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Ci vuole grande coraggio e stomaco forte per amare o anche soltanto rispettare il meraviglioso, insopportabile, satanico Paese nostro, calpestato e vilipeso dai suoi sciamannati figli, i quali pensano di aver ricevuto in dono da Dio la licenza di distruggere: personaggi, eventi, ingiustizie, idiozie incombono su di noi in un crepuscolo tempestoso e impietoso, una volta si diceva che gli dei ci puniscono. Osservazione ragionevole, di occasionale sul nostro pianeta c’è poco e l’Italia è una terra asociale, fascistella d’animo, terra di furbastri, delinquentelli e mariuoli di varia specie. Con il cuore gonfio ho seguito in questo torrido autunno di tregenda il nuovo scempio di una regione che agli italiani dovrebbe essere molto cara e non soltanto agli italiani, al mondo abbiamo donato le Americhe, tutto sommato fu latina la grande idea che oltre le Colonne d’Ercole il pianeta continuava e non moriva lì chissà come e chissà perché. Il geniaccio italiano, questo strano popolo, si caricò sulle spalle inglesi, francesi, spagnoli, traghettandoli, grazie Colombo!, oltre oceano e siamo rimasti a guardare come si fa ricchezza, facendoci poi canzonare per la nostra povertà. Ricordo che a un ricevimento in un’ambasciata romana, un funzionario francese, non ricordo di che si stesse parlando, disse, con l’arrogante sicumera di un novello Chauvin, disse “voi italiani avete sempre combattuto per il pane, noi per la gloria” e l’amico che accompagnavo, un vecchio e valentissimo giornalista e scrittore, Manlio Miserocchi, lo guardò di sottecchi e gli rispose freddamente “ognuno combatte per quello che non ha!”, zittendo il maleducato e ignorante transalpino. Il quale, tuttavia, non avrebbe avuto tutti i torti se soltanto avesse voluto condannare la nostra filosofia esistenziale, così protervamente egoista, così ingenuamente provvisoria, ché il futuro per gli italiani non esiste.

Ragionavo fra me e me di queste jatture, mentre alla televisione trasmettevano le spaventose immagini di Genova sconvolta dalle acque che tecnici e politici hanno operato per farle precipitare da monte a valle sempre più impetuose, impossibili da frenare, come le cascate del Niagara. E dicevo a voce alta (parlo sempre a voce alta con la televisione, vezzo dei vecchi): malviventi!, uccidete questa città e questa regione che ci hanno dato artisti, politici, navigatori, poeti, uccidete perchè non sapete far altro. E mi è venuto in mente il racconto che mi fece due anni fa l’amica Dodò subito dopo che il fiume Magra era entrato in albergo, il piccolo, ineguagliabile hotel “Sette archi” di Bocca di Magra, dove da anni trascorro le mie vacanze marine, dal quale vedo le Alpi Apuane, sembrano le Dolomiiti, che si specchano nella larga foce del fiume e nel porticciolo, rifugio per decine, forse centinaia di barche, piccole imbarcazioni a vela e alcuni grandi yacht, i cosiddetti “ferri da stiro” di proprietà di poveretti che chissà se in banca hanno di che pagare le tasse. E’ un panorama unico, incantevole, non contaminato dal rumore delle auto che qui non possono arrivare, un luogo silenzioso che si chiude verso il mare nel parco e nei ruderi di un’antica villa romana. Dalla terrazza della mia camera vedo il paesaggio aprirsi sotto i picchi intagliati dagli uomini, i famosi cavatori di Colonnata. Cavatori anarchici, nella piazzetta del paese hanno affisso una lapide dedicata “a tutti I compagni anarchici uccisi sulla strada della libertà”. Si, quando ci penso il cuore mi si gonfia e lo sguardo corre verso Sud, pochi chilometri e so che deve fermarsi a Stazzema, luogo dell’orrore nazifascista, dove i boia neri, prima di scendere a Marzabotto, uccisero nel 1944 oltre cinquecento donne e bambini, ma le nostre incompatabili enciclopedie ci ricordano soltanto che “nel territorio vi sono cave di marmo” e che il paese conserva la pieve romanica di S. Maria Assunta. Va bene così.

E proprio da questi monti scoscesi della Liguria le bufere hanno scaricato due anni fa una cascata d’acqua, da Bocca di Magra alle Cinque Terre fino a Genova . I liguri non si persero d’animo, non versarono troppe lacrime, non urlarono, abituati a quel silenzio così ben descritto dal grande Biamonti, curvarono la schiena e ricominciarono il loro lavoro di infaticabili formiche . Ma sperarono: quel disastro poteva, doveva essere l’inizio di una ricostruzione ragionevole e ragionata. Niente da fare, lo sciocco languore speculativo italiano ha prevaricato ancora. E’ sempre stato così. Ricordo che nel 1987 si tenne in Comune a Ferrara una solenne riunione di politici e di alti funzionari, presente l’allora presidente del Consiglio Giovanni Goria, che si chiuse con un giuramento: il Po sarebbe stato salvato. Il Po è sempre meno navigabile, continua a essere una fogna a cielo aperto, uno splendido fiume. Morto.

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Gian Pietro Testa



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