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Gentile Direttore e gentile Redazione,
vi scrivo perché ho letto nell’ultimo vostro settimanale (10 febbraio, ndr) l’intervento di Laura Rossi sui muri e le barriere che dividono oggi il nostro mondo.

Prima di tutto: leggere che i muri dal 1989, data della caduta di quello forse più famoso di tutti, a oggi sono cresciuti, invece che diminuire e avviarsi alla completa sparizione, è cosa triste e fa tornare alla mente le illuminanti e preveggenti parole di Pier Paolo Pasolini su cosa significhi progresso in contrapposizione a sviluppo.
Vorrei però soffermarmi sulle considerazioni che Laura Rossi fa a proposito della disinformazione strumentale a proposito della situazione israeliana, ma soprattutto sulle informazione che snocciola a proposito della storia della Palestina e di Israele per educare i “troppi” che a suo parere “non conoscono la storia, o quantomeno non conoscono la vera storia di Israele e della Palestina”.

Laura Rossi scrive che: “‘Palestina’ indica la terra che, per migliaia di anni, è stata incubatrice dell’identità ebraica; sulla bandiera della Palestina, vi era disegnata la stella di David. Il popolo della Palestina è il popolo ebraico e gli ebrei sono i veri palestinesi. Infatti, fino alla creazione dello Stato d’Israele, gli ebrei erano noti come “palestinesi”. La Palestina è sempre stata ebraica, non araba”.
Purtroppo non possiedo la sicurezza della signora Rossi, che si ritiene così esperta da non dover citare le fonti da cui trae le proprie nozioni storiche, e non sentendomi assolutamente in grado di contraddirla, cercherò ove possibile di far parlare altri, molto più titolati di me.

Per quanto riguarda la bandiera israeliana, su Israele.net si legge: “La bandiera d’Israele (in ebraico Degel Israel), ideata per il Movimento Sionista nel 1891 e ufficialmente adottata dallo Stato d’Israele il 28 ottobre 1948, è costituita da una Stella di Davide (in ebraico Magen David, Scudo di Davide) collocata su uno sfondo bianco, tra due strisce blu che richiamano il tallèd, il tradizionale manto di preghiera ebraico”. Per maggiori informazioni si può consultare la voce ‘magen David’ sull’Encyclopaedia Judaica.

Per quanto riguarda l’associazione tout-court fra la Palestina e il popolo ebraico e gli ebrei come ‘veri’ palestinesi: Palestina è il nome con cui ‘gli altri’ (i greci piuttosto che i romani) hanno sempre chiamato quella che nella Torah viene denominata Terra d’Israele. Sull’Encyclopaedia Judaica (vedi voce Israele e Palestina) si legge che il termine Palestina deriva da Philistia (Peleshet), termine usato da Erodoto (Συρία ὴ Παλαιστίνη), come si può vedere consultando qualsiasi atlante storico, i Romani chiamavano la loro provincia Giudea, dal Regno di Giuda, mentre il termine Palestina riapparve solo dopo il tentativo di ribellione di Bar Kokhba nel II sec. d.C. e da allora ha designato Erez Israel nelle lingue non ebraiche.

Per quanto riguarda l’identità ebraica poi, l’esperienza storica, culturale, filosofica ed etica del “popolo che abita a parte” (Numeri 23, 9) è talmente unica e complessa che, lungi dal sentirmi all’altezza di trattarne, lascio la parola a Shmuel Noa Eisenstadt, sociologo e accademico israeliano di origine polacca. Secondo Eisenstadt “il miglior modo per comprendere quell’esperienza è considerare gli Ebrei non soltanto un gruppo religioso o etnico, una nazione o un “popolo” – sebbene siano tutte queste cose – ma come portatori di una civiltà”. Una civiltà che ha avuto inizio con Abramo nella Terra di Canaan e si è sviluppata certo nel Regno di Davide e di Salomone, ma anche nelle diverse scintille della Diaspora: nella nostra Italia – dove gli ebrei dimorano da ben 22 secoli, fin da prima della distruzione del Secondo Tempio – nella Spagna medievale, che dette i natali a Mosè Maimonide, per non parlare della cultura dell’ebraismo ashkenazita dell’Europa orientale, spazzata via dalla tragedia della Shoah. Nella prefazione al volume che si intitola appunto ‘Civiltà ebraica’ di Eisenstadt, Saul Meghnagi scrive: “la vicenda storica degli Ebrei è parte integrante dei popoli dell’Occidente e dell’Islam e i confini dell’appartenenza non appaiono sempre chiari a chi invece li vorrebbe fissati una volta per sempre. Da qui una delle ragioni del fascino dell’Ebraismo e dell’inquietudine che suscita per il suo essere allo stesso tempo dentro e fuori, lontano e prossimo”.

A coloro che “non conoscono la vera storia di Israele”, della civiltà ebraica prima ancora che dello Stato, oltre a ‘Civiltà ebraica’ – che dedica fra l’altro grande spazio anche all’età contemporanea, ai movimenti nazionali ebraici moderni, alla formazione e trasformazione della società israeliana – consiglio quindi la lettura di testi come ‘Breve storia dell’ebraismo’ di Lavinia e Dan Chon Sherbok oppure ‘L’ebraismo: storia, pratica, fede’ del rabbino Roy A. Rosemberg.
Inoltre vorrei sapere perché criticare la “politica israeliana”, per quanto attiene l’attualità in particolare la politica del premier Netanyau, significhi alimentare l’antisemitismo. Se è vero che si possono citare diversi episodi nei quali la critica allo Stato d’Israele nascondeva in realtà posizioni di base antisemite, credo che non si possa nemmeno qui creare una relazione biunivoca tout-court.
La dialettica democratica è fatta di confronti fra posizioni diverse. Ci sono diverse voci, ebraiche e non, dentro e fuori Israele, critiche verso le politiche dell’attuale governo in carica.

Cito due voci che hanno un legame con la realtà ferrarese: Corrado Israel De Benedetti, sopravvissuto alla Lunga notte del ’43 e immigrato in un kibbutz, e Manuela Dviri nata a Padova nell’immediato dopoguerra nella famiglia Vitali-Norsa, che a Ferrara ha avuto anticamente un banco dei pegni, trasferitasi in Israele nel 1968.
Nel dicembre scorso, tornato a Ferrara in occasione del convegno sul sionismo in Italia organizzato dal Meis, De Benedetti nel suo intervento ha affermato: “Per me e per quelli della mia generazione il Sionismo significava lasciare l’Italia che ci aveva tradito e fondare un nuovo Stato e una nuova società in Israele. Ora posso dire che siamo riusciti a creare una nuova società con i kibbutz, ma uno Stato nuovo purtroppo no, anzi la situazione oggi è in contrasto con tutto ciò che noi avevamo sognato”. Manuela Dviri nel suo libro “Un mondo senza noi” scrive che da quel 1968 sono passati “46 anni, 4 guerre, 2 intifada e 2 operazioni militari”, alcune hanno fatto veramente paura, come quella dei Sei Giorni e quella dello Yom Kippur, mentre altre a suo parere si potevano evitare: il suo pensiero corre forse all’operazione del 1998 in Libano, quando ha perso Ioni, il suo figlio più giovane, a soli 21 anni mentre prestava servizio nell’esercito israeliano.
Manuela Dviri e Corrado De Benedetti criticano la politica dello stato nazionale nel quale risiedono e del quale sono orgogliosamente cittadini. Fomentano così l’antisemitismo?
E a proposito della recente approvazione alla Knesset della legge che legalizza insediamenti di coloni nei territori occupati gli stessi israeliani si dividono: giovani che hanno combattuto assieme nella guerra del 1973, oggi litigano sulle colonie (leggi http://www.ilvangelo-israele.it).
Tornando infine ai muri: sulle barriere difensive la penso diversamente da Laura Rossi, ma questa mia è un’opinione che ha esattamente lo stesso valore di quelle da lei espresse.

Più che dai popoli, espressione alla quale ho sempre preferito ‘cittadini’ che implica un senso di responsabilità rispetto alle proprie libertà, in situazioni intricate, delicate, incancrenite, come il conflitto israelo-palestinese, credo sia meglio partire dalle persone, dagli esseri umani, attori e protagonisti del cambiamento.

Vi ringrazio anticipatamente per l’attenzione e lo spazio che vorrete dedicare a queste mie note.

Cordialmente
Lettera firmata

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