Questi sono i giorni in cui tutti noi siamo molto impegnati a trasformare il nostro “io egocentrico ed individualista” in un “io altruista e collettivo”.
In conseguenza dei drammatici episodi accaduti in Francia, siamo diventati tutti Charlie ma anche Ahmed e addirittura ebrei.
Siamo stati bravi in questa difficile metamorfosi e quel che mi sorprende di più è che ci siamo riusciti con grande facilità, dimostrando un’empatia insolita di questi tempi.
Siamo stati così bravi che trovo strano come molti invece non riescano ancora, con la stessa facilità, ad affermare: siamo palestinesi, siamo curdi, siamo nigeriani o addirittura musulmani.
Siamo stati talmente bravi che mi sembra singolare il fatto che tanta gente non sia riuscita a indignarsi a dovere di fronte all’ipocrisia mostrata in mondovisione da certi governanti, calpestatori di libertà individuali e “masters of war” che domenica scorsa hanno sfilato fianco a fianco a Place de la République, come paladini della libertà d’espressione.
È stato facile per tutti noi perché si è trattato solo di scrivere, di cinguettare, di indossare una frase semplice: “#JeSuisCharlie”.
Una frase che, come un abito blu, può essere vestita con facilità da chiunque, anche dalle personalità meno coerenti; una frase di moda che non sfigura e che fa sembrare eleganti nei salotti buoni.
Una frase facile che poi però viene digerita in fretta perché, oggi, anche i peggiori paradossi sono solubili nel fango putrido di questo misero presente.
Pur avendo tentato anche io, nel mio piccolo, di essere Charlie sono stato e sono insofferente ai facili slogan e alle conseguenti adesioni di massa, soprattutto se non ci si fanno troppe domande su ciò che è davvero avvenuto (spero concorderete che di aspetti poco chiari ce ne sono un bel po’ in questa tragica vicenda).
Confesso poi che, pur non avendo mai avuto occasione di leggere con continuità la rivista Charlie Hebdo, dico che alcune vignette mi piacciono molto, altre invece neanche un po’, anzi ultimamente mi sembrano addirittura intolleranti e/o islamofobe.
Non ho comprato l’ultimo numero di Charlie Hebdo in allegato con Il Fatto Quotidiano e non mi sento in colpa.
Ciò non toglie però che quei giornalisti avessero e abbiano il sacrosanto diritto di esprimere le loro opinioni, nella maniera che ritengono più opportuna.
Credo, in maniera convinta, nella libertà di espressione.
Ci credo anche se non sempre mi piace ciò che certi artisti o giornalisti esprimono con le proprie idee ed i loro messaggi.
Ma ci credo non solo quando gli eventi drammatici portano i mass media a propinarci conclusioni che fanno comodo e che ci coinvolgono a tal punto da farci sentire combattenti coraggiosi in difesa delle libertà, sotto la bandiera transitoria di Je Suis Charlie.
Credo e provo a difendere la libertà di espressione anche quando si tratta di un’immagine che raffigura il nostro vescovo con una barbie in mano in un manifesto che pubblicizza un concerto di vari gruppi punk a Ferrara; ci credo anche quando, in televisione, alcuni artisti vengono epurati da certi programmi televisivi; ci credo anche quando le copertine dei dischi non sono sempre “affascinanti e zuccherose”; ci credo anche quando le parole delle canzoni o delle poesie danno fastidio o urtano certe sensibilità; ci credo quando i film o i documentari graffiano la superficie per cercare la verità.
Ci credo e mi riconosco nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e nell’articolo 21 della nostra Costituzione che recita: “Tutti hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili. Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni.”
Essere Charlie, per me, vuol dire anche preoccuparsi di come questa solidarietà possa essere usata da chi ha interessi ben lontani dalla difesa dei diritti delle persone e delle libertà individuali.
Occorre insomma far attenzione al pericolo delle strumentalizzazioni che oggi ti fanno essere Charlie e domani non si sa chi.
Ho letto una lettera, sui recenti fatti di Parigi, scritta da alcuni professori e pubblicata l’altro ieri da Le Monde.
La incollo di seguito perché mi sembra essere un ragionamento ‘forte’ che invita ad uscire dalla logica di chi, colpevolizzando gli altri, si sente il più giusto e quello con la verità “take away” regalata dai media, già pronta ed offerta su un bel piatto d’argento.
Comunque la pensiate, buona partecipazione.
da Le Monde del 13 gennaio 2015
“Siamo professori di Seine-Saint-Denis. Intellettuali, scienziati, adulti, libertari, abbiamo imparato a fare a meno di Dio e a detestare il potere e il suo godimento perverso.
Non abbiamo altro maestro all’infuori del sapere. Questo discorso ci rassicura, a causa della sua ipotetica coerenza razionale e il nostro status sociale lo legittima.
Quelli di Charlie Hebdo ci facevano ridere; condividevamo i loro valori.
In questo, l’attentato ci colpisce.
Anche se alcuni di noi non hanno mai avuto il coraggio di tanta insolenza, noi siamo feriti.
Noi siamo Charlie per questo.
Ma facciamo lo sforzo di un cambio di punto di vista e proviamo a guardarci come ci guardano i nostri studenti.
Siamo ben vestiti, ben curati, indossiamo scarpe comode, siamo al di là di quelle contingenze materiali che fanno sì che noi non sbaviamo sugli oggetti di consumo che fanno sognare i nostri studenti: se non li possediamo è forse anche perché potremmo avere i mezzi per possederli.
Andiamo in vacanza, viviamo in mezzo ai libri, frequentiamo persone cortesi e raffinate, eleganti e colte.
Consideriamo un dato acquisito che la libertà che guida il popolo e Candido fanno parte del patrimonio dell’umanità. Ci direte che l’universale è di diritto e non di fatto e che molti abitanti del pianeta non conoscono Voltaire? Che banda di ignoranti…
È tempo che entrino nella Storia: il discorso di Dakar lo ha già spiegato loro.
Per quanto riguarda coloro che vengono da altrove e vivono tra noi, che tacciano e obbediscano.
Se i crimini perpetrati da questi assassini sono odiosi, ciò che è terribile è che essi parlano francese, con l’accento dei giovani di periferia.
Questi due assassini sono come i nostri studenti.
Il trauma, per noi, sta anche nel sentire quella voce, quell’accento, quelle parole.
Ecco cosa ci ha fatti sentire responsabili.
Ovviamente, non noi personalmente: ecco cosa diranno i nostri amici che ammirano il nostro impegno quotidiano.
Ma che nessuno venga a dirci che con tutto quello che facciamo siamo sdoganati da questa responsabilità.
Noi, cioè i funzionari di uno Stato inadempiente, noi, i professori di una scuola che ha lasciato quei due e molti altri ai lati della strada dei valori repubblicani,
noi, cittadini francesi che passiamo il tempo a lamentarci dell’aumento delle tasse,
noi contribuenti che approfittiamo di ogni scudo fiscale quando possiamo,
noi che abbiamo lasciato l’individuo vincere sul collettivo,
noi che non facciamo politica o prendiamo in giro coloro che la fanno, ecc.:
noi siamo responsabili di questa situazione.
Quelli di Charlie Hebdo erano i nostri fratelli: li piangiamo come tali.
I loro assassini erano orfani, in affidamento: pupilli della nazione, figli di Francia.
I nostri figli hanno quindi ucciso i nostri fratelli.
Tragedia. In qualsiasi cultura questo provoca quel sentimento che non è mai evocato da qualche giorno: la vergogna.
Allora, noi diciamo la nostra vergogna.
Vergogna e collera: ecco una situazione psicologica ben più scomoda che il dolore e la rabbia.
Se proviamo dolore e rabbia possiamo accusare gli altri.
Ma come fare quando si prova vergogna e si è in collera verso gli assassini, ma anche verso se stessi?
Nessuno, nei media, parla di questa vergogna. Nessuno sembra volersene assumere la responsabilità.
Quella di uno Stato che lascia degli imbecilli e degli psicotici marcire in prigione e diventare il giocattolo di manipolatori perversi, quella di una scuola che viene privata di mezzi e di sostegno, quella di una politica urbanistica che rinchiude gli schiavi (senza documenti, senza tessera elettorale, senza nome, senza denti) in cloache di periferia.
Quella di una classe politica che non ha capito che la virtù si insegna solo attraverso l’esempio.
Intellettuali, pensatori, universitari, artisti, giornalisti: abbiamo visto morire uomini che erano dei nostri.
Quelli che li hanno uccisi sono figli della Francia.
Allora, apriamo gli occhi sulla situazione, per capire come siamo arrivati qua, per agire e costruire una società laica e colta, più giusta, più libera, più uguale, più fraterna.
«Nous sommes Charlie», possiamo appuntarci sul risvolto della giacca.
Ma affermare solidarietà alle vittime non ci esenterà della responsabilità collettiva di questo delitto.
Noi siamo anche i genitori dei tre assassini.”
I firmatari di questo testo sono: Damien Boussard, Valérie Louys, Isabelle Richer e Catherine Robert, professori al Liceo Le Corbusier a Aubervilliers
Fonte [vedi]
Traduzione di Claudia Vago
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Mauro Presini
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