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Noi quarantenni siamo una generazione fortunata. Abbiamo ancora la possibilità di ascoltare e raccogliere i racconti e le esperienze di chi ha vissuto a pieno il ‘900, con le sue trasformazioni, innovazioni e compromessi.
Mercoledì sera al cinema Apollo di Ferrara, Folco Quilici, uno dei testimoni del ‘900 italiano più amati dal pubblico, era in città – la sua città – per presentare il suo ultimo lavoro, un docu-film dal titolo “Gli Animali della Grande Guerra”, che racconta per immagini il ruolo degli animali nel corso del conflitto, dagli esemplari della leva equestre sacrificati nel nome di una strategia militare ormai antica fino ai piccioni viaggiatori, che a migliaia furono addestrati ed impiegati sui monti, suggerendo il rapporto che si instaurava fra animale e uomo, spesso l’unico rapporto affettivo che riusciva a resistere all’orrore delle trincee e della morte.
Quilici è stato e rimane un narratore eccelso, che ha saputo porgere al grande pubblico le questioni della storia d’Italia, ha saputo far nascere nelle coscienze la meraviglia per il mondo sommerso e la necessità della sua preservazione quando il trattato di Kyoto e le oasi marine non esistevano, è riuscito a portare nelle case di tutti noi le immagini della ricchezza della natura del nostro territorio e la delicatezza del nostro ecosistema.

Ho quindi approfittato della sua presenza per chiedergli dei consigli sul mestiere di raccontare per immagini, mestiere che negli ultimi decenni ha subito cambiamenti radicali grazie alla diffusione di nuove tecnologie che hanno velocizzato il processo produttivo e aperto la strada della produzione video a tanti giovani aspiranti registi o – come si dice ora – film makers.

Maestro, qual è il consiglio che darebbe ai giovani che vogliono diventare documentaristi?
“Cambiate progetto!”

A 85 anni Folco Quilici ha al suo attivo più di 40 fra film e documentari, decine di libri, saggi, romanzi, diverse collaborazioni per film di altri, trasmissioni televisive, pubblicazioni editoriali e la sua perentoria risposta mi ha spiazzata. “E perché? Non ci sono più storie da raccontare?” ho insistito. Sarà stato il verbo raccontare, nei suoi occhi ho visto un guizzo di luce.
“Le storie da raccontare non finiscono mai. – mi ha spiegato – Il problema dei giovani che vogliono fare questo lavoro è che fanno e rifanno cose già fatte 20 volte. Mi spiego: ai miei tempi quando uno studiava cinema guardava tutto, ogni tipo di pellicola, non sfuggiva niente. I ragazzi che oggi vogliono fare regia hanno i mezzi ma non hanno la conoscenza, non sanno che cosa è stato raccontato già e da chi, come. Finiscono per girare sempre attorno agli stessi temi. E poi – ha aggiunto – non hanno degli spazi, mancano le opportunità perché i loro lavori vengano mostrati, fatti vedere al pubblico. Sai quanti si vengono a proporre a me? Tantissimi e nessuno ha la coscienza e la consapevolezza di quello che sta facendo. Anche riproporre un tema già trattato può andare bene ma bisogna almeno cambiare punto di vista, altrimenti che racconto è mai?”.

Da dove si parte per raccontare una storia?
I casi sono diversi. Per esempio, per quanto riguarda il film che abbiamo visto stasera l’idea non è partita da me, il lavoro mi è stato commissionato. Il tema mi piaceva e quindi ho accettato. E’ stato soprattutto un’opera di ricerca faticosa. Avevo già visionato chilometri di pellicola sulla Prima Guerra Mondiale per dei lavori precedenti e quindi sapevo già cosa avrei dovuto cercare e dove… ma comunque trovare immagini appropriate è stato difficile, gli operatori all’epoca non erano molto interessati a filmare gli animali e quindi questi capitavano nel filmato quasi sempre per caso. Inoltre molte pellicole erano state rovinate dal tempo – e per fortuna erano in bianco e nero! La pellicola a colori si rovina prima, le immagini impresse su questa specie di legno della pellicola bianco e nero resistono un po’ di più. L’opera di recupero fatto dall’Istituto Luce è stato grandioso, peccato si sia potuto fare solo su poche immagini, è una tecnica che costa molto e l’Istituto non ha grandi disponibilità. Comunque fra ricerca, montaggio, doppiaggio e poi allunga e accorcia, abbiamo impiegato più di dodici mesi. Quando invece sei tu ad avere una storia da raccontare in un film devi avere cura di appuntare tutte le idee e le suggestioni che hai appena le hai, poi devi prenderti il tempo di metterle in ordine con calma. Gli altri lavori, invece, non nascono mai allo stesso modo e quindi non sono mai uguali. Ogni volta è una caso diverso.” E così è spiegato il carattere eterogeneo dell’opera tutta di Quilici, che spazia dal romanzo al saggio storico al film con facilità, senza sforzo.

Ho provato allora a chiedere quale può essere un segreto del mestiere.
E’ importante stingere rapporti con le persone che gravitano attorno alla storia che intendi raccontare, parlare con loro, costruire magari delle amicizie. Perché da queste persone, dai loro racconti, ti arrivano dei punti di vista diversi sui fatti, sulla storia, sui personaggi, che possono essere spunti interessanti, darti materiale che interessa te stesso e poi anche lo spettatore.”

Poi il maestro mi ha salutata e si è allontanato fra la folla di fan e amici che lo aspettavano.
Mi sono chiesta quindi quale punto di vista lo avesse affascinato nella sua ‘prima volta’, sarei tornata indietro per porgi la domanda, ma la risposta la avevo già: quando, da ragazzino, andò per la prima volta nelle Valli di Comacchio con la macchina fotografica regalatagli da sua madre e pensò di essere finito proprio nella foresta di Mompracem. Pare che questo sia un episodio sul proprio esordio che il nostro Folco Quilici racconta spesso. Io, però, so di averlo trovato nel 1984 nel suo libro per ragazzi “Memorie da un pianeta inventato” (edizioni Sei, 1983) che vi consiglio di leggere, se mai riusciste a trovarlo. Vista da lì, la fortuna di aver vissuto l’infanzia nei primi anni ’80 mi è sembrata ancora più grande.

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Ingrid Veneroso



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