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Alla luce dei nuovi naufragi del sistema politico e degli scandali che animano questo tramonto della democrazia ripasso mentalmente la tormentata vicenda di 154 anni di unità nazionale, tenendo fermo il 1860 come inizio del processo. E sfilano, lividi di scandalo e di perversa attitudine al male, i protagonisti, infimi moralmente, della nostra storia. I Savoia, Mussolini, qualche presidente della Repubblica, i responsabili di Tangentopoli, Berlusconi e Scajola e Greganti, poi la nuova trionfante stagione dei mestatori dello scandalo Expo che hanno nel nome il segno di un destino, i fratelli Magnoni (la nonna ci insultava quando mio fratello ed io saccheggiavamo la dispensa al grido di “Magnun”!) che incautamente hanno lasciato nel nome la loro specificità.
Bene fecero, ai tempi loro, i fratelli Falsetti che da umili corniciai pratesi hanno costruito una delle più potenti gallerie d’arte cambiandosi però il cognome in Farsetti! Accanto, il livore e la violenza di Genny ‘a carogna, di “Gastone” o del femminicida di Firenze. Ma sembra non bastare. Si chiede fiducia per le istituzioni, s’invocano “le magnifiche sorti e progressive” per ridare fiato alla politica con la frase non so se più incosciente o compiaciuta del Matteo nazionale che chiede alla politica di stare alla finestra in silenzio finché la magistratura abbia eseguito il suo compito.

Mi domando: quale Paese del cosiddetto Occidente ha sopportato e supportato e ha scelto, nella maggior parte dei casi, la deviazione dall’etica, la frode, la violenza come metodo di governo, come in Italia? Centocinquantaquattro anni di unità nazionale la maggior parte dei quali trascorsi a scegliere il peggio. E non mi pare di mancare di fiducia nell’ottimismo della ragione. Semmai lo sposterei su un carico di fiducia nel sentimento. E penso ai bambini. Studi seri hanno dimostrato che la fanciullezza con il suo carico di egoismo e autoreferenzialità, con la mancata conoscenza del limite è la meno adatta a sviluppare il concetto di giustizia e di democrazia se non fossero, quest’ultime, affidate all’educazione e alla famiglia. Dall’altra parte la fragilità dei cuccioli umani rende questi compiti il vertice della responsabilità verso se stessi e verso gli altri. Non sapremo se da quei visi, da quelle menti, da quelle persone sbocceranno Einstein, Marguerite Yourcenar, Picasso oppure il mostro di Firenze o Pol Pot o qualche dittatore. O più semplicemente persone “normali” Ecco il punto.
Qual è il senso e il significato di “normalità”. Cos’è per il comune sentire la “normalità”? Lavorare con impegno durante la settimana per poi esprimersi in curve sud della violenza? Rispettare le leggi e nello stesso tempo essere indifferente alle tragedie degli altri? Comportarsi come in una riunione di condominio che nella mia, per fortuna brevissima esperienza, è il luogo specifico della banalità dell’egoismo? Si risponde di solito a questi interrogativi contrapponendovi il concetto di “eroismo”. Ma l’eroismo è di sua natura eccezione e non normalità. A meno che non si dia finalmente credito all’eroismo della normalità linfa e nutrimento della crescita della civile convivenza e quindi della possibilità di attuare la democrazia. Ma finché si irride o si truffa questa esigenza non saremo mai nazione, Stato, popolo.

Nella mia lunga carriera di docente nulla ha potuto paragonarsi all’esperienza che ho avuto qualche giorno fa con bambini di terza e di quarta elementare. Mi era sfuggito di mente che in tempi lontanissimi mi ero diplomato maestro e che questa condizione si era rafforzata nell’attenzione alla “didattiha” secondo la gorgia fiorentina a cui m’incitavano i colleghi pedagogisti del Magistero fiorentino. Naturalmente, come si richiede a un critico à la page – come mi ritenevo a causa della mia malattia non curabile: la pavonite – la propensione alla didattica era lontanissima dal mio progetto d’insegnamento. Insegnare – e tenacemente ho perseguito questo che è stato per me il primo comandamento – significava e significa prendere coscienza e consapevolezza del metodo. Solo se ci si rende conto che il progetto e il metodo stanno alla base di qualsiasi curiosità o passione, questa sì era ed è la mia didattica. In questo modo la parola non può essere mistificata così come il pensiero. Sta dicendo Papa Francesco in questo esatto momento la scuola apre la mente alla realtà. Un pensiero che può essere accettato e fatto proprio dalla laicità perché la realtà non è questione di fede ma di conoscenza. Il massimo grado della realtà è quello che viene veicolato dalle forme d’arte e d’espressione del pensiero primo fra tutti la poesia E la realtà e verità e non menzogna come ci hanno contrabbandato coloro che così male hanno preso le redini di questo paese trasformandolo nelle montaliane Stalle d’Augia tra lo strame dell’inganno e del profitto illecito.

L’esperienza con i bambini mi ha profondamente non dico commosso ma rinforzato nell’idea che un’età preziosa come la fanciullezza va preservata instillando loro il senso della bellezza come realtà. Come disvelamento della verità a cui si devono inchinare le miserie umane comprese quelle politiche. E ricordando il bacio sulla mia pelata deposto dai piccoli ascoltatori chiudo infastidito la televisione dove un urlante Grillo istiga alla violenza verbale e al disconoscimento della realtà intesa come metodo ed etica del vivere quotidiano.

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.


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