L’irrisolta ‘questione palestinese’ favorisce
gli estremismi
Tempo di lettura: 4 minuti
di Giuseppe Fornaro
Qualcuno si è chiesto perché tanta tiepidezza, anche a sinistra, sul conflitto in corso
nella striscia di Gaza. Perché non c’è uno schieramento unanime, o per lo meno prese
di posizione nette a favore dei palestinesi. A mio parere le ragioni sono molteplici.
Intanto, l’offensiva militare sferrata da un’organizzazione politica che si ispira a
principi del fondamentalismo islamico, non incontra simpatie nel mondo occidentale.
Per quanto, va detto subito, Israele sia nata da un altro fondamentalismo religioso, il
sionismo, come ritorno alla terra promessa, la terra dei padri. Qui però siamo di fronte
a generazioni che con il sionismo c’entrano poco. I militari israeliani sono in gran parte
giovani nati in Israele che combattono per difendere la loro patria e che forse del
sionismo gli interessa fino ad un certo punto perché quella per loro, prima che essere
la terra promessa, è semplicemente casa. Una cosa semplice e familiare a ciascuno di
noi.
Dall’altro lato, Hamas attacca Israele solo marginalmente per rivendicare il diritto ad
una patria per i palestinesi, ma soprattutto perché la questione palestinese in tutto il
Medioriente è un tema su cui si gioca la leadership di organizzazioni islamiche come
Hamas appunto. Per dirla fuori dai denti, ad Hamas dei palestinesi interessa fino ad un
certo punto. Il perpetuarsi della questione palestinese fa comodo agli opposti
estremismi, tanto alla destra israeliana, quanto alle organizzazioni di ispirazione
islamica dopo che l’Olp è implosa a seguito di scandali di corruzione e dopo la morte
procurata del leader simbolo della lotta palestinese che è stato Arafat.
Arafat e l’Olp, negli anni Ottanta riuscirono a catalizzare l’attenzione di tutto il mondo
e a generare un ampio consenso trasversale intorno alla causa palestinese. L’Intifada,
qualcuno forse ancora se la ricorda, fu una grande lotta di popolo. Ho ancora negli
occhi i bambini palestinesi che armati di sole fionde sfidavano uno degli eserciti più
potenti del mondo. Furono quelle immagini, e non i quarti di corpi martoriati di
bambini diffuse da Hamas, a far crescere il consenso intorno ai palestinesi. Fu quella
lotta di popolo, estesa, corale a suscitare le simpatie di tutto il mondo e di tutti gli
schieramenti politici. Fu resistenza vera. Fu l’Intifada a riempire di manifestazioni le
piazze d’Italia. La kefia era diventata il simbolo che molti di noi indossavano come
segno di solidarietà, non ad un’organizzazione politica, ma ad un popolo. Gli studenti
universitari palestinesi, nostro compagni di studi, ci vendevano il famoso foulard, che
Arafat aveva fatto diventare un simbolo, come forma di autofinanziamento della
causa. Molti di noi, ben volentieri, corrispondevano a questa forma di solidarietà.
Hamas ha commesso l’errore di sfidare Israele sul piano militare, ponendosi di
conseguenza come controparte armata, non avendo i mezzi, le strutture logistiche, la
tecnologia e tutto quanto occorre per fare un esercito impegnato in un conflitto. I suoi
non sono stati atti di terrorismi classicamente intesi, ma un vero e proprio atto di
guerra. Su quel terreno non può che perdere il confronto e a rimetterci, come si vede,
è la popolazione civile. Ma soprattutto Hamas non ha il consenso di larga parte della
popolazione palestinese. I missili rudimentali dal punto di vista tecnologico, ma molto
pericolosi, lanciati in territorio israeliano non servono tanto per intimorire Israele, ma
servono come politica interna nella lotta per la leadership palestinese, per dimostrare
che si fa sul serio. Tant’è che mentre il presidente dell’autorità palestinese tenta un dialogo con i vertici di Israele, e dunque sono in corso contatti diplomatici, Hamas
lancia i missili che sembrano più essere diretti contro l’autorità palestinese stessa che
contro Israele. Altrimenti non si spiega come mai il conflitto scoppi proprio in questo
momento e contemporaneamente la Libia è in fiamme interessata da un altro conflitto
interno anche lì di ispirazione islamica. L’Ansa di venerdì 1 agosto riferisce che “I
jihadisti libici di Ansar al Sharia annunciano di aver preso il controllo “completo di
Bengasi” e di aver proclamato “un emirato islamico”. L’annuncio è arrivato da un
responsabile del gruppo, citato da al Arabiya”. Lo stesso dicasi per Iran e Siria.
Insomma, un’offensiva in grande stile sferrata da organizzazioni di ispirazione islamica
e integralista su uno scenario Mediorientale ampio. Dove si voglia andare a parare non
sta a me dirlo. Alcuni osservatori parlano di un disegno islamico su ampia scala. O
forse anche questa è una cortina fumogena e questi movimenti e queste guerre sono
alimentate proprio da coloro che della sopravvivenza degli opposti estremismi ha fatto
un business.
Se così è, occorre uno sforzo di analisi politica seria, che vada oltre le emozioni
suscitate da immagini cruente diffuse ad arte per provocare l’emozione di un
momento in noi occidentali consumatori di sensazioni forti. Occorre una politica estera
dell’Italia e dell’Europa che si occupi specificamente del Medioriente. Occorre forza e
autorevolezza per occuparsene ed essere ascoltati. Forse occorre semplicemente una
politica tout court.
Sostieni periscopio!
Riceviamo e pubblichiamo
Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it