Per il presidente del Consiglio, e con lui i renziani e tutti quelli che l’hanno votata in Parlamento, non ci sono dubbi: finalmente una legge con la quale la sera stessa al temine del voto si sa chi ha vinto e chi ha perso. Senza più il valzer delle dichiarazioni con le quali tutti dicevano, per lo meno, di non avere perso.
Alcuni si accontentano di dire che il nuovo sistema di voto per il rinnovo del Parlamento (in attesa che si compia quella costituzionale che elimini il Senato elettivo) è il meno peggio, date le condizioni, dal momento che la politica è l’arte del possibile e non il libro dei sogni.
Altri dicono il contrario, come il politologo Gianfranco Pasquino (La Nuova Ferrara 4 aprile scorso), che scrive senza mezzi termini: “una legge elettorale brutta, sicuramente la peggiore nel panorama delle democrazie europee”.
Ma di che cosa si sta discutendo? Andando all’osso della questione, i punti che hanno scatenato le critiche più accese sono due.
Il primo è il premio di maggioranza da attribuire alla lista che al primo turno della corsa elettorale si aggiudica almeno il 40 per cento dei consensi, oppure che risulti vittoriosa in un secondo turno ristretto fra i primi due partiti più votati al primo, nel caso nessuno raggiunga la soglia del 40.
L’altro punto dibattuto riguarda il nodo dei capilista bloccati (cento, ossia quante saranno le circoscrizioni elettorali), e cioè certamente designati da chi comanda nel partito (tutti i partiti quindi), e c’è da credere che lo siano per intero, o quasi, le liste, con tanti saluti alla possibilità dei cittadini di scegliere chi va in Parlamento.
Naturalmente ognuno rimane libero di continuare a vedere il bicchiere mezzo pieno oppure vuoto del tutto, ma nel polverone delle prese di posizione che gridano all’attentato alla democrazia, diverse paiono meritare l’iscrizione di diritto nella schiera dei “senti chi parla”. Cominciamo dalle opposizioni, almeno di alcune.
Fa senso che Forza Italia e la Lega si straccino le vesti di fronte a una legge ritenuta pessima e per la quale già si invoca il referendum abrogativo. Proprio gli stessi che non hanno alzato un sopracciglio quando votarono compatti il Porcellum, poi annullato dalla Corte costituzionale. Il suo autore, Roberto Calderoli, non esitò a definirla una porcata (da qui il latino Porcellum coniato da Giovanni Sartori), ma nessuno di loro ebbe alcun moto di coscienza nel fermarla, né per rivolgersi al corpo elettorale per rimediare allo scempio.
Non una parola di autocritica sul fatto che lo stesso Cavaliere, fin tanto che il Patto del Nazareno ha retto, abbia giudicato conveniente anche in casa azzurra il punto dei nominati.
Prima tutti zitti e allineati dietro il Capo andava bene, ora è un attacco alla democrazia. A proposito, viene da chiedersi se il Parlamento in tutti questi anni non abbia di fatto spianato il terreno verso esiti così densi di incognite (a forza di interminabili, inconcludenti e strumentali dispute), quando nomi come Turigliatto, Scilipoti e Razzi, troverebbero perfetta collocazione come tipi ideali nei modelli analitici di Max Weber.
In casa Pd, invece, la minoranza interna si immola sul doppio altare delle preferenze (da sostituire ai capilista nominati) e del premio di maggioranza alla coalizione anziché alla lista vincente (stessa critica anche da destra), per scongiurare il pericolo asso pigliatutto del Partito della nazione. Obiettivo che sarebbe nella testa di Matteo Renzi e visto come fumo negli occhi per chi vorrebbe l’approdo definitivo dell’Italia nel porto europeo e maturo delle democrazie dell’alternanza.
Qui la parola la prende il costituzionalista Augusto Barbera (QN 9 aprile): “Fino a qualche tempo fa le preferenze erano il male assoluto e ora diventano il bene assoluto. Quanto al premio di lista, sono sorpreso di vedere certe posizioni da parte di chi nel 2009 sostenne il referendum di Guzzetta che prevedeva il premio di maggioranza al partito più votato. E poi non si diceva che bisognava evitare coalizioni rabberciate, fatte solo per vincere?”.
In effetti, se si guarda indietro le coalizioni targate Prodi e Berlusconi non sono state propriamente un trionfo. Va bene che l’Italia sia un paese smemorato, ma non stiamo parlando del cenozoico.
Perché mai ciò che non ha mai funzionato finora, adesso dovrebbe essere la soluzione in nome della democrazia?
Se, ad esempio, da buona parte degli studiosi la strada indicata da tempo sulla materia è un sistema uninominale a doppio turno (alla francese), perché si continua, da decenni, a girare intorno al problema con soluzioni una più pasticciata dell’altra?
I veri riformatori, come tanti si definiscono oggi, dovrebbero essere quelli che non allargano le braccia di fronte ai limiti della situazione data, ma creare le condizioni migliori per uscire dalle secche dello status quo.
Forse una risposta a questi dubbi la scrive Bruno Manfellotto, ex direttore de l’Espresso e oggi editorialista del settimanale (23 aprile): gli spagnoli votano con lo stesso sistema elettorale da 35 anni; i francesi da 50; i tedeschi da 60; gli inglesi da un paio di secoli. L’Italia dei mille campanili ha già sfornato dodici leggi elettorali dall’Unità ad oggi e con l’Italicum fanno 13.
Lasciando stare chi è superstizioso, magari il senso di queste parole è che altrove le leggi elettorali sono come dei vestiti le cui misure sono prese sul Paese, mentre da noi sulle convenienze dei protagonisti di volta in volta sulla scena politica.
Così accade che in Europa le misure del Paese restano identiche, salvo quando a qualcuno viene in mente di invadere la Polonia, mentre in Italia occorre rifare il vestito ogni volta che cambia l’autista di turno.
E a noi semplici cittadini, sempre più spettatori che arbitri come invece chiedeva Roberto Ruffilli, non rimane che l’espressione tipica, con quel sorriso metallico, dei mariti quando accompagnano le mogli in giro per vetrine e mercatini.
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Francesco Lavezzi
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