Vite di carta. Lo jettatore
Sto leggendo Il colibrì di Sandro Veronesi, come era nei miei programmi, soprattutto dopo avere ascoltato l’autore al Festivaletteratura a Mantova sabato scorso. Per le prime cento pagine mi sono lasciata andare a leggere semplicemente, cercando di assorbire il libro e basta. Però. Da stamattina non ce l’ho più fatta, mi sono dovuta fermare. E’ stato un personaggio, quello di Duccio Chilleri a darmi l’alt: in lui c’è un richiamo troppo forte a una novella straordinaria poi diventata atto unico di Luigi Pirandello, La patente.
Superati senza scosse i primi capitoli con i loro salti temporali, rinunciando a collegarli ad altri libri con gli stessi salti; superata la tentazione di verificare l’ipotesi che il libro sia organizzato non in ordine cronologico ma per temi come La coscienza di Zeno; mi sono dovuta soffermare su Duccio, il quale imperversa nel quinto capitolo e poi ritorna in Fatalities (1979), che è il numero 17.
Mi urgeva fare un bilancio, provvisorio si sa, sulle reazioni di lettura; ci ho riflettuto un momento e ho realizzato che questo libro è fatto di storie di persone che si intrecciano e non di oggetti, come era emerso sabato scorso a Mantova nel discorsetto di Veronesi sugli architetti che fanno gli scrittori.
E allora seguo la mia pista di lettura collaterale, va bene anche così; interrompo Il colibrì e scendo in studio ad acchiappare la copia dell’atto unico La patente, dove il protagonista Rosario Chiarchiaro fa la parte dello jettatore, che chiede di essere riconosciuto ufficialmente come tale e va dal giudice per ottenere la relativa patente.
Rosario e Duccio portano jella, ecco cosa li rende molto simili.
Di Duccio si dice al capitolo 4: “Era un ragazzo alto e sgraziato ma ugualmente dotato negli sport…Nero di capelli, sorriso cavallino, talmente magro da sembrare sempre di profilo, era accompagnato dalla reputazione di portare sfortuna” e da ciò era derivato il soprannome di “Innominabile”.
Tutto era nato negli anni dell’infanzia da un brutto incidente sugli sci capitato in gara a un bambino suo avversario; a lui Duccio aveva predetto che si sarebbe fatto male cadendo. Poi si erano accumulati altri episodi negli anni della adolescenza e il risultato era stata la perdita delle amicizie, gli altri ragazzi “credevano davvero che Duccio Chilleri portasse iella”, “qualunque suo pronunciamento aveva la forza mistica di un anatema”. E’ “sbalorditivo”, ma alla fine degli anni settanta del XX secolo questo accadeva a Firenze.
Rosario Chiarchiaro ci trasporta invece nella Sicilia degli inizi del Novecento, quando ‘jella’ aveva una grafia diversa. Leggiamo la descrizione che ne fa Pirandello in una lunga didascalia che precede l’ingresso del personaggio sulla scena, nello studio del giudice D’Andrea che dovrebbe rilasciargli la patente di jettatore: “S’è lasciato crescere sulle cave gote gialle una barbaccia ispida e cespugliuta; s’è insellato sul naso un paio di grossi occhiali cerchiati d’osso che gli danno l’aspetto di un barbagianni; ha poi indossato un abito lustro, sorcigno, che gli sgonfia da tutte le parti, e tiene una canna d’India in mano col manico di corno”.
Chiarchiaro è un uomo maturo, è padre di famiglia; se si è conciato così è per disperazione. Da un anno vive in miseria con la moglie e le due figlie nubili, poiché ha perso il lavoro, è “fustigato da tutti, sfuggito da tutto il paese come un appestato”. Non gli resta che ricorrere alla giustizia e perciò sporge denuncia contro il figlio del sindaco e contro l’assessore Fazio, che hanno fatto gli scongiuri vedendolo passare.
Lo scopo, però, è di perdere la causa. Al giudice D’Andrea, che fatica a capire Chiarchiaro, spiattella le sue intenzioni: “Io mi sono querelato perché voglio il riconoscimento ufficiale della mia potenza. Non capisce ancora? Voglio che sia ufficialmente riconosciuta questa mia potenza terribile, che è ormai l’unico mio capitale, signor giudice!”
Alla parola “capitale” mi fermo e faccio il punto sul rapporto che lega questo personaggio al Duccio di sopra. Dunque entrambi patiscono la fama di portare sfortuna; in termini pirandelliani si direbbe che la società ha imposto loro una ‘maschera’, che li determina senza scampo. Ne risente il loro aspetto: anche Duccio subisce dal suo autore una descrizione espressionistica che sfiora la caricatura.
Vediamolo sempre al capitolo quattro: finita l’adolescenza sono bastati pochi anni per fargli cambiare aspetto. “Fisicamente era diventato alquanto impresentabile: quando parlava, una bavetta bianca aveva preso a raggrumarglisi negli angoli della bocca; i capelli corvini erano sempre più unti e forforosi; si lavava poco e il più delle volte puzzava”.
Ne risente il rapporto con gli altri, la cattiva nomea lo avvolge come una crosta. Solo Marco Carrera è rimasto amico di Duccio; egli ha anche elaborato una teoria sulla propria incolumità e l’ha chiamata “l’occhio del ciclone”. Secondo questa teoria, a mantenersi a stretto contatto con l’Innominabile non si rischia nulla, come accade se ci si posiziona al centro dei vortici ciclonici. Poi, con gli anni anche Marco si allontana da Duccio.
Il punto di svolta è l’incidente aereo che i due hanno evitato perché Duccio, preso dal terrore per il volo, ha preteso di scendere dal velivolo poco prima del decollo, non senza lanciare uno dei suoi anatemi ai passeggeri. In seguito alla caduta dell’aereo le vittime, le “fatalities” del titolo, sono 94. Marco resta travolto dal peso di questa tragedia, si tiene dentro le angosce che ne conseguono e il dubbio “circa un universo veramente attraversato da forze occulte, delle quali il suo amico d’infanzia fosse veramente in possesso”.
Non so se il seguito del romanzo mi farà conoscere altre svolte nell’amicizia tra i due. Nel punto in cui mi trovo Duccio risulta isolato dagli altri.
Invece so bene come va a finire nell’opera di Pirandello: Rosario Chiarchiaro, dopo aver subito la stessa emarginazione, ha reagito con forza; la sua richiesta di essere riconosciuto ufficialmente come jettatore costituisce un paradosso, uno dei tanti a cui ci ha abituato Pirandello, ma gli permette di incamerare la maschera che gli altri gli hanno imposto. Se avrà la patente di jettatore, infatti, potrà usarla a proprio vantaggio.
Al giudice D’Andrea sempre più sbigottito spiega: “Ci sono tante case da giuoco nel nostro paese! Basterà che io mi presenti. Non ci sarà bisogno di dir niente. Il tenutario della casa, i giocatori, mi pagheranno sottomano, per non avermi accanto e per farmene andar via!” Lo stesso accadrà quando si apposterà presso una gioielleria e verrà pagato per spostarsi vicino al negozio della concorrenza. Sarà come una tassa che gli verrà versata e lo renderà ricco.
La ‘maschera’ di Chiarchiaro e la ‘crosta‘ che circonda Duccio, ecco il punto di incontro tra i due, il loro essere vittime dell’ignoranza e della superstizione. Anche se il testo di Pirandello nel finale ci lascia sbalorditi, il suo genio ci introduce nei piaceri del relativismo e della frantumazione di ogni certezza, quando nello studio del giudice arriva una folata di vento che fa cadere la gabbia dell’amato cardellino e la bestiola muore. Chiarchiaro trionfa: anche il giudice D’Andrea, così razionale, deve capirlo, che di fronte a sé ha un vero jettatore; ora potrebbe dare risposta anche ai dubbi di Marco Carrera circa le “forze occulte” che si aggirano nell’universo.
Da domani mi attende la lettura del resto del romanzo. Rientro dalla stradina collaterale alla strada maestra, tuttavia la mia sosta è stata utile, perché mi ha fatto rileggere il mio amato Pirandello. Poi c’è un’altra ragione. Domenica scorsa non ho potuto seguire l’intervista che, sempre a Mantova, Marco Malvaldi ha rivolto a un grande narratore della scena mondiale, Javier Cercas.
Dal resoconto che ho recuperato nel sito del Festival ho tratto, però, alcune affermazioni di Cercas che mi sono piaciute, quando parla del lettore. Una in particolare: “E’ l’aspettativa il male più grande che possa affliggere il lettore…, l’aspettativa che debba sempre succedere qualcosa in più. Abbiamo spesso l’impressione che nei libri non succeda niente perché non cerchiamo abbastanza. Nei libri, se cerchiamo bene, succede tutto”.
Eccola qui la ragione che mi ha costretta a fermare la lettura del Colibrì. Mi sono lasciata trasportare dalle aspettative sul libro, quelle che mi sono fatta ascoltando l’autore e quando ho realizzato che per me nel libro c’è altro, per meglio dire c’è ‘anche’ altro, ho voluto fare il punto sulla situazione. Secondo Cercas mi resta ancora molta ricerca da fare sul libro che sto leggendo e questa regola l’ho fatta mia da tanto, da quando ho capito che lettura e scrittura sono due realtà in perenne comunicazione.
Quello che farò quando mi metterò a leggere anche i suoi romanzi sarà sbagliare di nuovo, perché su di lui mi sono già creata grandi aspettative.
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Roberta Barbieri
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