“Era diventata una melagrana. Una melagrana rotolata dietro un mucchio di cianfrusaglie in un angolo della soffitta, così raggrinzita che se qualcuno l’avesse trovata e scossa avrebbe sentito il tintinnio dei chicchi secchi”. A quarant’anni, Nahid Tabatabai
Il bilancio arriva, inevitabile. Per tutti, per tutte. Nel mezzo del cammin di nostra vita. E ora eccolo affacciarsi, imperterrito, implacabile e sicuro di sé, durante il nostro affascinante viaggio nella letteratura iraniana moderna che continua, con altre belle sorprese, come quella di A quarant’anni di Nahid Tabatabai, nata a Teheran, nel 1958, laureata in drammaturgia, ma con predilezione per la narrativa. Nahid, che ha pubblicato la sua prima raccolta di racconti nel 1991, oggi dirige, con impegno e determinazione, una piccola casa editrice che promuove le giovani promesse letterarie iraniane. Che sono tante, credeteci, molte della quali intendiamo presentarvi.
I libri di Nahid Tabatabai sono caratterizzati da una fitta e coinvolgente trama di dialoghi, da scene colorate e da svariate vicende quotidiane di persone comuni, per lo più donne, le cui esistenze sono spesso dominate dall’ansia, dall’incertezza, dai dubbi e dall’insicurezza e sfilano sulla scena come veri e propri micro-drammi. Dimensioni comuni a tutti gli esseri umani nel mondo. Fra l’altro, dal romanzo che presentiamo oggi, A quarant’anni (con tanto di splendida copertina illustrata da Iman Raad), edito dalla giovane ma innovativa casa editrice Ponte33 fondata da Felicetta Ferraro, è stato tratto il film di Alireza Raisian, Chehelsaleghi (titolo originale), interpretato da Leyla Hatami, Orso d’Oro a Berlino, nel 2011, come miglior attrice per il film La separazione. Motivo in più per non perderselo.
Protagonista principale la sempre bella quarantenne Alaleh, affiancata dalla giovane figlia Shaghaiegh, dal marito Farhad, dalla collega Shirazi, da Saghafi, violoncellista poco virtuosa, e soprattutto, dal talentuoso direttore d’orchestra, Hormoz Shadan, ormai lontano primo amore, improvvisamente, e quasi miracolosamente, ricomparso. Il tutto avvolto dalla magia di un delicato e leggero violoncello che, a lungo silenzioso, suona nuovamente sulle note dell’Adagio di Albinoni. Alaleh incarna tutte le quarantenni in crisi per un tempo che passa, un’inquietudine legata a una gioventù che non c’è più, ai rimpianti del primo amore sfumato, ai momenti di bilancio che si fanno inevitabilmente quando ci si ferma a pensare, fra una piccola ruga e l’altra, a cosa si è fatto e a quali erano i progetti iniziali, a cosa si è lasciato indietro, a dove si è, da dove si è partite, a dove si va, a cosa si voleva, a cosa si vuole, a cosa si vorrebbe ancora, a cosa non si vorrebbe più.
Alaleh è il mondo di queste donne, ma soprattutto di quello delle forti e belle donne iraniane, in un paese che cambia, una nazione che per la sua storia non ha magari permesso, in un preciso momento, di fare quello che davvero si voleva (storia complessa, quella dell’Iran, la stessa Nahid Tabatabai ha vissuto gli ultimi eventi storici che hanno segnato il suo Paese: dalla rivoluzione islamica del 1979, alla guerra con l’Iraq, all’era Khatami). Ma qui l’Iran, in realtà, fa un po’ da contorno, in fondo Nahid parla dell’universale, di quella fase complessa e difficile della vita di ogni donna nel mondo, ovunque essa si trovi, ovunque essa viva, che è la cosiddetta mezza età (parola che, peraltro, non amiamo). Alaleh è una donna che lavora, come tante altre, e ha un’unica figlia, che adora, con la quale sta scoprendo un nuovo rapporto e dove i ruoli poco alla volta sembrano quasi capovolgersi. Tutte abbiamo attraversato questo momento, quando la madre diventa un po’ figlia e la figlia un po’ madre. Si tratta del ciclo naturale della vita, difficile da accettare, talora, ma inevitabile. In tutto questo, molto bella e coinvolgente è la figura del marito della protagonista Alaleh, il dolce e attento Farhad, un uomo teneramente e perdutamente innamorato della moglie, comprensivo fino al punto di far sorgere il dubbio se possa esistere veramente, da qualche parte, un uomo così perfetto. E che tutte vorremo trovare.
Questa Alaleh ci piace molto, per il suo essere portavoce di un pensiero femminile universale, per il suo riscoprirsi bella grazie al fascino maturo che emana mentre suona il suo violoncello, ripreso dopo anni di silenzio, scartato quasi come fosse un’antica, preziosa e dolce caramella a lungo conservata per momenti migliori, e grazie all’incoraggiamento di un primo amore romantico che ritorna solo per ricordare la speranza, la luce e i sogni di un tempo. Una rinascita che tutti sembrano comprendere e applaudire, nella bellezza immensa, unica e impagabile della riscoperta di sé stesse. Un romanzo da leggere, anche per (ri)conoscere una quotidiana vita iraniana libera da preconcetti, da veli, capi coperti e luoghi comuni da smantellare. Anche qui ci sono uomini dolci e non violenti, comprensivi e vicini, attenti e disponibili, presenti e amorevoli. Anche qui ci sono donne che lavorano e percorrono la loro vita a ritroso, facendo bilanci esistenziali positivi o dolorosi, in città moderne, dinamiche, laboriose e caotiche come Teheran, dove la letteratura cerca e trova spazio e respiro.
Anche qui c’è il mondo globale, con le sue opportunità di crescita, di consumo e di realizzazione, anche qui ci sono donne istruite, lavoratrici, combattive, volenterose, ferme, decise, eleganti, affascinanti, che vivono lo spinoso dilemma tra un modello di femminilità, caratterizzato dai ruoli tradizionali di madri e di mogli, e la voglia di emanciparsi per essere qualcos’altro, che soffrono anche dell’altro grande dilemma tra l’importanza attribuita alla bellezza femminile (destinata a sfiorire con la fine della giovinezza) e la ricerca di nuovi valori estetici, come il fascino maturo, che rappresenta una bellezza conquistata, riscoperta e ritrovata, svincolata dall’età anagrafica. Ci sono i dubbi e le paure di tutte, la voglia di emergere e riemergere, di farsi sentire e ascoltare, di vivere e non di sopravvivere, ma qui, soprattutto, c’è l’Iran delle donne.
Nahid Tabatabai, A quarant’anni, Ponte33, 2011, 91 p.
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Simonetta Sandri
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