L’INTERVISTA
Rinaldi tra Don Chisciotte, Gramsci e Sancho Panza: “Al fondo di tutto c’è la persona”
Tempo di lettura: 6 minuti
Il “potere” è l’immondizia della storia degli umani
e, anche se siamo soltanto due romantici rottami,
sputeremo il cuore in faccia all’ingiustizia giorno e notte:
siamo i “Grandi della Mancha”,
Sancho Panza… e Don Chisciotte! (Don Chisciotte, Francesco Guccini)
Sono fortunata, è un pomeriggio tranquillo nell’ufficio di via Mambro, da dove Raffaele Rinaldi coordina i servizi dell’Associazione Viale K, con cui collabora dal 2002 e di cui è direttore dal 2012. Raffaele ha tempo per quella che diventerà una lunga chiaccherata ed è di buon umore perché in mattinata sono passate a salutarlo alcune persone che sono state al centro di accoglienza e ora, passo dopo passo, stanno riemergendo da quella che lui chiama la “Ferrara di sotto, una Ferrara che non vede nessuno”.
Inizia così la nostra conversazione, e subito mi rendo conto che Raffaele nutre una passione profonda per ciò che fa, a differenza di molti ha trovato non un modo ma il suo modo di contribuire alla costruzione di una società fondata sulla persona: “Il fondamento di tutto è la persona, ognuno nel suo lavoro è chiamato a umanizzare il mondo”. Per questo la prima cosa di cui mi parla è proprio il suo lavoro: “E’ vedere i numeri, le statistiche diventare carne e ossa, uomini, donne, famiglie, giovani coppie, la faccia scavata dall’angoscia di cadere in uno stato di povertà, oppure di non riuscire più a risalire la china. Vedo volti, ascolto storie, biografie, non c’è spazio per l’omologazione. Il problema si pone dopo aver dato loro un pasto caldo e un posto dove dormire, cosa faccio ora? Bisogna lavorare sulla promozione della persona, ma prima la devi riconoscere come persona: non c’è la categoria degli immigrati, quella dei poveri, devi saper guardare in faccia le persone per accorgerti veramente della profondità del disagio”.
La sua collaborazione con l’associazione di don Bedin è cominciata quando ha raggiunto la sua famiglia a Ferrara dalla Puglia, più precisamente da Monte Sant’Angelo. Chiuso lo stabilimento petrolchimico di Manfredonia, il papà fra Milano, Marghera, Gela e Ferrara – queste le possibili mete messe a disposizione dall’azienda – sceglie quest’ultima perché “è una città a misura d’uomo e l’Emilia è una regione accogliente”. Raffaele si paga la specialistica di filosofia con un lavoro stagionale allo zuccherificio, con la speranza di diventare insegnante. Nel frattempo continua l’esperienza di volontariato che ha già iniziato in Puglia. “Quando hai deciso che questo sarebbe stato il tuo lavoro?”, gli chiedo. “Quando il responsabile è stato trasferito nella nuova struttura di Sabbioncello don Domenico mi ha accennato alla possibilità di prendere il suo posto. Devo essere sincero, prendermi la responsabilità di coordinare le strutture, mettermi in contatto con le istituzioni, con i servizi sociali, non mi sembrava ancora alla mia portata. Poi la cosa ha preso piede e mi ha appassionato, soprattutto quando mi sono reso conto che non è solo questione di assistenza, si tratta di costruire dei percorsi per fare in modo che, insieme o dopo l’accoglienza, si possano dare ai ragazzi gli strumenti per riuscire a venire fuori dalle situazioni di bisogno. E questo lo puoi fare solo insieme alle istituzioni”. La cosa più stimolante per Raffaele sembra essere “rispondere ai bisogni che di volta in volta arrivano dal territorio articolando la prassi della solidarietà: noi rispondiamo al bisogno della persona, non alla categoria”.
Tante le fonti da cui trae l’ispirazione per questo suo impegno quotidiano: il personalismo comunitario di Mounier, per cui esistono una trascendenza verticale e una “trascendenza orizzontale”; Dante, che non reputa gli ignavi degni neppure dell’Inferno, “sciaurati, che mai fuon vivi”; Gramsci, per il quale “chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano”. E poi l’articolo 3 della Costituzione, che al comma 2 recita “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica”. “La lotta alla povertà – chiosa Raffaele – non può essere lasciata al buon cuore delle anime belle, bisogna restituire libertà alle persone escluse, dando loro dignità, ognuno deve potersi esprimere e partecipare alla vita della comunità: se io non ho diritti, come posso partecipare?”. Infine il Vangelo, in particolare la parabola del buon samaritano: “la domanda – mi spiega Raffaele – non è chi è il mio prossimo, ma a chi tu ti fai prossimo: non è tanto avvicinarsi a chi ti è lontano, ma non allontanarti da chi ti è vicino, chinarti su quei volti, e accompagnarli in un percorso di vita”.
Ora, gli dico scherzando, passiamo alle domande difficili: cos’è per te la povertà oggi? “È non saper riconoscere la povertà come tale, ma soltanto come disordine dell’arredo urbano. Non c’è più la persona: nell’odierna cultura dello scarto se lavori e produci bene, altrimenti non sei niente, anzi devi toglierti dai piedi perché dai fastidio. Danno fastidio i senza fissa dimora che dormono sulle panchine, ma non per la loro situazione, perché sono brutti da vedere. Viviamo in una bolla di sapone, bella ma effimera, abbiamo perso l’esperienza della relazione. Come diceva don Tonino Bello, la povertà è il sacramento delle nostre miserie, cioè non la vogliamo vedere perché rimanda alla miseria che abbiamo dentro”. Per non parlare poi della strumentalizzazione della povertà: “La cultura dello scarto, come la chiama Bauman, produce una rappresentazione sociale dei poveri, degli immigrati fondata sulla paura per raccogliere consensi e distrarre dai veri problemi come il lavoro o la giustizia sociale”.
Le ultime domande sono per la sua esperienza politica come candidato di Sel, a maggio scorso alle amministrative e ora alle regionali. “Ho sentito parlare Nichi Vendola negli anni ’80 quando non ero ancora maggiorenne e il progetto di Sel mi è piaciuto in quanto marca molto sul discorso della giustizia sociale, un’alternativa per la costruzione di un welfare forte, ma fino a quando mi hanno chiesto di candidarmi sono rimasto solo un simpatizzante”. “Il mio lavoro ha già una sua forte dimensione politica, quello che vorrei fare è dare un contributo per ottenere il passaggio dalla carità alla giustizia, non più dare qualcosa per carità quando spetterebbe per giustizia. Vorrei che questa fetta di popolazione di cui mi occupo avesse una voce nelle istituzioni, perché il terzo settore può dare un grande contributo alla costruzione di una società più giusta, anzi lo sta già facendo”.
Secondo Raffaele il punto da cui partire è il passaggio dall’assistenza al “welfare generativo” cioè “l’assistenza non come un costo, ma come un investimento sulle persone che poi con le loro capacità e per quello che sono in grado di fare a loro volta fanno qualcosa per gli altri, restituiscono l’aiuto offerto loro. Ad esempio attraverso micro-comunità che possano avere una funzione di incubatori, moltiplicatori, delle capacità e della solidarietà”. Ma Raffaele non è solo un utopista, un idealista alla Don Chisciotte, personaggio che pure ama molto, in lui c’è anche un sano realismo alla Sancho Panza, che sicuramente gli deriva dal suo lavoro. Quando parla della “macchina della politica” afferma, citando don Milani, che “è inutile avere le mani pulite se le tieni in tasca”, e aggiunge “in politica devi operare delle scelte difficili, si fa presto ad andare fuori in piazza, il difficile poi è cambiare le cose da dentro il sistema: le scelte, gli sbagli, le alleanze, però stai dentro il gioco della politica e non ti puoi sottrarre”. Insomma “le impennate utopiche” vanno bene, ma poi si ha a che fare con la sofferenza reale qui e ora: “I bei sogni senza politica rimangono miraggi, e la politica senza sogni è solo amministrazione. La politica, pur se difficile e deludente a volte, rimane l’unica strada per realizzare quei progetti a servizio dell’uomo”.
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Federica Pezzoli
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