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È davvero singolare che nel nostro Paese di scuola se ne debba sempre parlare per improvvisazione, o è una nostra condanna o è nel nostro Dna. Sta di fatto che nessuno che non sia un ingegnere si metterebbe a discutere di ponti, invece di scuola possiamo discettare tutti, forse perché tutti ne abbiamo fatto esperienza. E così ora ci prova anche il ministro Giuliano Poletti, il quale, da buon ministro dell’economia, ha scoperto che tre mesi di vacanza dalla scuola sono davvero uno spreco.
Ora però bisognerebbe intendersi di quale spreco si parla. Degli edifici inutilizzati, degli insegnanti che, sebbene non in ferie, non vengono chiamati a lavorare o degli studenti che si presume che per tre mesi stiano con le mani in mano a bighellonare? Tre mesi estivi della propria vita buttati via. Perché i giorni a sorbire lezioni noiosissime e prive d’ogni interesse non sarebbero bruciati?
C’è qualcuno da qualche parte che mai sia sollecitato a spremere la materia grigia per ragionare su cosa dovrebbe essere la scuola, non che vagheggia lui, ma quella degna di un terzo millennio, che prepara i giovani per un tempo e un’epoca che a nessuno di noi oggi è dato di conoscere? E poi studenti sono solo quelli delle superiori o anche i bimbetti delle elementari? Anche la loro è scuola per il ministro Poletti? Perché mica li vedo i piccoli a fare stage nelle imprese, lavori o volontariato. Insomma, sono uscite che denunciano come anche tra i nostri politici le idee sulla scuola e sull’istruzione siano avvolte dalla nebbia più fitta.
Hanno mai provato questi a farsi una bella vacanza estiva nelle nostre scuole prive di impianto di condizionamento, in quegli edifici tutto cemento armato e vetri, stile edilizia scolastica anni sessanta, settanta del secolo scorso, freddi d’inverno e saune d’estate? Inoltre istruzione è solo ciò che è riconosciuto dal ministero deputato o esiste un’istruzione anche al di fuori dei decreti legge. Il nostro paese è ricco di musei, di biblioteche, di centri di cultura, perché ai nostri giovani non è mai data l’opportunità di fare esperienze di lavoro e di ricerca al loro interno e non solo l’estate, ma anche tutti gli altri mesi dell’anno?
È evidente che la materia è complessa e che per essere affrontata richiederebbe prima di ragionare sulla scuola che siamo e su quella che potremmo diventare. Ragionare, come ormai più volte ho scritto, sul rapporto che intercorre tra istruzione e cultura.
Lo dico apertamente, sono d’accordo anch’io con il ministro Poletti, ci sono tre mesi di buco. Ma non mi piace il modo approssimativo e semplicistico con cui viene posto il problema.
È del sistema formativo che dobbiamo discutere, dell’uso che facciamo di edifici pubblici come le scuole, della professione docente, dei progetti di vita dei nostri giovani dal momento in cui la scuola li prende in carico.
Dalla famiglia non si va in vacanza, difficilmente non si è a proprio agio, accade, può accadere, ma non è la norma. Sono la fatica, il disagio, lo stress, la noia, la ripetitività tipici del lavoro come delle nostre scuole, che richiedono di prendere fiato, di rigenerarsi. Certo il lavoro è un conto, ma la scuola è certamente un altro. Allora la scuola intanto dovrebbe diventare un luogo dove stare bene fisicamente e psicologicamente, come sono le nostre famiglie, le nostre case, dove certo le fatiche e gli impegni non mancano. Ma ambienti, atmosfere, relazioni sono ben altro. Se l’apprendimento è permanente, se viviamo nella società della conoscenza, perché mai tre mesi lontani dalla scuola dovrebbero essere un tempo perduto? Forse ciò che manca è la capacità di pensare a una scuola in relazione con la società ed a una società in relazione con la scuola. L’incapacità nostra di confezionare un tessuto di opportunità, di occasioni di cultura e conoscenza, di apprendimenti sistematici, di riconoscimento, anche salariale, dell’impegno e dell’intelligenza delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi, di gratificazioni e valorizzazioni che spronino e motivino sempre più allo studio, all’applicazione. Non realtà di dignità inferiore all’istruzione scolastica, ma alla pari con essa, che si integrano nei programmi di studio, nei percorsi di sapere, nella formazione culturale dei nostri giovani, per interesse, per libera scelta, per coerenza con i percorsi scolastici.
Siamo cittadini europei e del mondo, ma le nostre scuole sono ancora molto chiuse in se stesse. Perché i mesi estivi non sono mai diventati l’occasione, come in tante parti del mondo accade, di campus. L’occasione per bambini e ragazzi di andare all’estero con i loro insegnanti a conoscere i loro coetanei, le loro esperienze, a imparare la lingua dal vivo anziché dai banchi di scuola, a imparare a conoscersi, a comunicare. E perché le nostre scuole nei mesi estivi non diventano i campus dove poter ospitare insegnanti e studenti di altri Paesi, per occasioni di scambio, di arricchimento sociale, umano e culturale?
Vede ministro Poletti, le scorciatoie sono tante, ma per essere seri e credibili i problemi sono ben altri.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.


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