L’OPINIONE
Il “buonismo”, una comoda etichetta che piace ai semplificatori
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C’è un termine usato spesso in politica ma non solo, per me particolarmente fastidioso: “buonismo”. È vero che la lingua italiana, come ogni altra, è in continua evoluzione e continuamente nascono parole nuove. Ma cosa vuol dire buonismo? Un sinonimo di “buono”? Un derivato di “bontà”? La definizione di un atteggiamento umano caritatevole, tollerante, predisposto verso l’altro, verso chi ha bisogno e chiede aiuto? E al buonismo si oppone il “cattivismo”?
Macché. Questo è un termine usato in senso spregiativo, proprio di una certa cultura deteriorata del nostro tempo: spregiativo perché identifica, sotto sotto, l’ipocrita, colui che pur pensandola in altro modo, adotta criteri mentali condiscendenti, espressi con vocaboli melliflui, irenici, accomodanti, ma non lo fa certo per intimo convincimento.
Il termine “buonista” non a caso, è utilizzato molto da chi vede nella violenza uno dei mezzi per risolvere situazioni drammatiche e conflittuali. Ad esempio, nella vicenda tragica dei migranti, per certuni è buonista (quando non comunista) chi intende accoglierli. E così si semplifica quel che semplice non è affatto: tipico atteggiamento dei nostri tempi e di un modo di pensare che la destra, politica e culturale ha fatto suo e alimenta.
La lingua è sempre un rivelatore del Zeitgeist, dello Spirito del tempo. Ma tant’è: per me il “buonista” non esiste; esiste invece l’ipocrita, il “sepolcro imbiancato”, appellativo usato da Gesù nei confronti dei farisei. Le persone si giudicano per quel che fanno, non per quel che dicono.
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Franco Stefani
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