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Ferrara film corto festival

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Da: Meis

È un legame profondo e inestinguibile, quello che porta spesso Lino Capolicchio a Ferrara, la città dove nel 1970 girò con Vittorio De Sica ‘Il Giardino dei Finzi-Contini’, tratto dall’omonimo romanzo di Giorgio Bassani.
Ed è al romanzo di Bassani, oltre che a due poesie – ‘Le leggi razziali’ e ‘Rolls Royce’ –, che Capolicchio è tornato a dare voce e corpo ieri sera, nella lettura promossa a Casa dell’Ariosto dal Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah – MEIS e dall’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara, guidato dalla instancabile professoressa Anna Quarzi, nell’ambito delle celebrazioni per il centenario della nascita dello scrittore.

“Ho contattato Lino a fine ottobre – ricostruisce Simonetta Della Seta, Direttore del MEIS –, quando siamo stati chiamati a presentare il Museo in Israele. Mi era tornata subito in mente la prima de “Il Giardino dei Finzi-Contini” a Gerusalemme, di cui Lino mi aveva mostrato delle foto bellissime. E credo che questa lettura, proprio nelle sale della mostra che Eric Finzi ha dedicato al Giardino di Bassani, sia il modo migliore per ricollegarci ancora una volta all’opera – libro e poi film – e per mostrare quanta anima, quanti messaggi ‘Il Giardino dei Finzi-Contini’ possa ancora trasmetterci”.

Di quella prima in Israele, Lino Capolicchio fa rivivere, in particolare, un episodio: “Mi trovai a cena con Moshe Dayan, Ministro della Difesa, e seduto accanto al Primo Ministro Golda Meir che, dopo avermi guardato diverse volte, mi disse: “Scusi la domanda, ma lei è ebreo? Perché nel film lo sembra proprio”. E io, dopo un attimo di imbarazzo: “Non mi risulta, è che cerco di entrare in profondità nei ruoli, di documentarmi”. In effetti, a uno degli aiuto-registi di De Sica, Giorgio Treves, che era ebreo, avevo fatto parecchie domande sulla cultura ebraica”.
Quando parla del successo del film che lo ha consegnato indelebilmente alla storia del cinema, Capolicchio si dice sbalordito: “L’anno scorso, a San Francisco, ne è stata proiettata una copia restaurata e gli spettatori paganti erano mille! Del resto, non solo “Il Giardino dei Finzi-Contini” si era aggiudicato l’Oscar come miglior film straniero, nel 1972, aiutando molto il libro a uscire dai confini italiani, ma tuttora i critici statunitensi lo collocano tra le dieci migliori pellicole di tutti i tempi. E i riscontri non sono meno clamorosi a Parigi e in altre città del mondo”.

In tutto questo, come nel rapporto che lo ha saldato a Bassani e a Ferrara, per Capolicchio la casualità c’entra poco o nulla: “Parlerei semmai di un destino, come se un fiume ci avesse condotti esattamente lì, a incontrarci. A Roma, Giorgio Bassani fu mio insegnante di Storia del Teatro all’Accademia di arte drammatica ‘Silvio D’Amico’. Ricordo le sue lezioni come dei momenti straordinari, perché era un uomo coltissimo, ma anche lunatico, raramente ironico e spiritoso, sicuramente severo e assai temuto da noi studenti. Ecco, non è normale che proprio un tuo professore sia l’autore del film che interpreterai e che ti cambierà per sempre la vita. Tanto più che, all’inizio, pareva che la regia sarebbe stata affidata a Valerio Zurlini e probabilmente lui non mi avrebbe mai scelto”.
Invece le cose andarono nel verso giusto: “Nell’estate del ’62 lessi il romanzo appena uscì e più di una volta mi ritrovai a pensare che mi sarebbe piaciuto avere il ruolo di Giorgio, con cui mi sentivo parecchio in sintonia. Poi ebbi davvero l’opportunità di fare il provino a Cinecittà. Vittorio De Sica mi conosceva già come attore, ma voleva capire soprattutto se ero esteticamente adatto a interpretare la parte del protagonista. E dopo una decina di giorni, la mia agente mi chiamò per dirmi che il contratto era pronto”.

Della serie, i sogni qualche volta si avverano: “De Sica all’epoca era un monumento e con lui ebbi un ottimo rapporto. Lo considero, con Strehler, il migliore insegnante di recitazione con cui abbia mai lavorato. Era pure un giocatore incallito: dopo l’ultimo ciak, si faceva la doccia, indossava lo smoking e scompariva con l’autista, direzione Casinò di Venezia. Rientrava all’alba, dormiva forse un’ora e si presentava lucidissimo sul set, dove io gli chiedevo ogni volta: “Commendatore, com’è andata?”. E lui: “Cinquanta”, nel senso di cinquanta milioni dell’epoca, cioè un sacco di soldi. “Intende vinti?”. Allora lui allargava le braccia e, con aria rassegnata, ammetteva: “Perduti”, ricordandomi che d’altronde già Dostoevskij aveva scritto che i giocatori sono dei masochisti”.
E parlando del set di De Sica, Capolicchio ha davanti agli occhi una “Ferrara misteriosa e affascinante, assolata e calda, in cui dovevo indossare sciarpa e cappotto. C’era grande curiosità intorno a noi: non mi vedevo particolarmente bello eppure, quando uscivo dalla sartoria, trovavo ogni giorno duecento ragazze ad aspettarmi. In tutta la mia carriera, ho ricevuto circa cinquemila lettere di ammiratrici, comprese delle proposte di matrimonio, persino dal Giappone. E quasi tutte si erano innamorate di me per il personaggio di Giorgio. Senza che potessimo prevederlo, “Il Giardino dei Finzi-Contini” aveva stregato lettori e spettatori, trasformandoci in icone dell’immaginario collettivo”.

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Riceviamo e pubblichiamo


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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