “redenzione”. E ancora possibile parlare di “redenzione” oppure il senso dell’eticità si sta profondamente tramutando? Sono domande a cui non so rispondere, ma la frase di Eli, l’umiliazione subita ma alla quale non si arrende dovrebbe e forse lo sarà esempio per tanta gioventù in cui ancora speriamo e che dal proprio interno saprà trovare quella soluzione che forse noi adulti non abbiamo saputo trovare (e forse nemmeno cercare).
Grazie ancora amata nipote per questa lezione che ci hai dato non arrendendoti, ma trovando quella parola che ci fa abbassare gli occhi riconoscendo la tua forza e il tuo coraggio.
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Gianni Venturi
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