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Il regista Gianfranco Pannone ci parla del suo ultimo film documentario “Sul Vulcano”, viaggio poetico e filosofico alla scoperta della precarietà e di un fatalismo positivo, che resiste alla cieca e distruttiva azione degli uomini.

Domani, giovedì 11 settembre, al cinema Farnese di Roma sarà proiettato “Sul Vulcano” di Gianfranco Pannone, in occasione della rassegna “Locarno a Roma”. Il film documentario, prodotto dalla Blue Film con Rai Cinema e con il contributo del Mibact, dà una lettura poetica e filosofica della vita ai piedi del Vesuvio. Tra storie di vite vissute, preziosi materiali d’archivio ed evocazioni letterarie che vanno da Giordano Bruno al Marchese De Sade, da Giacomo Leopardi a Curzio Malaparte. Sul Vulcano fa sorgere spontanea una domanda: com’è stato possibile, tra case abusive e discariche d’ogni genere, produrre tanta bruttezza in così tanta bellezza?
Ferraraitalia ha intervistato in anteprima Gianfranco Pannone.

Gianfranco, tu hai scritto che Sul Vulcano prova a dare un senso a una “terra pazza”, che infine rappresenta tutti noi. Che cosa intendi?
Intendo dire che il Vesuvio è un po’ un’icona, un simbolo, del nostro Paese, dove esiste un mix del tutto particolare, paradossale, tra la vita degli uomini e la conformazione geologica del territorio. E’ il luogo dove la natura può riprendersi tutto all’improvviso, dove allo stato di incertezza si aggiunge una sorta di non senso, una follia malinconica quasi, della precarietà. Quando penso a Napoli e al territorio partenopeo penso a un Italia al quadrato, dove ci sono ferite aperte che diventano feritoie. Sarà un’idea forse un po’ troppo cristiana, ma credo davvero che la creatività umana passi attraverso la sofferenza, la ferita. E che Napoli, la Napoli di Edoardo de Filippo o di Troisi, ad esempio, sia l’incarnazione di questa malinconia che si fa creazione artistica. Poi,ovviamente, c’è la grande questione ambientale di un territorio dove l’urbanizzazione dissennata ha distrutto l’antica bellezza, in meno di un cento anni, così come avviene in molti altre parti d’Italia, basta seguire la cronaca e i continui casi di frane, alluvioni, dissesti geologici. E’ come se ci fosse una incoscienza collettiva, un fatalismo dissennato, con cui, per primi i politici, sembrano ignorare che si è a un passo dalla tragedia. Una follia negativa, che ha cancellato per sempre l’antica saggezza contadina rispettosa dell’equilibrio della natura.

Il fato è un tema partenopeo, certo, ma che tu, nel tuo lavoro, intrecci con molti riferimenti letterari…
Il fatalismo è una componente dei popoli partenopei e, in particolare, dei popoli che vivono “ai piedi della montagna”, il Vesuvio appunto. Una caratteristica che li accomuna anche ai siciliani, che vivono ai piedi dell’Etna e quindi anch’essi in una terra precaria, all’interno di un Paese precario. Il fatalismo però ha due facce. Una negativa, che è una sorta di cecità dissennata in base alla quale si può fare tutto e non controllare nulla, quella per cui si accetta tutto: discariche abusive, infiltrazioni camorristiche, urbanizzazione senza regole. E una positiva, che potremmo identificare con il panteismo di Giordano Bruno, che, non a caso, è nato a Nola. Nei brani del filosofo che ho scelto per il documentario, affidandoli alla voce di Toni Servillo, si parla del Vesuvio come di un amico che ti fa conoscere la vita, che te la fa apprezzare proprio perché così incerta e “sotto scacco”, a rischio tragedia. Questo fatalismo positivo nasce da un profondo rispetto per la natura ed è una dichiarazione di umiltà. Credo sia utile riscoprirlo in un’epoca come la nostra, dove è evidente che il mito del ‘900 dell’uomo che può controllare tutto e imbrigliare la natura è smentito dai fatti quotidiani. La natura dà e in un colpo solo può riprendersi tutto. Solo rispettando questo possiamo cogliere il senso della ricerca della vita nella morte, del sorriso nel pianto, come in qualche modo è rappresentato anche dalla maschera di Pulcinella, sintesi della drammaticità e della comicità malinconica partenopea.

Uomo e natura, anche in questo lavoro inviti a riflettere sul legame tra la vita delle persone e la vita del territorio. Che cosa simboleggiano i tre protagonisti Maria, Matteo e Yole?

Maria, Matteo e Yole sono tre vite ai piedi del Vesuvio, in un luogo unico al mondo, ricco di miti, storia ed evocazioni letterarie. Maria, che vive e lavora in un’azienda florovivaistica ai piedi di una villa vesuviana in abbandono, “coltiva” anche le proprie curiosità intellettuali ed è una custode discreta del vulcano. Matteo, pittore di talento, rimette in gioco le sue opere fatte con la lava, testimonianza di un legame profondo con la terra da cui non si è mai staccato. Yole, cantante “neomelodica”, vive la propria libertà di giovane donna conciliandola con un’autentica devozione per la Madonna, espressione popolare di un sacro che ha sempre caratterizzato il Vesuvio, da Dioniso/Bacco a San Gennaro. Sono tre facce diverse di una Napoli un po’ fuori dagli schemi, sono tre custodi del tempio del Vesuvio, non ancora contagiati dall’indifferenza e dall’incuria collettiva. Malinconici sì, ma nel senso positivo del rispetto profondo per la vita.

Vedi il trailer [clic per guardare]

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La locandina del film
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Chiara Bolognini

Adora scoprire gli invisibili, dare voce a chi rimane nascosto, perché dentro tutti noi c’è sempre un mistero da svelare e qualcosa da imparare, condividere, amare. Di mestiere è giornalista e si occupa di comunicazione e marketing. E’ anche una counselor e una life coach, in formazione permanente. Adora il vino rosso, i tortelli con la zucca, la parmigiana, gli alberi, Mozart, Gaber e Paolo Conte. Ma soprattutto gli aquiloni e i palloncini che vagano, soli, nel cielo.


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