L’INTERVISTA
Sassi e parole: l’arte povera di Aurelio Fort “presentimento di un’altra logica”
Tempo di lettura: 7 minuti
Aurelio Fort, friulano di nascita, vive nelle montagne bellunesi. Fin da ragazzo ha intrapreso un percorso di sperimentazione artistica che ha riguardato fotografia, pittura, scenografia, musica e grafica; da circa trent’anni si è dedicato esclusivamente all’arte visiva. La sua ricerca espressiva coniuga materia, pensiero e tempo con chiare adesioni all’arte povera e all’arte concettuale, ma si estende liberamente anche in altri ambiti formali e nello spirito di diverse esperienze stilistiche. Dal 1980 a oggi ha realizzato un album di canzoni e più di ottanta tra mostre, installazioni, azioni, progetti e performance in Italia, Europa e Stati Uniti.
“Esistere per Ri/Esistere” è un progetto artistico Internazionale, culminato il 25 aprile 2013 con un’installazione urbana nel centro di Belluno…
Inizialmente, Alfonso Lentini ed io avevamo pensato a un’azione clandestina: spargere e disseminare a sorpresa la città di sassi e parole (le povere armi dei poveri), un “blitz” in un certo senso; poi, via via, si è fatta strada l’idea di estendere questo gesto fino a includere concretamente una moltitudine di persone. Così, grazie al blog che abbiamo aperto su Facebook e a un efficace passaparola, sono arrivate adesioni di artisti, scrittori, poeti, bambini, donne e uomini che si sono riconosciuti in questo progetto e che volevano “farne parte”, un po’ da tutta Italia e da oltre 40 nazioni nel mondo. Ogni sasso aveva dunque un’identità, un nome e un cognome e un’impronta digitale che suggellava la frase “Resistere per Ri/Esistere”. Rinunciando al “colpo d’effetto” era diventata un’installazione civile.
Quel giorno molte persone hanno portato con sé qualche sasso per continuare idealmente l’azione, una sorta d’installazione che prende corpo e vive di vita propria…
… un prolungamento spontaneo dell’opera e una simbolica moltiplicazione di gesti e significati. Era esattamente quello che stava accadendo, e che in parte è avvenuto, ma nella notte tra il 25 e il 26 aprile si è sovrapposto un fatto un po’ sgradevole e non preventivato: gran parte dei sassi vennero trafugati, prelevati, insomma fatti sparire. Questo gesto incivile interruppe brutalmente il “susseguirsi” dell’azione. In seguito i responsabili furono identificati e i sassi recuperati, ma questa è un’altra storia e mi fermerei qui.
L’arte povera porta inevitabilmente all’esplorazione di nuovi percorsi artistici?
Ogni corrente artistica nasce dalla volontà di reagire contro un’estetica dominante e apparentemente imperturbabile. L’arte povera ha contribuito non poco a sconvolgere la sensibilità della cultura borghese che era appena riuscita ad accettare i processi elaborati dalle avanguardie dei primi decenni del Novecento. E’ un’arte dell’essenza delle cose. Più che ‘rappresentare’ la materia la ‘presenta’. L’arte povera produce ‘senso’ in un mare d’assurdo e lo fa attraverso la metamorfosi delle cose e dei materiali più insignificanti per poi riconsegnarli in sublimazioni splendenti. Devo ricordare che nel 1978 ho abitato un periodo a Umbertide, in Umbria, e che lì vicino, a Città di Castello, ho realizzato la mia prima “vera” mostra. Da quelle parti aleggiava prepotentemente il nome di Alberto Burri e quello fu il mio incontro formativo con l’arte povera, anche se poi ci furono altri incontri e altri cammini. Per quanto mi riguarda, ho sempre accettato tutte le influenze e tutte le infatuazioni.
Come si colloca, nella tua storia d’artista, il disco “Volano le canzoni”, pubblicato nel 1982?
La musica, il rock, il blues e la canzone d’autore hanno avuto grande importanza nella mia adolescenza e nella mia prima giovinezza, ero fortemente attratto da quel potenziale espressivo in tutte le sue sfumature artistiche, politiche e sociali. Così com’ero attratto dai fumetti, dalla fotografia, dal teatro, dalla letteratura. Scrivevo delle canzoni come tanti (con la chitarra e con la voce), poi venne il desiderio e anche l’intenzione di dare a queste canzoni una forma più completa e una struttura musicale più “corposa” quindi le feci ascoltare a un po’ di persone, piacquero a Mogol e al direttore della Rca. Il disco fu realizzato negli studi di registrazione “Il Mulino” di Lucio Battisti, fu un momento bello e gratificante, poi dovetti sopportare (mio malgrado) tutti i disdicevoli aspetti promozionali e così via. Mi resi conto che scrivere delle buone canzoni e confezionare un buon prodotto discografico costituiva forse un terzo del lavoro, il resto era ‘mestiere’ e altre cose. Il disco non andò neanche male e scrissi nuove canzoni per un secondo album ma ormai senza “godimento” e senza troppa convinzione… in realtà non avevo talento (non quel talento che forse con un po’ di velleità avevo segretamente pensato di avere) e di fare il cantautore per mestiere questo proprio non era nelle mie corde, mi sarei annoiato mortalmente, l’avventura non aveva più alcun fascino ed è finita lì.
“C’era una volta il mare” fa parte del “Trittico di pittura dolomitica”, una forma imponente che non ha bisogno di spiritualità?
Abito qui, (non vivo qui… qui è solo lo ‘spazio’ in cui si svolge al momento la mia esistenza), in queste valli silenziose e gelide dove il corpo va in rovina e lo spirito “impietrisce” ai piedi di queste montagne spettacolari, celebri e ottuse che io detesto. Mi è stato chiesto di realizzare un’opera pittorica di grande formato che sarebbe dovuta restare esposta all’aria aperta un anno intero, abbandonata alle intemperie e maltrattata da grandi escursioni termiche. Questa richiesta ha provocato in me una certa eccitazione e ho subito pensato a un’opera come se fosse un deposito di “tempi”, un’opera costruita attraverso una stratificazione di materiali instabili che si sarebbero deteriorati e meravigliosamente compromessi entrando in una specie di simbiosi geologica con il paesaggio. Un paesaggio non ha niente di romantico, un paesaggio colpisce per il suo aspetto preistorico, per quello che suscita nel nostro profondo… da qui il riferimento al mare per dire di un tempo lontanissimo, inumano, al di fuori da ogni memoria, un tempo per noi inimmaginabile che annienta e che annichilisce, più spirituale di così…
I titoli delle tue mostre sono spesso dei giochi di parole non fini a se stessi ma tracce di un percorso teorico da cui ci si può discostare, come per esempio in “Recto/ Verso”…
I titoli delle mie mostre, così come quelli delle mie opere, sono solo il presentimento di un’altra logica, sono un “come se” non sono quasi mai analogici, quasi mai didascalici, non vogliono cioè illustrare né dire che cosa rappresentano, sono un omaggio al ‘senso’ perché vanno incontro al legittimo bisogno di senso (che è un problema dell’uomo). Si cerca di dare una forma a qualcosa che non ha una spiegazione, il mondo non ha alcun senso ma facciamo “come se” ne avesse uno. Per quanto riguarda i giochi di parole, beh, non escludo il piacere di un certo vezzo letterario.
Se è vero che ogni artista viene al mondo per dire una cosa sola, hai individuato quella piccola cosa su cui costruire il tuo mondo?
Un artista è quasi sempre uno speleologo. Deve addentrarsi, inoltrarsi in sé e nell’oscurità delle proprie visioni, questo a volte non è comodo. Sono convinto che ogni vera ricerca artistica ruoti in sostanza attorno ad un asse centrale profondo. Fare arte non è solo un atto fisico ma è soprattutto un atto psichico. Il sesso e la morte sono gli unici due accadimenti indiscutibili della vita di chiunque e dei quali sappiamo poco o nulla, ecco, credo che gran parte del mio agire artistico sia ‘generato’ da questo nucleo ossessivo: il sesso, la morte e il loro intimo rapporto all’interno della forma del tempo. In verità invecchio senza imparare nulla (non so capitalizzare), non ricorro mai al così detto “mestiere” e alle sue astuzie: percepisco ogni nuova opera come un esordio, come un azzardo, con lo stesso nervosismo e la medesima ansia. C’è in me un’inclinazione fondamentale all’eccitazione della scoperta, cioè al fascino e di intravedere qualcosa di inedito, una nuova forma, un nuovo sviluppo. Quella “piccola cosa” che in fondo sostiene la mia ricerca è l’inquietudine, la condizione del vivere, nasce dall’esperienza di essere nato, è senza scampo. E’ il niente, ma è il mio niente, un niente non trascurabile.
E’ importante una società in cui abbia senso l’arte? Cosa la distingue da una società in cui l’arte e l’artista sono emarginati?
Nell’arte conta la verità, bisogna trovare l’essenza della vita umana… il sogno. C’è una grande forza che nasce dai sogni. E’ la passione che muove il mondo. Una società che marginalizza l’arte è votata al cinismo, all’ipocrisia, all’indifferenza e non può che dare vita a un mondo vuoto e informe. E’ quello che abbiamo tutti i giorni sotto i nostri occhi.
Si ringrazia Aurelio Fort per la squisita collaborazione e la concessione del materiale fotografico.
Sostieni periscopio!
William Molducci
Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it